ESPLODE
' A. c. JEMOL.O LQ SCANDALO
ypMUL.. PA T^ CAMPFOND
dì miSTO ROSSI
l*’A8TROLABIO - Via XXIV Maggio, 43 - Roma
NUOVI
ARGOMENTI
Rivista bimestrale diretta da
Alberto Moravia e Alberto Carocci
SOMMARIO del fascicolo n 59 60
(novembre ’62-febbraio ’63)
Gianroberto Scarcia: Enciclopedia sovieti¬
ca e sensibilità religiosa.
Ernesto De Martino: Postilla a Scarcia.
Vittorio Lantemari: Razionalità, irrazio¬
nalità e scienza religiosa (nota al sag¬
gio di G.R. Scarcia).
P. Paolo Pasolini: Poesia in jorma di rosa.
Roberto Roversi: Zum Arbeitslaaer Tre-
blinka.
Emanuele Di Castro: Psicologia industria¬
le e condizione operaia.
Antonio Saccà: Saggio sulla letteratura ita¬
liana attuale.
«
In vendita presso le principali librerie. Prezzo L. 600
Gli abbonamenti annui (L. 3.000 per 6 fascicoli)
vanno richiesti all'Amministrazione di » Nuovi
Argomenti m; Via degli Orsini n. 34 — Roma
IL PONTE
RIl’IST.i MESSILE DI POLITICA E LETTERATURA
u MERO CALAMANDREI
Nel fascicolo di aprile:
Osservatorio: Quel mese di aprile di E.‘
Enriques Agnoletti; Chi è Erhard? di S.
Mauri; I minatori sconfiggono De GauUe
di M. DeirC)modarme; Il tandem austriaco
di A. Banchi; Molti giochi nel Medio Orien¬
te di S. Boba.
Articoli di:
Umberto Segre: Politica, cultura e lega¬
lità socialista; Arturo Carlo Jemolo: La te¬
sta sotto l’ala; Giampaolo Calchi Novali:
Rivoluzione e colonialismo in Africa; Ber-
^ Perotti: Egidio Meneghetti nel Lager di
Bolzano; Guy Tosi: D’Annunzio visto da Ro-
main RoUand, con documenti inediti (Fi¬
ne); Riccardo Scrivano: Narrativa tra cro¬
naca e storia; Anita Mondolfo: Ricordo di
Fortunato Pintor; Marcella Olshki; Marti¬
no. Racconto.
Direttori: E. E. Agnoletti e Corrado Tumiati
Piazza Indipendenza, 29 . Firenze
IL PUNTO
Opinioni e documenti della settimana
Colloquio tra socialisti e cattolici, attiva presenza italiana nella politica interna¬
zionale, crisi del comuniSmo: sono i temi di fondo che nei suoi sette anni di
vita « Il Punto » ha affrontato chiamando ad esprimersi personalità responsabili
di un vasto settore politico, fornendo così sui vari temi la possibilità di un im¬
mediato confronto di idee, di considerazioni e di contributi. In questo quadro
anche i fatti della cultura trovano ne « Il Punto » la loro espressione in quanto
, aspetti signihcativi dell'azione e dei giudizi di una classe dirigente la quale deve
vivere questi anni difficili della nostra costruzione democratica con un impegno
sempre sincero ed organico. ^
IL PUNTO
è il settimanale del centrosinistra diretto da Vittorio Calef
Dtres. e Amniin.: Via del Babuino 85 - Roma . Abbon. annuali: L. 4000 Italia, L. 10.000 Europa
LETTERE
Corsa
rincaro
^ifmor Direttore.
ha visto come i giornali hanno
(lato la notizia deU'aumento di
Prezzo? Poche righe modeste mo-
h®ste, piene di pudicizia e di ros¬
sore. Infatti non è una bella tro-
''ata anche se nessuno, dai missi-
ai ai comunisti, ci trova niente da
ridire, Kon credo che questo sia
Uno di quei prezzi sui quali il CIP
ha diritto di intervenire, o sia giu-
sto che lo sia. Ma se il Mago Mcr-
hho non mi ha mal informato, nel-
hlliitio Consiglio dei Ministri al-
euni dei membri del Governo era-
ho contrari. Avevano ragione. Qua-
® conferma più evidente per il
Pubblico che la lira nel giro di un
Paio di anni si è svalutata del 20
Per cento?
Tanfè. Cera un vecchio impe-
l^ho con gli editori quando fini¬
rono per accettare qualche mese
fhdietro il nuovo contratto giorna-
.ostico che si sarebbero rifatti con
*1 nuovo prezzo. Solo — che diami-
he- — si era d'intesa che si sa¬
rebbero aspettate le elezioni.
. Sono d’accordo che i giornalisti
facciano pagare quanto meglio
Possono Ma visto che il giornale
di 20 pagine batterà sempre gli al-
,r' e si ricomincerà la corsa all'in-
visto che dobbiamo andare ver-
so Un certo periodo di austerità.
Perché non limitare a otto pagine
ed a 40 lire (piesto fastidio carta¬
ceo diiotidiano. il fastidio dei fatte-
re.lli sentimentali di tante secca¬
tici più o meno regali e delle
d'vosse rancide di via Veneto, il
’astidio dei processoni, che sembra
Ormai siano i giomaloni a orga-
h'zzare ogni tanto quache ammaz¬
zamento sensazionale,
f'ciisi lo sfogo.
GINO ni.-\NCHI
f^ropaganda
Cdison
^tfjnor Direttore.
a Milano la società Edison Volta
Pubblica, ormai da anni, un notizia¬
rio mensile che viene inviato gra¬
fi» a tutti gli utenti. E’ una ini¬
ziativa simpatica — purtroppo non
iinitata dall'Azienda elettrica mu¬
nicipale — che s’inquadra nella at-
fività delle « pubbliche relazioni »
che la Edison ha ben curato. In
questo notiziario («Colloqui») la
Edison ha sempre contrabbandato
politica di destra in pillole; la co¬
sa era, in definitiva, legittima per¬
chè del suo bollettino la società po¬
teva fare quel che voleva. In que¬
sti ultimi mesi, però, è sopravve¬
nuto qualcosa di nuovo. La Edison
Volta è passata in gestione al-
l’ENEL. Ebbene, strano a dirsi, il
bollettino della società — fhi® c*'
una società in gestione ENEL.
continua a pubblicare tirate pro¬
pagandistiche contro la nazionaliz¬
zazione deH’industria elettrica, con
tro i partiti di sinistra, contro la
Democrazia cristiana « succube del¬
le sinistre ». Sembra proprio di
leggere un supplemento propagan¬
distico edito dal partito dell’ono¬
revole Malagodi. Le sembra giusto?
(lettera firmata)
Clericali
e no
Egregio Direttore,
la sua rivista è senza dubbio in¬
teressante e merita di essere let¬
ta e diffusa. Vorrei tuttavia met¬
terla in guardia contro un p.'rico-
lo che non è teorico e cioè l’anti¬
clericalismo deteriore e contropro¬
ducente (—). Ci sono dei collabo¬
ratori della sua rivista che si dimo¬
strano dei « clericali deiranticleri-
calismo»; fanatici, offensivi. Allu¬
do al prof. Rodelli — nella fatti¬
specie — che osa scrivere che fra
gli obiettivi dell’Università Cattoli¬
ca c’è quello di collocare persona¬
le devoto alla Chiesa negli ospe¬
dali « ...dove esso può esercitare
una pressione psichica (-•) per ot¬
tenere confessioni, conversioni ed
eredità a favore di enti ecclesiasti-
ADRIANO GALLIA
Assicuriamo il nostro lettore che
noi non siamo sul piano dell’anttcle-
ricaicsimo di bassa lega. Ma quan¬
to ai rilievi del prof. Rodelli ch’rpH
lamenta legga quanto scrive al no¬
stro direttore da un comune me¬
ridionale un suo secchio compa¬
gno di confino:
« ...lo stesso Sindaco si interes¬
sò a ricoverarmi in un ospizio di
S.A.A., ove sono rimasto solo alcu¬
ni giorni perchè l’ambiente in cui
si viveva era impossibile. Le suore
pretendevano che io recitassi le
loro preghiere e quant’altro si può
chiedere ai cattolici. Per reazione
mi lasciavano senza cibo e senza
alcuna cura. Perciò decisi di ritor¬
narmene a casa... ».
Vaticano
e Franco
Egregio Direttore,
seguo il Suo Astrolabio con vivo
interesse dal giorno in cui è appar¬
so. ed in questi tempi di appro.s-
simazione e di interessato gioco p(>
litico mi sembra doveroso “;‘.toli-
neare la validità dell’opera di ap¬
profondimento dei nostri problemi
politici svolta dal giornale.
Ora vorrei esplorLe il mio pen¬
siero sull’interessante articolo di
Jerkov « Il V'aticano e Franco »,
nel quale l’autore mi sembra sia
incappato in una contraddizione di
fatto fra quanto ha esposto in prin¬
cipio e le considerazioni presenta¬
te nell’ultima parte. Le responsabi¬
lità del Vaticano per l’appoggio a
Franco, d’accordo. Appoggio in¬
condizionato ad una causa che non
si identificava certamente con la
« difesa del Cristianesimo ». Ma non
bisogna che ci scordiamo gli errori
del governo repubblicano, la sua
sostanziale impotenza, il terrorismo
dilagante
Che Pio XI e XII (papi che mai
si distinsero per zelo liberale) ed
il loro Nunzio Apostolico: che Ci-
rilfò Cattolica e L'Osservatore Ro¬
mano si siano comportati nella ma¬
niera denunciata da Jerkov, in fon¬
do è cosa che non dovrebbe stupir
molto. Col suo gioco diplomatico,
meno grossolano di quanto 1 artico¬
lista abbia fatto apparire, la Chie¬
sa però ha assicurato (non voglio
ora esaminare gli interessi in bal¬
lo) alle nuove classi dirigenti cat¬
toliche il diritto di successione a
Franco. Il Concordato — altro che
Patti Lateranensi! — serve appunto
a questo.
Quando Jerkov dice che « Molti
segni fanno intendere che dal fos¬
sato in cui la Chiesa e Franco han¬
no inabissato il popolo spagnolo c’è
qualcosa che si sta muovendo nel¬
le stesse file cattoliche»; quando
parla della solidarietà di vescovi nei
confronti dei lavoratori in sciopero,
e dell’appoggio agli scioperanti da
parte delle organizzazioni di Azio¬
ne Cattolica, dimostra praticamen¬
te che l’unica carta valida, oggi, da
giocarsi nell’interesse della demo¬
crazia in Spagna, è, purtroppo, nel¬
le mani di quello che diverrà il
partito dei cattolici.
GIUSY MAGRI’
un passo avanti della tecnica
una prova ve lo dimostrerà
LUNGHI VIAGGI COMODI, MEDIE SPORTIVE... VELOCITÀ GIULIA!
M elevata mantenuta a lungo sulle medie più alte .n autostrLa e in tutti 1 oercoreT A oltre *^«ne
utilizzato solo II 50% della potenza dei motore oercorai. « oltre 130 Km/h. viene
resistenza AERODINAMICA: PIÙ VELOCITÀ ED ECONOMIA... LINEA
UlULIA ! ua linea dai maggior coetticiente 01 penetrazione, derivata dalle vittoriose esperienze della Giulietta <57
Rom^io'-'^ « -"O^bida frenL con f tre ÌpT Alfa
G?ULm tfinn i-r robustezza, perfetta stabilità e agilità estrema; facilita di parcheggio La
^APi oermette 6 passeggeri Ha un motore che sviluppa, a 6000 giri/r una potenza di°92 CV
(106 CV SAE) Cambio 5 marca Velocita ©ftettiva oitr« !65 Km'h ^
4
r
L’astrolabio
problemi della vita italiana
DUbbllca 11 10 e 11 25 di ugni mese
Kedazione e animinislrazioiie;
Roma . Via XXIV Maggio, 43
Telefoni: 485600 . 484559
DIRETTORE
FERRUCCIO FARRI
COMITATO DI REDAZIONE
Eamberto Borghi, Luigi Fos¬
sati, Anna Garofalo, Alessan-
dro Galante Garrone, Gino
Luzzatto, Leopoldo Piccardi,
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Labini, Nino Valeri, Aldo
Visalberghi
Redattore responsabile
Luigi Ghersl
Una copta L lOO, arreiraU U dop¬
pio. Abbonamenti annuo L. 2300,
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Veraamenll sul cc.p n. 1/40736 in.
^tato al periodico L'Aalrolabto
PUBBLICITÀ’
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6mmirustrazi<»ne deirAiirolabio.
Tart^e. una pagina ISO mila lire,
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mente scritti ncblesti e concordati
con la Direzione i manoscritti non
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A QUESTO NUMERO
HANNO COLLABORATO:
Arturo Barone, Arturo Carlo
Jemolo, Antonio Chiavelli,
Luigi Fossati, Luigi Ghersi,
Antonio Jerkov, Gino Luz¬
zatto, Ferruccio Farri, Erne¬
sto Rossi, Max Salvadori, Um¬
berto Segre, Domenico Set¬
tembrini. I disegni sono di
Bruno Caruso.
Autorizzazione del Tribunale di
(toma n. 8661
Tlpograba GATE . Via del Tau¬
rini, 18. Roma Dlatribuzlone EDA.
Via Andegarl. 4 - Milano . Tele¬
foni 80435 . 870488 Spedizione In
zlone In abb. poet. Gruppo II
Proseguire
sulla via
del centro-
di FERRUCCIO FARRI
I
CONSIGLI nazionali del Partito socialista e della Democrazia cristiana
- hanno segnato un punto di guadagno rispetto alle polemiche intorbida-
trici precedenti come chiarezza dei punti di partenza di questo show dow»
politico che i risultati elettorali hanno reso di tanta difficolta e di così alta
responsabilità. Situazioni nelle quali la confusione e l’incertezza sono le
peggiori nemiche e la coerenza fornisce il primo aiuto. E’ perciò un
x^ntaggio attestare le due forze politiche sulle posizioni di negoziato indi¬
cate ai due partiti dalla logica della politica che essi hanno seguito sin qui,
confermando che la via del cosiddetto centro-sinistra resta l’unica attual¬
mente percorribile per il progresso democratico del paese.
Moro non torna indietro sulla linea di Napoli. De Gasperi si vantava
di aver utilizzato forze di destra per andare a sinistra, come egli riteneva
di fare con le sue riforme sociali, e deprecava lo steccato tra guelfi e
ghibellini. Sono passati molti anni, il centrismo finisce in stracci; viene il
1960, Moro giudica necessario un deciso passo avanti, ed è al centro-
sinistra ch’egli vuol avviare — con molta vasellina — le salmerie dorotee,
ed è lo steccato con i socialisti ch’egli ora — « con cauu sperimentazione a
— deve demolire. Vasellina e cautela non tolgono, per chi voglia giudicare
le cose piolitiche senza rabbia e prevenzioni, ampiezza e consistenza al
disegno dell’on. Moro.
Ma la distanza con le posizioni indicate dai socialisti all inizio del 1962
resta grande. Non in termini di prudenza, che sono i meno ardui a superare
quando intervenga una onesta voglia di concludere, quanto per la preva¬
lenza d’interessi conservatori che queste elezioni hanno appena cominciato
ad alterare, per il peso permanente degli interessi di poteri della Chiesa che
questo Papa ha appena cominciato ad alleggerire, ed infine per lo stru-
mentalismo normale dei grossi che spinge naturalmente la Democrazia
cristiana a cercare voti e coperture politiche ed a preferire gli alleati cedevoli.
E restano grandi per i socialisti i pericoli, correlativi e proporzionali a
quelle distanze. Di queste e di quelli si veda l’acuta analisi che in questo
stesso foglio ne compie Umberto Segre. Il più pericoloso di questi pencoli,
per un partito socialista, è quello di perder progressivamente il contatto
politico, sindacale ed elettorale con le cosiddette masse lavoratrici, e
perderne quindi la rappresentanza. Queste elezioni sono state speriamo
— un campanello di allarme. Ed è su questo terreno che anche a mio
giudizio sono più necessari il confronto e la competizione con i comunisti,
sotto pena di un processo di disseccamento che può essere elettoralinentc
lento ma è alla lunga fatale. E’ un processo d’imborghesimento più che di
saragattizzazione, come si dice di solito, dato che nella posizione politica di
Saragat confluiscono complessi elementi.
Se poi si aggiungono le forti difficoltà economiche e finanziarie che
riducono le possibilità di spesa proprio quando dovrebbero essere rapide
e ingenti, le difficoltà di una politica di credito e d’investimenti quando la
svalutazione della moneta è così accentuata ed il processo inflazionistico
5
così minaccioso, verrebbe davvero da augurare al
PSI di restar libero da responsabilità governative.
Ma questo ora sarebbe un consiglio di viltà politica,
non di prudenza, se per esempio si traducesse in una
manovra di rialzo del prezzo dell’accordo. E’ lecito
ipotizzare e teorizzare 1 organizzazione progressiva di
centri e strumenti di potere dei lavoratori dal basso,
al di sotto delia tarlata società capitalista, ed io per¬
sonalmente auguro che restino al PSI cervelli e idee
di sinistra capaci di freno e controllo, anche se stimi
quelle ipotesi e quei teoremi evasioni intellettualistiche
ed illuministe dalla realtà storica. Ma non è lecito
ad un partito che si rispetti svicolar all’inglese da
resjjonsabilità di carattere storico assunte di fronte
alla società nella quale opera.
Il processo liberatorio che grado a grado ha
svincolato il Partito socialista dall’anonimato frontista,
e lo ha condotto ad autonomia e responsabilità di
posizione propria aveva come sbocco obbligato e giu¬
stificazione storica la realizzazione di riforme strut¬
turali, impedite ai comunisti per il loro difetto di
autonomia, ed indispensabili insieme, ed improrogabili,
per l’evoluzione democratica di questo nostro buffo
paese.
E’ mutata questa condizione e prospiettiva? Non so¬
lo non è mutata, ma è più urgente e cogente. E’ solo
la presenza socialista che potrebbe permettere il gover¬
no dei grandi investimenti pubblici e privati e dei gran¬
di consumi, il controllo dei prezzi, la rottura delle posi¬
zioni monopolistiche, gli strumenti giuridici per la
lotta contro di esse. E potrebbe permettere la riparti¬
zione delle risorse e delle disponibilità secondo gli
obiettivi s(x.'ialmente e nazionalmente più urgenti.
Altrimenti lo sviluppo equilibrato e il ripiano di quei
famosi squilibri resta una frasca oratoria come è
sinora stata.
Le riforme
essenziali
In questo quadro le regioni sono prevalentemente
uno strumento di un certo dirigismo urbanistico e
sociale e di una certa politica agraria, non una riforma
di per sè autosufficiente. Ciò sia detto a proposito di
quel nominalismo delle riforme di struttura troppo
facile anche tra i socialisti; non certo tuttavia a
conforto del metodo omeopatico che l’on. Saragat pro¬
pone a sollievo dei crucci dell’on. Moro.
E poiché larghe porzioni di elettori votando contro
il centro-sinistra hanno votato contro i crescenti disagi
della vita quotidiana ed il caro e difficile vivere, ed i
socialisti sono stati coinvolti in una protesta contro un
governo in parte incolpevole ma in parte insufficiente,
vorremmo ricordare anche ai socialisti che il prezzo
delle patate è importante come le riforme di strutturi,
e più importante dei grandi principi, sul tipo della
salvezza della demtKrazia, che da tempo immemora¬
bile hanno sempre servito a imbrogliare la gente.
Non sono una cosa astratta ma concreta la riforma
della legge di P.S. e dei codici fascisti, e gli indirizzi
generali relativi al cittadino ed al lavoratore che sono
cosi bene illustrati dal programma socialista. Sono una
cc»>a urgente le riforme scolastiche, alle quali Ton-
Nenni riferendo al Comitato Centrale non ha dato il
rilievo prioritario ch’esse meritano. E’ una cosa grave
un azione positiva contro la guerra fredda, ed è una
cosa seria una politica di centro-sinistra portata sul
piano europeo.
Ritorno
all’opposizione?
Ad altre esigenze possono o potrebbero bastare
altre forze politiche. Per queste non basta la generica
pressione della sinistra; occorre specificamente l’impS'
gno corresponsabile dei socialisti. Ed il discorso torna
dunque non dico al programma, ma piuttosto alla
sostanza del centro-sinistra, cioè alla sua serietà. Primo
requisito ne è la organicità che è mancata al preceden¬
te esperimento. Una politica di sinistra non è un
affastellamento di provvedimenti sinistrorsi, ma un
insieme governato da principi cardinali.
Sarà possibile? I dubbi sono così forti, che pfUj
valgono in questo momento le voci e le previsioni del
ritorno alia opposizione, evidentemente inevitabile
ai socialisti sotto il velo di eloquenti sofisticazionj
si richiede sostanzialmente la funzione della ruota o*
ricambio, e se sarà in realtà un grande ricatto quello
che Moro porrà a Nenni. Non vorrei soltanto che j
dirigenti socialisti non avessero piena coscienza <1^1
significato grave di una rottura, presi da una ceri**
fretta di liberarsi del centro-sinistra come di un
geggio diventato imbarazzante.
Sia l’accordo sia il contrasto devono avere una
giustificazione piena e incontrovertibile. Devono esser¬
ne persuasi i lavoratori. I quali devono essere messi
in guardia dalle fisime di un’opposizione eroica e gl^'
diatoria. In Parlamento è diffìcile, faticosa una oppo
sizione mantenuta sul piano di chi ragiona come se
fosse il governo di domani, a fianco di comunisti che
possono domandar la luna senza fare i conti. N^l
paese non è facile ai socialisti non far la scimmia
dei comunisti.
Non è il centro-sinistra la via obbligata dei
socialisti, ma una politica realizzatrice di sinistra.
Se il blocco moderato che ha il monopolio del potere
dovesse alla lunga renderla impossibile, il fallimento
della funzione storica del PSI in Italia non gli lasce-
rebbe dopo lacrimevoli scissioni che le consolazioni
missionarie della mitologia rivoluzionaria. Se il P^I
riesce nella missione democratica che le contraddizioni
della storia italiana gli hanno affidato, presto si aprirà
il varco alla prima riforma socialista, il controllo della
grande impresa.
Il centro-sinistra è frutto non causa della evolu¬
zione della società nostra. Per questo anche Moro,
almeno in astratto, lo riconferma. Ma questa dialettica
che muove la storia italiana opera ancora,potrà per¬
mettere domani la vittoria e la spinta in avanti che
oggi appare difficile, ed impegna comunque ed in primo
luogo, a mio parere, i socialisti a tenere vigorosamen¬
te e tenacemente aperta questa strada.
FEKKLCCIO l'.VKKi
«
L’ipoteca dei socialdorotei
di UMBERTO SEGRE
The FANFANI debba per il momento scomparire,
pagando di persona una sconfitta democristiana
ha ben altre e più vaste ragioni della sua pretesa
«imprudenza», si è capito subito, appena risuono
<^ontro di lui l’attacco di Saragat, che interpretava e
^accoglieva anche tutto il lungo odio dei dorotei; da
congresso di Firenze, dalla Domus Mariae, e torse
Wche da Napoli, quando toccò a lui raccogliere il
Alimento della gestione Gonella, e lo fece con una
energia che lasciava col fiato sospeso i suoi stessi
«amici» di «Iniziativa democratica».
Quando avvertimmo lo squillo della rantara sa
f*8attiana, e non distinguemmo, nell’eco doroteo, a
';?ce del solo che avrebbe potuto difenderlo, quella
Moro, capimmo subito che Fanfani era spacciato.
Non spettano a noi esami di atteggiamenti soggettivi,
®a siamo abbastanza convinti che Moro non dcside-
tasse questo calice; tuttavia, obbiettivamente, ha vo-
nto che esso fosse sottratto a Fanfani, e ha posto
fta le implicazioni di tale verdetto anche la propria
Candidatura.
Moro sa, per suo conto, che la liquidazione di Fan-
'ani è ingiusta, e ha scelto di farsene travolgere, se
saprà riscattarne l*iniquità con una riuscita che
rafforzi il centro sinistra? C’è nel piccolo dramma
della dirigenza democristiana questa aspirazione al-
^ autocastigo e alla riparazione? Non importa accer¬
tarlo — ripetiamo — ai fini di un’analisi politica. Qui
Conta solo che Moro abbia tollerato — cioè^ voluto
~~ che pesasse su Fanfani, decisivo, il giudizio dei
Suoi nemici; ne ha probabilmente afferrato 1 inarre¬
stabilità; c si è lasciato trarre in mezzo, speriamolo,
P^r attenuarne effetti, che tutti consideriamo gravis¬
simi per la causa del centro sinistra.
La lattica di Moro
Che cosa rappresenta esattamente Moro, per que¬
sta politica? Si dice: rappresenta la svolta di Napoli,
l’unificazione del partito dietro una linea che usciva
dalla realtà stessa delle cose — cioè dalla irripeti-
hilità del centro destra dopo Tambroni — prima an¬
cora che dalla vocazione riformistica della DC.
E’ importante rammentare « come », secondo noi,
I 3 rappresentava; con un’arte finissima, cioè delle
differenze qualitative fra persone, interessi, gruppi;
con una capacità di « farsi tutto a tutti », ispirando
fiducia a ciascuno e senza identificarsi con nessuno.
Queste doti non gli saranno certo negate. Ma sin da
Napoli noi provammo il sospetto che ci fosse an¬
cora una distinzione da operare nell’azione di Moro;
tra la capacità indubbia di suscitare uno stato d’animo,
Una emozione — e quella, che non vedevamo, di de¬
lineare un tipo di stato, un progetto tagliente e non
corrodibile per il futuro. Moro aveva, e dava la sen¬
sazione della svolta, dell’atteso giudizio delle nuove
generazioni, di un riscatto cristiano-popolare dall in¬
giustizia; ma non esprimeva alcuna idea di nuovi or¬
dinamenti, non annunciava una rivoluzione, se così
potessimo dire.
Doveva esservi per lui una lenta e polivalente re¬
denzione, certo; ma all’interno di un quadro statale
che restasse quello. Non voleva, del resto, ingannare
nessuno. Sull’idea di nazionalizzazione fu il piu reti-
Qgfite — al modo stesso in cui più tardi, sulle re¬
gioni, fu il solo a non vincolarsi. Legare le volontà
e le formule a fermi mutamenti istituzionali, che
sono pietre per il futuro, che importano non si possa
tornare indietro — questo era contro la sua mentalità
e volontà; chiamava « cauta sperimentazione * ^ape^
tura ai socialisti, non nel senso che la parola può avere
in un pragmatista, ma in un esperto di casistica.
Ebbene, fu questa bravura — vi si fondevano slan¬
cio morale e pazienza della combinazione; arte del
silenzio solo in rari momenti sopraffatta dall’urgenza
di un annunzio, piuttosto che di una promessa —
che a Napoli raccolse tutti (meno la destra del par¬
tito), nella convinzione della inevitabilità e della po¬
sitività del centro sinistra. Ma poi, proprio nella pre¬
minenza quotidiana del silenzio, in quella dell emo¬
zione sulla previsione, dell’attesa sull’iniziativa, stava
la possibilità di mille reticenze, mistificazioni, astuzie
e congiure, di tutti coloro che quel « riconoscersi^ in
Moro » pareva trascinare, e invece serviva a coprire.
Fanfani poteva illudersi per un momento che Moro
gli assicurasse davvero il sostegno del ^ partito nella
sua interezza, e infatti la « cauta sperimentazione *
del ’62 non ammise più la pratica dei franchi tiratori.
A loro volta i dorotei sapevano che, se bisognava in
questo senso lasciar « sperimentare * il morofanfa-
nismo, essi serbavano piena facoltà _ di togliere a
Moro la delega di garante del fanfanismo, obbligan¬
dolo, quando avessero deciso di ritirare a Fanfani
la loro fiducia, a provarsi di persona nella inven¬
zione governativa di un centro sinistra a loro iin-
magine e somiglianza. La forza di Moro, nel trasci¬
narli alla nuova esperienza, consisteva nella sua ca¬
pacità di legarli ad un certo « sentimento » del fu¬
turo; la sua debolezza, però, stava tutta nell aver
solo impiegnato il « suo » sentimento: non la loro
parola e il loro avvenire ad un programma netto,, glo¬
bale, non smozzicabile. Moro prospettava una riu¬
scita anticomunista? Meglio: ne erano loro i giudici;
l’avrebbero misurata al « loro » anticomunismo; e il
Segretario del partito avrebbe marciato.
E’ questo lo spettacolo al quale assistiamo in
questi giorni. Moro sembra avanzare come il sue-
cessorc unico e predestinato di Fanfani: ma non è
un vincitore, sia chiaro. E’ lui stesso uno dei vinti
democristiani del 28 aprile, anzi, forse il più diret¬
tamente coinvolto nel destino di quella giornata, per-
_ che a lui incombeva la scelta dei temi e dei modi
della propaganda. E’ lui, solo lui, che i dorotei tra¬
scinano alla prova, come quello che, dopo aver so¬
stenuto, deve rettificare e smentire Fanfani, per il
quale aveva dato un avallo della ragione, quando si
trattava di contrapporre una posizione antitambro-
nista alla abbietta parabola del ’60, e dell’opportunità,
quando si venne alla scelta di una combinazione, che
doveva dar fiducia non ai soli democristiani, ma ai
socialisti.
Il disegno di Saragat
Non solo: ma ora Moro rappresenterà non il
« proprio » centro sinistra, se ne ha uno in mente
che in lui si identifichi, ma quello dei dorotei. Il
« sentimento » di Napoli — per chi allora se ne ap¬
pagò — non può che dare un risultato di questo tipo.
Se Moro si fosse, allora, legato a certe decisioni
e non altre, a un senso costruttivo senza alternative
nè diversioni possibili del centro sinistra, forse oggi
non potrebbe essere, al governo, colui che i dorotei
Kelgono a loro rappresentante. Ma a Napoli Moro
diede un impulso, non una proposta; e gli impulsi
vivono nelle mani di chi, deciso a occupare il potere,
li sfrutterà e interpreterà a sua guisa. La stessa al¬
tezza di Moro come « metapolitico » lo abbatte, lo
compromette come semplice politico di partito. Ecco¬
lo costretto dunque alla prova che non voleva, che
non aveva scelto, per la quale avrebbe sempre prefe¬
rito essere ispiratore e condizionatore — non prota¬
gonista sulla linea più esposta.
Invece eccolo « determinato » a sua volta in una
occasione politica, cui hanno contribuito non solo le
incertezze del compromesso di Napoli, ma la stessa
sua concezione della DC, quel senso della « centralità »
che gli è caro, e che non solo la sorte del 28 aprile
ha ristretto dalle proporzioni predominanti del pas¬
sato, ma che proprio Saragt, l’artefice più animoso
della sconfitta interiore del centro sinistra del ’62,
ha ridimensionato con la sua costante polemica.
In sostanza, lungo tutta la campagna elettorale,
baragat era venuto proprio contestando quella inter¬
pretazione democristiana del centro sinistra come
« massa » moderata italiana che si muove tutta in¬
sieme, e ingloba, ai suoi confini, le incertezze altrui
■ riconoscendo, a sfidarla in questo disegno, un
solo avversario, il PCI. Saragat non ha cessato un
giorno di sostenere, invece, che il centro sinistra
doveva avere un altro marchio, quello socialdemocra¬
tico. Certo, la sua pretesa sarebbe caduta nel vuoto, se
1 comunisti fossero rimasti statici, e la DC avesse
avanzato. Ma i comunisti hanno avanzato, la DC è
arretrata: oggi si può dunque sostenere che c’è un’al¬
ternativa, che si può e si deve tentarla, ed è quella
Colombo-Saragat, con Moro presidente simbolico, e
nel disegno saragattiano — con un Nenni costretto
a reggere lo strascico, se non vuole venir reingoiato
dal PCI.
E un disegno di qualche ardimento, ma niente
affatto inattuabile, visto che corrisponde a un certo
stato delle forze: la prevalenza dorotea, la piena sua
intonazione al saragattismo, e non la non discordanza,
dalia mentalità socialdemocratica, di una parte indub-
e>enchè non agevolmente numerabile — tlei
socialisti. A questa «chiave» socialdemocratica del
centro sinistra può idealmente aderire Malagodi, perchè
con essa si predicano riforme di così lungo periodo
c e non si toccano, per esse, interessi costituiti del
capitale privato italiano; e anche lo scelbismo può
unirsi a un « gran disegno », che alza su tutto la ban¬
diera del senatore Goldwater: la bandiera anti¬
comunista.
o.a.iiu mai stati devoti del fantanismo, e
abbiamo quindi la possibilità di parlare abbastanza
spregiudicatamente di quanto sta per accadere. Esat¬
tamente CIO che abbiamo temuto dal primo giorno
m cui tu varato il centro sinistra, che caldeggiammo
uttavia con la più impegnata speranza di riuscita: il
imore che sostenuto alla punta da poche forze riso¬
lute ad affrontare la gara del tempo, e seguito e
osteggiato, ridotto e represso da altre che vi si trova¬
vano riottosamente legate — il centro sinistra potesse
pungere a questa versione « pulita » che ha soprat¬
tutto una funzione: conservare, illuminatamente con¬
servare, la struttura della società italiana qual’è. E’ un
impegno, quello della moralizzazione della vita pub
blica, che Saragat mette in testa a tutti gli altri —
oppure desiderio cui tutti possono plaudire, e cui
nessuno si sente obbligato? E’ socialismo la previsione
J ^ qualunque sistema bismar-
ckiano apicura annullando quando vuole le velleità
dei socialdemocratici, in qualunque tempo e paese?
Ma centro sinistra a queste condizioni, che altro è,
se non proprio 1 adeguamento della socialdemocrazia
al moderatismo cattolico?
Riforme in sordina
Fanfani, si protesta, ha chiesto voti per i socialisti;
e come poteva non chiederli, dal momento che H
centro sinistra « non pulito » è quello al quale, poste
certe condipom di riforma di strutture, i socialisti
possono e debbono partecipare come parte dominan¬
te? Fanfani — si obbietta, per questa via ha smesso
di esercitare una battagia anticomunista, in quanto
'r u ‘r « ut sunt », come la storia
t, Jrr barca con tutti coloro
che difendono il movimento operaio. Ma Fanfani ha
sempre chiesto voti per i socialisti « come si voleva »
che fossero: cioè con una iniziativa riformistica de¬
stinata, in certo modo, a sminuire o esonerare via via
quella della pressione del PCI. Ora, nel momento
stesso in cui si levano questi rimproveri a Fanfani,
si scopre ciò che si voleva: la spaccatura del suo par*
tito, che divenga caudatario umiliato della socialde¬
mocrazia e del clerico-moderatismo; e ci si meravi-
glia che Nenni non vi si sia ancora adattato, e parli»
I indelicato, di esigenze programmatiche senza al¬
ternativa.
Allo stato attuale dei fatti, e adottata la formula
saragattiana della « gradualità nella globalità », si può
g
capire a che cosa potrebbe ridursi il centro sim-
stra. Esso si può costituire in un governo, nel qua e
adottano come finalità, da diluire nel tempo, a
sicurezza sociale, la scuola (al prezzo di una certa
clericalizzazione ), la riforma della burocrazia, la {^r-
sistenza di un certo numero di carrozzoni cliente ari
pur nella retorica della moralizzazione. Si pone invece
ia sordina sulla programmazione e sull’intervento pu
ujico, adottandone la inderogabile cautela della sta¬
tuita della moneta; si lascia tranquillo il sistema n-
scale, per non disturbare quella iniziativa privata che
otve resistere, lei santa e guerriera, alle cataswoh
dell’inflazione; si rinviano le regioni all’epoca della
cosi detta « stabilità politica », cioè del totale rove¬
sciamento anticomunista dei socialisti. La prograna-
tiazione resta un’operazione conviviale di esperti,
quando dichiarano senza esitazione i limiti del loro
’tcarico, che è di indicare costi e modi, non destina-
*ioni e ripartizioni del reddito prodotto o da pro-
dursi ( parla già così l’ultima relazione del loro pre-
sidente: e con patente amarezza). Del resto, per ritor-
di struttura, che comportano spesa e controllo,
dove reperire le risorse, senza disturbare il grande
‘Capitale?
Riarmo anticomunista
Temiamo che consisterà proprio in un azione così
o^cntata il famoso, dichiarato anticomunismo che si
pone ora a condizione pregiudiziale del nuovo centro
sinistra. E se sarà di questo genere, aggiungeremo
stima alla concretezza saragadorotea. Perchè non pos¬
siamo supporre che il « riarmo anticomunista » di cui
parla, come condizione di un « centro sinistra
Serio » possa consistere in una serie di sfide verbali,
di ingiurie al comuniSmo, di « mostre di Praga » e
altre maccartisterie fuori tempo. Se si fa dell antico-
Uhmismo lo si fa sul serio, al cuore delle cose che i
Comunisti agitano e difendono, c che si enunziano
Come un certo indirizzo di azioni socialiste. Poi viene
d testo: la vigilanza di polizia divenuta piu attenta;
la anatemizzazione politica se quella religiosa non
bene; la rottura di contatti umani — il rifiuto del
* dialogo » come regola della coesistenza di socialde-
’t)t>cratici e comunisti nello stesso paese. Ma l’essen¬
ziale è combattere il comuniSmo nella sua sostanza
quello spettro che da più di un secolo insidia la
|ranquillità della conservazione moderata. Meglio, se
il nome per cui si lotta è « centro sinistra »c una di
quelle parole che , temiamo, diverrebl^ però, tanto
intollerabile quanto altre ormai demistificate: la bat-
*®8lia per la « civiltà cristiana », — o !’« area demo-
statica » — o l’« europeismo » inteso alla maniera dei
* jeunes patrona ».
Tutto questo sarà possibile, come sappiamo, ma
®d una sola condizione: che i dorotei e Saragat possa¬
lo indurre Moro a passare sul corpo del PSI. Qual-
cuno insinua che Saragat intenda proprio servirsi di
Moro per spezzare il partito socialista, depennarlo a
sinistra, farne un corpo senza testa da annettere al
suo dominio di partito.
Non pensiamo vi sia in Saragat una visione così
precipitosa del futuro. Il PSI è tuttora, per quanto
travagliato e diviso, un grosso partito, e il solo, in
Italia, che serbi netta la visione del centro smistra
come il vero avviamento al socialismo, in una ostinata
contestazione della capacità comunista di assumere
impegni senza ritorno nei riguardi di una legalità
democratica che deve solo divenire più puntigliosa, e
non più incerta, nel momento in cui si vararlo riforme
che estendono, non restringono, lo stato di diritto.
Il ruolo del PSI
Ammettiamo che mai il momento è stato tuttavia
più difficile per il PSI, che doveva, sinora, sostenere
l’attrito naturale del fanfanismo, e dovrebbe d’ora in
poi battersi frontalmente contro la parodia del centw
sinistra; che profittava lui pure della metapolitica di
Moro, così fluida da meritare, continuamente, di in¬
contrarsi con una forza che la obbligasse a definire i
suoi impegni, ma che ora si presentereb^ invece •
Nenni non plastica, non dinamica, ma irrigidita dalla
speculazione e dalla sufficienza dorotea. Riconosciamo
che è una prova senza indulgenze, continuamente af-
faticflta dal sarcasmo dei comunisti, e mortificata da
una lieve, ma pur bruciante sconfitta elettorale.
Il PSI è tuttavia la sola forza politica italiana che
può dettare i suoi patti, e giocare tutto per tutto.
Questa espressione significa: che il PSI_è m grado di
dire chiaramente quali sono le condizioni, senza le
quali esso lascerà la DC, con Saragat, al suo destino,
e assumerà senza paura la funzione di opposizione, al
rischio di una polemica che cercherà di risospingerlo
all’alleanza, o almeno alla confluenza nella critica,
con il PCI. Il PSI deve tuttavia affrontare questo se¬
condo rischio. Esso è pure, come il saragattismo, nelle
cose stesse. Il saragattismo è l’espressione di un con¬
servatorismo illuminato, che, come tale, deve « con¬
tenere » ad ogni costo la « spinta di classe » dovuta
al comuniSmo. Ebbene, o il PSI può dKisanwnte con¬
trastare questa azione anticlassista dei moderati, o,
per i suoi impegni classisti, si ritroverà dove è accam¬
pato il movimento operaio italiano: non potrà certo
impedire che là si trovino i comunisti.
Anche per il PSI c’è una logica, che comanda e
che non accetta alternative in cui vadano insieme re¬
spinti i comunisti e la classe operaia. Niente da
il PSI in posizione di governo instaura un inizio di
« legalità » socialista che contribuisce a frustrare il
disimpegno comunista in questa materia; ma il PSI
all’opposizione si trova a dover essere implicato in
un disimpegno, non verso la legalità socialista, ma ver*
so quella borghese. Non è un controsenso, è ripe¬
tiamo — la logica della sua stessa lotta.
E’ una posizione di alto onore, quella di Nenni,
di Lombardi, di Valori e di Basw, che, da questo pun-
to di vista, riconosciamo uniti in un solo atteggia¬
mento. Ammettere che abbia dei rischi, che comporti
l’ipotesi della solitudine, della più aspra polemica
democratica, è il minimo cui si debba essere
Ma bisogna anche ammettere che questa sola sarebbe
ancora oggi l’alternativa al doroteismo, al centrismo
mascherato, allo * stato di benessere » per coloro che
ne godono già, nè intendono farsene strappare nep¬
pure un pollice. UMBERTO SEGRE
t
NOTE E COMMENTI
Sequestri
e Procuratori
SEQUESTRO del volume di
^ Druno Caruso segue altre opera¬
zioni dello stesso genere contro le
caricature di Grosz, un volume del-
VAvanti!, altre mostre, severità giu¬
diziarie ed amministrative contro
opere cinematografiche, requisitorie
di noti Procuratori generai, tutte
visibilmente ispirate da uno stesso
spirito ed intento. Come se una stes¬
sa volontà politica, tacitamente con¬
corde, operasse, fuori in gran parte
dei poteri responsabili, per castigare
e ricondurre ai tranquilli « pascoli
di Engaddi e di Saron » le peco¬
relle traviate.
E’ il costume politico che preoc¬
cupa questi solerti custodi del greg¬
ge, non il cosiddetto « buon costu¬
me » secondo la morale corrente.
Anzi, il nostro, o anche il nostro,
è ormai il paese della « libera scon¬
cezza in libero stato ». Guardate
quali volgarità hanno corso al ci¬
nema; guardate qual trista porno¬
grafia innonda liberamente le no¬
stre edicole ferroviarie. Non par¬
liamo in nome della morale, catto¬
lica, ma solo per un’abitudine di
semplice pulizia.
Non ci sembra sia questa la preoc¬
cupazione dei signori Procuratori.
E che cosa si può fare contro di
essi? Niente. Il ministro deUa Giu¬
stizia risponde ai parlamentari: la
indipendenza della Magistratura è
scritta nella Costituzione e l’avete
confermata con le vostre leggi. Il
Consiglio superiore ha poteri disci-
f dinari, ma non può interferire nel-
’esercizio della funzione del Ma¬
gistrato.
E nessun democratico può so¬
gnare che si possa intaccare il prin¬
cipio del magistrato indipendente
solo perchè uno di questi s’infero¬
cisce contro i disegni di Grosz o
di Caruso. Se mai sul punto del
sequestro è da rivedere il codice,
il coice della autoritaria e puniti¬
va etica fascista: la stessa procedura
sommaria dovrebbe prevedere al¬
meno la salvaguardia del giudizio
L’INCONTRO FRANCO-SALAZAR:
UNA GARA DI RACCONTI CRUDELI
Cosi il nostro collaboratore Bruno Caruso ha visto il
recente incontro dei due dittatori di Spagna e Portogallo:
il g^eraltsstmo Franco è, da molto tempo, un bersaglia
di i^ruso. Pere che una denuncia per < vilipendio * o
un Capo di Stato sia stata presentata e poi — fortuna¬
tamente per il buon senso — ritirata
10
TT
del magistrato di merito. La rifor-
del codice penale e degli altri
codici, allo studio da almeno quindi¬
ci anni, è stata promessa ancora
una volta alla fine della Legisla¬
tura passata. Sarà forse ripromessa
"la fine dell’attuale. E nulla dice
jncglio come sia lento e stentato
j cammino della democratizzazione
nel paese.
fi problema politico sorge quan¬
do le ferocie giudiziarie si moltipli¬
cano, formano un insieme e pren¬
dono figura di un proposito di so-
vrapposizione sui poteri normali
dello Stato da parte di un gruppo
o di una casta, che responsabilità
politica non ha ed al Parlamento
non risponde. E’ un’osservazione
che certe sentenze della Cassazione
in materia civile hanno già sug¬
gerito.
Ed è un problema di difficile
risposta, che ogni tempo di tra¬
sformazione ed ogni società in tra¬
sformazione ha conosciuto. Si ri¬
cordi la lunga lotta del secondo
Roosevelt contro la Corte Suprema.
Spirito vecchio e tempi nuovi cam¬
minano male insieme.
Tuttavia una conclusione c’è, c
s’inquadra nelle molte osservazioni
che l’Astrolabio è venuto via via
formulando a proposito delle nuove
formule di governo, intese come
rappresentative di un indirizzo po¬
litico generale. Centro-sinistra tra
gli altri sensi ha anche questo, di
indicare chiaramente, fermamente
come esso intende sia esercitata la
libertà di espressione nel pensiero.
Alla lunga un sermone chiaro anche
i cerberi della giustizia lo intendono.
L’Italia si sta “agapando”
pocill processi scandalistici sono
stati così corrosivi per l’opinio-
P^.pubblica come quello Mastrella.
Chi non è rimasto sconcertato dalla
‘3cilità di rubare allo Stato osten-
|sta con tanta baldanzosa sicumera
ha questo lestofante? Chi non è ri¬
masto di sale sentendo degli inef-
®hili ispettori di Mastrella?
. Lasciamo gli interrogativi sui par-
ticolari. Un’inchiesta giudiziaria è
corso a fianco del processo, e
ttena per ora l’inchiesta ammini-
^ttativa. Auguriamo che l’autorità
8'udiziaria e l’autorità amministra-
hva si rendano conto che l’opinio-
pubblica attende sanzioni esem¬
plari. Interessa ora fermare qualche
Considerazione generale sull’ammi-
*"strazione dello Stato e sul costu-
pubblico.
Un primo punto riguarda questa
storia delle importazioni tempora-
nelle quali Mastrella ha mano-
vrato con tanta disinvoltura, ma
hanno sempre fornito materia a so¬
spetto, tanto si sono prestate c si
prestano agli abusi degli importa¬
tori ed alle connivenze frequenti
begli uffici. Le importazioni in tem¬
poranea dei cereali costituiscono un
Oscuro capitolo.
_ Il secondo punto tocca l’ammi-
oistrazione delle finanze e delle do¬
sane in particolare, che una volta
sveva fama di controllori occhiuti
® pedanti. Si ha l’impressione sgra¬
devole di un deterioramento di li-
vello. E’ effetto dell’infausta allu¬
vione recente di alti gradi? Il Mi¬
nistero delle Finanze rigurgita di
ispettori generali pressoché senza
occupazione.
Col terzo punto siamo condotti
a rilevare la costosa inefficienza del
sistema attuale dei controlli, U qua¬
le è pedante e vessatorio contro
l’ammanco di una lira, ma può es¬
sere allegramente aggirato dai Ma¬
strella che rubano un miliardo. La
regolarità formale è costosissima co¬
me personale assorbito e pressoché
parassitaria come funzione pubblica.
E’ in definitiva meno costoso cor¬
rere il rischio di un Mastrella che
continuare nel sistema attuale. La
promessa riforma dell’amministra¬
zione dovrebbe analiticamente rive¬
dere settore per settore.
E consideriamo infine col doga¬
niere di Terni gli altri insigni ladri
di denaro pubblico delle cronache
attuali, i protagonisti di scandali re¬
centi, il col. Amici che va a gover¬
nare il demanio areonautico di Bari,
altri foruncoli scandalosi dei quali
si attende purtroppo lo scoppio
prossimo. Consideriamo il malo odo¬
re che viene da alcune amministra¬
zioni dello Stato, e dalle attività
parastatali di approvvigionamenti
granari e alimentari.
Questi, si sa, sono gli aspetti sol¬
tanto più appariscenti di un malco¬
stume pubblico che sta sempre più
avvelenando la società italiana. E’
un discorso sgradevole, tanto sono
facili, noiose e inutili le prediche
morali, e tanto é difficile combatta
re la « dolce vita » quando la verti¬
gine del miracolo travolge certe clas¬
si sociali.
Qualche cosa governi e partiti seri
potrebbero fare cominciando ad eli¬
minare in alto tanti sprechi ed abu¬
si, amputando gli stipendi favolosi
che le imprese pubbliche hanno pre¬
so la cattiva abitudine di elargire,
facendo pagare le tasse ai deputati
e senatori. E ricordando che gli ita¬
liani dopo il pane chiedono onestà.
11
LEHERA DALL'AMERICA
Il frutto amaro delPintolleranza
di MAX SALVADORÌ
La « Lettera dall'America » del prof.
Saivadori ci è giunta mentre aveva¬
no luogo a Birmingham nell'Alabama
i nuovi violenti scontri razziali che si
sono accentuati nei giorni successivi.
^PERO di aver torto, ma è probabile che i recenti
conflitti razziali di Birmingham nell’Alabama
avranno risultati seri e di lunga durata — assai lunga.
E’ vero che vi è stata, relativamente, poca violenza
fisica. I ” negri ” ( qui chiamano negri tutti quelli
che hanno un poco di sangue negro, anche se si
tratta di mulatti in cui prevale l’ascendenza bianca)
hanno compiuto le loro dimostrazioni pacificamente;
incolonnati si sono recati davanti agii edifizi pubblici
dove gli unici a dare ordini sono dei funzionari
” bianchi ”, alle scuole pubbliche riservate ai barn
bini ” bianchi ”, a ristoranti che rifiutano di servire
clienti ” negri ” — e domenica mattina sono andati
alle chiese dei ” bianchi ” ( in alcune sono stati ac¬
cettati, in altre no). La polizia ha proceduto senza
ostacoli all’arresto di centinaia e di migliaia di dimo¬
stranti: i più sono stati rilasciati dopo poche ore,
altri, — processati per direttissima — sono stati con¬
dannati a pene che andavano da pochi giorni ad alcuni
mesi di carcere. Animatore del movimento era, come
sempre, il reverendo Martin Lutero King, pastore
protestante e gandhiano — una delle più nobili figure
della nuova generazione negli Stati Uniti.
Violenza, poca; ma la ferita che fa sanguinare la
nazione americana si è approfondita. Salvo pochissimi,
gli americani bianchi non se ne rendono conto, ma ò
già forse troppo tardi per arrivare ad una conciliazione
fra la maggioranza bianca e la minoranza di colore.
Sino a pochi anni fa i ” negri ” volevano, più di
qualsiasi altra cosa, essere americani: volevano parte¬
cipare da uguali alla vita americana, consideravano
propri Jefferson, Lincoln e Roosevelt, si commuove¬
vano quando veniva issata la bandiera stellata, impa¬
ravano a memoria le nobili frasi della dichiarazione
d’indipendenza e della costituzione; aspiravano ad es¬
sere cittadini di una nazione ” liberale ” quale l’ave¬
vano sognata i fondatori della repubblica, una nazione
in cui, rispettandosi a vicenda, tutti potevano vivere
da uguali la propria vita. Ma adesso il numero dei
” negri ” che non vogliono essere americani, che non
solo odiano la realtà degli Stati Uniti di oggi ma
respingono totalmente tutto ciò che può essere iden¬
tificato con gli Stati Uniti — anche se si tratta di
quanto di meglio la nazione americana ha saputo
produrre durante quasi due secoli di esistenza.
L’intolleranza crudele e miope dei bianchi ha il
suo frutto nell’intolleranza dei ” negri ”. Fra questi
ha preso piede e si sta diffondendo rapidamente il
movimento dei Black Muslims, i Mussulmani Neri,
12
organizzato originariamente a Chicago alcuni anni fa
e adesso in pieno sviluppo in tutti i maggiori centri
dell’Est, nei quali vive circa un terzo della popola'
zione di colore degli Stati Uniti. I Mussulmani Neri,
i quali hanno già costruito parecchie moschee, affer¬
mano che il cristianesimo è una religione per bianchi,
che l’islamismo invece non ha e non ha mai avuto
coscienza razziale. Reclamano ad alta voce il loro
apartheid: separazione totale fra bianchi e gente di
colore, creazione sul territorio degli Stati Uniti di
uno stato indipendente in cui i venti milioni, o quasi,
di ” negri ” americani possano governarsi come loro
piaccia. (Trent’anni fa i comunisti americani avevano
nel loro programma la formazione di uno stato auto¬
nomo ”negro”). Se la coesistenza è impassibile —
dicono i Mussulmani Neri — la soluzione migliore
è la separazione dei corpi e la divisione dei beni.
Non vi è dubbio che la cosa è tecnicamente possibile!
diciotto anni fa, sovietici, pxilacchi e cecoslovacchi,
fecero piazza pulita in pxKO tempio di circa quindici
milioni di tedeschi i quali occupavano un’area vasta \
quanto la metà dell’Italia; la quasi totalità di questi
tedeschi è stata assorbita, sembra senza troppe dif¬
ficoltà, dalla Repubblica Federale. Sarebbe certo una
opierazione costosa: verrebbe anche a costar meno
di una situazione cronica di guerra civile, che an¬
cora non c’è ma che non è completamente da esclu¬
dere in un avvenire più o meno prossimo.
gAREBBE bastata un po’ di generosità da parte dei
bianchi per impedire che la ferita si approfondisse:
di generosità ve ne è stata, ma non abbastanza e
solo da parte di una minoranza piuttosto modesta
di bianchi. Non bisogna credere che siano solo piccoli
gruppi di bianchi i quali si oppongono all’integra¬
zione razziale: vi si oppone, attivamente o passiva¬
mente, la maggioranza dei cittadini, senza distinzione
di ceto sociale, di livello di educazione, di fede (o
mancanza di fede) religiosa, di situazione economica.
Negli stati del sud i razzisti dicono e ripetono ” noi
siamo la maggioranza, sta a noi decidere quale debba
essere la way of life (la maniera di vita) degli ame¬
ricani ”; negli altri stati i più danno loro ragione
e cercano di agire nella stessa maniera, come avviene
a Chicago ed a Detroit. Inoltre gli americani si tro¬
vano presi in una loro contraddizione: da una parte
hanno sempre insistito nell’assimilazione dei grupp*
culturali minoritari, dall’altra respingono energica¬
mente l’assimilazione biologica che nel caso dei ” ne¬
gri ” accompagna necessariamente l’assimilazione cul¬
turale. Su questi problemi vale la pena di rileggere
l’opera classica del sociologico svedese Myrdal, fi
quale circa un quarto di secolo fa fece una inchiesta
approfondita sul problema razziale negli Stati Uniti.
J
E il governo che fa? Ben poco, mentre invece
potrebbe far molto, trattandosi di una di quelle si¬
tuazioni fluide che [jossono essere trasformate com¬
pletamente con un poco di energia. E’ probabilmente
una tragedia per la nazione americana che al mo-
tnento in cui, sotto la pressione di avvenimenti
■nterni ed esterni (non bisogna dimenticare l’im¬
pressione profonda prodotta fra i ” negri ” americani
dai rivolgimenti africani) si acuiva la tensione raz-
ziale, si è trovato al jxitere un gruppo di persone
londamentalniente scettiche. Parecchi dei dirigenti
di Washington di oggi, anche fra i più influenti.
ricordano sotto certi aspetti quelli dell’Italia di quat¬
tro decenni fa, o poco più: persone intelligenti, poli¬
ticamente astute, che disprezzano i prmcipì e credono
che con piccole manovre si aggiusta tutto; macchia-
vellismo meschino. Il guaio è che quando vi è una
profonda crisi morale, l’azione politica deve derivare
da una posizione morale. E la crisi oggi c’è nella
nazione americana (i fatti di Birmingham non ne
sono che una piccola manifestazione); o il governo
cerca di agire in base ai principi impliciti nel
sistema americano, o il sistema si indebolisce.
31.\X S.4LV.\DORI
Cento anni contro Marx
J^ICORDANDO a Hannover i cen-
to anni di vita del partito social-
democratico, Carlo Schmidt ha quasi
evitato di rammentare che il fon¬
datore della dottrina, dopo tutto,
chiamava Carlo Marx. Ha detto
invece: « Noi socialdemocratici vo¬
gliamo che lo stato di diritto si
elevi a stato di cultura, e pensiamo
così di dare reale sostanza alla con¬
cezione di un grande piensatore te-
desco, Johann Gottlieb Fichte ».
Fichte invece di Marx; il filosofo
delle origini nazionalistiche e dello
?*ato commerciale chiuso. « Così
yFD non avesse mai incontrato
V'arx sul suo cammino » ha scritto
questi stessi giorni, con rara
schiettezza, uno storico di minore
statura, Colo Mann, ma di diagnosi
precisa. Proprio nella « Neue Ge-
?,"lschaft », la rivista di studi del-
hPD, Golo Mann ha constatato
esattamente che l’SPD ha lasciato so¬
pravvivere per troppi anni in sè un
residuo verbale di marxismo, che
non corrispondeva in alcun modo
“gli scopi del partito, al suo orrore
Per la rivoluzione, al pensiero —
neppure — di coloro che nelle sue
nle si esibivano come antiriformisti,
nia sarebbero apparsi in totale con¬
traddizione con i veri antiriformi-
del marxismo, i Lenin e i Trotzki.
*11 partito non voleva la lotta di
elasse, ma l’elevazione delle condi¬
zioni di vita dei suoi seguaci, e
niaggiore influenza sullo stato — è
''ero — ma di ” questo ” stato, così,
eom’era ».
Non ci stupirà l’aspro giudizio
dello storico inglese Taylor, che, vo¬
tando i fondi per la guerra mon¬
diale, nel ’14, i socialdemocratici
tedeschi identificavano, infine, il
mondo operaio della Germania con
il capitalismo stesso, perchè, se que¬
sto fosse caduto, sarebbe perito in¬
sieme quel movimento di lavoratori
così avanzato, così cosciente.
Il centenario dell’SPD coincide,
bisogna riconoscerlo, con un succes¬
so eccezionale del partito: mai esso
ha conseguito, in tutta la sua storia,
l’affluenza di suffragi che ora gli si
accostano, proprio perchè riconosco¬
no in questo partito, che non do¬
vrebbe più chiamarsi socialista, quel¬
la « alleanza di ceti medi e di operai
anticomunisti », quel radicalismo po¬
polare, del quale è giusto apprezza¬
re il lealismo democratico, lo spirito
di progresso senza avventure, la ca¬
pacità di bene amministrare un paese
in espansione.
La debolezza dell’SPD, liquidata
così ufficialmente, dopo cento anni,
ogni infiltrazione del veleno marxi¬
sta, si palesa tuttavia oggi in tre
segni molto evidenti. Il primo, è di
saper non interpretare più lo stesso
rivendicazionismo operaio. Lo scio¬
pero dei metallurgici si è mosso in
Germania, qualche settimana fa, die¬
tro l’impulso di capi sindacali, come
Brenner, che l’SPD giudica avven¬
tati e imprudenti. E’ noto che il
sindacato dei metallurgici « si at¬
tarda » in richieste di nazionalizza¬
zioni, che la socialdemocrazia, bern-
steiniana sino in fondo, ripudia per
principio, a segno di non difendere
neppur più dalla riprivatizzazione il
settore pubblico della produzione
tedesca.
Il secondo segno, è l’incapacità
socialdemocratica di tenere a sè le¬
gati i giovani. Il Movimento giova¬
nile ha dovuto essere sciolto d’auto¬
rità, se n’è costituito burocratica¬
mente un altro senza vitalità ideo¬
logica; ma si è anche ricostituita
una Lega di studenti socialisti, che
non accetta l’opportunismo della
dottrina di Bad Godesberg, e conta
oggi la maggioranza dei giovani so¬
cialisti in qualche centro importan¬
te, come Francoforte.
Il terzo elemento di debolezza
dell’SPD è di essere più imprepa¬
rato ancora che i democristiani alia
questione della riunificazione tede¬
sca. Si tratta, è vero, di una que¬
stione lontana, ma un grande par¬
tito tedesco non può non avere
un’« idea » dell’unità nazionale, spe¬
cie se è esso stesso, dopo tutto,
correttamente nazionalista.
Ora è naturale che Erhard abbia
sempre pensato alla riunificazione
come a una « assimilazione » delle
strutture comuniste della DDR al¬
l’economia sociale di mercato: ca¬
dono quelle bardature e si accam¬
pa, si espande la prosperità. Per
i socialisti dovrebbe invece ancora
suscitare qualche interesse la do¬
manda: si può restaurare un sistema
di capitalismo che, cadendo, ha cer¬
tamente abolito il fascismo nella
Germania Est, e che di qua ne
salva tuttora certi uomini, e ne re¬
staura certe forme, come quella di
una crescente potenza militare?
Tra i giovani dissenzienti tedeschi
corre una parodia della « Carta di
Bad Godesberg », di cui traduciamo
alla buona le prime righe: « Artico¬
lo I: la lotta di classe è una panzana.
Articolo II: mi dia del Lei. Articolo
IH: è abolito l’appellativo "compa¬
gno ’’, e sostituito con quello che
esprime la piena spiritualità della
persona umana: ’’ buon uomo ”... ».
.'Vladino
13
Il CONVEGNO THE ECONOMIST-L'ESPRESSO
Quale Europa?
y •J'EMO PROPRIO che l’Europa
che alcuni pretendono oggi di
costruire stia alla nostra concezione
europea come il nazionalsocialismo
stava al socialismo. Quando l’avver¬
sario utilizza il nostro vocabolario
per vuotarlo meglio del suo conte¬
nuto, allora il pericolo è grave. Se
De Gaulle dovesse riuscire nella
(ua politica detta europea, anniente¬
remo quel poco che i veri europei
erano riusciti a fare. Si sta creando
un mostro: e presto l’Europa sarà
soltanto una parola ».
Chi parla così è Guy Mollet, il
leader socialdemocratico francese
che ebbe tanta parte nell’avvento
del gollismo dando l’avvio, quando
era Presidente del Consiglio, alle
repressioni su larga scala in Algeria
con cui s’apriva la tragica spirale
che doveva portare al putsch del
13 maggio. Queste parole, riportate
dai giornali del 19 maggio, suonano
•d un tempo come ammonimento e
come confessione implicita dei tanti
errori e della troppo lunga acquie-
Kenza della socialdemocrazia fran¬
cese. Ma le colpe passate di Guy
Mollet non sminuiscono la verità
imara dei suoi giudizi di oggi: De
Gaulle ha aperto gli occhi anche
■i ciechi.
I
L’impegno inglese
L’ombra di un’Europa gollista ha
dominato, com’era logico, il conve¬
gno indetto ò&W’Economist. e dal-
VEspresso a Roma il 18 e 19 mag¬
gio su: « L’Italia, la Gran Breta¬
gna e l’Europa ». * Per coloro che
in seno alla Comunità continuano
ad appoggiare l’associazione britan¬
nica il problema non consiste sem¬
plicemente nel fatto dell’adesione
del nostro paese — ha detto uno
dei relatori, l’inglese Roy Pryce —
ma nel sapere se si tratta di una
di LUIGI GHERSI
particolare Gran Bretagna che di¬
venta membro di un particolare tipo
di Comunità. Per voi che già fate
parte della Comunità, è essenziale
che la Gran Bretagna sia propensa
ad accettare un impegno politico a
lunga scadenza relativo allo svilup¬
po della Comunità. Per noi, tuttavia,
non è meno importante che il tipo
di Comunità della quale entriamo a
far parte sia tale da farci sentire
capaci di parteciparvi appieno. In
altre parole, la risposta che la Co¬
munità dà alla domanda che tipo di
Europa? è importante per noi quan¬
to lo è per voi ».
Quale Europa, dunque? La pic¬
cola Europa ondeggiante tra i timi¬
di tentativi federalisti e la faticosa
routine attraverso la quale gli or¬
ganismi comunitari di Bruxelles so¬
no riusciti a dar vita ad una grande
potenza economica priva di una
testa politica? O la grande Europa
cara al generale De Gaulle: la terza
potenza mondiale guidata dalla Fran¬
cia e dominata dai tecnocrati e dai
gruppi militari?
Il convegno si proponeva — e
in una certa misura c’è riuscito —
di dare a questa domanda una terza
risposta. Il problema al centro del
dibattito era questo: se sia possibile
oggi, dopo il rifiuto opposto da De
Gaulle aH’ingresso del Regno Unito
nella Comunità Europea, puntare
sulla costruzione di un’Europa che
includendo la Gran Bretagna e re¬
stando aperta agli altri paesi demo¬
cratici dell’EFTA, sia capace di dar¬
si istituzioni libere e soprannazio¬
nali fondate sulla sovranità popolare,
0 se piuttosto non sarebbe più rea¬
listico declassare la CEE ad un sem¬
plice strumento di regolamentazione
del commercio e dissolvere in una
più vasta comunità atlantica quel
tanto di costruzione europea già rea¬
lizzato. Il convegno s’è indirizzato
chiaramente verso la prima ipotesi.
lasciando la seconda nello sfondo,
come un’estrema ancora di salvezza
nel caso di un fallimento senza spe*
ranze dell’esperienza europeistica. H
mare di incertezze in cui naviga
l’Europa non diventerà certo minore
— è stato osservato — se si allar¬
gheranno i confini in una diluita co¬
munità atlantica.
Ma anche delimitato così l’ogget¬
to del dibattito, una volta scelto
un certo tipo di costruzione euro¬
pea, quello democratico e federale,
il problema si ripresenta più chiaro
e tuttavia non meno complesso: m
quale direzione è conveniente muO"
versi, sul piano politico e istituzio¬
nale, sul terreno economico, nel
campo militare, se si vuole svilup;
pare un’azione positiva, capace d'
contrastare efficacemente la politica
del governo di Parigi?
L’Europa dei generali
Roy Pryce nella sua lucida relazio¬
ne sul tema dell’unione politica ha
individuato il punto di debolezza
della CEE nella mancanza di con¬
trolli democratici sull’esecutivo. I*
Consiglio dei Ministri e, in minor
misura, la Commissione esecutiva
sono gli unici organi dotati di pote¬
ri di decisione, ma non è stata pre¬
disposta nessuna istituzione comu¬
nitaria davanti alla quale il Consiglia
dei Ministri sia tenuto a rispondere.
Il Parlamento Europeo, nominato
attraverso elezioni di secondo grado,
è soltanto una larga politica; i cit¬
tadini non hanno nessun peso, men¬
tre riescono molto più facilmente a
far sentire la propria influenza *
gruppi di pressione che rappresen¬
tano grossi interessi economici or¬
ganizzati. In queste condizioni, >
progressi dell’unione politica, cosi
com’è stata fino a questo momento
messa in atto, accrescerebbero il ri-
14
Schio di un governo europeo buro¬
cratico, irresponsabile ed autoritario
con il connesso pericolo di asservire
tutti i paesi membri a quei governi
che possiedono in seno alla Comu-
tttta la maggiore potenza militare.
Dalla piccola Europa dei funzio-
tt^ri, attraverso quello che, in certo
Senso, si potrebbe definire un pro¬
cesso organico di graduale sottra¬
zione del potere ai controlli demo¬
cratici, nasce l’orgogliosa, inquietan¬
te Europa dei generali.
E’ certamente comprensibile per¬
tanto che gli inglesi si preoccupine
ui rnettere a repentaglio le proprie
tradizioni democratiche allacciando
•egami troppio stretti con un’Europa
^ossa ancora da pericolosi sussulti
autoritari.
Ma se è vero che il regime de-
lyiocratico non è consolidato nel con¬
tinente europeo, sarebbe illusorio per
'Inghilterra pensare di sottrarsi con
isolamento alle conseguenze di una
eventuale involuzione politica e so¬
ciale nell’Europa occidentale: all’im-
Postazione gollista, egemonica, auto-
titaria, militarista, si reagisce — lo
na ricordato La Malfa — creando
nn opposto polo di attrazione: l’In-
Rhilterra. Non si tratta — ha preci-
^‘tto il ministro italiano ritornando
stilla proposta da lui stesso avanzata
subito dopo il fallimento dei nego-
ziati di Bruxelles — di creare due
gruppi di Stati ma di contrapporre
due concezioni, di mobilitare sul pia-
*^0 europeo le forze democratiche.
Di.siiiipogiio aloiiiico
Questa mobilitazione, per passare
dalle aspirazioni alla realtà e per
Acquistare la necessaria efficacia, ha
l’isogno tuttavia di un contenuto
che non sia limitato alla creazione
di istituzioni europee più democra¬
tiche, ma che riproponga sul terre-
Ilo europeo le aspirazioni di classe
c le spinte ideali, i motivi econo-
iTiici e i contenuti morali da cui
attinge linfa vitale la lotta politica
ciei singoli paesi europei. Ancora
Una volta: quale Europa?
Un tema che non rientrava nel
ciuadro, necessariamente circoscritto,
del convegno Economisl-Espresso è
quello della futura pianificazione
economica nella Comunità, che do¬
vrebbe peraltro costituire il fonda¬
mentale obiettivo programmatico di
una futura sinistra europea inten¬
zionata a fare sul serio, a proporre,
cioè, non una generica Europa de¬
mocratica, ma una precisa democra¬
zia europea che abbia compiuto in
anticipo chiare scelte sociali, che sia
capace di dare uguali garanzie per
tutti i cittadini di emancipazione
dalla schiavitù del bisogno con la
connessa certezza di poter accedere
in piena parità ai benefici dell’istru¬
zione statale, che sappia assumersi
un chiaro impegno a risolvere nel
quadro comunitario i problemi del¬
le aree depresse, energicamente e
in modo decisivo, come potrebbe fa
re la più grande potenza economica
mondiale guidata da una classe di¬
rigente democratica.
Ma se i problemi politici e isti¬
tuzionali hanno registrato un accor¬
do quasi assoluto e se le questioni
economiche e monetarie hanno sol¬
levato talune divergenze di opinio¬
ne, contenute tuttavia nel quadro di
una sostanziale posizione comune,
più difficile ai fini di una conclusio¬
ne indicativa è stata la discussione
sui problemi della difesa. Su questo
tema si sono venute delincando due
posizioni: una, condivisa da quasi
tutti gli italiani, favorevole al par¬
ziale disimpegno atomico dell’Euro¬
pa, che dovrebbe accentuare invece
il proprio contributo convenzionale
alla difesa dell’Occidente rinunzian¬
do a costruire una propria forza ato¬
mica e lasciando all’America la spada
e lo scudo nucleare, naturalmente
con l’usodelle basi europee; l’altra
posizione, condivisa da tutto il grup¬
po dell’Economist, è improntata ad
una prospettiva di potenza mondiale
secondo i concetti tradizionali per
cui uno Stato è veramente indipen¬
dente quando è in grado di far
fronte a qualsiasi minaccia e deve
pertanto essere sempre dotato delle
armi più potenti per scoraggiare le
eventuali aggressioni. La posizione
britannica si attenua però nella mi¬
sura in cui si dimostra aperta a so¬
luzioni di integrazione a tutti i li¬
velli del proprio deterrente nucleare
con quello americano o, eventual¬
mente, con un ipotetico (e per conto
nostro non auspicabile) deterrente
europeo.
A queste tesi s’è replicato da par¬
te italiana con molta energia. Al¬
tiero Spinelli, in particolare, ha mes¬
so in evidenza i limiti concettuali
di questa posizione, ancorata a un
vecchio concetto di indipendenza
delle nazioni che la realtà del mondo
moderno si incarica ogni giorno di
dissolvere in tutti i suoi aspetti, nel¬
l’economia, nella vita politica, sem¬
pre più improntata a motivi ideo¬
logici che superano i confini nazio¬
nali, nella guerra infine, che per
essere divenuta spaventosamente di¬
struttiva ha perduto la sua ragion
d’essere, che è quella di proseguire
con mezzi violenti una controversia
politica non di distruggere l’oggetto
della contesa.
1/ariiiaiiieiito luicleare
Ma il gruppo britannico non era
poi tutto, attestato sulle vecchie trin¬
cee della logica di potenza. Younger,
per esempio, con un intervento pos¬
sibilista ha lasciato capire che per
i gruppi dirigenti inglesi la rinuncia
al deterrente nazionale non sarebbe
certo una tragedia: i laburisti sem¬
brano abbastanza decisi a disfarsene
comunque considerandolo un peso
inutile e i conservatori sono piut¬
tosto propensi a valutare la forza
nucleare britannica piuttosto come
merce di scambio per l’ingresso nel¬
l’area economica europea che come
uno strumento difensivo veramente
efficace. Il che dimostra, se ce ne
fosse bisogno, che gli uomini politici
inglesi, che pure si trovano sulle
spalle l’eredità di una vera grande
potenza, non sono affetti da quella
schizofrenia politica — per usare
un termine di Spinelli — che af¬
fligge la classe dirigente francese,
convinta che la sicurezza strategica
si acquisti diventando un bersaglio
vulnerabilissimo ( e obbligato in ca¬
so di guerra atomica).
Con la probabile assunzione del
piotere da parte del partito labu¬
rista in Gran Bretagna ed il paral¬
lelo deterioramente della DC tede¬
sca, la sinistra democratica europea
potrebbe ritrovare, in un futuro ab¬
bastanza vicino, l’impulso necessa¬
rio per rovesciare il vecchio equi¬
librio politico col suo bagaglio di
ossessioni crudeli e di sogni anacro¬
nistici. In questo caso, alla domanda
« quale Europa? » potremo dare con
serenità una risposta concreta.
LI I(;i GHEKSI
15
FILMCRITICA
mensile di cinema - teatro - tv
Sommario del numero 131:
Roberto Rossellini: «Conversazione sulla
cultura e sul cinema».
Francesca Di lorio: «Umberto Barbaro
scrittore ».
Armando Plebe: «Kracauver e l’indefinito
filmico ».
Elio Mercuri: «Opera aperta come opera
assurda ».
Luigi Chiarini: «Cinema e televisione».
Tadensz Kowalski: «I circoli del cinema
in Polonia».
Edoardo Bruno: « Otto e mezzo di Federico
Fellini ».
Note e rassegne.
Direzione e Redazione, Piazza del Grillo 5,
Roma, tei. 681976
Qua^lex’xii
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mentazione italiana » Lungotevere Tor di
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Rassegna mensile di politica economia cultura
Direttore: Francesco De Martino
Condirettori: Gaetano Arfé e Antonio Giolitti
Una copia lire 150 — Abbonamento annuo lire 1500
Direzione, Redazione e amministrazione: Via del Corso 476 — Roma
scuola e città Suinmario del n. 4
Direttore: Ernesto Codignola aprile 1963 ,
Lamberto Borghi: Note storiche sui problemi dell’educazione civica; Placido Alberti: Il cinema e
l’educazione intellettuale dei giovani; Egle Becchi: L’ereditarietà del genio; Bogdan Suchodol-
ski: Le classi superiori della scuola fondamentale polacca; Raffaele Laporta: La riforma di
fronte alla realtà; Domenico Izzo: Scuola e società nel Molise.
Direz. Via delle Mantellate, 8 - Red. e Amm. «La Nuova Italia», P. Indipendenza, 29, Firenze.
16
LE RUBERIE DEI CAMPFOND
E due: imputato
anche il conte Emilio Pozzi
di ERNESTO ROSSI
JL 16 MAGGIO si è svolta, a Milano, l’assemblea
ordinaria dei soci del Consorzio Nazionale Approv-
''•gionamenti Materie Prime per Fonderie Ghisa, Camp-
fond, costituito nel 1937 fra gli industriali siderurgici,
^pme organo corporativo, al quale i diversi governi che
sono succeduti dopo la caduta del regime corjwra-
L'vo, in osservanza al superiore principio della
* continuità dello Stato *, hanno continuato ad
affidare l’esercizio di pubbliche funzioni, con
• brillanti risultati che (non avendo trovato
ospitalità in altri giornali) esposi diffusamente
sul Paese sera del 13, 14 e 15 settembbre 1962:
irregolarità amministrative di tutti i generi; ruberie
per centinaia di milioni a danno dell’Erario sulla
gestione della ghisa statale; distruzione di documenti
contabili per sottrarli al controllo della Corte dei
^uti; ricatto del presidente del consorzio (conte
Emilio Pozzi) da parte di un impiegato licenziato
(Alberto Pozzi, che non aveva alcuna parentela col
sopraddetto conte); esborso di 17 milioni del Camp-
fond al ricattatore per ottenere che non * cantasse ».
Sulla base dei miei tre articoli, l’on. Giolitti, nel
Novembre scorso, presentò alla Camera una interro¬
gazione, chiedendo al ministro del Tesoro di appu-
come stavano i fatti. Nonostante il regolamento
uella Camera prescriva che le risposte scritte de-
vono essere date entro dieci giorni dalla interroga-
zione, il Parlamento si è chiuso, quattro mesi dopo.
Senza che l’on. Tremelloni si sia fatto vivo.
Né alle mie circostanziate denunce, né all’interro¬
gazione dell’on. Giolitti è seguita alcuna rettifica o
smentita da parte degli interessati. E fra gli interes¬
sati c’erano: 1) il conte Emilio Pozzi (presidente
uelle Acciaierie Elettriche di Sesto San Giovanni, pre¬
sidente delle Officine di Sesto S. Giovanni Valscc-
^(’i) presidente delle Terme di Salice, e vice presi¬
dente della grande Acciaieria c Ferriera del Galeotto),
u quale è stato presidente del Campfond dal 1937,
anno della sua costituzione, fino al marzo del 1961,
Quando fu sostituito dall’ing. Taccone e fu nomi¬
nato, per acclamazione, presidente onorario del Con¬
sorzio; 2) ring. Domenico Taccone (direttore gene-
■■ale della sezione siderurgica della Fiat, membro del
E^nsiglio di amministrazione della Fiat, membro del
(imitato consultivo della CECA, presidente del
Campsider e della Idrocarburi Meridionale, consi¬
gliere della Cornigliano), il quale è stato vicepresi¬
dente del Campfond dal 1946 al marzo del 1961,
uiese in cui sostituì nella presidenza il conte Pozzi;
3) gli altri dodici membri del Comitato esecutivo
del Campfond, tra i quali è l’ing. Enrico Brivio, in
rappresentanza degli stabilimenti di S. Eustachio e
l’ing. Enrico Vanni, in rappresentanza della Terni,
società tutt’e due dell’IRI.
Nella riunione del Comitato esecutivo del 21 set¬
tembre scorso, alla quale parteciparono otto consi¬
glieri, il presidente del Campfond spiegò che tutta
la faccenda aveva scarsa importanza, « sia per il
prestigio nullo del giornale [Paese Sera], sia per
quello egualmente scarso dell’articolista [Ernesto
Rossi] »; riteneva, perciò, miglior consiglio non
lasciarsi trascinare nella polemica, per non fare il
gioco dei nemici del Campfond.
Ma l’il aprile i giornali romani hanno comuni¬
cato che il giorno prima era stato tratto in arresto,
sotto l’imputazione di estorsione aggravata, Alberto
Pozzi, di cui io avevo raccontato la edificante storia.
I giornali che hanno portato la notizia hanno anche
detto che il ricattatore era riuscito ad ottenere dal
Campfond 17 milioni; ma nessuno di loro si è
chiesto come mai il Campfond aveva pagato questi
milioni.
Ancora non sono riuscito a sapere da chi Alberto
Pozzi è stato denunciato all’autorità giudiziaria. Il
Messaggero ha scritto che la denuncia era venu?^
dagli amministratori del Campfond; ma io credo di
poterlo escludere perché tutti gli amministratori, per
una ragione o per l’altra, hanno la coda di paglia;
se avessero voluto rischiare, avrebbero rischiato senza
accettare il ricatto.
Subito dopo l’arresto del Pozzi, la Procura ha
provveduto ad interrogare a Milano il conte Pozzi,
ring. Taccone e diversi funzionari del Campfond.
L’assemblea del Campfond si è tenuta proprio
in questo momento più che delicato per i suoi
amministratori. L’avv. Neri, rappresentante di un
piccolo azionista — la società Fusionghisa di Busto
Arsizio — ha presentato una dichiarazione di voto
(che aveva precedentemente depositato presso un
notaio) contro il bilancio al 31 dicembre 1962, chic
dendo che, ai sensi dell’art. 2375 c.a., venisse inse¬
rita a verbale. La parte della dichiarazione per noi più
interessante è la seconda, in cui la Fusionghisa ha
chiesto agli amministratori « qualche notizia in rela¬
zione ai fatti che hanno determinato l’arresto del
sig. Alberto Pozzi, di Roma (conscguente al pro¬
cedimento penale rubricato col n. 7643/63 della
Procura della Repubblica di Roma, e n. 6259/62
17
della Procura della Repubblica di Milano, a carico
dello stesso sig. Alberto Pozzi ed a carico del conte
Emilio Pozzi, quest’ultimo membro del Consiglio di
amministrazione e presidente onorario del Campfond
e dell’Assofond ) », fatti sui quali il sottoscritto
chiese inutilmente spiegazioni alla assemblea del
19 aprile 1962, e per i quali l’on. Giolitti
ha presentato interrogazione alla Camera dei
deputati, come appare dal Resoconto sommario,
n. 739, del 14 novembre 1962, della stessa Camera.
E’ così risultato un particolare del quale i gior¬
nali non avevano dato nessuna notizia e che neppure
io conoscevo: oltre all’impiegato ricattatore (che an¬
cora non è riuscito ad ottenere la libertà provvisoria)
è stato imputato — non"so a quale titolo, ma me lo
immagino — anche il conte Pozzi, ex presidente del
Campfond, ed attuale suo presidente onorario.
Ormai si sente da per tutto odor di bruciato.
Alla precisa domanda del rappresentante della
Fusionghisa, il presidente dell’assemblea, ing. Tac¬
cone, ha risfjosto... che non poteva rispondere: era
in corso un procedimento giudiziario; gli ammini-
atratori erano, perciò, tenuti al segreto istruttorio.
Dopo tutto quello che è stato pubblicato sul¬
l’argomento il « segreto istruttorio » è come il se¬
greto di Pulcinella. Ogni socio del consorzio aveva il
diritto di sapere come erano andate veramente le
cose per giudicare l’operato degli amministratori, e
l’ing. Taccone aveva il preciso dovere di informare i
soci su tutto quello che era successo, durante il
periodo in cui era vice presidente del Ciampfond. Ma
tant’è: la manovra dilatoria è stata secondala da
diversi azionisti, amici del presidente, che subito
tono intervenuti in appoggio delia sua tesi.
La discussione si è conclusa con l’approvazone di
una mozione di plauso all’opera degli amministratori
e di completo discarico delle loro responsabilità per
tutte le operazioni da essi compiute.
Va rilevato che presentatore della mozione è stato
l’ing. Enrico Vanni, il quale rappresentava la società
siderurgica Terni dell’IRI, avendo sostituito il dot¬
tor Giardetti, che, nell’assemblea del Campfond del
19 aprile, si prestò a fare un analogo servizio, pre¬
sentando anche lui, una mozione di plauso e di disca¬
rico in favore degli amministratori, dopo che, alle
critiche mosse dallo stesso azionista, Fusionghisa, era
stato risposto con l’approvazione di un ordine del
giorno per « non far luogo ad ulteriori indagini sulle
passate gestioni, dopo gli accertamenti già esperiti ».
Le « ulteriori indagini » le sta svolgendo l’auto¬
rità giudiziaria; ed abbiamo fiducia che le faccia sul
serio. Ma, in attesa delle conclusioni dell’istruttoria
(che non sappiamo quanti mesi o quanti anni durerà),
desidereremmo che il presidente dell’IRI, dr. Giu¬
seppe Petrilli, ci facesse intanto il grande favore di
dirci se ritiene che la « formula IRI » — da lui tanto
magnificata quale nuova forma di collaborazione del
capitale pubblico col capitale privato — sia corret¬
tamente interpretata da quei rappresentanti della
Terni che, in seno al Campfond, tengono così il
sacco ai privati perché facciano comodamente man
bassa nelle casse dello Stato. E desidereremmo anche
sapere quali indagini (dopo le mie denunce del set¬
tembre scorso e dopo l’interrogazione presentata nel
novembre alla Camera) la Corte dei Conti ha com¬
piuto per accertare la verità dei fatti e « le eventuali
responsabilità degli amministratori del Consorzio
— come ha scritto l’on. Giolitti — e dei loro con
trollori ».
Con tutti gli scandali; scoppiati a ripetizione du¬
rante gli ultimi quindici anni nel nostro paese (INA,
INGIC, ACIS, GAP, Federconsorzi, Fiumicino, Ciam-
pino, Cippico, Giuffrè, Roisecco, Mastrella, opera¬
zioni illecite sulle valute, zolle d’oro, importa e rad¬
doppia, edilizia sovvenzionata... e chi piu ne ha pm
ne metta), il Procuratore Generale della Corte dei
Conti non ha mai trovato un caso — diciamo mai
neppure un caso — meritevole di iniziare un azione
di responsabilità contro quei pubblici funzionari che
hanno arrecato allo Stato danni di centinaia di mi¬
lioni e di miliardi, facendosi addomesticare da coloro
che essi avrebbero dovuto continuamente control¬
lare, in difesa dei quattrini dei contribuenti.
O che fa il nesci Eccellenza?
E. K.
Esce nel c Supercoralli » il nuovo libro di Natalia Ginzburg:
Lessico famigliare
pp. alt Rilegato L lyoo.
Quartnt’anni di vita italiana e una famiglia indimenticabile sono
al centro di una straordinaria autobiografìa che allinea una gal¬
lerìa di personaggi famosi da Filippo Turati a Cesare Pavese.
Con queste parole la crìtica ha accolto il racconto di Italo Calvino;
La giornata d’uno scrutatore
pp. 97 Rilegato L. looo.
a Un piccolo capolavoro » (Carlo Salinari) che « inaugura un pe¬
rìodo nuovo della narrativa italiana » (Michele Rago) e che « si
innalza sopra quello che Italo Calvino 6nora ha saitto » (Guido
Pioveoe).
Continua il successo dei romanzo dì Leonardo Sciascia:
Il Consiglio d’Egitto
pp. itj Rilegato L laoo.
€ E la bellissima rievocazione di una truffa e di una congiura nel
'700; ma anche la denuncia dì soprusi e di aristocratici privilegi
non ancora scomparsi » (A. Galante Garrone). « Un romanzo che
offre al lettore un contìnuo godimento, dì intelligenza, di fanta¬
sia » (Piero Dallamano). « li racconto ha episodi e pagine stupen¬
dissime, indimenticabili » (Franco Antonicellì).
Giulio Einaudi editore
{
li
PREOCCUPA I VESCOVI
Il cattolico maggiorenne
di ANTONIO JERKOV
L® ELEZIONI del 28 aprile non sono state un suc-
cesso per il Vaticano. I massimi dirigenti della Cu¬
ria Romana hanno visto, per la prima volta, la grande
Maggioranza dei cattolici italiani disubbidire alle diret-
della Chiesa, votando contro le indicazioni del-
Episcopato. La sconfitta elettorale della Chiesa è mag-
8 'ore di quella subita dalla Democrazia Cristiana, che
rimane ancora un partito di maggioranza relativa.
(Altra questione è poi se la DC, a causa della sua
suddittanza verso la Chiesa, rischia, o meno, di di¬
ventare la principale vittima della situazione, do¬
vendo pagare il prezzo ai « partiti laici » per la loro
necessaria collaborazione e nello stesso tempo quello
31 Vescovi, per l’appoggio ottenuto da loro durante
*3 campagna elettorale).
Dalle informazioni che riescono a filtrare attra¬
verso le spesse mura vaticane, risulta comunque
chiaro che i massimi dirigenti della Chiesa hanno
^•sentito il colpo subito e stanno ora pensando come
3ffrontare la nuova situazione. Il problema dell’au-
Mento dei voti comunisti preoccupa infatti il Vati¬
cano molto meno che la disubbidienza mostrata in
generale dagli italiani verso le direttive dei Vescovi.
A prescindere da quella che può essere la nostra va¬
lutazione su l’uno o l’altro partito, occorre infatti
prendere atto che l’elettorato cattolico italiano sta
diventando, seppure lentamente, un elettorato mag-
fiiorenne, che determina il proprio voto politico, non
piu tanto sotto il « diktat » della Chiesa, quanto
Secondo quelli che crede siano i suoi interessi eco-
uomici, le sue simpatie politiche, le sue scelte ideo¬
logiche, senza condizionarle dalla sua coscienza re¬
ligiosa.
^ATURALMENTE i portavoce ecclesiastici, non han¬
no potuto dire queste cose e hanno cercato di tira¬
te in causa un’altra volta lo spauracchio comunista.
L’« Osservatore Romano *, la Radio Vaticana, i « co-
lumnists » dei vari organi curiali hanno ripetuto in
questi giorni, in diversi modi, una sola frase: « Le
cose sono andate male. Non avete voluto dare retta
3lla Chiesa. Non avete voluto ubbidire ai Vescovi e
votare per la DC. Adesso avete l’aumento dei voti
comunisti ». Questa è stata infatti la prima reazione
della Chiesa, reazione evidentemente poco sincera.
Anche dopo queste elezioni politiche, noi non ve¬
diamo la ragione per cui un cittadino avrebbe do¬
vuto votare per la DC, sotto il ricatto deU’aumento
dei voti comunisti.
La verità è, semmai, un’altra. Un certo numero
di elettori, abituato a votare « religiosamente » e de¬
luso finalmente dalla DC, si è orientato verso un
altro voto « religioso », quello comunista, o educato
male dalla propaganda politica religiosa degli ultimi
anni, ha votato per i partiti di destra, invece di orien¬
tarsi verso i partiti autenticamente democratici. Non
sta a noi, almeno in questo momento, indagare a
fondo sulle cause del voto. Desideriamo semplice-
mente accennare, di sfuggita, a qualcuno degli ele¬
menti che meritano una analisi più profonda ed una
meditazione più serena. Perchè, come hanno dovuto
riconoscere in questi giorni, i portavoci delle Curie
Cardinalizie e Vescovili, non tutti i voti perduti dalla
DC sono andati a favore dei liberali o dei socialde¬
mocratici. Almeno una parte di loro è servita per
eleggere i nuovi parlamentari del Partito Comunista.
J^A UN ANNO in qua il Vaticano aveva consentito
all’esperimento della politica di centrosinistra, fa¬
cendo notare tuttavia di continuo le riserve delle varie
Curie Cardinalizie e Vescovili e, tramite la DC, ma¬
novrando questo centrosinistra, in modo da soffocarlo
alla vigilia delle stesse elezioni politiche. E’ chiaro
che questo non ha giovato, sul piano elettorale, ai
partiti di centrosinistra. Più grave è invece il vero
motivo per cui, nel gennaio scorso, si arrivò alla
rottura tra la DC e il PSI. Il pretesto fu la « non
disponibilità democratica » del PSI, e il problema
delle Regioni. Ma prima che si giungesse alia rot¬
tura del gennaio scorso, il giornale della Curia ge¬
novese del cardinale Siri, aveva invitato la DC a
non cedere al PSI sulle regioni, sostenendo che se
queste sarebbero state attuate prima delle elezioni, si
rischiava poi di dover dare al PSI, dopo le elezioni,
altre concessioni. E da una serie di manifestazioni
cattoliche durante il periodo elettorale, si vedeva
chiaramente che la Chiesa voleva tenere in serbo le
regioni, per averle, dopo le elezioni, quale moneta di
scambio con la quale costringere i socialisti e altri
partiti laici ad accettare i finanziamenti statali a fa¬
vore della scuola clericale, ed un inasprimento della
censura dei « pubblici spettacoli ».
Siamo certi che di queste cose si parlerà nelle
prossime settimane tra i partiti c che il problema
della « scuola privata » sarà al centro di tutte le
nostre vicende politiche dei prossimi mesi. Alcuni
anni fa la Chiesa mandò a farsi benedire la demo¬
crazia francese, impedendo un accordo di collabora¬
zione tra i socialisti i Guy Mollet ed i democristiani
del MRP, semplicemente perchè i socialisti non po¬
tevano acconsentire ai finanziamenti statali a favore
della scuola cattolica. Il problema dei contributi dello
Stato alle scuole clericali non fu l’unico, ma fu il
principale motivo della rottura tra i cattolici ed i
socialisti, rottura che portò al potere De Gaulle. Non
a caso, uno dei primi provvedimenti presi dal Ge-
L
19
ncrale fu proprio un accordo con la Chiesa a favore
delle scuole private. Non dimentichiamo questo pre¬
cedente, troppo recente, che da noi si sta ripresen¬
tando in tutta la sua attualità. E’ precisamente qui,
dove stanno limiti, oltre i quali la Chiesa non sem¬
bra disposta a cedere alla politica italiana di cen¬
trosinistra, almeno per quanto riguarda la parteci¬
pazione democristiana in essa.
Di particolare interesse a tal riguardo ci sembra¬
no due brevi note, apparse in questi giorni, sull’or¬
gano della Curia Vescovile di Pisa. Nella prima leg¬
giamo che nonostante la defezione di tanti, « moltis¬
simi cattolici hanno votato DC per puro senso,di di¬
sciplina e di obbedienza ai richiami dell’Episcopato
Italiano e che tali obbedienze costano sacrificio e
superamento di disagio interiore ». Un’altra nota,
dello stesso giornale vescovile, aggiunge che ora i
parlamentari « devono spiegarci il perchè del loro
agire; soprattutto, davanti ad ogni novità che com¬
porta rischi per la soluzione dei problemi che ci sono
più cari, devono rinnovarci tutte quelle garanzie che
ci hanno promesso per avere il nostro voto ». (Vita
Nuova, Pisa, 5 maggio 1963). Sono parole che, cre¬
diamo, non hanno bisogno di alcun commento.
"P’ VERO e lo abbiamo già detto che la Chiesa in que¬
sto momento autorizza la DC a tentare di nuovo
la carta del centrosinistra. Una adesione più sincera
a questa politica sembra quella del Vertice Vaticano,
meno sincera quella delle varie Curie Cardinalizie e
Vescovili, delle numerose diocesi italiane. Salvo ecce¬
zioni, nessuno oggi, nella Chiesa in Italia, si oppone
aprioristicamente al centrosinistra, ma si cerca di
condizionarlo, di neutralizzarlo, di scolorarlo. Come
altrimenti si potrebbe spiegare la pressione esercitata
in questi giorni dall’organo genovese del cardinale
Giuseppe Siri, dove si sostiene che in fin dei conti dei
socialisti non c’è da fidarsi, e che comunque non
occore attendere il congresso del PSI per formare un
nuovo governo stabile e operante? Occorre fare il
governo prima, perchè, secondo il giornale cardinali-
zio, « le dichiarazioni di Lombardi... e di Nenni...
non sono incoraggianti. Già ora, senza attendere il
Congresso, i socialisti dettano la via da seguire e le
condizioni da realizzare. Che avverrà quando questo
atteggiamento sarà sancito dal Congresso? » (Il Nuo¬
vo Cittadino, Genova, 9 maggio 1963).
Secondo lo stesso organo curiale, la DC deve se¬
guire una « animazione politico-morale, veramente di
spiritualismo sociale cristiano; perchè la riduzione di
tutta la politica all’economia è già un dato marxi¬
stico » (7 maggio 1963). La DC, comunque, non
deve subire la politica del PSI: « Perchè? E’ forse
il PSI l’arbitro della situazione politica in Italia?
Fra l’altro non è neanche riuscito a vincere qualcosa
nelle elezioni. Né ci sembra logico che la DC debba,
anche in quest’ora indubbiamente bisognosa di forza
politica e morale, bisognosa di fiducia, dare l’impres¬
sione che « accede » ( non diciamo che « cede » ) alle
tesi care a Nenni. Se gli sono care vuol dire che gli
giovano. Perchè la guida politica della Nazione do¬
vrebbe assumere come criterio ciò che giova al PSI? »
(8 maggio 1963). Come se una politica di centrosi¬
nistra si potesse fare, solo se utile alla DC, e magari
dannosa agli altri partiti democratici.
^RA I VARI giornali cardinalizi e curiali abbiamo
^ scelto questo organo del cardinale Siri, dato che
l’Arcivescovo di Genova è presidente della Conferenza
Episcopale Italiana, ma anche perchè il suo giornale
è stato particolarmente chiaro nell’illustrare l’atteg¬
giamento di una autorevole parte del vertice eccle¬
siastico italiano, verso la politica di centrosinistra c
verso l’incontro tra i cattolici ed i socialisti. Tale
politica va bene se essa serve alla DC (e per l’inter¬
posta persona alia Chiesa ) per agganciare alla propria
locomotrice, il vagone socialista e quello laico. Va
invece molto meno bene, o non va bene affatto, ^
dovesse succedere il contrario. A prescindere da
quello che possono essere, e che sono, i nuovi orien¬
tamenti generali dell’attuale Pontificato, per la mag¬
gioranza dei vescovi italiani, il centrosinistra è una
amara necessità, oggi più forte che ieri, anche a causa
dei risultati delle ultime elezioni. Lo spauracchio co¬
munista obbliga questi dirigenti della Chiesa a per¬
mettere alla DC quei contatti col PSI, che a lungo
andare offrono le speranze alla Chiesa per il dornani,
e che in ultima linea dovrebbero rendere delinitiva
la, già esistente, rottura politica tra i comunisti ed
i socialisti e in un prossimo domani estenderla anche
negli altri campi, compreso quello sindacale, con tutte
le conseguenze politiche ed economiche, che essa com¬
porta. E’ una politica « riformista » che sul piano
delle finalità sociali ed economiche, ricorda così da
vicino le parole del Principe nel « Gattopardo »:
« Bisogna cambiare qualche cosa, perchè tutto resti
come prima! ».
T A SITUAZIONE postelettorale italiana, forse più dj
^ quella preelettorale, pone un’altra volta ancora il
problema della vera autonomia politica dei cattolici, ri¬
spetto alla Chiesa. La questione è attuale soprat¬
tutto nel momento in cui i vescovi presenteranno agli
eletti e al governo della DC il conto da pagare,
per l’appoggio ad essi dato. Ecco perchè, nel periodo
elettorale, fummo tra quanti alzavano la loro voce,
non per ottenere i voti dei cattolici, a favore di uno
o deU’altro partito, ma per rivendicare per i cittadini
credenti la loro libertà e la loto autonoma scelta,
politica ed elettorale. Tra quanti avevano condiviso,
nelle ultime settimane, su questo problema, le posi¬
zioni vicine o identiche alle nostre, ci piace soprat¬
tutto ricordare un editoriale di Pasquale Bandiera,
apparso su « La Voce Repubblicana » c ove leggem¬
mo le parole, valide o^i come ieri: « Non si tratta
di concorrete alla divisione della torta del voto cat¬
tolico, fornendo assicurazioni di legittima discendenza
cristiana, ma di negare, come principio, la legittimità
politica di un voto cattolico... ».
Questo problema è oggi più aperto e più urgente
di quanto lo fosse ieri. E’ un problema che ci tocca
tutti da vicino, perchè dalla sua positiva soluzione
(c noi la vediamo proprio nei termini indicati dal¬
l’editoriale della « Voce ») dipende la democrazia
in Italia.
ANTONIO JERKOV
20
/ baroni del cemento (li)
Gli emuli di Barnum
Il concentramento della produzione, la protezione doganale,
le concessioni di acque pubbliche, i contratti privilegiati per
l’energia, le intese monopolistiche e la benevola comprensione
del CIP consentono da molto tempo di realizzare enormi so¬
praprofitti alle imprese più grandi nei settore dei cemento.
di ERISESTO ROSSI
pER sostenere che non esiste, nel settore del ce¬
mento, alcuna struttura monopolistica, la nota
industriale” del 12 aprile scorso — che mi ha of¬
ferto l’occasione di tornare a parlare delle operazioni
predatorie compiute dai Grandi Baroni — afferma
che i prezzi del cemento sono in Italia i piu bassi
tra i sei Paesi del MEC e tra i più bassi dell’Europa
e. subito dopo, in appoggio alla tesi che l’incidenza
del prezzo del cemento non costituisce alcuna re-
niora alle costruzioni edilizie ed alle opere pubbliche,
afferma che i prezzi italiani del cemento ”sono i
più bassi d’Europa
” Ogni secondo nasce un babbeo ”, era il motto
preferito di Barnum, il famoso re degli imbroglioni
americani, impresario del più grande museo del mondo
di fenomeni viventi. Soltanto dei babbei possono non
rilevare la differenza fra le due asserzioni, a distanza
di poche righe l’una dall’altra, nello stesso comunicato.
Ma neppure la prima affermazione corrisponde
alla verità. In una tabella di Vindustrie du cement
Europe, pubblicata dall’OECE nel luglio 1962, si
leggono i seguenti prezzi in dollari (di una tonnel¬
lata di cemento Portland qualità corrente, allo sta¬
bilimento, non compreso l’imballaggio ed escluse le
imposte), superiori in Italia ai prezzi della Francia,
che fa pure parte del MEC:
Fine
Fine
Fine
Fine
1958
1959
1960
1961
Italia
12,88
12,30
12,30
11,25
Francia
11,67
10,69
10,69
10,69
Si deve, però, osservare che anche queste sono
cifre non comparabili, in quanto ” non sono state
sempre stabilite — avverte la pubblicazione del-
l’OEClE — su basi identiche” (1). E fuori dalle
statistiche dell’OECE non se ne conoscono altre che
ci consentano di confrontare i prezzi del cemento
nei diversi paesi dell’Europa.
Nella relazione alla Commissione parlamentare di
inchiesta — da me criticata sull’ultimo numero del-
\'Astrolabio — anche il prof. Alberti, dopo ^yet
detto che aveva tentato di rendere comparabili i
prezzi del cemento senza raggiungere risultati sod¬
disfacenti, ha auspicato che l’OECE ” facesse una
indagine particolareggiata per presentare dei prèzzi
omogenei, cioè confrontabili fra di loro .
D’altra parte, se anche si riuscisse ad ottenere
dei dati omogenei (tenendo conto delle diverse qualità
di cemento che compongono le medie e delle^ dif¬
ferenze nei gravami tributari, nelle tariffe ferroviarie,
ecc.), il confronto fra i prezzi di vendita non ci da¬
rebbe alcun elemento di giudizio sull’altezza relativa
dei profitti italiani, perché alcuni dei fattori che più
influiscono sul costo di produzione del cemento ri¬
sultano molto differenti passando dall’uno all’altro '
paese: disponibilità di marne delle varie qualità;
ubicazione delle cave in confronto ai mercati di sboc¬
co; canoni per lo sfruttamento delle cave; contributi
dello Stato per la costruzione degli impianti (2); costo
del denaro a lungo termine; salari e oneri p>er la si¬
curezza sociale; prezzo del carburante e della energia
elettrica.
Energia sotto costo
(Conviene soffermarci un poco su quest’ultimo
elemento del costo, perché le condizioni di particolare
favore alle quali la Italcementi, la * Unione Cementi
Marchino » e la « Calce e Cementi di Segni * hanno
fin’ora ottenuto l’energia è stato uno dei principali
fattori del loro straordinario sviluppo e dei loro ec¬
cezionali sopraprofitti.
Nello studio su ” Il progresso tecnologico nel-
1
k
21
rindustria italiana del cemento ”, già citato nel mio
precedente articolo, Cesareni e Cova hanno calcolato
che, negli impianti con una capacità produttiva in¬
torno a 500 mila tonnellate, il prezzo dell’energia
elettrica ha una incidenza di circa il 24% sul costo
complessivo di produzione (mentre la mano d’opera
avrebbe una incidenza deir8%).
In confronto alle loro concorrenti, le tre mag¬
giori società cementiere — e, in special modo, la
Italcementi — si sono trovate in una posizione di
enorme privilegio perché hanno ottenuto dallo Stato
la concessione di sfruttare quasi gratuitamente i mi¬
gliori corsi di acque pubbliche, costruendo degli
impianti idroelettrici, o cedendo le concessioni a
•ocietà elettrocommerciali, in cambio di contratti a
lunghissimo termine di fornitura di energia a prezzi
bassissimi: in molti casi a prezzi anche inferiori al
luo costo di produzione. Questi contratti, conclusi
per la maggior parte nell’anteguerra non sono stati
neppure allineati alle svalutazioni della moneta e, in
conseguenza, hanno costituito un onere pesantissimo
per le società elettrocommerciali, specialmente per
quelle controllate dall’IRI.
Non sono riuscito ad ottenere alcun ragguaglio
preciso su tale argomento. Quando, l’anno scorso,
i nostri deputati hanno discusso per parecchie set¬
timane sulla nazionalizzazione dell’industria elettrica,
nessuno di loro — che io mi sappia, — ha domandato
al governo quanta energia idroelettrica veniva pro¬
dotta e direttamente consumata da ogni autoprodut-
torc, i cui impianti avrebbero dovuto essere esclusi
daH’esproprio, e quanta energia, ed a quale prezzo,
i maggiori gruppi industriali avevano ottenuto fin’al-
lora (e, se veniva approvato, come è poi stato
approvato, il disegno di legge ministeriale, avreb¬
bero continuato ad ottenere) in virtù dei vecchi
contratti privilegiati, conservati in vigore.
Una protezione scandalosa
&)sl nessuno sa quante decine di miliardi, con
la nazionalizzazione dell’industria elettrica, sono stati
regalati all’Italcementi (e quanti alla Fiat, alla Mon¬
tecatini, alla Edison, alla Falck, alla Pirelli e alle
altre società grandi consumatrici di energia) (3). Se
lo sapessimo ci potremmo, forse, fare un’idea su
quella che è stata una delle principali fonti di finan¬
ziamento dei partiti, per l’ultima campagna elettorale.
Il 19 dicembre scorso la Commissione parla¬
mentare antitrust interrogò l’ing. Carlo Pesenti, am¬
ministratore delegato della Italcementi. Il resoconto
stenografico di questo interrogatorio non è stato an¬
cora pubblicato, mentre sono già pubblicati gli in¬
terrogatori del dr. Valletta (della Fiat), dell’ing.
Giustiniani (della Montecatini), del dr. Pirelli c
di altri dirigenti dei maggiori gruppi industriali ita¬
liani. Pare che il presidente della Commissione, on.
Mario Dosi, per compiacere l’ing. Pesenti, abbia de¬
ciso di tener segreto il suo interrogatorio, conside¬
randolo ” non conoscitivo E’ un peccato perché
la relazione a stampa, distribuita dall’Italcementi alla
assemblea^ ordinaria del 23 aprile scorso, dopo aver
ricordato tale interrogatorio e le successive precisa¬
zioni scritte presentate dall’ing. Pesenti in risposta
ai quesiti che la Commissione gli aveva posto, af¬
ferma:
L’interrogatorio di Pesenti
"Siamo convinti che gli elementi raccolti dallo
Commissione varranno a confermare che nel settore
cementifero italiano non esistono situazioni di mo¬
nopolio 0 comunque limitatrici alla concorrenza e si
è ben lungi dal riscontrare elementi che possano far
ritenere esista la posizione di azienda dominante: anzi,
ovunque la concorrenza è vivace e battagliera
La gallina che canta ha fatto l’uovo.
Poiché fra gli elementi raccolti dalla Commis¬
sione c’è pure l’interrogatorio del sottoscritto (g'à
reso pubblico perché considerato ” conoscitivo ” ) sarei
veramente curioso di sapere su quale fondamento l’ing-
Pesenti basa questa sua convinzione.
Durante il mio interrogatorio ho esposto le cifre,
già pubblicate sull’ultimo numero deWAstrolabio, pc^
dimostrare che nel settore del cemento vigono ancora
le intese monop)olistiche che erano apertamente di¬
chiarate, quali norme del consorzio nazionale, durante
il regime fascista, e per dimostrare anche che 1®
Italcementi e le altre due maggiori società produttrici
di cemento hanno una ” posizione dominante ” tale
da escludere ogni possibilità di effettiva concorrenza.
Alla Commissione parlamentare io ho spiegato anche
che la politica monopolistica delle tre società era
stata sempre particolarmente favorita dalla protezione
doganale.
Il dazio sul cemento, che nella tariffa doganale del
1950 era segnato nella scandalosa percentuale del 2594
ad valorem, è stato ridotto più volte; ma dall’ultima
relazione dell’AITEC risulta che, al principio del
1962, esso era ancora del 9,60% ad valorem per
il cemento proveniente dai paesi del MEC, e del
13,10% per quello proveniente dagli altri paesi. La
importazione era inoltre assoggettata ad un prelievo
del 3,50% per ”diritto compensativo” (così si
chiamano le addizionali ai dazi doganali per far finta
di rispettare i regolamenti del MEC, liberalizzatoti
degli scambi internazionali), ed a ” diritto di stati¬
stica e amministrativi ” ( altre addizionali ai dazi,
inventati dalla fervida fantasia del nostri burocrati)
di circa l’l% (4).
Per effetto della protezione doganale le impor¬
tazioni del cemento sono state ridotte a quantità
insignificante, anche durante il periodo in cui il
t2
nostro paese ne av’rebbe avuto maggiore bisogno. .
^co le cifre per gli ultimi cinque anni (al netto dalle
iniportazioni temporanee ) ;
Anno
Produzione
milioni tonn.
Importazioni
migliaia tonn. milioni lire
1958
12,83
48
847
1959
14,22
56
803
1960
15,85
50
787
1961
17,99
93
1169
1962
20,21
112
1219
Queste importazioni sono costituite quasi esclusi¬
vamente da qualità speciali non prodotte in Italia.
La protezione doganale sul cemento è uno^^ dei
privilegi più antisociali concessi dal governo ai pa¬
droni del vapore ”, perché questo prodotto è un ele-
niento d’importanza fondamentale per migliorare gli
®^^®88Ì c per la costruzione di tutte le infrastrutture
necessarie allo sviluppo dell’economia nazionale. Se
si fosse valuto veramente combattere il monopolio
del cemento, oltre ad abolire completamente il dazio
doganale e qualsiasi altro ostacolo all importazione,
si sarebbe dovuto stimolare il più possibile la con¬
correnza dall’estero, ribassando le tariffe per i tra¬
sporti ferroviari e marittimi.
Ma la Italcementi è una delle società italiane più
intimamente legata alla finanza della Santa Sede, ed
offendere, sia pure indirettamente, gli interessi fi¬
nanziari di Vaticano è, per tutti i democristiani, un
peccato mortale anche più grave che offendere lo
Spirito Santo.
Parla il prof. De Maria
Nella relazione sull’esercizio 1960, l’organizzazio¬
ne di categoria dei cementieri, AITEC, ha affermato
che ”il controllo del CIP sui prezzi esclude di per
sé la possibilità di vendite monopolistiche ”.
Alla domanda rivoltami su questo argomento dal¬
la Commissione parlamentare antitrust io ho risposto
press’a poco le stesse cose che aveva dette il prof.
Giovanni De Maria nell’interrogatorio del 13 dicem¬
bre (che io allora non conoscevo).
Preferisco, perciò, riportare le sue parole, che
possono avere maggiore autorità delle mie. Il prof.
De Maria è accademico dei Lincei ed ordinario di
economia politica alla università Bocconi, di cui è
stato anche per diversi anni Rettore magnico.
Dopo aver confermato, nel modo più deciso, che
nel settore del cemento sono ancora in vigore degli
accordi tra i produttori per limitare la concorrenza,
il prof. De Maria ha dichiarato che — nonostante
tutte le accurate ricerche che aveva fatto lui stesso
ed aveva fatto fare da altre persone — non era riu¬
scito ad ottenere adeguate informazioni sul prezzo
del cemento.
" L’Istituto Centrale di Statistica — ha dichia¬
rato — è assolutamente carente a questo riguardo.
Esso dà un indice nazionale che è veramente allegro,
per non dire di più. Come mai l’Istituto non è at¬
trezzato per fornire dati precisi, non dico per città,
ma per province o quanto meno per regioni?
Domanda indiscreta, alla quale non credo sia
possibile rispondere senza chiamare in ballo i gruppi
che hanno interesse a non far risultare che i prezzi
del cemento sono molto più elevati nelle province in
cui opera la Cassa del Mezzogiorno che nelle altre
province.
” Neppure i giornali di natura finanziaria — ha
anche detto il prof. De Maria — rispondono a queste
esigenze, perché, pur fornendo prezzi di beni di con¬
sumo e di beni capitali di peso assolutamente trascu¬
rabile nell’economia nazionale, non danno mai i prezzi
relativi al cemento. E’ vero che il presidente della
associazione [dei cementieri] venne un giorno da
me e mise a mia disposizione una certa quantità di
materiale statistico; però questo materiale risultò al¬
l’esame molto povero. La mia domanda sui prezzi
del cemento in questi ultimi dieci anni, non in rife¬
rimento a località generali, ma a località circoscritte,
non trovò alcuna risposta
I ])r»*zzi <lel CIP
Parlando poi dei prezzi stabiliti dal Comitato In¬
terministeriale Prezzi (CIP), il prof. De Maria ha
insistito sulla necessità di organizzare uffici statali
capaci di esercitare un controllo autonomo sui costi
di produzione.
” Ritengo che la politica dei prezzi da parte del
CIP e degli altri organi dell’amministrazione pub-
hlica — egli ha affermato — sia basata essenzial¬
mente su dati forniti dalle parti interessate. A questo
riguardo, si possono anche fare delle considerazioni
veramente gravi, se si pensa che la stessa amministra¬
zione dà alle volte dovizia di informazioni statistiche
di importanza assolutamente trascurabile. [...]. Per
quale motivo si eccede in certi campi e in altri, in¬
vece, esiste il buio più completo? Per quale motivo,
tutti gli atti ed i verbali e la documentazione del CIP
non vengono prodotte in cancelleria (ammesso che
esista una cancelleria), e non sono messi a disposi¬
zione del pubblico? Perché non circola un bollettino
di informazione su questi fatti? Perché non si pro¬
cede ad un deposito regolare in cancelleria, né più
né meno di come avviene nei tribunali, dove, in
fondo, si tratta di fatti particolari, relativi a due soli
contendenti, mentre qui i contendenti sono in numero
molto maggiore: cioè sono, da una parte, gli indu¬
striali e, dall’altra, la nazione tutta, che avrebbe il
diritto di essere informata? ”.
Altre domande indiscrete, alle quali — sempre
per la stessa ragione — si può essere sicuri che nes¬
suno darà mai una risposta.
La verità è che la fissazione dei prezzi da parte
del CIP non impedisce ai Grandi Baroni del ce-
23
mento di sfruttare il mercato nazipnale come meglio
credono.
A partire dalla fine della guerra, fino al 1955, il
rapidissimo aumento del consumo del cemento (de¬
terminato dall’aumento dei lavori pubblici e dalle
costruzioni edilizie sovvenzionate dallo Stato) non
aveva corrisposto ad un proporzionale incremento
della capacità produttiva degli impianti. Dato che la
costruzione di nuove unità produttrici richiede dai tre
ai quattro anni, l’offerta di cemento, ai prezzi stabi¬
liti dal CIP (remunerativi anche per le piccolissime
imprese, peggio attrezzate) non era sufficiente a co¬
prire completamente la domanda. Gli industriali pro¬
fittarono di tale congiuntura per vendere il cemento
anche al doppio del prezzo ufficiale, caricandolo di
quote di gran lunga superiori ai reali costi per gli
imballaggi; aggiungendo elevatissime spese di tra¬
sporto, nelle zone in cui la domanda era cresciuta
di piu, come se avessero dovuto far arrivare il ce¬
mento dagli stabilimenti più lontani anche quando
lo producevano sul luogo; costituendo delle società
commerciali che compravano il cemento dalla società
madre ai prezzi stabiliti dal CIP per rivenderlo a
prezzi enormemente maggiorati.
Il CIP alleato dei Grandi Baroni
I prezzi del CIP funzionarono, in questo primo
periodo, soltanto da limiti inferiori, per impedire la
” concorrenza rovinosa ”, cosi come avevano funzio¬
nato i prezzi stabiliti dal ” consorzio ” durante il
regime fascista.
Dopo il 1955 l’aumento della produttività dei ce¬
mentifici (dovuta alla costruzione di impianti gran¬
dissimi, alla introduzione di perfezionamenti tecnici
ed alla progressiva riduzione del prezzo dell’olio com¬
bustibile) ha profondamente modificato la situazione:
per poter aumentare sempre più le dimensioni delle
unità produttive era necessario far crescere la do¬
manda del cemento negli impieghi tradizionali e ren¬
derne conveniente l’impiego in nuovi usi. Le maggiori
società hanno, perciò, ribassato i prezzi al di sotto
dei prezzi stabiliti dal CIP.
E’ probabile che le imprese più antieconomiche
siano state compensate — come avviene spesso, in
questi casi, all’interno delle organizzazioni cartellistiche
— attraverso una cassa di conguaglio, dalle imprese
più grandi e meglio attrezzate, delle perdite che hanno
subito per le vendite a prezzi inferiori ai prezzi
ufficiali, e che tali compensi siano stati calcolati sulla
quota della produzione complessiva alla quale ognuna
di esse aveva diritto, in base alle intese concluse al
momento in cui era entrata a far parte del cartello.
Dopo l’abolizione legale del ” consorzio ” fascista,
nessuno può conoscere le clausole di queste intese,
neppure rivolgendosi alla Cementir o alle altre so¬
cietà produttrici di cemento, controllate dallo Stato.
Ma questa ipotesi mi sembra suffragata dalla os¬
servazione che, durante gli ultimi dieci anni,
nonostante il progressivo incremento degli investi¬
menti in impianti sempre più efficienti, la utilizza¬
zione della capacità produttiva di tutto il settore
è stata quasi continuamente superiore al 90% i ®
che nel 1960 esistevano ancora 56 imprese (cioè
r80% del numero complessivo) che producevano, in
media, meno deiri% della produzione complessiva,
arrivando tutte quante insieme a produrre solo il
19,23% del totale. Devono, quindi, aver lavorato a
pieno ritmo anche le imprese minuscole, dotate dei
macchinari più antiquati.
Perfino nella relazione Alberti viene riconosciuto
che le riduzioni di prezzi, disposte dal CIP, ” non
fanno altro che sanzionare con ritardo quanto si e
già verificato sul mercato nazionale ”.
Possiamo, quindi, su questo punto concludere che,
negli anni di carestia deH’immediato dopoguerra, il
CIP non ha fatto niente per imporre agli industriali
i prezzi di calmiere, mentre negli anni successivi ha
mantenuto spesso per lungo tempo, nei suoi listini,
dei prezzi massimi superiori a quelli vigenti sul mer¬
cato. Ma i Grandi Baroni del cemento non sembrano
ancora soddisfatti di questa ” leale collaborazione ’’
del CIP. Prendendo in esame le ultime riduzioni
di prezzi stabilite dal CIP il 5 aprile 1961, il prof.
Alberti ha scritto:
"Contro quest’ultimo provvedimento — che, se
è vero che non è che il riconoscimento di una situa¬
zione di fatto, non di meno restringe, a danno delle
imprese, il campo di variazione del prezzo, qualora
la situazione congiunturale dovesse variare — la As¬
sociazione Italiana Tecnico Economica del Cemento
ha osservato che la riduzione del prezzo danneggiti
particolarmente gli imprenditori medi e piccoli che
traggono i mezzi finanziari per le proprie imprese
soltanto dal cemento e dal credito personale, acqui¬
sito attraverso il lavoro tenace ed intelligente di in¬
tere generazioni
” Il rilievo è esatto ” — ha commentato il rela¬
tore ufficiale alla Commissione parlamentare antitrust.
Esatto un corno. La generosa difesa dei diritti
delle imprese nanerottole da parte dei Grandi Baroni
mette ben in luce quale funzione questi signori vo¬
gliono riservare agli interventi del CIP.
Insufficienze tecniche
Producendo con i sistemi ed i macchinari più
antiquati, le imprese nanerottole mettono in vendita
cementi di cattiva qualità, che i costruttori senza scru¬
poli preferiscono al cemento più caro, con le deleterie
conseguenze che tutti possiamo spesso constatare.
La produzione dei leganti idraulici viene in Italia,
come negli altri paesi, regolata da norme per unificare
le caratteristiche dei prodotti e per sottoporli a prove,
che dovrebbero costituire un obbligo inderogabile pet
gli industriali e per i consumatori. Ma in Italia queste
norme valgono meno di niente, e sono applicate sol¬
tanto per ridere.
" Le nostre norme risalgono al 1 939 — osser¬
vano Cesareni e Cova nel citato studio del 1960 — e
rispecchiano sotto l’aspetto tecnologico e sotto quello
24
^applicativo la situazione tecnica del periodo intorno
Mentre si attende ormai da tempo l ema¬
nazione della legge che dia la sanzione ufficiale alla
npera di un’apposita commissione (che si è, però,
limitata ad apportare alcune modifiche non sostanziali^
ni vecchio testo), va posto in evidenza che non vi è
nlcun paese straniero che non abbia operato nel dopo¬
guerra almeno una revisione delle norme sui cementi,
e che praticamente nei paesi più progrediti le ultime
norme portano la data recentissima del 1958
Passa un anno, passa l’altro, ed il disegno di
^88e ministeriale, già superatissimo in confronto agli
gitimi progressi della tecnica, non arriva in p>orto,
probabilmente — ha scritto nella sua relazione il
Pfof. Alberti — perché alcune medie e piccole im¬
prese premono sul potere esecutivo in senso con¬
trario
Ultimamente l’organizzazione di categoria dei
■t}entieri ha proposto al Ministero di assumersi um-
rialmente il compito di controllare la qualità del ce-
triento messo in vendita dalle diverse imprese.
” Certamente il controllo della categoria sarebbe
efficace — ha aifermato il prof. Alberti, dopo aver
dato questa notizia — perchè la parte piu sana di
essa ha interesse ad eliminare dal mercato le qualità
^Cadenti con cui le imprese meno attrezzate cercano
di sostenere la concorrenza. Se ciò avvenisse, inevi-
Nubilmente la stessa categoria troverebbe modo di
eliminare gradatamente gli stabilimenti non suscet-
Nibili di rimodernamento
Soluzione ” squisitamente corporativa ”, si sa¬
rebbe detto sotto il regime.
Costruzioni imperiali
Se il CIP facesse scendere il prezzo del cemento
fino all’altezza sufficiente a coprire i costi degli sta¬
bilimenti che producono più di 100.000 tonnellate,
farebbe in breve tempo scomparire senza alcun bisogno
di affidare alle organizzazioni private delle funzioni
Pubbliche tutti i piccoli stabilimenti non suscettibili'
di rimodernamento, che, avendo una anzianità più
che ventennale, devono essere tutti già compieta-
mente ammortizzati.
Nei paesi più progrediti — spiegano Cesareni e
Cova — non si concepiscono prove ufficiali sui ce¬
menti che non siano completate dalle prescritte de¬
terminazioni chimiche, c da molto tempo sono adot¬
tati dei metodi di prova che riproducono in labora¬
torio le condizioni pratiche di impiego, specie per
ciò che riguarda acqua di impasto e mezzi di confe¬
zione. Nel nostro paese, invece, ” le determinazioni
chimiche non sono obbligatorie ed è assai raro che
nella pratica comune si ricorra a tali accertamenti
«In Italia siamo rimasti ancorati al sorpassato
sistema della malta con consistenza di terra umida
da confezionare in provini cubici sottoposti all'azione
di compattamento di caduta determinati. Con tale
metodo, oltre ad ottenere dei risultati con valori as¬
soluti che nulla hanno a che vedere con la realtà
pratica del calcestruzzo, si falsa spesso la graduatoria
effettiva di qualità dei diversi leganti ”.
Non dobbiamo, perciò, stupirci se tante moder¬
nissime costruzioni — edifìci, dighe, argini, ponti,
— crollano p)oco tempo dojx) che sono state inau¬
gurate, o debbano essere continuamente riparate o
riconosciute inutilizzabili.
Vicino alla mia abitazione vedo ogni giorno uno
dei maggiori fra questi monumenti alla pubblica
insipienza ed alla camorra nazionale: il ponte Flaminio;
ponte imperiale, infarcito di fari, di colonne, di aqui¬
le, di lupe con relativi Romolini, terminato dopo la
guerra e chiuso al traffico da un paio di anni perché
ha ceduto un pilone. Il Comune di Roma niente fa
per ripararlo, forse perchè, a confronto col ponte
Mollo, di semplici mattoni, che da non so quanti
secoli traversa il Tevere a poche centinaia di metri
di distanza, all’ingresso nella capitale può ben servire
come reclame, anche nei confronti degli stranieri, per i
costruttori edili italiani.
ERNESTO ROSSI
(Continua)
(1) Mette il conto di notare che. fra 1 15 paesi
europei di cui la pubblicazione dell’OECE porta i
prezzi, la Spagna risulterebbe il paese col prezzo
del cemento più basso: alla fine del 1960 e del 1961
dollari 8.68 cioè quasi la metà dei prezzi rilevati alla
stessa data per l’Inghilterra di dollari 15,16 e 13.98.
(2) Non sono riuscito a sapere quali e quanti finan¬
ziamenti a condizioni di favore (ERP, BIRS, Cassa del
Mezzogiorno, ecc.) e quali contributi (da parte dello
Stato, della Regione Siciliana, della Regione Sarda,
ecc.) sono stati concessi ai cementieri per la costruzio¬
ne de' loro impianti.
(3) La relazione della Italcementi sul bilancio
del 1962. pubblicata sui giornali del 24 aprile, rileva
che € la società possiede impianti elettrici, da con¬
siderare complementari aU'attività industriale ».
€ 11 consumo di energia del Gruppo nel 1962 —
si legge nella relazione — è stato di 625 milioni di
kwh. Ai terzi sono stati venduti 61.6 milioni di kwh,
pari al 19,4% del prodotto. Pertanto gli impianti
elettrici della Italcementi sono esclusi dalla nazio¬
nalizzazione ».
Se 61.6 milioni di kwh rappresentano il 19,4%'
della energia elettrica prodotta, la produzione com¬
plessiva. durante il 1962, deve essere stata di 317
milioni di kwh. Moltiplicando questi kwh per il
prezzo medio di L. 7,7 il kwh, praticato finora dalle
società elettrocommerciali per le forniture alle mag¬
giori società industriali, si ottiene L. 2 miliardi e
440 milioni. E' da ritenere che tutta l'energia pro¬
dotta dal gruppo dell’ltalcementi provenga da cen¬
trali idroelettriche, le quali sfruttano quasi gratuita¬
mente un bene (acque pubbliche), che dovrebbe essere
impiegato a beneficio dell'intera collettività. Se que¬
sta ipotesi corrisponde ai fatti, escludendo dalla na¬
zionalizzazione gli impianti idroelettrici della Ital-
cementi (che dovevano essere da molto tempo del
tutto ammortizzati) sono stati regalati alla società
alcune diecine di miliardi. E molto probabilmente
altre diecine di miliardi le sono stati regalati obbli¬
gando l'ENEL a continuare le forniture di energia
ai prezzi stabiliti nei vecchi contratti privilegiati.
(4) Dalla relazione a stampa della Italcementi
sull'uitimo esercizio risulta che questo dazio, nell'am¬
bito del MEC, nel 1962 ha poi subito altre due ridu¬
zioni: dal 28 agosto 1962 è del 7,20%. € Malgrado
questo — conferma la stessa relazione — le impor¬
tazioni di cemento estero si sono limitate a mode-
stisèimi quantitativi di provenienza francese ».
25
Formule e fatti
ARTLRO CARLO JEMOLO
lare di centro-sinistra vuoi con l’aggiunta ” ri¬
pulito ” o senza tale aggiunta; perché dietro quella
formula si possono avere realtà le più diverse, ed
è su questo che troppo poco s’insiste.
Almeno II centro è il titolo di un settimanale emi¬
nentemente di Sceiba e Concila, che esprime con
sufficiente chiarezza un programma, ripartendo equa¬
mente le sue direttive al Papa (bisogna ricordare
ogni giorno che c’è la scornunica per chi vota comu¬
nista; il cardinale Mindszenty deve restare a Buda
pest) ed allo Stato italiano.-
Ma quando si parla di centro-sinistra, con o senza
il partito socialista, restano incerte troppe prospettive.
Il governo Fanfani ha recato un miglioramento
visibile almeno in un punto, l’opera della p>olizia;
non si sono avuti sotto questo governo episodi come
quelli di Modena e di Reggio Emilia e di porta
S. Paolo a Roma (naturalmente non si possono ope¬
rare miracoli, e per la polizia gli antifascisti reste¬
ranno sempre i sovversivi, ed i fascisti i buoni
italiani).
Ma il consenso originario per la nazionalizzazione
dell’industria elettrica si è andato intiepidendo,
quando si è visto il consueto patteggiamento per la
distribuzione dei posti tra i partiti allorché si è
trattato di nominare il consiglio di amministrazione
del nuovo ente, e si è sentito di una specie di
foyeuse entrée: aumento indiscriminato di salari e
stipendi a tutti i dipendenti alla vigilia delle elezioni,
attribuzioni di compensi inusati ai consiglieri di am¬
ministrazione. Se i prezzi della energia elettrica do¬
vessero aumentare in misura assoluta (cioè indipcn
dentemente dalla diminuzione del potere di acquisto
della lira) quel consenso diverrebbe dissenso. Al¬
meno per chi parte dal concetto che le nazionaliz¬
zazioni debbono compiersi quando lo Stato sa tenere
saldamente in mano le leve del comando, e trovare
amministratori e funzionari che abbiano la devozione
al pubblico bene.
^ENTRO sinistra; cioè partiti diversi dalla Democra¬
zia cristiana e con una connotazione di sinistra,
che collaborino con essa, meglio se direttamente
nelle funzioni di governo, comunque appoggiando il
Ministero in carica.
Si, ma se questa collaborazione è sterile, allori
meglio vale che i partiti di sinistra restino alla op¬
posizione.
Quando guardo alle coalizioni governative dal
maggio ’47 (quarto ministero De Gasperi) fino al¬
l’avvento dell’ultimo ministero Fanfani mi chiedo
sempre cosa abbiano ottenuto i collaboratori di si¬
nistra. Ho l’impressione che essi abbiano battuto le
orme di quegli uomini d’ordine, vecchi liberali o
magari vecchi radicali, che durante il fascismo, guar¬
dando Mussolini, usavano dire: — non lasciamolo
solo; stiamo nel partito, se possibile nei Ministeri;
non abbandoniamolo ai suoi scalmanati; qualche piiz"
zia gliela eviteremo —; e non ne evitarono poi
nessuna.
Amerei conoscere quali siano stati i provvedi
menti, i disegni di legge che ministri della Demo¬
crazia cristiana approntarono e che furono arrestati
dalla opposizione di social-democratici o repubbli¬
cani. Ce ne saranno stati (e gioverebbe a questi
partiti incaricare qualcuno di scrivere un libro volto
a mostrare l’efficacia della loro opera di affianca-
mento), ma come tonalità generale di governo non
credo che nessuno abbia percepito mutamenti sen¬
sibili tra i periodi in cui la Democrazia cristiana
ebbe alleati e quelli in cui governò da sola.
Ad ogni modo per guardare all’avvenire, ecco
quel che amerei sapere anziché trastullarmi con le
formule.
J\’ POLITICA generale: s’intende seguire il sistema
attuale, di non dare mai soddisfazione al cittadino
di fronte all’Amministrazione, di non ammettere mai
nella rispiosta ad una interrogazione parlamentare, in
un comunicato al pubblico, che un funzionario ha
sbagliato, che un certo provvedimento era intem¬
pestivo, che una certa misura era vessatoria? seguire
il sistema delle note caratteristiche per cui su mille
dipendenti ce ne sono tre mediocri c nessuno cat¬
tivo? S’intende fare qualcosa per arginare la corru¬
zione nella cosa pubblica, il sistema delle bustarelle?
(e molto si può fare: cominciando dalla misura
pilota dell’obbligo di ogni dipendente dello Stato
c di enti pubblici di denunciare in corso d’impiego
tutti oli incrementi patrimoniali suoi, del coniuge,
dei tigli che non abbiano raggiunto i ventisei anni)-
Le elezioni hanno mostrato che le insofferenze
del popolo su questi punti vanno sempre crescendo;
si vuole continuare a non tenerne conto?
Ancora in indirizzi generali: si vuole affrontare
seriamente la lotta contro la mafia (lasciando da
parte inchieste accademiche affidate a commissioni
numerosissime), a rischio di bruciare qualche uomo
politico, un certo numero di maggiorenti, di grandi
elettori? Si vuole combattere la camorra dei mercati,
snche, occorrendo, con la requisizione dei prodotti
2 I cui acquisto non può oggi concorrere che chi
aderisce alla organizzazione?
In politica interna: si vogliono le regioni, o si
deve accettare che siano accantonate fino al giorno
In Cui la Democrazia cristiana abbia l’assoluta certezza
thè non ce ne sarà una sola con amministrazione
socialista o comunista? E, se si vogliono, si è disposti
ad attuarle seriamente, riducendo burocrazia statale
0 spese statali dove certi compiti passano alle
regioni?
Si vuole assumere un impegno formale che quanto
lo Stato può spendere per l’istruzione, lo dedicherà
2 rialzare le sorti della scuola pubblica, lasciando
thè chi vuole altra scuola la paghi, o paghino per
lui le istituzioni od organizzazioni che vogliono una
stuoia improntata ad una particolare ideologia, dove
1 allievo non debba mai incontrare assertori di altre
■dee, non debba aprirsi al colloquio ed alla scelta?
JN POLITICA economica: s’intende frenare la per¬
dita del potere di acquisto della lira? si è disposti
®d una scelta giudiziosa tra le varie richieste, ad
una politica di piano che non può come tale non
imporre l’accantonamento di una serie di provvedi¬
menti in sé auspicabili, e quindi la energia di dire
uo a categorie, a province? o si vuole continuare nel
facilìs descensus Averni?
In politica estera: si vuole che i rappresentanti
italiani all’ONU continuino sempre a votare nel
senso più conservatore, rifiutandosi di aderire anche
a quelle mozioni che hanno per sé la maggioranza
dei voti, e non sono sospette di essere retaggio
dei Paesi comunisti? si continuerà a non volere ri¬
conoscere la Cina (ciò che mi ricorda sempre il duca
di Modena che non volle riconoscere né Luigi Filippo
né Napoleone III)?
I possibili futuri ministri dei partiti di sinistra
vogliono farci sapere se si dimetterebbero il giorno
che il Governo desse l’assenso all’ingresso della Spa¬
gna nell’alleanza atlantica? vogliono più generalmente
dirci quali sarebbero le loro esigenze minime per
partecipare al governo?
Queste sono le cose che credo i più degl’italiani
desidererebbero conoscere per avere un orientamento
in politica, per sapere se desiderare un governo di
centro-sinistra o preferire invece partiti di sinistra
in una opposizione non sistematica, ma che esiga,
per cessare di essere tale, alcune misure ben circo-
scritte. Questi partiti, è bene i dirigenti lo ricordino,
finirebbero di bruciarsi, se si diffondesse la con¬
vinzione che i loro parlamentari sono desiderosi di
partecipare al governo anche non potendo ottenere
nulla di concreto, solo per assaporare qualche bri¬
ciola di potere.
L’alta percentuale dei votanti non può illudere
nessuno: un numero sempre maggiore d’italiani sta
perdendo la fiducia nello Stato, disinteressandosi dei
partiti. E neppure può trarre in inganno la circostanza
che i voti di protesta vadano decisamente più verso
l’estrema sinistra che verso la estrema destra; in una
crisi dello Stato, della legalità, lo sbocco non sarebbe
mai un governo comunista, che verrebbe impedito
anche da forze esterne, ma un regime fascista, o
di tipo falangista o di tipo salazariano. E’ quanto
dovrebbero tenere presente gli uomini di sinistra
che poco sentono lo Stato, che lo scorgono come
quello che non deve mai dire di no, mai punire,
spendere senza preoccuparsi del deficit.
ARTLRO CARLO JEMOLO
un abbonamento a
U astrolabio
è un contributo per un'Italia migliore
Abb. annuo L. 2.300 * Sostenitore 5.000 - C.C.P. 1-40736 intestato a L'ASTROLABIO
27
- —r
Il «traguardo» di 15 anni
ili ARTURO BAROISE
^RA LE VARIE divergen 2 e ve¬
nute alla luce in seno alla
Commissione nazionale per la pro¬
grammazione ve ne è una, appa¬
rentemente metodologica, che ri¬
guarda l’orizzonte temporale della
programmazione medesima. Secon¬
do il rapporto Saraceno, non si
dovrebbe guardare oltre il 1973
perchè entro questa data è possi¬
bile prevedere il raggiungimento del
pieno impiego delle nostre forze
di lavoro. L’urgenza di una politica
programmata nascerebbe appunto
dalla necessità d’impedire che anche
nei prossimi anni nuovi occupati si
addensino in ristrette zone del pae¬
se nelle quali già si riscontrano sin¬
tomi negativi di congestione demo-
grafìca ed urbanistica.
E’ chiaro infatti che se non si
interviene al più presto con una
politica di rapida industrializzazione
nelle zone che alimentano l’attuale
imponente fenomeno di esodo rurale,
e in primo luogo nel Mezzogiorno,
la loro condizione storica di arretra¬
tezza non potrebbe più essere sanata.
Impoverite demograficamente, tali
zone si troverebbero a mancare di
due condizioni essenziali ( abbondan¬
za di manodopera e presenza di un
mercato di consumo sufficientemen¬
te ampio) per la localizzazione di
nuove attività economiche. Nè sa¬
rebbe possibile fare assegnamento
su di un’inversione più o meno lon¬
tana delle correnti migratorie: certi
processi sono praticamente irre¬
versibili.
Si deve convenire pertanto col
Saraceno circa l’opportunità di con¬
tenere la fuga dai campi del Sud
verso le fabbriche ( italiane e magari
straniere) delle città del Nord; don¬
de l’esigenza, da un lato, di accele¬
rare il consolidamento dei « poli di
sviluppo » già costituiti nel Mezzo¬
giorno e, d’altro lato, la necessità di
avviare — senza ulteriori ritardi —
una politica di ammodernamento
strutturale e produttivo della nostra
agricoltura. Basti considerare che
il reddito del Mezzogiorno provie¬
ne ancora, per circa due terzi, dalle
attività agricole e che proprio a
causa di ciò il suo distacco economi¬
co rispetto al resto d’Italia è venu¬
to via via aumentando — nonostante
la Cassa — per tutto il corso degli
« anni cinquanta ».
Il dissenso fra il Saraceno ed altri
studiosi ( alludiamo in particolare
a Giorgio Fuà e a Paolo Sylos Labini,
autori di una imp>ortante memoria
alla quale attingiamo i calcoli citati
in questo articolo) trae origine da
un diverso giudizio circa il raggiun¬
gimento del pieno impiego. Per il
Saraceno si tratta di un traguardo
decisivo per il nostro paese, di una
« svolta » nella storia della economia
italiana, che segna il passaggio da
un’epoca di bassi redditi prò capite
ad un’altra nella quale il fattore
umano avrà sempre maggiore impor¬
tanza. Anche i suoi contraddittori
riconoscono che la piena occu¬
pazione della forza di lavoro è un
fatto di grande rilievo, .sotto tutti gli
aspetti, ma non può più essere con¬
siderato un « traguardo » in vista
del quale si debbano coordinare tutti
gli sforzi della collettività, come ap¬
punto si tende a fare con ogni pro¬
grammazione « globale » degna di
questo aggettivo.
Ormai, anche il semplice gioco
delle forze dell’economia spontanea
ci porterebbe ad una situazione di
teorico pieno impiego, e verosimil¬
mente in un periodo assai inferiore
al decennio. Se bastasse la caduta del
tasso di disoccupazione ad un li¬
vello pari al 3 per cento della for¬
za di lavoro per contrassegnare lo
stato di pieno impiego, si dovrebbe
senz’altro dar ragione a quanti affer¬
mano che l’Italia si troverà in tale
condizione ancor prima del 1970.
D’altra parte, più che sul numero
dei disoccupati veri e propri censiti
come tali dal Ministero del Lavoro
o calcolati dall’Istituto Centrale di
Statistica, il reclutamento di nuovi
lavoratori incide sempre più larga¬
mente sulla riserva dei sottoccupati,
costituita da individui che oggi fi¬
gurano inclusi tra gli addetti all’agri¬
coltura o al commercio oppure ap¬
partengono alle cosiddette categorie
non professionali (casalinghe, stu¬
denti, ecc.). Anche se le statistiche
italiane fossero perfettamente ag'
giornate, anche se arrivassimo a pos¬
sedere quella « anagrafe del lavoro »
di cui da tanto tempo si parla, non
vi sarebbe nessuna possibilità di
accertare il raggiungimento del fa¬
tidico « traguardo ».
Che senso ha dunque program¬
mare in vista di un obiettivo che
verrà conseguito in ogni caso, e
quasi certamente prima della scaden¬
za prestabilita? Non si rischia, cosi
facendo, di dar ragione a Jacques
Rueff, l’economista liberale france¬
se che nel dicembre scorso, al con¬
vegno romano del CNEL, ammonì i
programmatori a non comportarsi
come il gallo il quale ogni mattina
— lanciando verso il cielo il suo
canto — probabilmente s’illude di
far sorgere il sole?
Una politica programmata trova
dunque la sua prima ragione di esse¬
re nel fatto di proporre obiettivi cui
l’economia spontanea non potrebbe
mai pervenire. Ciò non significa,
tutt’aitro, che quegli obiettivi non
siano « economici », che non giovino
anche allo sviluppo dell’iniziativa
privata; significa soltanto che solo
l’intervento pubblico, consapevol¬
mente coordinato e continuato per
un certo spazio — non breve — di
tempo, può consentire di raggiun¬
gerli. Quando nell’autunno 1958 in¬
sorgeva contro l’idea stessa di un
piano decennale della scuola, l’on.
Malagodi ubbidiva puramente e sem¬
plicemente all’istinto privatistico
della « non programmazione ». Ma
la forza delle cose deve possedere
una sua logica se il partito liberale
si è poi indotto a preparare un pia¬
no della scuola che arriva sino al
1990 (sic!).
Se questo è vero, sembra prefe¬
ribile assumere come finalità della
programmazione un traguardo che
l’economia spontanea non potrebbe
sicuramente mai raggiungere; appun¬
to per questo Fuà e Sylos Labini
28
propongono come obiettivo premi¬
nente l’eliminazione dei gravi squi¬
libri settoriali (fra attività agricole
e non agricole) e territoriali (fra
Mezzogiorno e resto d’Italia) che
ancora perdurano nel nostro paese.
Si tratta di uno degli obiettivi indi¬
cati dal ministro del Bilancio La
Malfa nella ormai famosa « nota ag¬
giuntiva * del maggio 1962 sulla
quale il Parlamento espresse allora
larghi consensi. Del resto, anche gli
economisti di parte liberale non osa-
no apertamente dissentire; e ciò
sebbene non ignorino che proprio
l’aggravamento di tali squilibri du¬
rante gli « anni cinquanta » costi¬
tuisca uno dei più validi motivi
rii critica allo sviluppo non pro¬
grammato.
A favore dell’obiettivo dell’elimi¬
nazione degli squilibri — ossia, in
pratica, della unificazione economica
del paese ad oltre un secolo dalla
sua unificazione politica — milita
anche una considerazione psicologi¬
ca di non trascurabile rilievo: esso
offre ai giovani che nei prossimi
anni entreranno nella vita attiva un
niotivo di tensione ideale, di abne¬
gazione collettiva di cui i più anzia¬
ni avvertono preoccupati l’assenza
nella presente società italiana. E’ un
vuoto interiore che nessun « mira¬
colo economico >► può certo colmare:
quella dell’automobile e degli elet¬
trodomestici è purtroppo anche la
civiltà àcWalienazione e della noia.
Qualcuno ha già obiettato che si
vuole così importare in Italia il
« mito del piano ». Se questo potes¬
se servire a dare alle nuove genera¬
zioni una valida ragione di vita, una
dimensione civile e patriottica che
è venuta meno con la fine delle
guerre nazionali e della lotta antifa¬
scista, non vedremmo perchè non lo
si dovrebbe fare: anche per la po¬
litica di piano, tutto dipende dai
contenuti che le si attribuiscono. Se
non ricordiamo male, è stato Tocque¬
ville ad invitare gli uomini politici
a dare ai loro popoli il « gusto del¬
l’avvenire »: se non lo fanno, fini¬
scono fatalmente dimenticati e vi¬
tuperati.
Va bene si dirà a questo punto,
accettiamo pure il seducente obiet¬
tivo dell’eliminazione degli squilibri
settoriali e territoriali; ma non si
tratta per caso di un’utopia? Cre¬
diamo proprio di no. Nel numero
scorso Paolo Sylos Labini ha scritto
testualmente « Si può dimostrare che
è possibile raggiungere un tale
obiettivo in un periodo non enor¬
memente lungo ( 15 anni) e con uno
sforzo perfettamente sopportabile
per la collettività nazionale ». Egli
non ne ha però data la dimostra¬
zione, trattandosi di tesi già svolta
analiticamente nella memoria da lui
presentata col Fuà alla Commissione
nazionale per la programmazione
economica.
Avendo avuto per le mani tale
rapporto (tuttora riservato) credia¬
mo di dover fornire qualche mag¬
gior ragguaglio in proposito ai no¬
stri lettori. L’orizzonte temporale di
tre lustri proposto dal tandem Fuà-
Sylos Labini sembra all’ingrosso suf¬
ficiente per ottenere l’auspicato equi¬
librio economico fra le « due Italie ».
La sintesi dei calcoli effettuati per
arrivare a tale lusinghiera conclu¬
sione è da noi riportata nella tabella
inserita nel testo. Ci limiteremo per¬
tanto ad una serie di considerazioni
illustrative.
Occupazione — L’aumento glo¬
bale previsto può sembrare mode¬
sto (poco più di un paio di milioni
di unità lavorative in tre lustri);
in realtà non sarà possibile realiz-
OBIETTIVI DI OCCUPAZIONE E PRODUZIONE AL 1978
Occupazione Prodotto lordo Prodotto lordo per occupato
(migliaia (% di (miliardi (% di (migliaia (% di
di unità) variazione dilire '54) variazione di lire ’54) variazione
annua ’64-’78) annua ’64-’78) annua ’64-’78)
AGRICOLTURA
Centro-Nord
2.013
-2,7
3.172
+ 2,6
1.576
+ 5,4
Mezzogiorno
1.287
-4,1
2.028
+ 2,9
1.576
+ 7,1
Italia
3.300
— 3,3
5.200
+ 2,7
1.576
+ 6.1
INDUSTRIA
Centro-Nord
6.849
+ 1,3
14.725
+ 4,2
2.150
+ 2,9
Mezzogiorno
3.491
+ 3,2
7.507
+ 11,2
2.150
+ 8,0
Italia
10.340
+ 1,9
22.233
+ 5,8
2.150
+ 3.9
SERVIZI
Centro-Nord
5.603
+ 1,8
9.818
+ 4,2
1.752
+ 2,4
Mezzogiorno
2.857
+ 2,0
5.005
+ 6,4
1.752
+ 4,4
Italia
8.460
+ 1,9
14.822
+ 4.8
1.752
+ 2,9
TOTALE
Centro-Nord
14.465
+ 0,7
27.715
+ 4,0
1.916
+ 3,3
Mezzogiorno
7.635
+ 0,9
14.540
+ 7.6
1.904
+ 6,7
Italia
22.100
+ 0,8
42.255
+ 5,0
1.912
+ 4,2
29
k
zarlo se non riusciremo a contenere
rapidamente il flusso migratorio
verso l’estero. (Osserveremo per
inciso che la concessione degli asse¬
gni familiari ai lavoratori agricoli,
sebbene controindicata dalla deli¬
cata congiuntura attuale dei prezzi,
potrebbe utilmente servire a questo
obiettivo di più lunga portata). Co¬
munque sia, nel 1978 l’agricoltura
italiana non dovrebbe impegnare
più di 3.300.000 addetti, pari al
15 per cento della forza di lavoro
complessiva. E’ un’aliquota suffi¬
cientemente bassa (circa la metà di
quella accertata nel 1961 ) da giu¬
stificare il forte aumento di pro¬
dotto lordo previsto per il singolo
addetto all’agricoltura (in media il
6,1 per cento all’anno).
Tasso di sviluppo — Un aumen¬
to medio annuo del 5 per cento
per il quindicennio 1964-78 non
pare troppo audace, anche scontan¬
do un certo affievolimento nel tem¬
po. Lo stesso rapporto Saraceno
prevede un identico tasso di svi¬
luppo per il decennio 1964-73, e
tutti gli esperti si sono dichiarati
d’accordo. Si può agiungere che tale
tasso dovrebbe rappresentare la
media ponderata tra il 4 per cento
previsto per il Centro-Nord e il 7,6
proposto per il Mezzogiorno. Tutto,
in sostanza, dipenderà dal ritmo di
sviluppo delle industrie e dei servizi
nell’Italia meridionale; per l’agri¬
coltura gli incrementi ipotizzati so¬
no abbastanza uniformi per tutto
il paese.
Allineamento dei redditi — Il
primo squilibrio da sanare è quello
fra gli addetti agli stessi settori
nelle varie parti d’Italia. Qualora si
realizzassero le ipotesi di produzio¬
ne e di occupazione formulate, le
differenze di prodotto medio per
addetto all’interno dei tre settori
fondamentali risulterebbero pratica-
mente annullati. Sopravviverebbero
invece, ed è opportuno che soprav¬
vivano, le differenze connesse alle
dimensioni, alla struttura organizza¬
tiva, alla modernità delle singole
aziende.
Ben più difficile da conseguire
è il pareggiamento fra i vari settori.
Data l’attuale arretratezza della no¬
stra agricoltura e di gran parte dei
servizi (specie per quanto riguarda
il commercio) rispetto all’industria,
gli stessi Fuà e Sylos Labini riten¬
gono che un certo scarto di pro¬
duttività (e quindi di reddito prò
capite) non potà non sussistere fra
i tre settori anche alla fine del quin¬
dicennio 1964-78. Ma poiché ana¬
loghi scarti si riscontrano in econo¬
mie altamente sviluppate e da tem¬
po pervenute alla maturità, si e
giustamente pensato che — entro
quei limiti — tali scarti abbiano
carattere fisiologico. Per quanto ri¬
guarda in particolare l’agricoltura,
ci si potrebbe quindi dichiarare ar¬
cisoddisfatti se fra quindici anni il
prodotto prò capite dei suoi addetti
fosse salito — rispetto alla media
degli altri settori — dall’attuale 50
air80 per cento ipotizzato nel rap¬
porto Fuà - Sylos Labini. Il morbo
del sottosviluppo agricolo, endemico
nel Mezzogiorno ma anche in più
ristrette aree del « Centro-Nord »,
sarebbe finalmente debellato.
Come si vede, i programmatori
della sinistra democratica non chie¬
dono la luna. Si propiongono obiet¬
tivi concretamente realizzabili, senza
indebite compressioni di consumi
privati e pubblici di carattere pri¬
mario; ma, proprio perché realisti,
non ignorano la difficoltà di richia¬
mare sulla terra quanti ormai vivono
nell’era della « nautica da diporto »•
.4RTL'RO B.\R0NE
T
Siluro
Montecatini
TJA FAITO impressione negli ambienti finanziari
ed industriali l’allontanamento di uno dei due
capi della Montecatini, il più giovane, promotore
delle più recenti iniziative di sviluppo, l’ing. Piero
Giustiniani. Resta il più anziano, il conte Faina.
Interessa a noi rilevare qui soltanto come contro il
Giustiniani abbia giocato l’insuccesso industriale
del nuovo grande impianto chimico di Brindisi, im¬
postato economicamente su altissime produzioni
che non si sa come e su quali mercati smaltire. L’im¬
pianto o sarà condannato a regimi antieconomici di
produzione o dovrà essere ridimensionato con per¬
dite rilevanti. Questo infortunio industriale è al¬
l’origine della tenuta non brillante di questo titolo
negli ultimi tempi.
Ma anche il gruppo chimico della Edison mon¬
tato negli anni recenti con fortissime immissioni
di investimenti traversa un momento difficile. La
capacità di produzione dei fertilizzanti complessi si
è rivelata in forte eccesso sulla capacità di assor-
V_
bimento del mercato interno e della esportazione,
e la SICE-Edison accusa perdite rilevanti, di alcuni
miliardi, in ciascuno degli ultimi due esercizi. Del
resto voci non favorevoli, anche se non recenti, ri¬
guardano l’impostazione industriale ed i risultati
economici dell’impianto per la fabbricazione della
gomma sintetica di Ferrara. Ed anche altre impre¬
se accusano difficoltà.
Nulla di straordinario, se questi passi falsi del¬
la industria chimica non confermassero ancora una
volta la gravità delle conseguenze dell’errore pri¬
vato di grandi dimensioni sulla economia generale.
Le ambizioni aziendali generano boom artificiosi,
le cui conseguenze ricadono pesantemente sulla
collettività.
Gli impianti sia della Montecatini sia della Edi¬
son hanno beneficiato di rilevanti aiuti di credito.
Ecco capitali pubblici male impiegati. La disponibi¬
lità di capitale è sempre scarsa in Italia rispetto ai
grandi e crescenti bisogni, donde la necessità di
criteri razionali d’impiego, ed il danno nazionale
di questi dirottamente in grandi errori del capi¬
tale privato.
Ed ecco sottolineata la necessità di un’alta qua¬
lificazione degli organi tecnici di cui gli organi cen¬
trali della programmazione dovrebbero provvedersi.
M.
_ J
30
lA CHIESA NELLA POLITICA ITALIANA
L’ondata integralista
Svanita, alla fine della guerra, la possibilità di una restaurazione fascista con
Grandi al posto di Mussolini, il Vaticano ha puntato sulla conquista dello
Stato italiano trasformando l'organizzazione della Chiesa in una macchina
elettorale rivolta a concentrare i voti sulla D.C. In questa puntata esaminiamo
il periodo che va dalla caduta del fascismo alla nascita della Repubblica
di DOMEmCO SETTEMBRim
T a recente Enciclica Pacem in terris, aggiungendosi
all’eco sollevata dalla Mater et Magistra, dal Con¬
cilio e da diversi altri atti del nuovo pontificato, ha
definitivamente sanzionato la fama di Giovanni XXIII
come Papa rinnovatore. Fama indubbiamente meritata.
E nessun documento meglio della Pacem in terris
testimonia della decisa volontà di papa Roncalli di
imprimere un nuovo corso alla politica della Chiesa
rispetto alla linea precedentemente seguita sotto
Pio XII.
E’ evidente che le forze laiche non possono sot¬
trarsi alla necessità di prendere atto di questi muta¬
menti; che debbono anzi salutarli senza riserve quan¬
do essi annunciano, come sul fondamentale problema
della pace e della guerra, un atteggiamento della
Chiesa comunque più conforme agli interessi di tutta
l’umanità. Tanto più che la svolta attuale indica il
parziale arrendersi della Chiesa alla pressione eserci¬
tata dal mondo esterno, e dunque da tutte le vitto¬
riose lotte liberatrici che hanno contrassegnato gli
ultimi vent’anni.
Sembrerebbe però che di qui a credere che natura
e fini della Chiesa siano radicalmente mutati, tanto da
trasformarla da forza di reazione e di conservazione
in forza di progresso, molto dovesse correrci, specie
in Italia dove la funzione conservatrice della Chiesa
è sotto gli occhi di tutti. Ed invece non si deve na¬
scondere che tra i principali risultati positivi (per la
Chiesa) conseguiti dal nuovo papa vi è proprio la
smobilitazione degli animi nel campo avversario. Uno
spirito di dimissioni di fronte al mondo cattolico, per
servirci delle stesse parole qui usate da Piccardi,
circola ormai, dove più dove meno, in tutta la sinistra
italiana e ne corrode le superstiti velleità di portare
avanti la battaglia per la laicità p>ersino sul piano della
pubblicistica e della propaganda, il solo in cui anche
in passato essa si sia cimentata.
Per reagire a questo spirito di dimissioni, all’acri¬
tica esultanza con cui da parte laica vengono accolte
da un pezzo in qua tutte le iniziative di Giovanni
XXIII (si vedano, a mo’ d’esempio, le cronache sul
Concilio o le zuccherose esegesi dell’ultima Encicli¬
ca), è forse opportuno richiamare per sommi capi,
alla memoria di chi ha troppo presto dimenticato o
di chi è troppo giovane per ricordare, l’opera del
predecessore dell’attuale Papa. Di Pio XII, che col¬
l’uso più spregiudicato di tutto l’armamentario me¬
dioevale della Curia ha assicurato su solide basi l’ege¬
monia della Chiesa sulla politica italiana, lasciando in
eredità al successore una situazone per molti vera¬
difficile, ma anche i margini necessari per intraprende¬
re in tutta sicurezza una politica più elastica.
Salvemini ha documentato come nel 1943, prima
del 25 luglio, la diplomazia vaticana molto si adope¬
rasse in Inghilterra e negli USA per preparare di
comune accordo con queste potenze una successione
moderata e magari fascista (Grandi) a Mussolini. Si
tratta di un episodio su cui deve ancora essere fatta
luce completa, ma che indica molto chiaramente come
la naturale propensione della Chiesa vada sempre
alle soluzioni più conservatrici. Svanita comunque
assai presto questa possibilità per l’insorgere di mol¬
teplici cause che sfuggirono al controllo della Chiesa
e degli alleati, il Vaticano vide profilarsi la prospetti¬
va di una prossima restaurazione della democrazia
parlamentare in Italia ed apprestò le sue armi per
trarre dalla nuova situazione il massimo dei vantaggi.
Sul piano teorico il compito di rispolverare e ri¬
mettere a punto l’interpretazione cattolica della de¬
mocrazia, elaborata da Leone XIII, fu assunto dai
gesuiti della Civiltà cattolica. Per tutto il 1944 e
1945, mentre numerosi cattolici partecipavano alla
lotta per instaurare un regime di democrazia e di
libertà, l’autorevole rivista insistentemente ricordava
in quale conto da parte cattolica andassero tenute le
moderne libertà, la separazione della Chiesa dallo
Stato, la parità dei culti, la libertà di stampa, la so¬
vranità popolare:
« Le libertà moderne considerate in se stesse, in
quanto attribuiscono uguali diritti alla verità e allo
errore, al bene ed al male, sono assolutamente false
e da condannarsi. Questa è la tesi: questi sono i
principi che la Chiesa mantiene con inflessibile fer¬
mezza e rigore ». Al più essa può tollerarle come
minor male ed in via del tutto ipotetica, quando
ciò le è imposto o consigliato, come appunto accadeva
allora in Italia, « da un intreccio di circostanze talora
31
fortuite, spesso colpevoli, sempre deplorevoli », e
senza mai sconfessare la tesi.
Ma a precisare i contorni della democrazia nei
limiti del cattolicesimo intervenne nel Natale del
1944 lo stesso Pio XII. Regime democratico sta
bene, egli affermava, purché però, precisava, il popolo
sia governato « da mani oneste e provvide » e lo
Stato non venga lasciato « all’arbitrio della massa »,
che « è la nemica capitale della vera democrazia » in
quanto tende a livellare quelle « ineguaglianze di
cultura, di averi, di posizione sociale », derivanti dal¬
la natura stessa delle cose. Quanto poi ai rapporti
Stato Chiesa Pio XII li risolveva in maniera radicale;
« La maestà del diritto positivo umano allora
soltanto è inappellabile, se si conforma — o almeno
non si oppone — all’ordine assoluto, stabilito dal
Creatore e messo in luce dalla rivelazione del Vangelo.
E’ questo il criterio fondamentale di ogni sana forma
di governo, compresa la democrazia ». Il che voleva
dire che la Chiesa accettava la democrazia, a condizic^
ne che questa accettasse di sottostare al suo magi¬
stero e desse quindi piena soddisfazione a tutte le sue
rivendicazioni. Per piegare la democrazia alla volontà
della Chiesa occorreva però uno strumento adeguato,
un partito prono alle autorità ecclesiastiche intorno a
cui raccogliere le masse cattoliche, da utilizzare come
massa di manovra per instaurare attraverso il rituale
del sistema parlamentare un regime sostanzialmente
teocratico. Ed ecco allora la Civiltà cattolico incitare
all’unione tra i cattolici. Unione intorno alla gerar¬
chia, anche in ciò che non appartiene al dominio del¬
l’infallibilità: i generali possono sbagliare, ciò non
toglie che la disciplina militare sia necessaria.
Era già la tesi, da cui poi la gerarchia non ha più
receduto e da cui neppure Giovanni XXIII mostra di
volersi discostare, che in Italia, e per esservi la sede
del vicario di Cristo e per l’esistenza di un forte par¬
tito comunista, i cattolici debbono rinunciare anche
alla libertà, altrove teoricamente consentita, di sce¬
gliere tra due partiti entrambi cattolici.
Il Papa agit-prop
Di pari passo con l’elaborazione teorica procedeva
l’organizzazione degli strumenti che dovevano per¬
mettere di calarla nella realtà. Fare della Democrazia
cristiana il partito unico dei cattolici, dissipare le non
poche diffidenze ch’essa allora suscitava nella bor¬
ghesia cattolica e non cattolica per la sua diretta fi¬
liazione dal PPI, che nel primo dopoguerra aveva
largamente scontentato i ceti conservatori, non era
impresa da poco, specialmente nella situazione del¬
l’epoca che obbligava all’alleanza con i partiti della
classe operaia in seno ai sindacati e al governo. Ma
favorita dalla divisione già latente in seno ai partiti
della sinistra e dai numerosi errori ch’essi commisero,
utilizzando le capacità indiscusse di un leader della
statura di De Gasperi, la Curia rapidamente vi riuscì.
Il partito Cristiano sociale e il movimento dei
cattolici comunisti, che per il solo fatto di esistere
costituivano una minaccia al monopolio democri¬
stiano della rappresentanza politica dei cattolici, fu¬
rono liquidati in breve volgere di tempo. Il primo
colla complicità addirittura del PSI e del PCI, che
consentirono alla DC di tenerlo al di fuori dei Co¬
mitati di Liberazione Nazionale, nonostante la sua
eroica partecipazione alla Resistenza. Il secondo fu
costretto dai ripetuti interventi della Curia all’auto-
scioglimento.
Contro la CGIL fu immediatamente eretto il
contraltare delle ACLI, a cui Pio XII assegnò fin
dalle origini il compito di intralciare l’attività del
sindacato unitario e di prepararne la rottura: « abbiate
cura che il Sindacato non devii dal campo suo proprio
e non sia tramutato in strumento della lotta di classe »•
Ma il banco di prova della capacità della Chiesa di
intervenire come forza decisiva nell’agone politico si
presentò con la consultazione elettorale del 2 giugno.
Solitamente si ritiene che solamente con le ele¬
zioni del 18 aprile 1948 il clero e le organizzazioni
religiose siano scesi apertamente in campo con tutto
il loro peso. In realtà già nel 1946 si ebbe la mobili¬
tazione massiccia di tutte le forze cattoliche, dal Papa
all’ultimo prete, in favore della Democrazia cristiana.
Se qualcosa mancò fu una precedente esperienza che
permettesse, come nel 1948, di inquadrare e coordi¬
nare in vista del massimo rendimento tutte le molte¬
plici iniziative.
LA. C. scavalca il Concordato
Il Papa in persona prese più volte la parola per
incitare a votare e a votare l^ne. Tra le sue molte¬
plici prestazioni l’appello alle giovani cattoliche è
particolarmente indicativo degli argomenti elevati
ch’egli introduceva nella campagna elettorale: « con
la vostra scheda voi avete in mano i superiori interessi
della vostra patria: si tratta di tutelare e conservare
al vostro popolo la sua civiltà cristiana, alle sue fan¬
ciulle e alle sue donne la loro dignità, alle sue famiglie
le loro madri cristiane ». I vescovi di tutta Italia lo
assecondavano validamente, scendendo ad indicare
nominativamente i partiti e gli uomini per cui i
fedeli non dovevano votare. Così ad esempio suonava
la Circolare emanata dai presuli della Sardegna:
« L’Episcopato, esaminati i programmi dei vari partiti
e le liste dei nomi pubblicati, riprova, oltre al Partito
Comunista e a quello Socialista, anche il Partito Sardo
d’Azione perchè accoglie elementi notoriamente ostili
alla Chiesa. A tale giudizio debbono ispirarsi tutte
le direttive e propagande elettorali dei cattolici, te¬
nendosi presente che il Partito della Democrazia cri¬
stiana dà maggiore affidamento tanto per il program¬
ma quanto per le persone ».
Quanto all’Azione Cattolica, nonostante cadesse
sotto la prescrizione dell’art. 43 del Concordato, non
rimase inerte, iniziò anzi proprio allora quel processo
di politicizzazione, che doveva portarla alle successive
elezioni a divenire il fulcro dei Comitati civici, con
grave scandalo anche di molti cattolici. Le direttive
impartite dall’Ufficio centrale agli uffici diocesani sol¬
lecitavano l’unione di tutte le associazioni cattoliche
a fini elettorali e politici, che trovò appunto la sua
realizzazione con due anni di ritardo nei Comitati
civici: « L’A.C. ha il compito di concorrere all’edu¬
cazione politica del popolo, richiamandolo alla ecce-
32
zionale delicatezza della scelta che si deve fare dei
propri rappresentanti. Già l’A.C. attende a questa
opera, ma iniziandosi ora il momento più decisivo
deve intensificare la sua attività, sospendendo even¬
tuali altre iniziative e costituendo un fronte unico con
tutte le Associazioni cattoliche aventi scopo di apo¬
stolato ».
A elezioni concluse, lo spettacolo offerto dal clero
nel corso della campagna elettorale così venne de¬
scritto da un osservatore laico: « Quel che sta capi¬
tando da qualche tempo in Italia senza che si levi
la più timida voce di protesta è qualcosa di inaudito:
monache che si alzano le sottane per andare ad appic¬
cicare manifesti elettorali; preti che minacciano le pene
deU’inferno dal confessionale e rifiutano i sacramenti
a chi non vota per la DC; Papa, Cardinali e Vescovi
fascisti che trattano la politica italiana come fosse
qualcosa di loro esclusiva pertinenza ».
Mentre ordinava perentoriamente ai fedeli di
convogliare i loro voti sulla DC, entrando anche in
aspra polemica con i partiti di destra che si sforzavano
di accaparrarsi una parte del voto cattolico, la Chiesa
sì asteneva dal dare indicazioni ufficiali in merito al
referendum. Ciò le è valto in seguito il riconoscimen¬
to di avere di fatto e consapevolmente, sia pure p)et
fini suoi particolari, favorito l’avvento della Repub¬
blica. Qui almeno ci sarebbe dunque stato un contri¬
buto della Chiesa allo sviluppo civile dell’Italia, e
per di più nella risoluzione di un nodo di tanta im¬
portanza! Senonchè si tratta di un giudizio errato, che
si fonda essenzialmente sulla facilità con cui in
seguito la Chiesa dietro il paravento della Repubblica
fece dell’Italia uno Stato confessionale. Ma lo stru¬
mento di questa rivincita della Chiesa fu la democra¬
zia cristiana e non la Repubblica. Ed in favore della
DC, e non già della Repubblica, va interpretata la
saggia decisione della Curia di non vincolare in senso
monarchico il voto dei cattolici.
Non bisogna infatti dimenticare che nella loro
maggioranza gli iscritti alla DC erano di orientamento
repubblicano, ed in questo senso si erano pronunciati
al loro primo Congresso. In queste condizioni le ge¬
rarchie ecclesiastiche e l’ala degasperiana della DC,
per quanto di spiccate simpatie monarchiche, non po¬
tevano impegnarsi a fondo per la monarchia, vinco¬
lando il voto dei cattolici e costringendo la DC a
mantenersi agnostica, senza provocare una grave crisi
in seno al partito cattolico, col pericolo che se ne
distaccasse un’ala repubblicana. Compromettere le
fortune della EXZ per meglio assicurare quelle incerte
della monarchia, quando, monarchia o Repubblica, a
quel partito sarebbe comunque toccato il compito di
clericalizzare l’Italia, sarebbe stata follia. E la Chiesa
si guardò bene dal commetterla, tanto più che la de¬
cisione di affidare direttamente agli elettori, mediante
referendum, la scelta istituzionale, consentiva al clero
di vincolare in favore della DC il voto dei cattolici e
contemporaneamente di svolgere, come effettivamente
svolse, un’attiva propaganda in favore della Monar¬
chia. E il risultato elettorale denunciò clamorosamen-
33
te il proselitismo monarchico del clero: degli otto mi¬
lioni di voti riportati dalla DC, che si era ufficialmente
schierata in favore del mutamento istituzionale, solo
due milioni scarsi andarono a favore della Repubblica.
La Repubblica quindi vinse nonostante l’ostilità della
Chiesa e non già grazie alle sue simpatie.
Il voto del 2 giugno
E va tenuto fermo che l’esito del referendum rap¬
presentò oggettivamente una sconfitta per la Chiesa,
e tale fu da essa giudicato; anche se in seguito, por¬
tando la DC alla vittoria del 18 aprile, essa potè ^r
un lungo periodo annullare le conseguenze di quell’in¬
successo. La vittoria della Monarchia avrebbe infatti
messo al servizio della Chiesa un altro non disprez¬
zabile strumento, poiché Umberto II, oltretutto perso¬
nalmente assai bigotto, sapendo di dovere il trono
all’appoggio del clero e di poterlo conservare solo
grazie ad esso, si sarebbe ben guardato dal riportare
la sua Casa nel solco della tradizione risorgimentale:
l'avrebbe piuttosto ricondotta alle sue origini clericali.
Se l’esito del referendum fu una sconfitta, la som¬
ma di voti raccolta dalla DC non costituì per la Chiesa
quella vittoria che allora tutti vollero vedervi. Certo,
fu un’affermazione notevole, ma il confronto con la
forza elettorale che il PPI era riuscito a raccogliere
nei suoi giorni migliori la fece sopravvalutare. Non si
considerò che mai la Chiesa aveva sostenuto con altret¬
tanto impegno quel partito e che nel 1946 per la pri¬
ma volta era intervenuto nella mischia l’elettorato fem¬
minile. Del resto oggi, dop>o 18 anni di controllo asso¬
luto del potere, un risultato in percentuale molto simile,
anzi leggermente migliore, viene giudicato con molta
apprensione dai dirigenti della DC, mentre suscita a
sinistra una ragionevole speranza.
E’ vero invece che favoriti dagli errori e dalle divi¬
sioni della sinistra e dalla situazione internazionale,
la Chiesa e De Gasperi sepp>ero valorizzare al mas
simo quel risultato, portando in due anni la DC al
trionfo del 18 aprile, che consegnava l’Italia per lun
go tempo in mano a governi vicari del Vicario di
Cristo.
I due anni successivi servirono alla Chiesa per
preparare la crociata anticomunista del 18 aprile, men¬
tre al Governo e nell’Assemblea Costituente la DC
utilizzava la copertura dei comunisti per mettere le
mani sul Ministero della PI, consegnare l’Assistenzi
in mano al clero, restaurare la struttura amministra¬
tiva dello Stato fascista, organizzare una forte polizia;
quando addirittura non si valeva dell’apporto diretto
dei voti comunisti, come nel caso dell’art. 7.
I molti sacrifici consentiti dal PSI e dal PCI non
valsero d’altra parte neppure a ritardare lo scatenarsi
di quel clima di guerra di religione, in cui per volontà
della Chiesa saranno combattute le elezioni del 18
aprile. Anzi fu proprio all’ombra dei governi tripar¬
titi, DC-PSI-PCl, che avvenne la prima mobilitazione
in grande stile dell’esercito sanfedista.
A pretesto per le grandi manovre le gerarchie
ecclesiastiche presero la campagna di stampa anticle¬
ricale che s’era sviluppata come reazione ai vergo¬
gnosi interventi del clero nelle elezioni del 2 giugno.
Ne furono alfieri tre periodici. Il Pollo, Il Mercante
e II Don Basilio, destinati a perire uno dopo l’altro
di morte violenta sotto i colpi congiunti della Magi
stratura e del Governo, dove al Ministero della Giu¬
stizia siedeva un comunista. Non contenti dell’inter¬
vento delle autorità, vescovi e sacerdoti incitavano da
un capo all’altro d’Italia la gioventù cattolica a pas
sare all’azione con prediche infiammate. E i giovani
d’Azione Cattolica risposero all’appello, bruciando sul¬
le pubbliche piazze pacchi degli odiati giornali e mi¬
nacciando le edicole che li esponevano. Finché sì
volle ravvisare in alcuni scritti di quei periodici una
offesa diretta alla persona del Papa, e fu l’ira di Dio.
Venne immediatamente organizzata una gigantesca
manifestazione di popolo in Piazza San Pietro, nel
corso della quale Pio XII si rivolse alla folla con
queste bellicole parole: « Dal suolo romano il primo
Pietro, circondato dalle minacce di un pervertito pt>
tere imperiale, lanciò il fiero grido di allarme: "Resi¬
stete forti nella fede”. Su questo medesimo suo'o Noi
ripetiamo oggi con raddoppiata energia quel grido a
voi, la cui città natale è ora il teatro di sforzi inces¬
santi volti a rinfiammare la lotta tra i due opposti
campi: p>er Cristo o contro Cristo, pier la sua Chic
sa o contro la sua Chiesa. Destatevi, o romani. L ora
è suonata, pjer non pxKhi fra voi, di svegliarvi da un
troppx) lungo sonno. Agire fortemente e fortemente
patire: è la divisa del nome romano ».
« Chi tocca il Papa ne muore »
Da Roma la campagna contro l’anticlericalismo
dilagò p)er tutto il paese e oltre le frontiere. Per mesi
VOsserva/ore Romano continuò a riportare quasi ogni
giorno cronache dall’Italia e dall’estero su quella che
definì la mondiale crociata contro l'empietà. In Ita¬
lia queste manifestazioni si. svolgevano alla presenza
di tutte le autorità locali: generali, prefetti, questori
e procuratori della Repubblica. Per dare un’idea del¬
l’atmosfera di odio e di rozza superstizione medie
vale che queste Feste del Papa, come venivano anche
chiamate, sollevavano, ecco à&W'Osservatore Romano
la cronaca di una di esse, svoltasi a Palermo alla
presenza del cardinale arcivescovo Ruffini, che vi
pronunciò il discorso ufficiale:
« Noi protestiamo la nostra devozione appas¬
sionata a Pietro e al suo Successore. E se per ripa¬
rare le offese dirette contro la sua Augusta Persona,
se per accendere più vivo l’amore al Papa nel cuore
degli uomini, se per accrescergli onore e gloria fosse
richiesto il nostro stesso sangue, noi saremmo pron¬
ti — con la grazia di Dio — a darlo non a gocce,
ma a torrenti ». « Al termine delle parole di Sua Emi¬
nenza, proseguiva il cronista vaticano, la folla gridò
scandendo le parole: "Il Papa non si tocca, il Papa
non si tocca”. "Chi tocca il Papa — riprese Sua
Eminenza il Cardinale — NE MUORE! Non osino
più offendere il Papa, perchè offendere il Papa non
è soltanto offendere Dio e la Chiesa, ma è altresì
attirarsi la maledizione di Dio” ». La campagna elet
torale del 1948 era già cominciata con più di un anno
di anticipo! __
DOMEMCO SEITEMBRLM
(Continua)
34
I superiori del giudice
Con questo articolo di Antonio Chiavelli L’astrolabio apre un dibattito su
un problema che trova oggi divisi i magistrati italiani tra quanti vedono
nella carriera del giudice un ostacolo alla sua libertà e chi invece la ritiene
un indispensabile incentivo per evitarne l’appiattimento professionale.
d/ AMOy'IO CHIAÌ ELU
Qualche mese fa la stragrande
maggioranza di tutti i giudici
Italia, interpellati con un refe-
fendum, si dichiaravano disposti a
ticorrere allo sciopero, considerato
come l’estremo rimedio loro rima¬
sto per richiamare l’attenzione del
governo e del paese sui problemi
della giustizia.
Saranno stati in molti a scrollare
testa di fronte al fatto che an¬
che i giudici intendessero scioperare
come i ferrovieri o i metalmecca¬
nici. Taluno ha gridato allo scan¬
dalo, a malapena dissimulando l’ari¬
stocratica convinzione che lo sciope-
fo è diritto che si conviene appunto
a ferrovieri o metalmeccanici e non
a giudici.
Giustificato o meno che fosse lo
scandalo è certo, però,, che uno
sciopero di giudici è cosa grave e
scria: hanno scioperato c vero an¬
che professori e avvocati, diploma¬
tici e direttori generali, ma è pari-
menti vero che nessuna di dette
attività attinge così immediatamente
le fondamenta stesse dello Stato.
Ebbene lo sciopero non è stato più
effettuato: il sintomo è rientrato
ma il male è rimasto.
Sembra quindi utile che l’opinio¬
ne pubblica, la più vasta possibile
e a tutti i livelli, sia informata,
brevemente e chiaramente, dei ter¬
mini essenziali delle questioni che
quello sciopero avrebbe dovuto
drammaticamente e perentoriamen¬
te sollevare.
Tutti i magistrati, in sostanza,
lamentano il disinteresse dei più
vari governi succedutisi fino ad oggi
(disinteresse non del tutto casuale)
per tutti i problemi della giustizia
c, più in particolare, la grave ina
dempienza costituzionale costituiti
dalla mancata attuazione delle nor
me della costituzione che riguardano
la posizione del giudice nell’ordina¬
mento dello Stato. Sulla gravità di
questo fatto tutti sono concordi,
giudici di tribunale o di cassazione;
l’accordo purtroppo viene meno
quando si tratta di scegliere le so¬
luzioni da adottare.
La stragrande maggioranza dei
magistrati, autorevolissimi studiosi
del processo ritengono — e non
da oggi — che l’indipendenza del
giudice non sarà mai piena e sin¬
cera se non sarà abolita la cosid¬
detta carriera, in conformità del
dettato costituzionale secondo cui
« i giudici sono soggetti soltanto
alla legge » e i magistrati si distin¬
guono fra loro soltanto per diversità
di funzioni ». Una piccola minoran¬
za e la corte di cassazione sono
convinte, invece, « che un generale
livellamento della carriera dei ma
gistraii con progressione fondata
soltanto su scrutini di anzianità ap
porterebbe conseguenze dannose al¬
l’Amministrazione della Giustizia,
abbassando il tono dei Collegi giu
dicanti e favorendo la fuga dei mi
gliori elementi verso altre carriere ».
Ne è sorta, tra giudici, una po¬
lemica talvolta aspra ma il dibattito
non ha fatto molti passi innanzi
a causa, soprattutto, del sostanzia¬
le agnosticismo delle classi politi
che che non hanno saputo o voluto
rendersi conto che l’adozione del¬
l’uno o dell’altro sistema comporta
precise scelte politiche in relazione
alla costituzione « sostanziale » del¬
lo Stato. Di questo agnosticismo si
giovano le forze di inerzia del si¬
stema. Infatti è evidente che non
si tratta di problemi tecnici, di limi
tato interesse specialistico, che ri¬
guardano soltanto un’efficiente or
ganizzazione dei servizi giudiziari,
ma si tratta, in definitiva, di fon¬
damentali questioni di principio:
poiché, eguaglianza di stato giuridico
fra tutti i giudici, pur nella di¬
versità delle funzioni rispettive, de¬
riva dal principio di democrazia e
di libertà, come ordinamento ge
rarchico è conseguenza nece.i.saria
del principio di autorità, più o
meno illuminata che sia.
Questo è il punto e una soluzione
consapevole di esso implica corag¬
giose e responsabili scelte politiche.
Al di sopra di ogni polemica, è
fuopi discussione che i sostenitori
del sistema della carriera non vo¬
gliono l’asservimento del giudice co¬
me i sostenitori dell’abolizione della
stessa non ne vogliono l’appiatti¬
mento professionale. La verità è che
i: primo sistema ha una forza espan¬
siva positiva che consiste nel solle¬
citare un affinamento tecnico - pro-
fc.ssionale dei giudici (di natura,
tuttavia, piuttosto accademica) ma
comporta altreoì, ineluttabilmente,
lo scatenarsi tra essi di uno spirito
agonistico che ne mina le coscienze
e ne favorisce il conformismo.
L’asservimento può esserne o me¬
no lo stadio ultimo, a seconda che
la classe politica al governo sarà
più o meno liberale. E’ retorica af¬
fermare che l’indipendenza del giu¬
dice deve fondarsi nella sua coscien¬
za adamantina: vi saranno sempre,
e con qualunque sistema, dei giudi¬
ci, sordi ad ogni lusinga, obbedienti
solo alla legge e alla propria co¬
scienza ma la stragrande maggioran¬
za, mentre si adatterà a cauti com¬
promessi in un regime illiberale,
sarà, invece, indipendente e sempre
più fiera della propria indipendenza
in un regime che questa giuridica¬
mente garantisca.
E’ semplicistico, se non è insin¬
cero, affermare che l’indipendenza
del giudice, nel nostro attuale ordi¬
namento, non può es.sere insidiata
e non è stata insidiata, nè all’in¬
terno nè all’esterno dell’Ordine giu-
35
diziario; pressioni dirette non
possono avvenire e forse ( anche
durante la dittatura) non sono mai
avvenute ma il sistema consente
certamente idonee pressioni indiret¬
te. Come si formerà allora, in ca¬
mera di consiglio, di fronte ad una
grave questione, la cui soluzione
tecnica, come spesso accade, ha lar¬
ghi margini di opinabilità, il voto
del magistrato preoccupato della
propria carriera? Se non ha nulla
da temere o da sperare, entro i
limiti della opinabilità tecnico-giu¬
ridica o di fatto, deciderà secondo
coscienza; viceversa è ineluttabile
che sia spinto a giudicare secondo
convenienza, reale o supposta, e non
gli sarà diffìcile trovare, anche nel
foro interno, gli alibi morali che
lo giustifichino di fronte a se stes¬
so. Il secondo sistema, quello au¬
spicato dalla maggioranza dei giu¬
dici comporta naturalmente il ri¬
schio, non di un appiattimento
generale, ma bensì che alcuni tra¬
scurino il loro costante affinamento
professionale o rallentino la propria
operosità per il venir meno di ogni
materiale incentivo.
Il rischio, però, non potrà avere
dimensioni notevoli e contro la man¬
canza di operosità vi è pur il rime¬
dio del procedimento disciplinare,
con le garanzie del contraddittorio
c contro l’impigrimento intellettua¬
le non può non soccorrere il sen¬
timento della propria dignità, lo
esempio dei più, il rispetto di se
stessi, sollecitato dal contradittorio
tecnico che deve precederne le mo¬
tivate decisioni.
Pigri e mediocri, forse, ve ne
sarà sempre e con qualunque siste¬
ma, ma è meglio un ordinamento
che tende ad assicurare che le sen¬
tenze dei giudici siano sempre one¬
ste, ancorché possa accadere che
talune di esse siano tecnicamente
sbagliate o un sistema che, per
assicurare il maggior numero di sen¬
tenze formalmente corrette, induca
il pericolo grave che esse, nella so¬
stanza, non siano il frutto della
serena e disinteressata determinazio¬
ne del giudicante, non nascano, cioè,
« ex coscientia animi »?
Non si potrà contestare, invece,
la forza espansiva e positiva insita
nel principio della eguaglianza dei
giudici, pur nella diversità delle
funzioni esercitate: una sicura in¬
dipendenza, non più condizionata
dal maggiore o minore liberalismo
dell’esecutivo, un’elevazione del giu¬
dice al livello della sua posizione
di partecipe della sovranità dello
Stato, soggetto solo alla legge, sen-
z’altra mediazione che quella del
proprio libero spirito.
Non più il magistrato che va pe¬
regrinando da una funzione all’altra,
sollecitando all’uofX) il favore dei
capi degli uffici: da un ufficio di
istruzione ad una sezione penale,
da questa ad una sezione civile,
non secondo le proprie specifiche
attitudini ma nell’ansiosa ricerca di
trovarsi al posto giusto per la rea¬
lizzazione dei propri interessi di car¬
riera. Una giurisprudenza più libe
ra e aperta, non più frutto di mec¬
canica e conformistica adesione ma
risultante da un libero e responsa
bile confronto di idee e di argo¬
menti, dibattuti e vagliati con le
sole garanzie previste dagli istituti
processuali.
E’ quanto il Legislatore costitu¬
zionale ha intuito e voluto sancendo
che il giudice è soggetto soltanto
alla legge e, corollario di questo
principio, che i giudici si distinguo¬
no tra loro soltanto per diversità
di funzioni.
Nè varrebbe obiettare, come cau¬
tamente è stato detto e come è fer¬
mamente sottinteso dagli avversari
dell’abolizione della carriera, che
l’ordinamento gerarchico dei giudici
serve proprio a garantire la dip)en-
denza di essi dalla legge. E’ proprio
qui il nodo politico e costituzionale
del problema: il giudice non può
essere soggetto che alla legge e sol¬
tanto alla legge e, a garanzia di
questa dipendenza, non vi possono
essere — sul piano morale e giu¬
ridico — che la sua coscienza e il
suo giuramento e — sul piano
strettamente giuridico — i rimedi e
i gravami previsti dal codice <1*
procedura. .
Spostare la suprema garanzia del¬
la sovranità della legge sul giudice
dai rimedi processuali, che si at¬
tuano pubblicamente dopo liberi di¬
battiti, dalla libera critica dell’opi¬
nione pubblica, all’indiretta ma non
meno decisiva influenza dell’interna
gerarchia significa svuotare di ogni
contenuto il precetto costituziona¬
le, ridurre il potere della legge nel
potere di una ristretta oligarchia
che, per la logica obiettiva del si¬
stema, è più facilmente influenza-
bile dalla naturale « vis attractiva »
dell’esecutivo. Non più democrazia
quindi o stato di diritto ma, al putì
un paternalismo illuminato.
Questi in succinto i termini della
questione.
Vorrà, finalmente, il governo;
vorranno i gruppi politici rappre¬
sentati in Parlamento sentire 1 iir^
portanza del tema; rimediare ad
una troppo prolungata inadempien¬
za costituzionale eseguendo, qua*'
che siano, le loro scelte politiche e
giuridiche di fronte al dettato
stituzionale, uscendo dalle secche
dei cauti patteggiamenti, delle astu¬
zie di corridoio?
In questa fase storica in cui tutti
sono, comprensibilmente e umana¬
mente, protesi verso la civiltà de
benessere è forse indispensabile che
la magistratura faccia comunque
giungere a tutti il suo ammoni¬
mento: che nessuna riforma di stru^
tura, che nessun miracolo economi;
co varrà ad attuare lo stato di
diritto e a fondare una moderna de¬
mocrazia se non sarà risolto il pro¬
blema della Giustizia — che è pro¬
blema di Libertà nella legge —'
secondo lo spirito della costituzione.
ANTONIO CHIAVELLI
Direz. e Amministrazione: Casella postale 100 - TORINO
SOMMARIO DEL NUMERO DI APRILE 1963
Amedeo: La lotta continua - Aldo Garosci: La libertà di levtuscei^o-
Carlo Catalegno: Il carnefice Franco - Ugo Buzzolan: Il futuro delia
TV in Italia - Giorgio Mornese; Inchiesta sul neofascismo in Italia.
Genova - Luca Bernardelli: L’aggressione a Fanfani - Gastone Cottino:
Non basta una legge a stroncare il neofascismo - A. Perez: Esperi¬
menti • liberali • in Spagna - Alfonso Di Nola: Ha vinto ancora la
mafia - Luigi Baccolo: Sortilegio della destra - Marco Ramai: L obiet¬
tore di coscienza in Italia.
RUBRICHE: Resistenza libri - Notes.
Per richieste di numeri di saggio e per abbonamenti rivolgersi diret¬
tamente all’Amministrazione di « RES1STEN21A » - Tonno, Casella
postale n. 100. I versamenti vanno effettuati sul conto corrente postale
n. 2 33166.
36
Guai vecchi e nuovi
della finanza italiana
pRANCESCO Repaci, scolaro de¬
voto di Luigi Einaudi ed ora
continuatore fedele del suo inse¬
gnamento, dopo aver dedicato per
più di quaranta anni una lunga serie
di studi analitici e faticosi per ten¬
tare di veder chiaro nei nostri bi¬
lanci e di rettificarne e completarne
le cifre ufficiali, raccoglie ora ed
aggiorna i risultati di questi studi
in un poderoso volume su La finan¬
za pubblica italiana nel secolo 1861-
1960 (Bologna, Zanichelli, 1962).
I cento anni di storia della finan¬
za italiana sono divisi dal R. in
tre periodi: dal 1861 al 1913, dal
1913-14 al 1934-35, dal 1935-36 al
1959-60. La data d’inizio del terzo
periodo, che a prima vista può sem¬
brare un po’ strana, è scelta dal-
l’A. perchè appunto da quell’anno
si apre una nuova serie di guerre,
per la conquista dell’Etiopia e del¬
l’Albania, e per l’intervento del¬
l’Italia nella guerra civile in Ispa-
gna; e perchè nello stesso anno fu
definitivamente instaurato il regime
corporativo, che provocò un più
rapido aumento dell’intervento del¬
lo Stato nella vita economica.
Un (lefioit nanrot^to
Per ciascuno di questi periodi,
ma con maggiore attenzione per il
secondo e il terzo — nei quali, di
pari passo con l’aumento delle spese
per le ordinarie funzioni dello Stato,
si moltiplicano le deviazioni dal più
corretto sistema dell’unicità del bi¬
lancio — il R. offre precise notizie
sulle rettifiche da lui proposte ai
rendiconti dello Stato, e fa una
analisi tninuta delle varie specie di
entrate e di spese, del movimento
di capitali e in particolare del de¬
bito pubblico.
Per il primo periodo, rettificati
con maggior precisione gli errori
contabili, fra cui il più grave, già
noto, è quello di non aver tenuto
conto, quando nel 1875 si annunciò
di GIISO LUZZATTO
il pareggio fra entrate e spese, del
disavanzo nella gestione ferrovia¬
ria, il R. arriva alla conclusione
che, fino al 1898, il bilancio dello
Stato italiano era sempre stato de¬
ficitario; e che soltanto dopo quella
data, per dieci anni, il bilancio si
chiuse con un avanzo. Poi le guerre
di Libia e dei Balcani riportarono
il disavanzo, che si volle nascon¬
dere con l’espediente, che doveva
fjoi ripetersi in proporzioni estre¬
mamente più gravi, di registrare
quelle spese nelle cosiddette gestio¬
ni fuori bilancio, che, in realtà, era¬
no delle spese deliberate senza una
corrispondente copertura di entrate
effettive, e a cui si provvedeva con
detrazioni dal fondo di cassa della
Tesoreria, oppure con accensioni di
debiti fluttuanti o consolidati. Il
R. calcola, e il calcolo ci sembra
ineccepibile, che, includendo queste
spese nel bilancio, il disavanzo degli
esercizi 1911-12 e 1912-13, rag¬
giunse rispettivamente le cifre di
346 e 556 milioni di lire.
Il male si ingrossa dopo il 1914:
fra le numerose gestioni fuori bi¬
lancio, istituite durante la prima
guerra mondiale, la più grave fu
quella per gli approvvigionamenti
e i consumi, mantenuta in vita nel
primo quadriennio del dopoguerra
e di cui sentiamo ancora, con nomi
e con forme diverse, le pesantissi¬
me conseguenze.
Nella sua prima forma, questa
gestione dura dal dicembre 1915
al luglio 1922, quando la sua liqui¬
dazione passò nell’ambito del bilan¬
cio. I mezzi finanziari per lo svol¬
gimento della sua attività erano co¬
stituiti dai conto corrente con gli
istituti di emissione, alimentato dal¬
le anticipazioni straordinarie, ' che
gli istituti stessi erano tenuti a fare
allo Stato, e che, con R.D. del set¬
tembre 1919, erano state elevate a
un massimo di 1850 milioni: dalle
somme che essi incassavano per
conto della gestione approvvigiona¬
menti e consumi; dal ricavo delle
vendite delle derrate; dai crediti
concessi al Tesoro italiano dai go¬
verni inglese e statunitense.
Altri mezzi finanziari erano asse¬
gnati alla stessa gestione sul Fondo
di cassa, messo a disposizione per
le spese non iscritte a bilancio, e
che si mgrossava registrando come
entrata effettiva i cambi, che si
presumeva di dover pagare ed effet¬
tivamente non si pagavano, sui pre¬
stiti esteri in valuta pregiata.
La gestione fuori bilancio
Conseguenza delle fortissime spe¬
se di guerra e del sistema della
gestione fuori bilancio l’aumento
pauroso del debito di tesoreria:
disceso da 40 a 8 miliardi nel primo
decennio del dopoguerra, esso rico¬
minciò a salire dopo il 1931, fino
a toccare i 14 miliardi nel 1935,
determinando un aumento preoccu¬
pante della circolazione bancaria,
che salì da 2199 milioni di lire
alla fine del 1914 a 13.028 milioni
nel 1935, con l’inevitabile conse¬
guenza del rapido aumento dei prez¬
zi, per cui si andava minacciando
alla lira italiana la stessa sorte del
marco tedesco.
Altra, e non meno grave conse¬
guenza dcH’aumento del debito di
tesoreria fu l’impossibilità di prov¬
vedere alla temporanea deficienza di
cassa con l’emissione di buoni ordi¬
nari del tesoro a breve termine, e
la conversione forzata dei buoni sca¬
duti in consolidato al 5%, che, de¬
cretata nel 1926, determinò una
perdita di 5 miliardi per i posses¬
sori dei buoni ordinari. Questa per¬
dita rese impossibile per molti anni
ogni nuova emissione, sicché la Te¬
soreria fu costretta a ricorrere quasi
esclusivamente alle anticipazioni del¬
la Banca d’Italia, cioè alla stampa
di biglietti.
Nello stesso tempo le gestioni
fuori bilancio, riprese con la guerra
per la conquista etiopica, crebbero
continuamente, assumendo un carat¬
tere permanente, e si moltiplicarono
gli enti speciali con funzioni di Sta¬
to, ma con propria contabilità. Con
legge dciril luglio 1941, integrata
da provvedimenti successivi, si au¬
torizzò l’iscrizione nella categori.:
dei movimenti di capitali di alcune
spese per opere pubbliche, per i
soccorsi alle famiglie dei militari
e — quel che è più grave — per
fronteggiare i disavanzi degli enti
ausiliari dello Stato.
1 (U Valletla
Dopo la caduta del fascismo e
la fine della guerra, nuova esca al
moltiplicarsi di questi espedienti
contabili e finanziari fu data dal¬
l’articolo 81 della Costituzione, che
avrebbe dovuto ricondurre alla nor¬
malità del sistema, rendendo impos¬
sibile l’approvazione di nuove spese,
se non si fosse provveduto alla loro
copertura con entrate di uguale va-
lore.
Fra gli espedienti a cui si fece
c si fa più frequente ricorso uno
fra i preferiti è stato quello delle
spese diluite nel tempo, cioè a pa¬
gamento differito in un numero di
esercizi spesso molto elevato, per
cui i bilanci futuri si troveranno
gravati da un cumulo crescente di
spese per opere iniziate e spesso
compiute già da parecchi anni.
Secondo i calcoli accuratissimi
fatti dal Repaci, i pagamenti rin¬
viati ( residui passivi ) salivano alla
fine dell’esercizio 1958-59 alla bella
cifra di 1464 miliardi di lire cor¬
renti, di cui 1060,7 miliardi risul¬
tanti dai rendiconti e 403,4 miliardi
da spese non contabilizzate.
Queste somme, che sono aumen¬
tate nei due anni successivi, e che
graveranno in misura sempre meno
tollerabile sui bilanci futuri, ci sem¬
brano più che sufficienti per dimo¬
strare quanto siano assurde e peri¬
colose certe opinioni dei nostri mag¬
giori capitani d’industria in materia
di finanza pubblica.
Per citare un esempio solo, fra
i più recenti, nel suo interrogatorio
presso la Commissione parlamen¬
tare d’inchiesta sui limiti posti alla
concorrenza, il presidente della Fiat,
Vittorio Vailetta — dopo aver in¬
vocato misure di difesa contro il
preteso e non documentato dumping
che i due colossi dell’industria ame¬
ricana dell’automobile (la « Gene¬
ral Motor » e la Ford) minaccereb-
bero all’industria europea — ha
insistito nella richiesta che, per
superare il momento difficile che
ora si sta attraversando, lo Stato
provveda alla costruzione immedia
ta a proprie spese o con i suoi
contributi, di un grande numero di
scuole, ospedali e abitazioni; non
solo si soddisferebbe così un urgen¬
te bisogno sociale, ma si ravvive
rebbe lo sviluppo economico nazio
naie. Per provvedere al finanzia
mento di questa maggiore attività
edilizia, egli disse, « dato che il
Governo si trova nella condizione
di non poter fare in questo momen¬
to spese immediate, perchè per il
famoso articolo 81 della Costitu¬
zione non si trova in grado di repe¬
rire i cespiti necessari per far fron¬
te a determinate spese, si potrebbe
ricorrere a un prelievo dai residui ».
« Esiste infatti — egli aggiunse —
una massa ingombrante di residui,
che giacciono inutilizzati. Per quale
motivo non si potrebbe con una leg¬
ge speciale, la quale costerebbe po¬
che sedute al Parlamento, provve
dere in tal senso?» (1).
Con questa facile trovata, che
purtroppo non è del tutto nuova
nella più recente pratica finanziaria,
il grande industriale (che, fra l’altro,
è stato per vari anni professore di
tecnica commerciale, o di ragioneria
in una Facoltà Universitaria di Eco¬
nomia e Commercio), dimentica
semplicemente che in moltissimi casi
i residui attivi sono costituiti da
crediti inesigibili, in altri da somme
stanziate per opere in corso e di cui
non si è pagata che una prima quo¬
ta; ma, soprattutto, dimentica che
di fronte ai residui attivi ci sono
anche i residui passivi, che spesso
ne superano l’entità.
L’arlifolo 81
L’esempio su cui abbiamo voluto
trattenerci è particolarmente preoc¬
cupante perchè è tipico della men¬
talità dei nostri uomini di affari,
e, purtroppo, non soltanto degli uo¬
mini d’affari. Alcuni ministri e al¬
cuni dei più alti funzionari dei
ministeri finanziari ed economici,
considerano l’art. 81 (che riteniamo
sia stato voluto da Einaudi per dare
forza alla sua politica di difesa della
lira), come un ingombrante e inuti
le ostacolo al finanziamento di im
prese che — secondo loro — avreb¬
bero per l’economia del paese una
utilità ben maggiore che il ristabi¬
limento dell’unità, della sincerità
e della chiarezza del bilancio, c non
SI preoccupano del minacciato crol¬
lo della moneta, che promette larghi
profitti agli speculatori più audac.
e senza scrupoli.
Per questo noi dobbiamo scusar
ci se, nel parlare dell’opera podero¬
sa del Repaci, il quale si è proposto
di illustrare la storia secolare dell’
nostre finanze in tutti i suoi aspetti
(delle spese, dei tributi, del debito
pubblico, della contabilità e del scr
vizio di cassa) ci siamo trattenuti
quasi esclusivamente sulle pagine,
che egli dedica alle deviazioni dalli
normalità del bilancio, proponendosi
soprattutto di rettificarne i dati uf
ficiali, sulla base di documenti o di
calcoli che ci sembrano in gran parte
attendibili.
I pericoli
(lei isisteinu attuale
Se la nostra attenzione si è rivol¬
ta soprattutto alle deviazioni conta¬
bili è stato perchè è questo il campo
in cui più evidentemente si manife¬
stano i pericoli del sistema attuale;
ma non meno ci hanno interessati
le cifre in cui il R. espone le conse¬
guenze immediate e più gravi del
sistema; l’aumento, cioè, del debito
pubblico in tutte le sue forme, e
parallelo ad esso, l’aumento dcHii
circolazione bancaria, che, dopo le
proporzioni paurose assunte nei
quattro anni della seconda guerra
mondiale, ha avuto una ripresa
preoccupante negli ultimi mesi, e
in cui noi — a costo di essere
condannati come antiquati — ei
ostiniamo a vedere una delle cause
principali dell’aumento del costo
della vita.
Per la luce che getta su questi
importanti fenomeni, per la ric¬
chezza dei dati raccolti con rara
diligenza e obiettività, per la critica
acuta a cui li sottopone, il volume
del Repaci offre una guida preziosa
a chiunque voglia tentare di orien¬
tarsi in quel labirinto che è la
storia della nostra finanza nel primo
secolo dell’unità italiana.
GINO Ll’ZZ.VTK»
(1) Camera dei deputati. Commh-
.sionp d'inchiesta sui limiti po.sti alla
coìécorrema nel campo economico.
Seduta del 24 ottobre 1962 (p. 15).
38
LIBR I_
«Mea culpa» per la Germania
La nuova Germania e i vecclji
nazisti
T. H. Tetens
t^diiori Riuniti, 280 pagg. L. 2800.
t'* 'ERO quel che dice Sergio Se-
gre, nella prefazione all’interes¬
sante libro di Tetens che La nuova
Germania e i vecchi nazisti è « impor¬
tante perchè (...) rappresenta un mo¬
mento di quella più adeguata presa di
coscienza dei termini reali del proble-
ma germanico cui si assiste ora in
alcuni strati influenti della vita sta¬
tunitense ». E’ vero e triste al tem¬
po stesso. Tetens, che si riaccosta
alla Germania dopo esser fuggito dal
Paese nel ’33, è sdegnato per il nuo¬
vo assetto della Germania federale
ohe, con l’etichetta della democrazia
autoritaria, conserva istituzioni e uo¬
mini del passato regime. Il suo li-
oro è dunque un grido d’allarme, ri¬
tardato finché si vuole, destinato an¬
che a restare un semplice atto di
buona volontà, ma utile, impegnato,
clamoroso.
. Eppure, benché per certi aspetti
impressionante. La nuova Germania
c t vecchi nazisti ha il limite di una
raccolta di episodi di cronaca. ISfila-
no — tratti da citazioni di giornali
tedeschi o americani — i casi di an¬
tisemitismo, le attività delle orga¬
nizzazioni nazista più o meno camuf-
fate, la riabilitazione dei gerarchi e
dei militari, la mascheratura demo¬
cratica dell’apparato statale (inse-
gnanti, magistrati, diplomatici, fun¬
zionari governativi). Ci sono episo¬
di che paiono impossibili (l’ammis¬
sione delle SS, fino al grado di co¬
lonnello, nella nuova armata tede-
sea; l’utilizzazione dei ji^ggiori fer-
rivecchi del nazismo nei servizi di¬
plomatici; l’appoggio autorevole con¬
cesso ai nazisti mimetizzati) ma che,
purtroppo, non sono che un aspetto
■7 forse il più esteriore e superfi¬
ciale, anche se di richiamo giornali¬
stico — della nuova struttura dello
Stato tedesco.
Sfugge al Tetens Tanalisi di questa
nuova struttura della Germania di
Bonn, così come l’esame delle respon-
sabilità — ve ne sono molte, ben pre¬
cise, in campo economico e politico
^ di chi ha voluto che la Germania
divenisse ciò che ora è: un Paese do-
'’c le formali istituzioni democrati¬
che si confondono con una pesante
eredità. Il colpo di spugna che gli al¬
leati passarono sulle responsabilità te¬
desche alla fine della prima guerra
mondiale è una bazzecola al confron¬
to di quel che è avvenuto dopo il
1945. Gli aiuti diretti e indiretti, Tin.
eoraggiamento per una riconcentra¬
zione dei vecchi monopoli, l’assolu¬
zione delle colpe naziste (Norimber¬
ga è stato un simbolo, ma dopo No¬
rimberga migliaia di criminali di
guerra sono stati festeggiati, onorati,
ben ricompensati) ecco alcuni degli
alibi forniti da francesi, inglesi ma
soprattutto dagli americani alla Ger¬
mania di oggi.
Gli stupori americani di questi ul¬
timi tempi, e le dichiarazioni deluse
sul conto di Bonn, sono dunque in
certa misura sorprendenti. E’ meri¬
to di un libro come quello di Te¬
tens, nonostante i limiti accennati,
prendere per mano il lettore e mo¬
strargli gli episodi, i fatti dai quali
si può risalire a un esame più com¬
pleto. Forse è anche un invito a
recitare il « mea culpa ».
1. fo.
L* Algeria
si trasforma
Sociologia «Iella rivoluzione al¬
gerina
ili Frantz Fanon
Einaudi, 150 pagg. L. 1200.
R iecco Frantz Fanon, diplomatico,
sociologo, combattente della rivo-
lozione algerina, che con < I dannati
della terra » — un documento essen¬
ziale sul movimento dei popoii co¬
loniali — si aggiudicò il premio Ome.
gna 1962. < Sociologia della rivoluzio¬
ne algerina » è nient’altro che la rac¬
colta di saggi, già pubblicata tre an¬
ni or sono in Francia con il titolo
L’an V de la révolution algérienne,
sequestrata, ripubblicata e di nuovo
sequestrata. Un libro, comunque, che
appare indagine insostituibile dei va¬
lori di trasformazione della società
algerina di fronte al colonialismo esa.
sperato e alla guerra di liberazione
e nel contempo una testimonianza del¬
la personalità intransigente e appas¬
sionata del Fanon (morto, come è
noto, alla fine del ’61 per una ingua¬
ribile forma di leucemia contratta
con le ferite provocate dall’esplosio¬
ne di una mina al confine algerino).
Giovanni Pirelli — al quale si de¬
vono in questi anni la ricerca e la
cura degli studi più importanti sul
movimento rivoluzionario algerino —
parla nella prefazione a < Sociologia
della rivoluzione algerina » di < pre¬
potente presenza» di Frantz Fanon nei
congressi internazionali dei popoli di
colore, dove cominciò a farsi cono¬
scere come militante del Fronte di
liberazione nazionale. Anche Tana¬
lisi che Fanon fa della situazione al¬
gerina, negli anni più angosciosi del.
la guerra, è «prepotente », dura, esclu.
siva. La trasformazione del suo popo¬
lo, degli stessi costumi tradizionali
considerati per molto tempo « tabù »,
sotto Tinfuriare della ondata di re¬
pressione, tutte le modifiche nei rap-
porti familiari sono considerate dal
Fanon nella prospettiva di un Paese
che scuote, in una rivolta di sangue,
l’apatia di secoli e l’assuefazione di
intere generazioni al dominio colonia¬
le. Fanon intravvede appena, e se ne
occupa sullo sfondo, del consueto
schema (a noi caro) degli europei
non tutti ultràs, dei francesi pacifi¬
sti e disposti alla collabiurazione.
A Fanon interessa il « suo » popo¬
lo, la < sua » rivoluzione. Anche se
non coinvoige « tutti > gli europei in
una condanna, a tutti gli europei egli
vuole impartire la lezione di un popo¬
lo che rifiuta, consciamente o incon¬
sciamente, di modernizzarsi, di evol¬
versi — di abbandonare i tabù —
come resistenza al colonialismo; men.
tre invece, appena l’Algeria è co¬
sciente della sua unità, la rivoluzione
armata influenza e determina preci¬
pitosamente una rivoluzione nei rap¬
porti, negli usi, nella mentalità, n
libro di Fanon è lo specchio di un
Paese, rabbiosamente, sanguinosa¬
mente in evoluzione,
1. fn.
LIBRI RICEVUTI
MICHAEL EDWARDES; Asia al bi¬
vio. Feltrinelli Editore, lire 500.
GIUSEPPE AGNELLO: La mia vita
nel ventennio. Mescali Editore,
lire 700.
MARGHERITA BERNABEI: Ag¬
giornamenti sulla questione me¬
ridionale. Edizioni Opere Nuove,
lire 700.
M. ROSSI BORIA: Rapporto sulla
Feder consor zi. Editori Laterza,
lire 10(X).
3 »
opere di Gaetano Salvemini
1. “Magnati e popolani,” e altri scritti di storia medioevale
a cura di Ernesto Sesian
2. Scritti di storia moderna e contemporanea
>/■ voi. I La Rivoluzione francese (1788-1792) a cura di Franco V'enturi
* voi 11 Scritti sul Risorgimento a cura di Piero Pien e Carlo Pischedda
voi 111 Stato c Chiesa a cura di Elio Conti
3. Scritti di politica estera
voi. 1 "Come siamo andati in Libia," e altri scritti dal 1900 al 1915 a cura di Augusto Torre
voL II "Dal patto di Londra alla pace di Roma." e altri scritti sulla prima guerra mondiale
a cura di Carlo Pischedda
voi. Ili La politica estera italiana dal 1871 al 1914 a cura di Augusto Torre
voi IV "Mussolini diplomatico.” c altri scritti sulla politica estera fascista a cura di Augusto Torre
4. Il Mezzogiorno e la democrazia italiana
V voi. I "Il ministro della mala vita." e altri scritti suH’Iialia giolittiana
a cura di Elio Apih
voi 11 Movimento socialista e questione meridionale
a cura di Gaetano Arfé
5. Scritti SLilla scuola
a cura di Lamberto Borghi c Beniamino Fìnocchiaro
6. Scritti sul fascismo
};• voi. 1 a cura di Roberto Vivarelli
voi. II a cura di Roberto Vivarelli
yol. Ili a cura di Nino Valeri e Alberto Merda
7. L’Italia vista dall’America
voli. 1 e II a cura di Enzo Tagliacozzo
8. Saggi vari (Saggi metodologici e ricordi biografici)
a cura di Ernesto Rossi
9. Epistolario
a cura di Enzo Tagliacozzo
10. Biografia e bibliografia
a cura di Enzo Tagliacozzo e Michele. Cantarella
richiedere il piano dettagliato delle "Opere" a Feltrineni Editore «Via Andegari 6 Milano
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