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Full text of "L'Astrolabio 1963 n° 05"

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ESPLODE 

' A. c. JEMOL.O LQ SCANDALO 

ypMUL.. PA T^ CAMPFOND 


dì miSTO ROSSI 


l*’A8TROLABIO - Via XXIV Maggio, 43 - Roma 










NUOVI 

ARGOMENTI 

Rivista bimestrale diretta da 
Alberto Moravia e Alberto Carocci 

SOMMARIO del fascicolo n 59 60 
(novembre ’62-febbraio ’63) 

Gianroberto Scarcia: Enciclopedia sovieti¬ 
ca e sensibilità religiosa. 

Ernesto De Martino: Postilla a Scarcia. 

Vittorio Lantemari: Razionalità, irrazio¬ 
nalità e scienza religiosa (nota al sag¬ 
gio di G.R. Scarcia). 

P. Paolo Pasolini: Poesia in jorma di rosa. 

Roberto Roversi: Zum Arbeitslaaer Tre- 
blinka. 

Emanuele Di Castro: Psicologia industria¬ 
le e condizione operaia. 

Antonio Saccà: Saggio sulla letteratura ita¬ 
liana attuale. 

« 

In vendita presso le principali librerie. Prezzo L. 600 

Gli abbonamenti annui (L. 3.000 per 6 fascicoli) 

vanno richiesti all'Amministrazione di » Nuovi 

Argomenti m; Via degli Orsini n. 34 — Roma 


IL PONTE 

RIl’IST.i MESSILE DI POLITICA E LETTERATURA 
u MERO CALAMANDREI 

Nel fascicolo di aprile: 

Osservatorio: Quel mese di aprile di E.‘ 
Enriques Agnoletti; Chi è Erhard? di S. 
Mauri; I minatori sconfiggono De GauUe 
di M. DeirC)modarme; Il tandem austriaco 
di A. Banchi; Molti giochi nel Medio Orien¬ 
te di S. Boba. 

Articoli di: 

Umberto Segre: Politica, cultura e lega¬ 
lità socialista; Arturo Carlo Jemolo: La te¬ 
sta sotto l’ala; Giampaolo Calchi Novali: 
Rivoluzione e colonialismo in Africa; Ber- 
^ Perotti: Egidio Meneghetti nel Lager di 
Bolzano; Guy Tosi: D’Annunzio visto da Ro- 
main RoUand, con documenti inediti (Fi¬ 
ne); Riccardo Scrivano: Narrativa tra cro¬ 
naca e storia; Anita Mondolfo: Ricordo di 
Fortunato Pintor; Marcella Olshki; Marti¬ 
no. Racconto. 

Direttori: E. E. Agnoletti e Corrado Tumiati 
Piazza Indipendenza, 29 . Firenze 


IL PUNTO 


Opinioni e documenti della settimana 

Colloquio tra socialisti e cattolici, attiva presenza italiana nella politica interna¬ 
zionale, crisi del comuniSmo: sono i temi di fondo che nei suoi sette anni di 
vita « Il Punto » ha affrontato chiamando ad esprimersi personalità responsabili 
di un vasto settore politico, fornendo così sui vari temi la possibilità di un im¬ 
mediato confronto di idee, di considerazioni e di contributi. In questo quadro 
anche i fatti della cultura trovano ne « Il Punto » la loro espressione in quanto 
, aspetti signihcativi dell'azione e dei giudizi di una classe dirigente la quale deve 
vivere questi anni difficili della nostra costruzione democratica con un impegno 
sempre sincero ed organico. ^ 

IL PUNTO 


è il settimanale del centrosinistra diretto da Vittorio Calef 
Dtres. e Amniin.: Via del Babuino 85 - Roma . Abbon. annuali: L. 4000 Italia, L. 10.000 Europa 




















LETTERE 


Corsa 

rincaro 

^ifmor Direttore. 

ha visto come i giornali hanno 
(lato la notizia deU'aumento di 
Prezzo? Poche righe modeste mo- 
h®ste, piene di pudicizia e di ros¬ 
sore. Infatti non è una bella tro- 
''ata anche se nessuno, dai missi- 
ai ai comunisti, ci trova niente da 
ridire, Kon credo che questo sia 
Uno di quei prezzi sui quali il CIP 
ha diritto di intervenire, o sia giu- 
sto che lo sia. Ma se il Mago Mcr- 
hho non mi ha mal informato, nel- 
hlliitio Consiglio dei Ministri al- 
euni dei membri del Governo era- 
ho contrari. Avevano ragione. Qua- 
® conferma più evidente per il 
Pubblico che la lira nel giro di un 
Paio di anni si è svalutata del 20 
Per cento? 

Tanfè. Cera un vecchio impe- 
l^ho con gli editori quando fini¬ 
rono per accettare qualche mese 
fhdietro il nuovo contratto giorna- 
.ostico che si sarebbero rifatti con 
*1 nuovo prezzo. Solo — che diami- 
he- — si era d'intesa che si sa¬ 
rebbero aspettate le elezioni. 

. Sono d’accordo che i giornalisti 
facciano pagare quanto meglio 
Possono Ma visto che il giornale 
di 20 pagine batterà sempre gli al- 
,r' e si ricomincerà la corsa all'in- 
visto che dobbiamo andare ver- 
so Un certo periodo di austerità. 
Perché non limitare a otto pagine 
ed a 40 lire (piesto fastidio carta¬ 
ceo diiotidiano. il fastidio dei fatte- 
re.lli sentimentali di tante secca¬ 
tici più o meno regali e delle 
d'vosse rancide di via Veneto, il 
’astidio dei processoni, che sembra 
Ormai siano i giomaloni a orga- 
h'zzare ogni tanto quache ammaz¬ 
zamento sensazionale, 
f'ciisi lo sfogo. 

GINO ni.-\NCHI 


f^ropaganda 

Cdison 

^tfjnor Direttore. 

a Milano la società Edison Volta 
Pubblica, ormai da anni, un notizia¬ 
rio mensile che viene inviato gra¬ 
fi» a tutti gli utenti. E’ una ini¬ 
ziativa simpatica — purtroppo non 
iinitata dall'Azienda elettrica mu¬ 
nicipale — che s’inquadra nella at- 
fività delle « pubbliche relazioni » 
che la Edison ha ben curato. In 


questo notiziario («Colloqui») la 
Edison ha sempre contrabbandato 
politica di destra in pillole; la co¬ 
sa era, in definitiva, legittima per¬ 
chè del suo bollettino la società po¬ 
teva fare quel che voleva. In que¬ 
sti ultimi mesi, però, è sopravve¬ 
nuto qualcosa di nuovo. La Edison 
Volta è passata in gestione al- 
l’ENEL. Ebbene, strano a dirsi, il 
bollettino della società — fhi® c*' 
una società in gestione ENEL. 
continua a pubblicare tirate pro¬ 
pagandistiche contro la nazionaliz¬ 
zazione deH’industria elettrica, con 
tro i partiti di sinistra, contro la 
Democrazia cristiana « succube del¬ 
le sinistre ». Sembra proprio di 
leggere un supplemento propagan¬ 
distico edito dal partito dell’ono¬ 
revole Malagodi. Le sembra giusto? 

(lettera firmata) 


Clericali 


e no 


Egregio Direttore, 
la sua rivista è senza dubbio in¬ 
teressante e merita di essere let¬ 
ta e diffusa. Vorrei tuttavia met¬ 
terla in guardia contro un p.'rico- 
lo che non è teorico e cioè l’anti¬ 
clericalismo deteriore e contropro¬ 
ducente (—). Ci sono dei collabo¬ 
ratori della sua rivista che si dimo¬ 
strano dei « clericali deiranticleri- 
calismo»; fanatici, offensivi. Allu¬ 
do al prof. Rodelli — nella fatti¬ 
specie — che osa scrivere che fra 
gli obiettivi dell’Università Cattoli¬ 
ca c’è quello di collocare persona¬ 
le devoto alla Chiesa negli ospe¬ 
dali « ...dove esso può esercitare 
una pressione psichica (-•) per ot¬ 
tenere confessioni, conversioni ed 
eredità a favore di enti ecclesiasti- 

ADRIANO GALLIA 


Assicuriamo il nostro lettore che 
noi non siamo sul piano dell’anttcle- 
ricaicsimo di bassa lega. Ma quan¬ 
to ai rilievi del prof. Rodelli ch’rpH 
lamenta legga quanto scrive al no¬ 
stro direttore da un comune me¬ 
ridionale un suo secchio compa¬ 
gno di confino: 

« ...lo stesso Sindaco si interes¬ 
sò a ricoverarmi in un ospizio di 
S.A.A., ove sono rimasto solo alcu¬ 
ni giorni perchè l’ambiente in cui 
si viveva era impossibile. Le suore 
pretendevano che io recitassi le 
loro preghiere e quant’altro si può 
chiedere ai cattolici. Per reazione 
mi lasciavano senza cibo e senza 
alcuna cura. Perciò decisi di ritor¬ 
narmene a casa... ». 


Vaticano 
e Franco 

Egregio Direttore, 
seguo il Suo Astrolabio con vivo 
interesse dal giorno in cui è appar¬ 
so. ed in questi tempi di appro.s- 
simazione e di interessato gioco p(> 
litico mi sembra doveroso “;‘.toli- 
neare la validità dell’opera di ap¬ 
profondimento dei nostri problemi 
politici svolta dal giornale. 

Ora vorrei esplorLe il mio pen¬ 
siero sull’interessante articolo di 
Jerkov « Il V'aticano e Franco », 
nel quale l’autore mi sembra sia 
incappato in una contraddizione di 
fatto fra quanto ha esposto in prin¬ 
cipio e le considerazioni presenta¬ 
te nell’ultima parte. Le responsabi¬ 
lità del Vaticano per l’appoggio a 
Franco, d’accordo. Appoggio in¬ 
condizionato ad una causa che non 
si identificava certamente con la 
« difesa del Cristianesimo ». Ma non 
bisogna che ci scordiamo gli errori 
del governo repubblicano, la sua 
sostanziale impotenza, il terrorismo 
dilagante 

Che Pio XI e XII (papi che mai 
si distinsero per zelo liberale) ed 
il loro Nunzio Apostolico: che Ci- 
rilfò Cattolica e L'Osservatore Ro¬ 
mano si siano comportati nella ma¬ 
niera denunciata da Jerkov, in fon¬ 
do è cosa che non dovrebbe stupir 
molto. Col suo gioco diplomatico, 
meno grossolano di quanto 1 artico¬ 
lista abbia fatto apparire, la Chie¬ 
sa però ha assicurato (non voglio 
ora esaminare gli interessi in bal¬ 
lo) alle nuove classi dirigenti cat¬ 
toliche il diritto di successione a 
Franco. Il Concordato — altro che 
Patti Lateranensi! — serve appunto 
a questo. 

Quando Jerkov dice che « Molti 
segni fanno intendere che dal fos¬ 
sato in cui la Chiesa e Franco han¬ 
no inabissato il popolo spagnolo c’è 
qualcosa che si sta muovendo nel¬ 
le stesse file cattoliche»; quando 
parla della solidarietà di vescovi nei 
confronti dei lavoratori in sciopero, 
e dell’appoggio agli scioperanti da 
parte delle organizzazioni di Azio¬ 
ne Cattolica, dimostra praticamen¬ 
te che l’unica carta valida, oggi, da 
giocarsi nell’interesse della demo¬ 
crazia in Spagna, è, purtroppo, nel¬ 
le mani di quello che diverrà il 
partito dei cattolici. 

GIUSY MAGRI’ 













un passo avanti della tecnica 
una prova ve lo dimostrerà 


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4 











r 




L’astrolabio 


problemi della vita italiana 


DUbbllca 11 10 e 11 25 di ugni mese 

Kedazione e animinislrazioiie; 
Roma . Via XXIV Maggio, 43 
Telefoni: 485600 . 484559 


DIRETTORE 
FERRUCCIO FARRI 

COMITATO DI REDAZIONE 

Eamberto Borghi, Luigi Fos¬ 
sati, Anna Garofalo, Alessan- 
dro Galante Garrone, Gino 
Luzzatto, Leopoldo Piccardi, 
Ernesto Russi, Paolo Sylos 
Labini, Nino Valeri, Aldo 
Visalberghi 

Redattore responsabile 
Luigi Ghersl 

Una copta L lOO, arreiraU U dop¬ 
pio. Abbonamenti annuo L. 2300, 
©stero li doppio, aoalenllore L 5000 
Veraamenll sul cc.p n. 1/40736 in. 
^tato al periodico L'Aalrolabto 

PUBBLICITÀ’ 

Ua pubbliciU «t riceve presso la 
6mmirustrazi<»ne deirAiirolabio. 
Tart^e. una pagina ISO mila lire, 
mezza pagina BO mila lire, 

L’Attroiobto pubblica esclusiva¬ 
mente scritti ncblesti e concordati 
con la Direzione i manoscritti non 
richiesti non vengono restituiti 

A QUESTO NUMERO 
HANNO COLLABORATO: 

Arturo Barone, Arturo Carlo 
Jemolo, Antonio Chiavelli, 
Luigi Fossati, Luigi Ghersi, 
Antonio Jerkov, Gino Luz¬ 
zatto, Ferruccio Farri, Erne¬ 
sto Rossi, Max Salvadori, Um¬ 
berto Segre, Domenico Set¬ 
tembrini. I disegni sono di 
Bruno Caruso. 

Autorizzazione del Tribunale di 
(toma n. 8661 
Tlpograba GATE . Via del Tau¬ 
rini, 18. Roma Dlatribuzlone EDA. 
Via Andegarl. 4 - Milano . Tele¬ 
foni 80435 . 870488 Spedizione In 
zlone In abb. poet. Gruppo II 


Proseguire 
sulla via 
del centro- 


di FERRUCCIO FARRI 


I 


CONSIGLI nazionali del Partito socialista e della Democrazia cristiana 

- hanno segnato un punto di guadagno rispetto alle polemiche intorbida- 
trici precedenti come chiarezza dei punti di partenza di questo show dow» 
politico che i risultati elettorali hanno reso di tanta difficolta e di così alta 
responsabilità. Situazioni nelle quali la confusione e l’incertezza sono le 
peggiori nemiche e la coerenza fornisce il primo aiuto. E’ perciò un 
x^ntaggio attestare le due forze politiche sulle posizioni di negoziato indi¬ 
cate ai due partiti dalla logica della politica che essi hanno seguito sin qui, 
confermando che la via del cosiddetto centro-sinistra resta l’unica attual¬ 
mente percorribile per il progresso democratico del paese. 

Moro non torna indietro sulla linea di Napoli. De Gasperi si vantava 
di aver utilizzato forze di destra per andare a sinistra, come egli riteneva 
di fare con le sue riforme sociali, e deprecava lo steccato tra guelfi e 
ghibellini. Sono passati molti anni, il centrismo finisce in stracci; viene il 
1960, Moro giudica necessario un deciso passo avanti, ed è al centro- 
sinistra ch’egli vuol avviare — con molta vasellina — le salmerie dorotee, 
ed è lo steccato con i socialisti ch’egli ora — « con cauu sperimentazione a 

— deve demolire. Vasellina e cautela non tolgono, per chi voglia giudicare 
le cose piolitiche senza rabbia e prevenzioni, ampiezza e consistenza al 
disegno dell’on. Moro. 

Ma la distanza con le posizioni indicate dai socialisti all inizio del 1962 
resta grande. Non in termini di prudenza, che sono i meno ardui a superare 
quando intervenga una onesta voglia di concludere, quanto per la preva¬ 
lenza d’interessi conservatori che queste elezioni hanno appena cominciato 
ad alterare, per il peso permanente degli interessi di poteri della Chiesa che 
questo Papa ha appena cominciato ad alleggerire, ed infine per lo stru- 
mentalismo normale dei grossi che spinge naturalmente la Democrazia 
cristiana a cercare voti e coperture politiche ed a preferire gli alleati cedevoli. 

E restano grandi per i socialisti i pericoli, correlativi e proporzionali a 
quelle distanze. Di queste e di quelli si veda l’acuta analisi che in questo 
stesso foglio ne compie Umberto Segre. Il più pericoloso di questi pencoli, 
per un partito socialista, è quello di perder progressivamente il contatto 
politico, sindacale ed elettorale con le cosiddette masse lavoratrici, e 
perderne quindi la rappresentanza. Queste elezioni sono state speriamo 
— un campanello di allarme. Ed è su questo terreno che anche a mio 
giudizio sono più necessari il confronto e la competizione con i comunisti, 
sotto pena di un processo di disseccamento che può essere elettoralinentc 
lento ma è alla lunga fatale. E’ un processo d’imborghesimento più che di 
saragattizzazione, come si dice di solito, dato che nella posizione politica di 
Saragat confluiscono complessi elementi. 

Se poi si aggiungono le forti difficoltà economiche e finanziarie che 
riducono le possibilità di spesa proprio quando dovrebbero essere rapide 
e ingenti, le difficoltà di una politica di credito e d’investimenti quando la 
svalutazione della moneta è così accentuata ed il processo inflazionistico 


5 
















così minaccioso, verrebbe davvero da augurare al 
PSI di restar libero da responsabilità governative. 

Ma questo ora sarebbe un consiglio di viltà politica, 
non di prudenza, se per esempio si traducesse in una 
manovra di rialzo del prezzo dell’accordo. E’ lecito 
ipotizzare e teorizzare 1 organizzazione progressiva di 
centri e strumenti di potere dei lavoratori dal basso, 
al di sotto delia tarlata società capitalista, ed io per¬ 
sonalmente auguro che restino al PSI cervelli e idee 
di sinistra capaci di freno e controllo, anche se stimi 
quelle ipotesi e quei teoremi evasioni intellettualistiche 
ed illuministe dalla realtà storica. Ma non è lecito 
ad un partito che si rispetti svicolar all’inglese da 
resjjonsabilità di carattere storico assunte di fronte 
alla società nella quale opera. 

Il processo liberatorio che grado a grado ha 
svincolato il Partito socialista dall’anonimato frontista, 
e lo ha condotto ad autonomia e responsabilità di 
posizione propria aveva come sbocco obbligato e giu¬ 
stificazione storica la realizzazione di riforme strut¬ 
turali, impedite ai comunisti per il loro difetto di 
autonomia, ed indispensabili insieme, ed improrogabili, 
per l’evoluzione democratica di questo nostro buffo 
paese. 

E’ mutata questa condizione e prospiettiva? Non so¬ 
lo non è mutata, ma è più urgente e cogente. E’ solo 
la presenza socialista che potrebbe permettere il gover¬ 
no dei grandi investimenti pubblici e privati e dei gran¬ 
di consumi, il controllo dei prezzi, la rottura delle posi¬ 
zioni monopolistiche, gli strumenti giuridici per la 
lotta contro di esse. E potrebbe permettere la riparti¬ 
zione delle risorse e delle disponibilità secondo gli 
obiettivi s(x.'ialmente e nazionalmente più urgenti. 
Altrimenti lo sviluppo equilibrato e il ripiano di quei 
famosi squilibri resta una frasca oratoria come è 
sinora stata. 

Le riforme 
essenziali 

In questo quadro le regioni sono prevalentemente 
uno strumento di un certo dirigismo urbanistico e 
sociale e di una certa politica agraria, non una riforma 
di per sè autosufficiente. Ciò sia detto a proposito di 
quel nominalismo delle riforme di struttura troppo 
facile anche tra i socialisti; non certo tuttavia a 
conforto del metodo omeopatico che l’on. Saragat pro¬ 
pone a sollievo dei crucci dell’on. Moro. 

E poiché larghe porzioni di elettori votando contro 
il centro-sinistra hanno votato contro i crescenti disagi 
della vita quotidiana ed il caro e difficile vivere, ed i 
socialisti sono stati coinvolti in una protesta contro un 
governo in parte incolpevole ma in parte insufficiente, 
vorremmo ricordare anche ai socialisti che il prezzo 
delle patate è importante come le riforme di strutturi, 
e più importante dei grandi principi, sul tipo della 
salvezza della demtKrazia, che da tempo immemora¬ 
bile hanno sempre servito a imbrogliare la gente. 

Non sono una cosa astratta ma concreta la riforma 
della legge di P.S. e dei codici fascisti, e gli indirizzi 
generali relativi al cittadino ed al lavoratore che sono 
cosi bene illustrati dal programma socialista. Sono una 


cc»>a urgente le riforme scolastiche, alle quali Ton- 
Nenni riferendo al Comitato Centrale non ha dato il 
rilievo prioritario ch’esse meritano. E’ una cosa grave 
un azione positiva contro la guerra fredda, ed è una 
cosa seria una politica di centro-sinistra portata sul 
piano europeo. 

Ritorno 

all’opposizione? 

Ad altre esigenze possono o potrebbero bastare 
altre forze politiche. Per queste non basta la generica 
pressione della sinistra; occorre specificamente l’impS' 
gno corresponsabile dei socialisti. Ed il discorso torna 
dunque non dico al programma, ma piuttosto alla 
sostanza del centro-sinistra, cioè alla sua serietà. Primo 
requisito ne è la organicità che è mancata al preceden¬ 
te esperimento. Una politica di sinistra non è un 
affastellamento di provvedimenti sinistrorsi, ma un 
insieme governato da principi cardinali. 

Sarà possibile? I dubbi sono così forti, che pfUj 
valgono in questo momento le voci e le previsioni del 
ritorno alia opposizione, evidentemente inevitabile 
ai socialisti sotto il velo di eloquenti sofisticazionj 
si richiede sostanzialmente la funzione della ruota o* 
ricambio, e se sarà in realtà un grande ricatto quello 
che Moro porrà a Nenni. Non vorrei soltanto che j 
dirigenti socialisti non avessero piena coscienza <1^1 
significato grave di una rottura, presi da una ceri** 
fretta di liberarsi del centro-sinistra come di un 
geggio diventato imbarazzante. 

Sia l’accordo sia il contrasto devono avere una 
giustificazione piena e incontrovertibile. Devono esser¬ 
ne persuasi i lavoratori. I quali devono essere messi 
in guardia dalle fisime di un’opposizione eroica e gl^' 
diatoria. In Parlamento è diffìcile, faticosa una oppo 
sizione mantenuta sul piano di chi ragiona come se 
fosse il governo di domani, a fianco di comunisti che 
possono domandar la luna senza fare i conti. N^l 
paese non è facile ai socialisti non far la scimmia 
dei comunisti. 

Non è il centro-sinistra la via obbligata dei 
socialisti, ma una politica realizzatrice di sinistra. 
Se il blocco moderato che ha il monopolio del potere 
dovesse alla lunga renderla impossibile, il fallimento 
della funzione storica del PSI in Italia non gli lasce- 
rebbe dopo lacrimevoli scissioni che le consolazioni 
missionarie della mitologia rivoluzionaria. Se il P^I 
riesce nella missione democratica che le contraddizioni 
della storia italiana gli hanno affidato, presto si aprirà 
il varco alla prima riforma socialista, il controllo della 
grande impresa. 

Il centro-sinistra è frutto non causa della evolu¬ 
zione della società nostra. Per questo anche Moro, 
almeno in astratto, lo riconferma. Ma questa dialettica 
che muove la storia italiana opera ancora,potrà per¬ 
mettere domani la vittoria e la spinta in avanti che 
oggi appare difficile, ed impegna comunque ed in primo 
luogo, a mio parere, i socialisti a tenere vigorosamen¬ 
te e tenacemente aperta questa strada. 

FEKKLCCIO l'.VKKi 


« 










L’ipoteca dei socialdorotei 


di UMBERTO SEGRE 


The FANFANI debba per il momento scomparire, 
pagando di persona una sconfitta democristiana 
ha ben altre e più vaste ragioni della sua pretesa 
«imprudenza», si è capito subito, appena risuono 
<^ontro di lui l’attacco di Saragat, che interpretava e 
^accoglieva anche tutto il lungo odio dei dorotei; da 
congresso di Firenze, dalla Domus Mariae, e torse 
Wche da Napoli, quando toccò a lui raccogliere il 
Alimento della gestione Gonella, e lo fece con una 
energia che lasciava col fiato sospeso i suoi stessi 
«amici» di «Iniziativa democratica». 

Quando avvertimmo lo squillo della rantara sa 
f*8attiana, e non distinguemmo, nell’eco doroteo, a 
';?ce del solo che avrebbe potuto difenderlo, quella 
Moro, capimmo subito che Fanfani era spacciato. 
Non spettano a noi esami di atteggiamenti soggettivi, 
®a siamo abbastanza convinti che Moro non dcside- 
tasse questo calice; tuttavia, obbiettivamente, ha vo- 
nto che esso fosse sottratto a Fanfani, e ha posto 
fta le implicazioni di tale verdetto anche la propria 
Candidatura. 

Moro sa, per suo conto, che la liquidazione di Fan- 
'ani è ingiusta, e ha scelto di farsene travolgere, se 
saprà riscattarne l*iniquità con una riuscita che 
rafforzi il centro sinistra? C’è nel piccolo dramma 
della dirigenza democristiana questa aspirazione al- 
^ autocastigo e alla riparazione? Non importa accer¬ 
tarlo — ripetiamo — ai fini di un’analisi politica. Qui 
Conta solo che Moro abbia tollerato — cioè^ voluto 
~~ che pesasse su Fanfani, decisivo, il giudizio dei 
Suoi nemici; ne ha probabilmente afferrato 1 inarre¬ 
stabilità; c si è lasciato trarre in mezzo, speriamolo, 
P^r attenuarne effetti, che tutti consideriamo gravis¬ 
simi per la causa del centro sinistra. 

La lattica di Moro 

Che cosa rappresenta esattamente Moro, per que¬ 
sta politica? Si dice: rappresenta la svolta di Napoli, 
l’unificazione del partito dietro una linea che usciva 
dalla realtà stessa delle cose — cioè dalla irripeti- 
hilità del centro destra dopo Tambroni — prima an¬ 
cora che dalla vocazione riformistica della DC. 

E’ importante rammentare « come », secondo noi, 
I 3 rappresentava; con un’arte finissima, cioè delle 
differenze qualitative fra persone, interessi, gruppi; 
con una capacità di « farsi tutto a tutti », ispirando 
fiducia a ciascuno e senza identificarsi con nessuno. 
Queste doti non gli saranno certo negate. Ma sin da 
Napoli noi provammo il sospetto che ci fosse an¬ 
cora una distinzione da operare nell’azione di Moro; 
tra la capacità indubbia di suscitare uno stato d’animo, 
Una emozione — e quella, che non vedevamo, di de¬ 


lineare un tipo di stato, un progetto tagliente e non 
corrodibile per il futuro. Moro aveva, e dava la sen¬ 
sazione della svolta, dell’atteso giudizio delle nuove 
generazioni, di un riscatto cristiano-popolare dall in¬ 
giustizia; ma non esprimeva alcuna idea di nuovi or¬ 
dinamenti, non annunciava una rivoluzione, se così 
potessimo dire. 

Doveva esservi per lui una lenta e polivalente re¬ 
denzione, certo; ma all’interno di un quadro statale 
che restasse quello. Non voleva, del resto, ingannare 
nessuno. Sull’idea di nazionalizzazione fu il piu reti- 
Qgfite — al modo stesso in cui più tardi, sulle re¬ 
gioni, fu il solo a non vincolarsi. Legare le volontà 
e le formule a fermi mutamenti istituzionali, che 
sono pietre per il futuro, che importano non si possa 
tornare indietro — questo era contro la sua mentalità 
e volontà; chiamava « cauta sperimentazione * ^ape^ 
tura ai socialisti, non nel senso che la parola può avere 
in un pragmatista, ma in un esperto di casistica. 

Ebbene, fu questa bravura — vi si fondevano slan¬ 
cio morale e pazienza della combinazione; arte del 
silenzio solo in rari momenti sopraffatta dall’urgenza 
di un annunzio, piuttosto che di una promessa — 
che a Napoli raccolse tutti (meno la destra del par¬ 
tito), nella convinzione della inevitabilità e della po¬ 
sitività del centro sinistra. Ma poi, proprio nella pre¬ 
minenza quotidiana del silenzio, in quella dell emo¬ 
zione sulla previsione, dell’attesa sull’iniziativa, stava 
la possibilità di mille reticenze, mistificazioni, astuzie 
e congiure, di tutti coloro che quel « riconoscersi^ in 
Moro » pareva trascinare, e invece serviva a coprire. 
Fanfani poteva illudersi per un momento che Moro 
gli assicurasse davvero il sostegno del ^ partito nella 
sua interezza, e infatti la « cauta sperimentazione * 
del ’62 non ammise più la pratica dei franchi tiratori. 
A loro volta i dorotei sapevano che, se bisognava in 
questo senso lasciar « sperimentare * il morofanfa- 
nismo, essi serbavano piena facoltà _ di togliere a 
Moro la delega di garante del fanfanismo, obbligan¬ 
dolo, quando avessero deciso di ritirare a Fanfani 
la loro fiducia, a provarsi di persona nella inven¬ 
zione governativa di un centro sinistra a loro iin- 
magine e somiglianza. La forza di Moro, nel trasci¬ 
narli alla nuova esperienza, consisteva nella sua ca¬ 
pacità di legarli ad un certo « sentimento » del fu¬ 
turo; la sua debolezza, però, stava tutta nell aver 
solo impiegnato il « suo » sentimento: non la loro 
parola e il loro avvenire ad un programma netto,, glo¬ 
bale, non smozzicabile. Moro prospettava una riu¬ 
scita anticomunista? Meglio: ne erano loro i giudici; 
l’avrebbero misurata al « loro » anticomunismo; e il 
Segretario del partito avrebbe marciato. 

E’ questo lo spettacolo al quale assistiamo in 
questi giorni. Moro sembra avanzare come il sue- 









cessorc unico e predestinato di Fanfani: ma non è 
un vincitore, sia chiaro. E’ lui stesso uno dei vinti 
democristiani del 28 aprile, anzi, forse il più diret¬ 
tamente coinvolto nel destino di quella giornata, per- 
_ che a lui incombeva la scelta dei temi e dei modi 
della propaganda. E’ lui, solo lui, che i dorotei tra¬ 
scinano alla prova, come quello che, dopo aver so¬ 
stenuto, deve rettificare e smentire Fanfani, per il 
quale aveva dato un avallo della ragione, quando si 
trattava di contrapporre una posizione antitambro- 
nista alla abbietta parabola del ’60, e dell’opportunità, 
quando si venne alla scelta di una combinazione, che 
doveva dar fiducia non ai soli democristiani, ma ai 
socialisti. 


Il disegno di Saragat 

Non solo: ma ora Moro rappresenterà non il 
« proprio » centro sinistra, se ne ha uno in mente 
che in lui si identifichi, ma quello dei dorotei. Il 
« sentimento » di Napoli — per chi allora se ne ap¬ 
pagò — non può che dare un risultato di questo tipo. 
Se Moro si fosse, allora, legato a certe decisioni 
e non altre, a un senso costruttivo senza alternative 
nè diversioni possibili del centro sinistra, forse oggi 
non potrebbe essere, al governo, colui che i dorotei 
Kelgono a loro rappresentante. Ma a Napoli Moro 
diede un impulso, non una proposta; e gli impulsi 
vivono nelle mani di chi, deciso a occupare il potere, 
li sfrutterà e interpreterà a sua guisa. La stessa al¬ 
tezza di Moro come « metapolitico » lo abbatte, lo 
compromette come semplice politico di partito. Ecco¬ 
lo costretto dunque alla prova che non voleva, che 
non aveva scelto, per la quale avrebbe sempre prefe¬ 
rito essere ispiratore e condizionatore — non prota¬ 
gonista sulla linea più esposta. 

Invece eccolo « determinato » a sua volta in una 
occasione politica, cui hanno contribuito non solo le 
incertezze del compromesso di Napoli, ma la stessa 
sua concezione della DC, quel senso della « centralità » 
che gli è caro, e che non solo la sorte del 28 aprile 
ha ristretto dalle proporzioni predominanti del pas¬ 
sato, ma che proprio Saragt, l’artefice più animoso 
della sconfitta interiore del centro sinistra del ’62, 
ha ridimensionato con la sua costante polemica. 

In sostanza, lungo tutta la campagna elettorale, 
baragat era venuto proprio contestando quella inter¬ 
pretazione democristiana del centro sinistra come 
« massa » moderata italiana che si muove tutta in¬ 
sieme, e ingloba, ai suoi confini, le incertezze altrui 
■ riconoscendo, a sfidarla in questo disegno, un 
solo avversario, il PCI. Saragat non ha cessato un 
giorno di sostenere, invece, che il centro sinistra 
doveva avere un altro marchio, quello socialdemocra¬ 
tico. Certo, la sua pretesa sarebbe caduta nel vuoto, se 
1 comunisti fossero rimasti statici, e la DC avesse 
avanzato. Ma i comunisti hanno avanzato, la DC è 
arretrata: oggi si può dunque sostenere che c’è un’al¬ 
ternativa, che si può e si deve tentarla, ed è quella 
Colombo-Saragat, con Moro presidente simbolico, e 
nel disegno saragattiano — con un Nenni costretto 
a reggere lo strascico, se non vuole venir reingoiato 
dal PCI. 


E un disegno di qualche ardimento, ma niente 
affatto inattuabile, visto che corrisponde a un certo 
stato delle forze: la prevalenza dorotea, la piena sua 
intonazione al saragattismo, e non la non discordanza, 
dalia mentalità socialdemocratica, di una parte indub- 
e>enchè non agevolmente numerabile — tlei 
socialisti. A questa «chiave» socialdemocratica del 
centro sinistra può idealmente aderire Malagodi, perchè 
con essa si predicano riforme di così lungo periodo 
c e non si toccano, per esse, interessi costituiti del 
capitale privato italiano; e anche lo scelbismo può 


unirsi a un « gran disegno », che alza su tutto la ban¬ 
diera del senatore Goldwater: la bandiera anti¬ 
comunista. 


o.a.iiu mai stati devoti del fantanismo, e 
abbiamo quindi la possibilità di parlare abbastanza 
spregiudicatamente di quanto sta per accadere. Esat¬ 
tamente CIO che abbiamo temuto dal primo giorno 
m cui tu varato il centro sinistra, che caldeggiammo 
uttavia con la più impegnata speranza di riuscita: il 
imore che sostenuto alla punta da poche forze riso¬ 
lute ad affrontare la gara del tempo, e seguito e 
osteggiato, ridotto e represso da altre che vi si trova¬ 
vano riottosamente legate — il centro sinistra potesse 
pungere a questa versione « pulita » che ha soprat¬ 
tutto una funzione: conservare, illuminatamente con¬ 
servare, la struttura della società italiana qual’è. E’ un 
impegno, quello della moralizzazione della vita pub 
blica, che Saragat mette in testa a tutti gli altri — 
oppure desiderio cui tutti possono plaudire, e cui 
nessuno si sente obbligato? E’ socialismo la previsione 
J ^ qualunque sistema bismar- 

ckiano apicura annullando quando vuole le velleità 
dei socialdemocratici, in qualunque tempo e paese? 
Ma centro sinistra a queste condizioni, che altro è, 
se non proprio 1 adeguamento della socialdemocrazia 
al moderatismo cattolico? 


Riforme in sordina 

Fanfani, si protesta, ha chiesto voti per i socialisti; 
e come poteva non chiederli, dal momento che H 
centro sinistra « non pulito » è quello al quale, poste 
certe condipom di riforma di strutture, i socialisti 
possono e debbono partecipare come parte dominan¬ 
te? Fanfani — si obbietta, per questa via ha smesso 
di esercitare una battagia anticomunista, in quanto 
'r u ‘r « ut sunt », come la storia 

t, Jrr barca con tutti coloro 

che difendono il movimento operaio. Ma Fanfani ha 
sempre chiesto voti per i socialisti « come si voleva » 
che fossero: cioè con una iniziativa riformistica de¬ 
stinata, in certo modo, a sminuire o esonerare via via 
quella della pressione del PCI. Ora, nel momento 
stesso in cui si levano questi rimproveri a Fanfani, 
si scopre ciò che si voleva: la spaccatura del suo par* 
tito, che divenga caudatario umiliato della socialde¬ 
mocrazia e del clerico-moderatismo; e ci si meravi- 
glia che Nenni non vi si sia ancora adattato, e parli» 
I indelicato, di esigenze programmatiche senza al¬ 
ternativa. 

Allo stato attuale dei fatti, e adottata la formula 
saragattiana della « gradualità nella globalità », si può 


g 




capire a che cosa potrebbe ridursi il centro sim- 
stra. Esso si può costituire in un governo, nel qua e 
adottano come finalità, da diluire nel tempo, a 
sicurezza sociale, la scuola (al prezzo di una certa 
clericalizzazione ), la riforma della burocrazia, la {^r- 
sistenza di un certo numero di carrozzoni cliente ari 
pur nella retorica della moralizzazione. Si pone invece 
ia sordina sulla programmazione e sull’intervento pu 
ujico, adottandone la inderogabile cautela della sta¬ 
tuita della moneta; si lascia tranquillo il sistema n- 
scale, per non disturbare quella iniziativa privata che 
otve resistere, lei santa e guerriera, alle cataswoh 
dell’inflazione; si rinviano le regioni all’epoca della 
cosi detta « stabilità politica », cioè del totale rove¬ 
sciamento anticomunista dei socialisti. La prograna- 
tiazione resta un’operazione conviviale di esperti, 
quando dichiarano senza esitazione i limiti del loro 
’tcarico, che è di indicare costi e modi, non destina- 
*ioni e ripartizioni del reddito prodotto o da pro- 
dursi ( parla già così l’ultima relazione del loro pre- 
sidente: e con patente amarezza). Del resto, per ritor- 
di struttura, che comportano spesa e controllo, 
dove reperire le risorse, senza disturbare il grande 
‘Capitale? 

Riarmo anticomunista 

Temiamo che consisterà proprio in un azione così 
o^cntata il famoso, dichiarato anticomunismo che si 
pone ora a condizione pregiudiziale del nuovo centro 
sinistra. E se sarà di questo genere, aggiungeremo 
stima alla concretezza saragadorotea. Perchè non pos¬ 
siamo supporre che il « riarmo anticomunista » di cui 
parla, come condizione di un « centro sinistra 
Serio » possa consistere in una serie di sfide verbali, 
di ingiurie al comuniSmo, di « mostre di Praga » e 
altre maccartisterie fuori tempo. Se si fa dell antico- 
Uhmismo lo si fa sul serio, al cuore delle cose che i 
Comunisti agitano e difendono, c che si enunziano 
Come un certo indirizzo di azioni socialiste. Poi viene 
d testo: la vigilanza di polizia divenuta piu attenta; 
la anatemizzazione politica se quella religiosa non 
bene; la rottura di contatti umani — il rifiuto del 

* dialogo » come regola della coesistenza di socialde- 
’t)t>cratici e comunisti nello stesso paese. Ma l’essen¬ 
ziale è combattere il comuniSmo nella sua sostanza 

quello spettro che da più di un secolo insidia la 
|ranquillità della conservazione moderata. Meglio, se 
il nome per cui si lotta è « centro sinistra »c una di 
quelle parole che , temiamo, diverrebl^ però, tanto 
intollerabile quanto altre ormai demistificate: la bat- 
*®8lia per la « civiltà cristiana », — o !’« area demo- 
statica » — o l’« europeismo » inteso alla maniera dei 

* jeunes patrona ». 

Tutto questo sarà possibile, come sappiamo, ma 
®d una sola condizione: che i dorotei e Saragat possa¬ 
lo indurre Moro a passare sul corpo del PSI. Qual- 
cuno insinua che Saragat intenda proprio servirsi di 
Moro per spezzare il partito socialista, depennarlo a 
sinistra, farne un corpo senza testa da annettere al 
suo dominio di partito. 

Non pensiamo vi sia in Saragat una visione così 
precipitosa del futuro. Il PSI è tuttora, per quanto 


travagliato e diviso, un grosso partito, e il solo, in 
Italia, che serbi netta la visione del centro smistra 
come il vero avviamento al socialismo, in una ostinata 
contestazione della capacità comunista di assumere 
impegni senza ritorno nei riguardi di una legalità 
democratica che deve solo divenire più puntigliosa, e 
non più incerta, nel momento in cui si vararlo riforme 
che estendono, non restringono, lo stato di diritto. 

Il ruolo del PSI 

Ammettiamo che mai il momento è stato tuttavia 
più difficile per il PSI, che doveva, sinora, sostenere 
l’attrito naturale del fanfanismo, e dovrebbe d’ora in 
poi battersi frontalmente contro la parodia del centw 
sinistra; che profittava lui pure della metapolitica di 
Moro, così fluida da meritare, continuamente, di in¬ 
contrarsi con una forza che la obbligasse a definire i 
suoi impegni, ma che ora si presentereb^ invece • 
Nenni non plastica, non dinamica, ma irrigidita dalla 
speculazione e dalla sufficienza dorotea. Riconosciamo 
che è una prova senza indulgenze, continuamente af- 
faticflta dal sarcasmo dei comunisti, e mortificata da 
una lieve, ma pur bruciante sconfitta elettorale. 

Il PSI è tuttavia la sola forza politica italiana che 
può dettare i suoi patti, e giocare tutto per tutto. 
Questa espressione significa: che il PSI_è m grado di 
dire chiaramente quali sono le condizioni, senza le 
quali esso lascerà la DC, con Saragat, al suo destino, 
e assumerà senza paura la funzione di opposizione, al 
rischio di una polemica che cercherà di risospingerlo 
all’alleanza, o almeno alla confluenza nella critica, 
con il PCI. Il PSI deve tuttavia affrontare questo se¬ 
condo rischio. Esso è pure, come il saragattismo, nelle 
cose stesse. Il saragattismo è l’espressione di un con¬ 
servatorismo illuminato, che, come tale, deve « con¬ 
tenere » ad ogni costo la « spinta di classe » dovuta 
al comuniSmo. Ebbene, o il PSI può dKisanwnte con¬ 
trastare questa azione anticlassista dei moderati, o, 
per i suoi impegni classisti, si ritroverà dove è accam¬ 
pato il movimento operaio italiano: non potrà certo 
impedire che là si trovino i comunisti. 

Anche per il PSI c’è una logica, che comanda e 
che non accetta alternative in cui vadano insieme re¬ 
spinti i comunisti e la classe operaia. Niente da 
il PSI in posizione di governo instaura un inizio di 
« legalità » socialista che contribuisce a frustrare il 
disimpegno comunista in questa materia; ma il PSI 
all’opposizione si trova a dover essere implicato in 
un disimpegno, non verso la legalità socialista, ma ver* 
so quella borghese. Non è un controsenso, è ripe¬ 
tiamo — la logica della sua stessa lotta. 

E’ una posizione di alto onore, quella di Nenni, 
di Lombardi, di Valori e di Basw, che, da questo pun- 
to di vista, riconosciamo uniti in un solo atteggia¬ 
mento. Ammettere che abbia dei rischi, che comporti 
l’ipotesi della solitudine, della più aspra polemica 
democratica, è il minimo cui si debba essere 
Ma bisogna anche ammettere che questa sola sarebbe 
ancora oggi l’alternativa al doroteismo, al centrismo 
mascherato, allo * stato di benessere » per coloro che 
ne godono già, nè intendono farsene strappare nep¬ 
pure un pollice. UMBERTO SEGRE 


t 







NOTE E COMMENTI 


Sequestri 
e Procuratori 

SEQUESTRO del volume di 
^ Druno Caruso segue altre opera¬ 
zioni dello stesso genere contro le 
caricature di Grosz, un volume del- 
VAvanti!, altre mostre, severità giu¬ 
diziarie ed amministrative contro 
opere cinematografiche, requisitorie 
di noti Procuratori generai, tutte 
visibilmente ispirate da uno stesso 
spirito ed intento. Come se una stes¬ 
sa volontà politica, tacitamente con¬ 
corde, operasse, fuori in gran parte 
dei poteri responsabili, per castigare 
e ricondurre ai tranquilli « pascoli 
di Engaddi e di Saron » le peco¬ 
relle traviate. 

E’ il costume politico che preoc¬ 
cupa questi solerti custodi del greg¬ 
ge, non il cosiddetto « buon costu¬ 
me » secondo la morale corrente. 
Anzi, il nostro, o anche il nostro, 
è ormai il paese della « libera scon¬ 
cezza in libero stato ». Guardate 
quali volgarità hanno corso al ci¬ 
nema; guardate qual trista porno¬ 
grafia innonda liberamente le no¬ 
stre edicole ferroviarie. Non par¬ 
liamo in nome della morale, catto¬ 
lica, ma solo per un’abitudine di 
semplice pulizia. 

Non ci sembra sia questa la preoc¬ 
cupazione dei signori Procuratori. 
E che cosa si può fare contro di 
essi? Niente. Il ministro deUa Giu¬ 
stizia risponde ai parlamentari: la 
indipendenza della Magistratura è 
scritta nella Costituzione e l’avete 
confermata con le vostre leggi. Il 
Consiglio superiore ha poteri disci- 

f dinari, ma non può interferire nel- 
’esercizio della funzione del Ma¬ 
gistrato. 

E nessun democratico può so¬ 
gnare che si possa intaccare il prin¬ 
cipio del magistrato indipendente 
solo perchè uno di questi s’infero¬ 
cisce contro i disegni di Grosz o 
di Caruso. Se mai sul punto del 
sequestro è da rivedere il codice, 
il coice della autoritaria e puniti¬ 
va etica fascista: la stessa procedura 
sommaria dovrebbe prevedere al¬ 
meno la salvaguardia del giudizio 


L’INCONTRO FRANCO-SALAZAR: 
UNA GARA DI RACCONTI CRUDELI 



Cosi il nostro collaboratore Bruno Caruso ha visto il 
recente incontro dei due dittatori di Spagna e Portogallo: 
il g^eraltsstmo Franco è, da molto tempo, un bersaglia 
di i^ruso. Pere che una denuncia per < vilipendio * o 
un Capo di Stato sia stata presentata e poi — fortuna¬ 
tamente per il buon senso — ritirata 


10 
































TT 


del magistrato di merito. La rifor- 
del codice penale e degli altri 
codici, allo studio da almeno quindi¬ 
ci anni, è stata promessa ancora 
una volta alla fine della Legisla¬ 
tura passata. Sarà forse ripromessa 
"la fine dell’attuale. E nulla dice 
jncglio come sia lento e stentato 
j cammino della democratizzazione 
nel paese. 

fi problema politico sorge quan¬ 
do le ferocie giudiziarie si moltipli¬ 
cano, formano un insieme e pren¬ 
dono figura di un proposito di so- 
vrapposizione sui poteri normali 


dello Stato da parte di un gruppo 
o di una casta, che responsabilità 
politica non ha ed al Parlamento 
non risponde. E’ un’osservazione 
che certe sentenze della Cassazione 
in materia civile hanno già sug¬ 
gerito. 

Ed è un problema di difficile 
risposta, che ogni tempo di tra¬ 
sformazione ed ogni società in tra¬ 
sformazione ha conosciuto. Si ri¬ 
cordi la lunga lotta del secondo 
Roosevelt contro la Corte Suprema. 
Spirito vecchio e tempi nuovi cam¬ 
minano male insieme. 


Tuttavia una conclusione c’è, c 
s’inquadra nelle molte osservazioni 
che l’Astrolabio è venuto via via 
formulando a proposito delle nuove 
formule di governo, intese come 
rappresentative di un indirizzo po¬ 
litico generale. Centro-sinistra tra 
gli altri sensi ha anche questo, di 
indicare chiaramente, fermamente 
come esso intende sia esercitata la 
libertà di espressione nel pensiero. 
Alla lunga un sermone chiaro anche 
i cerberi della giustizia lo intendono. 


L’Italia si sta “agapando” 


pocill processi scandalistici sono 
stati così corrosivi per l’opinio- 
P^.pubblica come quello Mastrella. 
Chi non è rimasto sconcertato dalla 
‘3cilità di rubare allo Stato osten- 
|sta con tanta baldanzosa sicumera 
ha questo lestofante? Chi non è ri¬ 
masto di sale sentendo degli inef- 
®hili ispettori di Mastrella? 

. Lasciamo gli interrogativi sui par- 
ticolari. Un’inchiesta giudiziaria è 
corso a fianco del processo, e 
ttena per ora l’inchiesta ammini- 
^ttativa. Auguriamo che l’autorità 
8'udiziaria e l’autorità amministra- 
hva si rendano conto che l’opinio- 
pubblica attende sanzioni esem¬ 
plari. Interessa ora fermare qualche 
Considerazione generale sull’ammi- 
*"strazione dello Stato e sul costu- 
pubblico. 


Un primo punto riguarda questa 
storia delle importazioni tempora- 
nelle quali Mastrella ha mano- 
vrato con tanta disinvoltura, ma 
hanno sempre fornito materia a so¬ 
spetto, tanto si sono prestate c si 
prestano agli abusi degli importa¬ 
tori ed alle connivenze frequenti 
begli uffici. Le importazioni in tem¬ 
poranea dei cereali costituiscono un 
Oscuro capitolo. 

_ Il secondo punto tocca l’ammi- 
oistrazione delle finanze e delle do¬ 
sane in particolare, che una volta 
sveva fama di controllori occhiuti 
® pedanti. Si ha l’impressione sgra¬ 
devole di un deterioramento di li- 
vello. E’ effetto dell’infausta allu¬ 
vione recente di alti gradi? Il Mi¬ 


nistero delle Finanze rigurgita di 
ispettori generali pressoché senza 
occupazione. 

Col terzo punto siamo condotti 
a rilevare la costosa inefficienza del 
sistema attuale dei controlli, U qua¬ 
le è pedante e vessatorio contro 
l’ammanco di una lira, ma può es¬ 
sere allegramente aggirato dai Ma¬ 
strella che rubano un miliardo. La 
regolarità formale è costosissima co¬ 
me personale assorbito e pressoché 
parassitaria come funzione pubblica. 
E’ in definitiva meno costoso cor¬ 
rere il rischio di un Mastrella che 
continuare nel sistema attuale. La 
promessa riforma dell’amministra¬ 
zione dovrebbe analiticamente rive¬ 
dere settore per settore. 

E consideriamo infine col doga¬ 
niere di Terni gli altri insigni ladri 
di denaro pubblico delle cronache 
attuali, i protagonisti di scandali re¬ 
centi, il col. Amici che va a gover¬ 
nare il demanio areonautico di Bari, 
altri foruncoli scandalosi dei quali 


si attende purtroppo lo scoppio 
prossimo. Consideriamo il malo odo¬ 
re che viene da alcune amministra¬ 
zioni dello Stato, e dalle attività 
parastatali di approvvigionamenti 
granari e alimentari. 

Questi, si sa, sono gli aspetti sol¬ 
tanto più appariscenti di un malco¬ 
stume pubblico che sta sempre più 
avvelenando la società italiana. E’ 
un discorso sgradevole, tanto sono 
facili, noiose e inutili le prediche 
morali, e tanto é difficile combatta 
re la « dolce vita » quando la verti¬ 
gine del miracolo travolge certe clas¬ 
si sociali. 

Qualche cosa governi e partiti seri 
potrebbero fare cominciando ad eli¬ 
minare in alto tanti sprechi ed abu¬ 
si, amputando gli stipendi favolosi 
che le imprese pubbliche hanno pre¬ 
so la cattiva abitudine di elargire, 
facendo pagare le tasse ai deputati 
e senatori. E ricordando che gli ita¬ 
liani dopo il pane chiedono onestà. 



11 












LEHERA DALL'AMERICA 

Il frutto amaro delPintolleranza 

di MAX SALVADORÌ 


La « Lettera dall'America » del prof. 
Saivadori ci è giunta mentre aveva¬ 
no luogo a Birmingham nell'Alabama 
i nuovi violenti scontri razziali che si 
sono accentuati nei giorni successivi. 

^PERO di aver torto, ma è probabile che i recenti 
conflitti razziali di Birmingham nell’Alabama 
avranno risultati seri e di lunga durata — assai lunga. 
E’ vero che vi è stata, relativamente, poca violenza 
fisica. I ” negri ” ( qui chiamano negri tutti quelli 
che hanno un poco di sangue negro, anche se si 
tratta di mulatti in cui prevale l’ascendenza bianca) 
hanno compiuto le loro dimostrazioni pacificamente; 
incolonnati si sono recati davanti agii edifizi pubblici 
dove gli unici a dare ordini sono dei funzionari 
” bianchi ”, alle scuole pubbliche riservate ai barn 
bini ” bianchi ”, a ristoranti che rifiutano di servire 
clienti ” negri ” — e domenica mattina sono andati 
alle chiese dei ” bianchi ” ( in alcune sono stati ac¬ 
cettati, in altre no). La polizia ha proceduto senza 
ostacoli all’arresto di centinaia e di migliaia di dimo¬ 
stranti: i più sono stati rilasciati dopo poche ore, 
altri, — processati per direttissima — sono stati con¬ 
dannati a pene che andavano da pochi giorni ad alcuni 
mesi di carcere. Animatore del movimento era, come 
sempre, il reverendo Martin Lutero King, pastore 
protestante e gandhiano — una delle più nobili figure 
della nuova generazione negli Stati Uniti. 

Violenza, poca; ma la ferita che fa sanguinare la 
nazione americana si è approfondita. Salvo pochissimi, 
gli americani bianchi non se ne rendono conto, ma ò 
già forse troppo tardi per arrivare ad una conciliazione 
fra la maggioranza bianca e la minoranza di colore. 
Sino a pochi anni fa i ” negri ” volevano, più di 
qualsiasi altra cosa, essere americani: volevano parte¬ 
cipare da uguali alla vita americana, consideravano 
propri Jefferson, Lincoln e Roosevelt, si commuove¬ 
vano quando veniva issata la bandiera stellata, impa¬ 
ravano a memoria le nobili frasi della dichiarazione 
d’indipendenza e della costituzione; aspiravano ad es¬ 
sere cittadini di una nazione ” liberale ” quale l’ave¬ 
vano sognata i fondatori della repubblica, una nazione 
in cui, rispettandosi a vicenda, tutti potevano vivere 
da uguali la propria vita. Ma adesso il numero dei 
” negri ” che non vogliono essere americani, che non 
solo odiano la realtà degli Stati Uniti di oggi ma 
respingono totalmente tutto ciò che può essere iden¬ 
tificato con gli Stati Uniti — anche se si tratta di 
quanto di meglio la nazione americana ha saputo 
produrre durante quasi due secoli di esistenza. 

L’intolleranza crudele e miope dei bianchi ha il 
suo frutto nell’intolleranza dei ” negri ”. Fra questi 
ha preso piede e si sta diffondendo rapidamente il 
movimento dei Black Muslims, i Mussulmani Neri, 

12 


organizzato originariamente a Chicago alcuni anni fa 
e adesso in pieno sviluppo in tutti i maggiori centri 
dell’Est, nei quali vive circa un terzo della popola' 
zione di colore degli Stati Uniti. I Mussulmani Neri, 
i quali hanno già costruito parecchie moschee, affer¬ 
mano che il cristianesimo è una religione per bianchi, 
che l’islamismo invece non ha e non ha mai avuto 
coscienza razziale. Reclamano ad alta voce il loro 
apartheid: separazione totale fra bianchi e gente di 
colore, creazione sul territorio degli Stati Uniti di 
uno stato indipendente in cui i venti milioni, o quasi, 
di ” negri ” americani possano governarsi come loro 
piaccia. (Trent’anni fa i comunisti americani avevano 
nel loro programma la formazione di uno stato auto¬ 
nomo ”negro”). Se la coesistenza è impassibile — 
dicono i Mussulmani Neri — la soluzione migliore 
è la separazione dei corpi e la divisione dei beni. 

Non vi è dubbio che la cosa è tecnicamente possibile! 
diciotto anni fa, sovietici, pxilacchi e cecoslovacchi, 
fecero piazza pulita in pxKO tempio di circa quindici 
milioni di tedeschi i quali occupavano un’area vasta \ 
quanto la metà dell’Italia; la quasi totalità di questi 
tedeschi è stata assorbita, sembra senza troppe dif¬ 
ficoltà, dalla Repubblica Federale. Sarebbe certo una 
opierazione costosa: verrebbe anche a costar meno 
di una situazione cronica di guerra civile, che an¬ 
cora non c’è ma che non è completamente da esclu¬ 
dere in un avvenire più o meno prossimo. 

gAREBBE bastata un po’ di generosità da parte dei 
bianchi per impedire che la ferita si approfondisse: 
di generosità ve ne è stata, ma non abbastanza e 
solo da parte di una minoranza piuttosto modesta 
di bianchi. Non bisogna credere che siano solo piccoli 
gruppi di bianchi i quali si oppongono all’integra¬ 
zione razziale: vi si oppone, attivamente o passiva¬ 
mente, la maggioranza dei cittadini, senza distinzione 
di ceto sociale, di livello di educazione, di fede (o 
mancanza di fede) religiosa, di situazione economica. 

Negli stati del sud i razzisti dicono e ripetono ” noi 
siamo la maggioranza, sta a noi decidere quale debba 
essere la way of life (la maniera di vita) degli ame¬ 
ricani ”; negli altri stati i più danno loro ragione 
e cercano di agire nella stessa maniera, come avviene 
a Chicago ed a Detroit. Inoltre gli americani si tro¬ 
vano presi in una loro contraddizione: da una parte 
hanno sempre insistito nell’assimilazione dei grupp* 
culturali minoritari, dall’altra respingono energica¬ 
mente l’assimilazione biologica che nel caso dei ” ne¬ 
gri ” accompagna necessariamente l’assimilazione cul¬ 
turale. Su questi problemi vale la pena di rileggere 
l’opera classica del sociologico svedese Myrdal, fi 
quale circa un quarto di secolo fa fece una inchiesta 
approfondita sul problema razziale negli Stati Uniti. 


J 






E il governo che fa? Ben poco, mentre invece 
potrebbe far molto, trattandosi di una di quelle si¬ 
tuazioni fluide che [jossono essere trasformate com¬ 
pletamente con un poco di energia. E’ probabilmente 
una tragedia per la nazione americana che al mo- 
tnento in cui, sotto la pressione di avvenimenti 
■nterni ed esterni (non bisogna dimenticare l’im¬ 
pressione profonda prodotta fra i ” negri ” americani 
dai rivolgimenti africani) si acuiva la tensione raz- 
ziale, si è trovato al jxitere un gruppo di persone 
londamentalniente scettiche. Parecchi dei dirigenti 
di Washington di oggi, anche fra i più influenti. 


ricordano sotto certi aspetti quelli dell’Italia di quat¬ 
tro decenni fa, o poco più: persone intelligenti, poli¬ 
ticamente astute, che disprezzano i prmcipì e credono 
che con piccole manovre si aggiusta tutto; macchia- 
vellismo meschino. Il guaio è che quando vi è una 
profonda crisi morale, l’azione politica deve derivare 
da una posizione morale. E la crisi oggi c’è nella 
nazione americana (i fatti di Birmingham non ne 
sono che una piccola manifestazione); o il governo 
cerca di agire in base ai principi impliciti nel 
sistema americano, o il sistema si indebolisce. 

31.\X S.4LV.\DORI 


Cento anni contro Marx 


J^ICORDANDO a Hannover i cen- 
to anni di vita del partito social- 
democratico, Carlo Schmidt ha quasi 
evitato di rammentare che il fon¬ 
datore della dottrina, dopo tutto, 
chiamava Carlo Marx. Ha detto 
invece: « Noi socialdemocratici vo¬ 
gliamo che lo stato di diritto si 
elevi a stato di cultura, e pensiamo 
così di dare reale sostanza alla con¬ 
cezione di un grande piensatore te- 
desco, Johann Gottlieb Fichte ». 

Fichte invece di Marx; il filosofo 
delle origini nazionalistiche e dello 
?*ato commerciale chiuso. « Così 
yFD non avesse mai incontrato 
V'arx sul suo cammino » ha scritto 
questi stessi giorni, con rara 
schiettezza, uno storico di minore 
statura, Colo Mann, ma di diagnosi 
precisa. Proprio nella « Neue Ge- 
?,"lschaft », la rivista di studi del- 
hPD, Golo Mann ha constatato 
esattamente che l’SPD ha lasciato so¬ 
pravvivere per troppi anni in sè un 
residuo verbale di marxismo, che 
non corrispondeva in alcun modo 
“gli scopi del partito, al suo orrore 
Per la rivoluzione, al pensiero — 
neppure — di coloro che nelle sue 
nle si esibivano come antiriformisti, 
nia sarebbero apparsi in totale con¬ 
traddizione con i veri antiriformi- 
del marxismo, i Lenin e i Trotzki. 
*11 partito non voleva la lotta di 
elasse, ma l’elevazione delle condi¬ 
zioni di vita dei suoi seguaci, e 
niaggiore influenza sullo stato — è 
''ero — ma di ” questo ” stato, così, 
eom’era ». 

Non ci stupirà l’aspro giudizio 
dello storico inglese Taylor, che, vo¬ 
tando i fondi per la guerra mon¬ 
diale, nel ’14, i socialdemocratici 
tedeschi identificavano, infine, il 


mondo operaio della Germania con 
il capitalismo stesso, perchè, se que¬ 
sto fosse caduto, sarebbe perito in¬ 
sieme quel movimento di lavoratori 
così avanzato, così cosciente. 

Il centenario dell’SPD coincide, 
bisogna riconoscerlo, con un succes¬ 
so eccezionale del partito: mai esso 
ha conseguito, in tutta la sua storia, 
l’affluenza di suffragi che ora gli si 
accostano, proprio perchè riconosco¬ 
no in questo partito, che non do¬ 
vrebbe più chiamarsi socialista, quel¬ 
la « alleanza di ceti medi e di operai 
anticomunisti », quel radicalismo po¬ 
polare, del quale è giusto apprezza¬ 
re il lealismo democratico, lo spirito 
di progresso senza avventure, la ca¬ 
pacità di bene amministrare un paese 
in espansione. 

La debolezza dell’SPD, liquidata 
così ufficialmente, dopo cento anni, 
ogni infiltrazione del veleno marxi¬ 
sta, si palesa tuttavia oggi in tre 
segni molto evidenti. Il primo, è di 
saper non interpretare più lo stesso 
rivendicazionismo operaio. Lo scio¬ 
pero dei metallurgici si è mosso in 
Germania, qualche settimana fa, die¬ 
tro l’impulso di capi sindacali, come 
Brenner, che l’SPD giudica avven¬ 
tati e imprudenti. E’ noto che il 
sindacato dei metallurgici « si at¬ 
tarda » in richieste di nazionalizza¬ 
zioni, che la socialdemocrazia, bern- 
steiniana sino in fondo, ripudia per 
principio, a segno di non difendere 
neppur più dalla riprivatizzazione il 
settore pubblico della produzione 
tedesca. 

Il secondo segno, è l’incapacità 
socialdemocratica di tenere a sè le¬ 
gati i giovani. Il Movimento giova¬ 
nile ha dovuto essere sciolto d’auto¬ 
rità, se n’è costituito burocratica¬ 


mente un altro senza vitalità ideo¬ 
logica; ma si è anche ricostituita 
una Lega di studenti socialisti, che 
non accetta l’opportunismo della 
dottrina di Bad Godesberg, e conta 
oggi la maggioranza dei giovani so¬ 
cialisti in qualche centro importan¬ 
te, come Francoforte. 

Il terzo elemento di debolezza 
dell’SPD è di essere più imprepa¬ 
rato ancora che i democristiani alia 
questione della riunificazione tede¬ 
sca. Si tratta, è vero, di una que¬ 
stione lontana, ma un grande par¬ 
tito tedesco non può non avere 
un’« idea » dell’unità nazionale, spe¬ 
cie se è esso stesso, dopo tutto, 
correttamente nazionalista. 

Ora è naturale che Erhard abbia 
sempre pensato alla riunificazione 
come a una « assimilazione » delle 
strutture comuniste della DDR al¬ 
l’economia sociale di mercato: ca¬ 
dono quelle bardature e si accam¬ 
pa, si espande la prosperità. Per 
i socialisti dovrebbe invece ancora 
suscitare qualche interesse la do¬ 
manda: si può restaurare un sistema 
di capitalismo che, cadendo, ha cer¬ 
tamente abolito il fascismo nella 
Germania Est, e che di qua ne 
salva tuttora certi uomini, e ne re¬ 
staura certe forme, come quella di 
una crescente potenza militare? 

Tra i giovani dissenzienti tedeschi 
corre una parodia della « Carta di 
Bad Godesberg », di cui traduciamo 
alla buona le prime righe: « Artico¬ 
lo I: la lotta di classe è una panzana. 
Articolo II: mi dia del Lei. Articolo 
IH: è abolito l’appellativo "compa¬ 
gno ’’, e sostituito con quello che 
esprime la piena spiritualità della 
persona umana: ’’ buon uomo ”... ». 

.'Vladino 


13 






Il CONVEGNO THE ECONOMIST-L'ESPRESSO 


Quale Europa? 


y •J'EMO PROPRIO che l’Europa 
che alcuni pretendono oggi di 
costruire stia alla nostra concezione 
europea come il nazionalsocialismo 
stava al socialismo. Quando l’avver¬ 
sario utilizza il nostro vocabolario 
per vuotarlo meglio del suo conte¬ 
nuto, allora il pericolo è grave. Se 
De Gaulle dovesse riuscire nella 
(ua politica detta europea, anniente¬ 
remo quel poco che i veri europei 
erano riusciti a fare. Si sta creando 
un mostro: e presto l’Europa sarà 
soltanto una parola ». 

Chi parla così è Guy Mollet, il 
leader socialdemocratico francese 
che ebbe tanta parte nell’avvento 
del gollismo dando l’avvio, quando 
era Presidente del Consiglio, alle 
repressioni su larga scala in Algeria 
con cui s’apriva la tragica spirale 
che doveva portare al putsch del 
13 maggio. Queste parole, riportate 
dai giornali del 19 maggio, suonano 
•d un tempo come ammonimento e 
come confessione implicita dei tanti 
errori e della troppo lunga acquie- 
Kenza della socialdemocrazia fran¬ 
cese. Ma le colpe passate di Guy 
Mollet non sminuiscono la verità 
imara dei suoi giudizi di oggi: De 
Gaulle ha aperto gli occhi anche 
■i ciechi. 

I 

L’impegno inglese 

L’ombra di un’Europa gollista ha 
dominato, com’era logico, il conve¬ 
gno indetto ò&W’Economist. e dal- 
VEspresso a Roma il 18 e 19 mag¬ 
gio su: « L’Italia, la Gran Breta¬ 
gna e l’Europa ». * Per coloro che 
in seno alla Comunità continuano 
ad appoggiare l’associazione britan¬ 
nica il problema non consiste sem¬ 
plicemente nel fatto dell’adesione 
del nostro paese — ha detto uno 
dei relatori, l’inglese Roy Pryce — 
ma nel sapere se si tratta di una 


di LUIGI GHERSI 


particolare Gran Bretagna che di¬ 
venta membro di un particolare tipo 
di Comunità. Per voi che già fate 
parte della Comunità, è essenziale 
che la Gran Bretagna sia propensa 
ad accettare un impegno politico a 
lunga scadenza relativo allo svilup¬ 
po della Comunità. Per noi, tuttavia, 
non è meno importante che il tipo 
di Comunità della quale entriamo a 
far parte sia tale da farci sentire 
capaci di parteciparvi appieno. In 
altre parole, la risposta che la Co¬ 
munità dà alla domanda che tipo di 
Europa? è importante per noi quan¬ 
to lo è per voi ». 

Quale Europa, dunque? La pic¬ 
cola Europa ondeggiante tra i timi¬ 
di tentativi federalisti e la faticosa 
routine attraverso la quale gli or¬ 
ganismi comunitari di Bruxelles so¬ 
no riusciti a dar vita ad una grande 
potenza economica priva di una 
testa politica? O la grande Europa 
cara al generale De Gaulle: la terza 
potenza mondiale guidata dalla Fran¬ 
cia e dominata dai tecnocrati e dai 
gruppi militari? 

Il convegno si proponeva — e 
in una certa misura c’è riuscito — 
di dare a questa domanda una terza 
risposta. Il problema al centro del 
dibattito era questo: se sia possibile 
oggi, dopo il rifiuto opposto da De 
Gaulle aH’ingresso del Regno Unito 
nella Comunità Europea, puntare 
sulla costruzione di un’Europa che 
includendo la Gran Bretagna e re¬ 
stando aperta agli altri paesi demo¬ 
cratici dell’EFTA, sia capace di dar¬ 
si istituzioni libere e soprannazio¬ 
nali fondate sulla sovranità popolare, 
0 se piuttosto non sarebbe più rea¬ 
listico declassare la CEE ad un sem¬ 
plice strumento di regolamentazione 
del commercio e dissolvere in una 
più vasta comunità atlantica quel 
tanto di costruzione europea già rea¬ 
lizzato. Il convegno s’è indirizzato 
chiaramente verso la prima ipotesi. 


lasciando la seconda nello sfondo, 
come un’estrema ancora di salvezza 
nel caso di un fallimento senza spe* 
ranze dell’esperienza europeistica. H 
mare di incertezze in cui naviga 
l’Europa non diventerà certo minore 
— è stato osservato — se si allar¬ 
gheranno i confini in una diluita co¬ 
munità atlantica. 

Ma anche delimitato così l’ogget¬ 
to del dibattito, una volta scelto 
un certo tipo di costruzione euro¬ 
pea, quello democratico e federale, 
il problema si ripresenta più chiaro 
e tuttavia non meno complesso: m 
quale direzione è conveniente muO" 
versi, sul piano politico e istituzio¬ 
nale, sul terreno economico, nel 
campo militare, se si vuole svilup; 
pare un’azione positiva, capace d' 
contrastare efficacemente la politica 
del governo di Parigi? 

L’Europa dei generali 

Roy Pryce nella sua lucida relazio¬ 
ne sul tema dell’unione politica ha 
individuato il punto di debolezza 
della CEE nella mancanza di con¬ 
trolli democratici sull’esecutivo. I* 
Consiglio dei Ministri e, in minor 
misura, la Commissione esecutiva 
sono gli unici organi dotati di pote¬ 
ri di decisione, ma non è stata pre¬ 
disposta nessuna istituzione comu¬ 
nitaria davanti alla quale il Consiglia 
dei Ministri sia tenuto a rispondere. 
Il Parlamento Europeo, nominato 
attraverso elezioni di secondo grado, 
è soltanto una larga politica; i cit¬ 
tadini non hanno nessun peso, men¬ 
tre riescono molto più facilmente a 
far sentire la propria influenza * 
gruppi di pressione che rappresen¬ 
tano grossi interessi economici or¬ 
ganizzati. In queste condizioni, > 
progressi dell’unione politica, cosi 
com’è stata fino a questo momento 
messa in atto, accrescerebbero il ri- 


14 









Schio di un governo europeo buro¬ 
cratico, irresponsabile ed autoritario 
con il connesso pericolo di asservire 
tutti i paesi membri a quei governi 
che possiedono in seno alla Comu- 
tttta la maggiore potenza militare. 

Dalla piccola Europa dei funzio- 
tt^ri, attraverso quello che, in certo 
Senso, si potrebbe definire un pro¬ 
cesso organico di graduale sottra¬ 
zione del potere ai controlli demo¬ 
cratici, nasce l’orgogliosa, inquietan¬ 
te Europa dei generali. 

E’ certamente comprensibile per¬ 
tanto che gli inglesi si preoccupine 
ui rnettere a repentaglio le proprie 
tradizioni democratiche allacciando 
•egami troppio stretti con un’Europa 
^ossa ancora da pericolosi sussulti 

autoritari. 

Ma se è vero che il regime de- 
lyiocratico non è consolidato nel con¬ 
tinente europeo, sarebbe illusorio per 
'Inghilterra pensare di sottrarsi con 
isolamento alle conseguenze di una 
eventuale involuzione politica e so¬ 
ciale nell’Europa occidentale: all’im- 
Postazione gollista, egemonica, auto- 
titaria, militarista, si reagisce — lo 
na ricordato La Malfa — creando 
nn opposto polo di attrazione: l’In- 
Rhilterra. Non si tratta — ha preci- 
^‘tto il ministro italiano ritornando 
stilla proposta da lui stesso avanzata 
subito dopo il fallimento dei nego- 
ziati di Bruxelles — di creare due 
gruppi di Stati ma di contrapporre 
due concezioni, di mobilitare sul pia- 
*^0 europeo le forze democratiche. 

Di.siiiipogiio aloiiiico 

Questa mobilitazione, per passare 
dalle aspirazioni alla realtà e per 
Acquistare la necessaria efficacia, ha 
l’isogno tuttavia di un contenuto 
che non sia limitato alla creazione 
di istituzioni europee più democra¬ 
tiche, ma che riproponga sul terre- 
Ilo europeo le aspirazioni di classe 
c le spinte ideali, i motivi econo- 
iTiici e i contenuti morali da cui 
attinge linfa vitale la lotta politica 
ciei singoli paesi europei. Ancora 
Una volta: quale Europa? 

Un tema che non rientrava nel 
ciuadro, necessariamente circoscritto, 
del convegno Economisl-Espresso è 
quello della futura pianificazione 
economica nella Comunità, che do¬ 
vrebbe peraltro costituire il fonda¬ 


mentale obiettivo programmatico di 
una futura sinistra europea inten¬ 
zionata a fare sul serio, a proporre, 
cioè, non una generica Europa de¬ 
mocratica, ma una precisa democra¬ 
zia europea che abbia compiuto in 
anticipo chiare scelte sociali, che sia 
capace di dare uguali garanzie per 
tutti i cittadini di emancipazione 
dalla schiavitù del bisogno con la 
connessa certezza di poter accedere 
in piena parità ai benefici dell’istru¬ 
zione statale, che sappia assumersi 
un chiaro impegno a risolvere nel 
quadro comunitario i problemi del¬ 
le aree depresse, energicamente e 
in modo decisivo, come potrebbe fa 
re la più grande potenza economica 
mondiale guidata da una classe di¬ 
rigente democratica. 

Ma se i problemi politici e isti¬ 
tuzionali hanno registrato un accor¬ 
do quasi assoluto e se le questioni 
economiche e monetarie hanno sol¬ 
levato talune divergenze di opinio¬ 
ne, contenute tuttavia nel quadro di 
una sostanziale posizione comune, 
più difficile ai fini di una conclusio¬ 
ne indicativa è stata la discussione 
sui problemi della difesa. Su questo 
tema si sono venute delincando due 
posizioni: una, condivisa da quasi 
tutti gli italiani, favorevole al par¬ 
ziale disimpegno atomico dell’Euro¬ 
pa, che dovrebbe accentuare invece 
il proprio contributo convenzionale 
alla difesa dell’Occidente rinunzian¬ 
do a costruire una propria forza ato¬ 
mica e lasciando all’America la spada 
e lo scudo nucleare, naturalmente 
con l’usodelle basi europee; l’altra 
posizione, condivisa da tutto il grup¬ 
po dell’Economist, è improntata ad 
una prospettiva di potenza mondiale 
secondo i concetti tradizionali per 
cui uno Stato è veramente indipen¬ 
dente quando è in grado di far 
fronte a qualsiasi minaccia e deve 
pertanto essere sempre dotato delle 
armi più potenti per scoraggiare le 
eventuali aggressioni. La posizione 
britannica si attenua però nella mi¬ 
sura in cui si dimostra aperta a so¬ 
luzioni di integrazione a tutti i li¬ 
velli del proprio deterrente nucleare 
con quello americano o, eventual¬ 
mente, con un ipotetico (e per conto 
nostro non auspicabile) deterrente 
europeo. 

A queste tesi s’è replicato da par¬ 
te italiana con molta energia. Al¬ 
tiero Spinelli, in particolare, ha mes¬ 


so in evidenza i limiti concettuali 
di questa posizione, ancorata a un 
vecchio concetto di indipendenza 
delle nazioni che la realtà del mondo 
moderno si incarica ogni giorno di 
dissolvere in tutti i suoi aspetti, nel¬ 
l’economia, nella vita politica, sem¬ 
pre più improntata a motivi ideo¬ 
logici che superano i confini nazio¬ 
nali, nella guerra infine, che per 
essere divenuta spaventosamente di¬ 
struttiva ha perduto la sua ragion 
d’essere, che è quella di proseguire 
con mezzi violenti una controversia 
politica non di distruggere l’oggetto 
della contesa. 

1/ariiiaiiieiito luicleare 

Ma il gruppo britannico non era 
poi tutto, attestato sulle vecchie trin¬ 
cee della logica di potenza. Younger, 
per esempio, con un intervento pos¬ 
sibilista ha lasciato capire che per 
i gruppi dirigenti inglesi la rinuncia 
al deterrente nazionale non sarebbe 
certo una tragedia: i laburisti sem¬ 
brano abbastanza decisi a disfarsene 
comunque considerandolo un peso 
inutile e i conservatori sono piut¬ 
tosto propensi a valutare la forza 
nucleare britannica piuttosto come 
merce di scambio per l’ingresso nel¬ 
l’area economica europea che come 
uno strumento difensivo veramente 
efficace. Il che dimostra, se ce ne 
fosse bisogno, che gli uomini politici 
inglesi, che pure si trovano sulle 
spalle l’eredità di una vera grande 
potenza, non sono affetti da quella 
schizofrenia politica — per usare 
un termine di Spinelli — che af¬ 
fligge la classe dirigente francese, 
convinta che la sicurezza strategica 
si acquisti diventando un bersaglio 
vulnerabilissimo ( e obbligato in ca¬ 
so di guerra atomica). 

Con la probabile assunzione del 
piotere da parte del partito labu¬ 
rista in Gran Bretagna ed il paral¬ 
lelo deterioramente della DC tede¬ 
sca, la sinistra democratica europea 
potrebbe ritrovare, in un futuro ab¬ 
bastanza vicino, l’impulso necessa¬ 
rio per rovesciare il vecchio equi¬ 
librio politico col suo bagaglio di 
ossessioni crudeli e di sogni anacro¬ 
nistici. In questo caso, alla domanda 
« quale Europa? » potremo dare con 
serenità una risposta concreta. 

LI I(;i GHEKSI 


15 






FILMCRITICA 

mensile di cinema - teatro - tv 

Sommario del numero 131: 

Roberto Rossellini: «Conversazione sulla 
cultura e sul cinema». 

Francesca Di lorio: «Umberto Barbaro 
scrittore ». 

Armando Plebe: «Kracauver e l’indefinito 
filmico ». 

Elio Mercuri: «Opera aperta come opera 
assurda ». 

Luigi Chiarini: «Cinema e televisione». 

Tadensz Kowalski: «I circoli del cinema 
in Polonia». 

Edoardo Bruno: « Otto e mezzo di Federico 
Fellini ». 

Note e rassegne. 

Direzione e Redazione, Piazza del Grillo 5, 
Roma, tei. 681976 


Qua^lex’xii 

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menti interni e internazionali che inte¬ 
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Mondo Operaio 

Rassegna mensile di politica economia cultura 

Direttore: Francesco De Martino 
Condirettori: Gaetano Arfé e Antonio Giolitti 

Una copia lire 150 — Abbonamento annuo lire 1500 
Direzione, Redazione e amministrazione: Via del Corso 476 — Roma 


scuola e città Suinmario del n. 4 

Direttore: Ernesto Codignola aprile 1963 , 

Lamberto Borghi: Note storiche sui problemi dell’educazione civica; Placido Alberti: Il cinema e 
l’educazione intellettuale dei giovani; Egle Becchi: L’ereditarietà del genio; Bogdan Suchodol- 
ski: Le classi superiori della scuola fondamentale polacca; Raffaele Laporta: La riforma di 
fronte alla realtà; Domenico Izzo: Scuola e società nel Molise. 

Direz. Via delle Mantellate, 8 - Red. e Amm. «La Nuova Italia», P. Indipendenza, 29, Firenze. 


16 















LE RUBERIE DEI CAMPFOND 

E due: imputato 

anche il conte Emilio Pozzi 

di ERNESTO ROSSI 


JL 16 MAGGIO si è svolta, a Milano, l’assemblea 

ordinaria dei soci del Consorzio Nazionale Approv- 
''•gionamenti Materie Prime per Fonderie Ghisa, Camp- 
fond, costituito nel 1937 fra gli industriali siderurgici, 
^pme organo corporativo, al quale i diversi governi che 

sono succeduti dopo la caduta del regime corjwra- 
L'vo, in osservanza al superiore principio della 

* continuità dello Stato *, hanno continuato ad 
affidare l’esercizio di pubbliche funzioni, con 

• brillanti risultati che (non avendo trovato 
ospitalità in altri giornali) esposi diffusamente 
sul Paese sera del 13, 14 e 15 settembbre 1962: 
irregolarità amministrative di tutti i generi; ruberie 
per centinaia di milioni a danno dell’Erario sulla 
gestione della ghisa statale; distruzione di documenti 
contabili per sottrarli al controllo della Corte dei 
^uti; ricatto del presidente del consorzio (conte 
Emilio Pozzi) da parte di un impiegato licenziato 
(Alberto Pozzi, che non aveva alcuna parentela col 
sopraddetto conte); esborso di 17 milioni del Camp- 
fond al ricattatore per ottenere che non * cantasse ». 

Sulla base dei miei tre articoli, l’on. Giolitti, nel 
Novembre scorso, presentò alla Camera una interro¬ 
gazione, chiedendo al ministro del Tesoro di appu- 
come stavano i fatti. Nonostante il regolamento 
uella Camera prescriva che le risposte scritte de- 
vono essere date entro dieci giorni dalla interroga- 
zione, il Parlamento si è chiuso, quattro mesi dopo. 
Senza che l’on. Tremelloni si sia fatto vivo. 

Né alle mie circostanziate denunce, né all’interro¬ 
gazione dell’on. Giolitti è seguita alcuna rettifica o 
smentita da parte degli interessati. E fra gli interes¬ 
sati c’erano: 1) il conte Emilio Pozzi (presidente 
uelle Acciaierie Elettriche di Sesto San Giovanni, pre¬ 
sidente delle Officine di Sesto S. Giovanni Valscc- 
^(’i) presidente delle Terme di Salice, e vice presi¬ 
dente della grande Acciaieria c Ferriera del Galeotto), 
u quale è stato presidente del Campfond dal 1937, 
anno della sua costituzione, fino al marzo del 1961, 
Quando fu sostituito dall’ing. Taccone e fu nomi¬ 
nato, per acclamazione, presidente onorario del Con¬ 
sorzio; 2) ring. Domenico Taccone (direttore gene- 
■■ale della sezione siderurgica della Fiat, membro del 
E^nsiglio di amministrazione della Fiat, membro del 
(imitato consultivo della CECA, presidente del 
Campsider e della Idrocarburi Meridionale, consi¬ 
gliere della Cornigliano), il quale è stato vicepresi¬ 
dente del Campfond dal 1946 al marzo del 1961, 
uiese in cui sostituì nella presidenza il conte Pozzi; 


3) gli altri dodici membri del Comitato esecutivo 
del Campfond, tra i quali è l’ing. Enrico Brivio, in 
rappresentanza degli stabilimenti di S. Eustachio e 
l’ing. Enrico Vanni, in rappresentanza della Terni, 
società tutt’e due dell’IRI. 

Nella riunione del Comitato esecutivo del 21 set¬ 
tembre scorso, alla quale parteciparono otto consi¬ 
glieri, il presidente del Campfond spiegò che tutta 
la faccenda aveva scarsa importanza, « sia per il 
prestigio nullo del giornale [Paese Sera], sia per 
quello egualmente scarso dell’articolista [Ernesto 
Rossi] »; riteneva, perciò, miglior consiglio non 
lasciarsi trascinare nella polemica, per non fare il 
gioco dei nemici del Campfond. 

Ma l’il aprile i giornali romani hanno comuni¬ 
cato che il giorno prima era stato tratto in arresto, 
sotto l’imputazione di estorsione aggravata, Alberto 
Pozzi, di cui io avevo raccontato la edificante storia. 
I giornali che hanno portato la notizia hanno anche 
detto che il ricattatore era riuscito ad ottenere dal 
Campfond 17 milioni; ma nessuno di loro si è 
chiesto come mai il Campfond aveva pagato questi 
milioni. 

Ancora non sono riuscito a sapere da chi Alberto 
Pozzi è stato denunciato all’autorità giudiziaria. Il 
Messaggero ha scritto che la denuncia era venu?^ 
dagli amministratori del Campfond; ma io credo di 
poterlo escludere perché tutti gli amministratori, per 
una ragione o per l’altra, hanno la coda di paglia; 
se avessero voluto rischiare, avrebbero rischiato senza 
accettare il ricatto. 

Subito dopo l’arresto del Pozzi, la Procura ha 
provveduto ad interrogare a Milano il conte Pozzi, 
ring. Taccone e diversi funzionari del Campfond. 

L’assemblea del Campfond si è tenuta proprio 
in questo momento più che delicato per i suoi 
amministratori. L’avv. Neri, rappresentante di un 
piccolo azionista — la società Fusionghisa di Busto 
Arsizio — ha presentato una dichiarazione di voto 
(che aveva precedentemente depositato presso un 
notaio) contro il bilancio al 31 dicembre 1962, chic 
dendo che, ai sensi dell’art. 2375 c.a., venisse inse¬ 
rita a verbale. La parte della dichiarazione per noi più 
interessante è la seconda, in cui la Fusionghisa ha 
chiesto agli amministratori « qualche notizia in rela¬ 
zione ai fatti che hanno determinato l’arresto del 
sig. Alberto Pozzi, di Roma (conscguente al pro¬ 
cedimento penale rubricato col n. 7643/63 della 
Procura della Repubblica di Roma, e n. 6259/62 


17 









della Procura della Repubblica di Milano, a carico 
dello stesso sig. Alberto Pozzi ed a carico del conte 
Emilio Pozzi, quest’ultimo membro del Consiglio di 
amministrazione e presidente onorario del Campfond 
e dell’Assofond ) », fatti sui quali il sottoscritto 
chiese inutilmente spiegazioni alla assemblea del 
19 aprile 1962, e per i quali l’on. Giolitti 
ha presentato interrogazione alla Camera dei 
deputati, come appare dal Resoconto sommario, 
n. 739, del 14 novembre 1962, della stessa Camera. 

E’ così risultato un particolare del quale i gior¬ 
nali non avevano dato nessuna notizia e che neppure 
io conoscevo: oltre all’impiegato ricattatore (che an¬ 
cora non è riuscito ad ottenere la libertà provvisoria) 
è stato imputato — non"so a quale titolo, ma me lo 
immagino — anche il conte Pozzi, ex presidente del 
Campfond, ed attuale suo presidente onorario. 

Ormai si sente da per tutto odor di bruciato. 

Alla precisa domanda del rappresentante della 
Fusionghisa, il presidente dell’assemblea, ing. Tac¬ 
cone, ha risfjosto... che non poteva rispondere: era 
in corso un procedimento giudiziario; gli ammini- 
atratori erano, perciò, tenuti al segreto istruttorio. 

Dopo tutto quello che è stato pubblicato sul¬ 
l’argomento il « segreto istruttorio » è come il se¬ 
greto di Pulcinella. Ogni socio del consorzio aveva il 
diritto di sapere come erano andate veramente le 
cose per giudicare l’operato degli amministratori, e 
l’ing. Taccone aveva il preciso dovere di informare i 
soci su tutto quello che era successo, durante il 
periodo in cui era vice presidente del Ciampfond. Ma 
tant’è: la manovra dilatoria è stata secondala da 
diversi azionisti, amici del presidente, che subito 
tono intervenuti in appoggio delia sua tesi. 

La discussione si è conclusa con l’approvazone di 
una mozione di plauso all’opera degli amministratori 
e di completo discarico delle loro responsabilità per 
tutte le operazioni da essi compiute. 

Va rilevato che presentatore della mozione è stato 
l’ing. Enrico Vanni, il quale rappresentava la società 
siderurgica Terni dell’IRI, avendo sostituito il dot¬ 
tor Giardetti, che, nell’assemblea del Campfond del 
19 aprile, si prestò a fare un analogo servizio, pre¬ 
sentando anche lui, una mozione di plauso e di disca¬ 
rico in favore degli amministratori, dopo che, alle 
critiche mosse dallo stesso azionista, Fusionghisa, era 
stato risposto con l’approvazione di un ordine del 
giorno per « non far luogo ad ulteriori indagini sulle 
passate gestioni, dopo gli accertamenti già esperiti ». 

Le « ulteriori indagini » le sta svolgendo l’auto¬ 
rità giudiziaria; ed abbiamo fiducia che le faccia sul 
serio. Ma, in attesa delle conclusioni dell’istruttoria 
(che non sappiamo quanti mesi o quanti anni durerà), 
desidereremmo che il presidente dell’IRI, dr. Giu¬ 
seppe Petrilli, ci facesse intanto il grande favore di 
dirci se ritiene che la « formula IRI » — da lui tanto 
magnificata quale nuova forma di collaborazione del 
capitale pubblico col capitale privato — sia corret¬ 
tamente interpretata da quei rappresentanti della 
Terni che, in seno al Campfond, tengono così il 
sacco ai privati perché facciano comodamente man 
bassa nelle casse dello Stato. E desidereremmo anche 
sapere quali indagini (dopo le mie denunce del set¬ 
tembre scorso e dopo l’interrogazione presentata nel 


novembre alla Camera) la Corte dei Conti ha com¬ 
piuto per accertare la verità dei fatti e « le eventuali 
responsabilità degli amministratori del Consorzio 
— come ha scritto l’on. Giolitti — e dei loro con 
trollori ». 

Con tutti gli scandali; scoppiati a ripetizione du¬ 
rante gli ultimi quindici anni nel nostro paese (INA, 
INGIC, ACIS, GAP, Federconsorzi, Fiumicino, Ciam- 
pino, Cippico, Giuffrè, Roisecco, Mastrella, opera¬ 
zioni illecite sulle valute, zolle d’oro, importa e rad¬ 
doppia, edilizia sovvenzionata... e chi piu ne ha pm 
ne metta), il Procuratore Generale della Corte dei 
Conti non ha mai trovato un caso — diciamo mai 
neppure un caso — meritevole di iniziare un azione 
di responsabilità contro quei pubblici funzionari che 
hanno arrecato allo Stato danni di centinaia di mi¬ 
lioni e di miliardi, facendosi addomesticare da coloro 
che essi avrebbero dovuto continuamente control¬ 
lare, in difesa dei quattrini dei contribuenti. 

O che fa il nesci Eccellenza? 

E. K. 


Esce nel c Supercoralli » il nuovo libro di Natalia Ginzburg: 

Lessico famigliare 

pp. alt Rilegato L lyoo. 

Quartnt’anni di vita italiana e una famiglia indimenticabile sono 
al centro di una straordinaria autobiografìa che allinea una gal¬ 
lerìa di personaggi famosi da Filippo Turati a Cesare Pavese. 


Con queste parole la crìtica ha accolto il racconto di Italo Calvino; 

La giornata d’uno scrutatore 

pp. 97 Rilegato L. looo. 

a Un piccolo capolavoro » (Carlo Salinari) che « inaugura un pe¬ 
rìodo nuovo della narrativa italiana » (Michele Rago) e che « si 
innalza sopra quello che Italo Calvino 6nora ha saitto » (Guido 
Pioveoe). 


Continua il successo dei romanzo dì Leonardo Sciascia: 

Il Consiglio d’Egitto 

pp. itj Rilegato L laoo. 

€ E la bellissima rievocazione di una truffa e di una congiura nel 
'700; ma anche la denuncia dì soprusi e di aristocratici privilegi 
non ancora scomparsi » (A. Galante Garrone). « Un romanzo che 
offre al lettore un contìnuo godimento, dì intelligenza, di fanta¬ 
sia » (Piero Dallamano). « li racconto ha episodi e pagine stupen¬ 
dissime, indimenticabili » (Franco Antonicellì). 



Giulio Einaudi editore 


{ 


li 










PREOCCUPA I VESCOVI 


Il cattolico maggiorenne 

di ANTONIO JERKOV 


L® ELEZIONI del 28 aprile non sono state un suc- 

cesso per il Vaticano. I massimi dirigenti della Cu¬ 
ria Romana hanno visto, per la prima volta, la grande 
Maggioranza dei cattolici italiani disubbidire alle diret- 
della Chiesa, votando contro le indicazioni del- 
Episcopato. La sconfitta elettorale della Chiesa è mag- 
8 'ore di quella subita dalla Democrazia Cristiana, che 
rimane ancora un partito di maggioranza relativa. 
(Altra questione è poi se la DC, a causa della sua 
suddittanza verso la Chiesa, rischia, o meno, di di¬ 
ventare la principale vittima della situazione, do¬ 
vendo pagare il prezzo ai « partiti laici » per la loro 
necessaria collaborazione e nello stesso tempo quello 
31 Vescovi, per l’appoggio ottenuto da loro durante 
*3 campagna elettorale). 

Dalle informazioni che riescono a filtrare attra¬ 
verso le spesse mura vaticane, risulta comunque 
chiaro che i massimi dirigenti della Chiesa hanno 
^•sentito il colpo subito e stanno ora pensando come 
3ffrontare la nuova situazione. Il problema dell’au- 
Mento dei voti comunisti preoccupa infatti il Vati¬ 
cano molto meno che la disubbidienza mostrata in 
generale dagli italiani verso le direttive dei Vescovi. 
A prescindere da quella che può essere la nostra va¬ 
lutazione su l’uno o l’altro partito, occorre infatti 
prendere atto che l’elettorato cattolico italiano sta 
diventando, seppure lentamente, un elettorato mag- 
fiiorenne, che determina il proprio voto politico, non 
piu tanto sotto il « diktat » della Chiesa, quanto 
Secondo quelli che crede siano i suoi interessi eco- 
uomici, le sue simpatie politiche, le sue scelte ideo¬ 
logiche, senza condizionarle dalla sua coscienza re¬ 
ligiosa. 

^ATURALMENTE i portavoce ecclesiastici, non han¬ 
no potuto dire queste cose e hanno cercato di tira¬ 
te in causa un’altra volta lo spauracchio comunista. 
L’« Osservatore Romano *, la Radio Vaticana, i « co- 
lumnists » dei vari organi curiali hanno ripetuto in 
questi giorni, in diversi modi, una sola frase: « Le 
cose sono andate male. Non avete voluto dare retta 
3lla Chiesa. Non avete voluto ubbidire ai Vescovi e 
votare per la DC. Adesso avete l’aumento dei voti 
comunisti ». Questa è stata infatti la prima reazione 
della Chiesa, reazione evidentemente poco sincera. 
Anche dopo queste elezioni politiche, noi non ve¬ 
diamo la ragione per cui un cittadino avrebbe do¬ 
vuto votare per la DC, sotto il ricatto deU’aumento 
dei voti comunisti. 

La verità è, semmai, un’altra. Un certo numero 
di elettori, abituato a votare « religiosamente » e de¬ 
luso finalmente dalla DC, si è orientato verso un 
altro voto « religioso », quello comunista, o educato 


male dalla propaganda politica religiosa degli ultimi 
anni, ha votato per i partiti di destra, invece di orien¬ 
tarsi verso i partiti autenticamente democratici. Non 
sta a noi, almeno in questo momento, indagare a 
fondo sulle cause del voto. Desideriamo semplice- 
mente accennare, di sfuggita, a qualcuno degli ele¬ 
menti che meritano una analisi più profonda ed una 
meditazione più serena. Perchè, come hanno dovuto 
riconoscere in questi giorni, i portavoci delle Curie 
Cardinalizie e Vescovili, non tutti i voti perduti dalla 
DC sono andati a favore dei liberali o dei socialde¬ 
mocratici. Almeno una parte di loro è servita per 
eleggere i nuovi parlamentari del Partito Comunista. 

J^A UN ANNO in qua il Vaticano aveva consentito 
all’esperimento della politica di centrosinistra, fa¬ 
cendo notare tuttavia di continuo le riserve delle varie 
Curie Cardinalizie e Vescovili e, tramite la DC, ma¬ 
novrando questo centrosinistra, in modo da soffocarlo 
alla vigilia delle stesse elezioni politiche. E’ chiaro 
che questo non ha giovato, sul piano elettorale, ai 
partiti di centrosinistra. Più grave è invece il vero 
motivo per cui, nel gennaio scorso, si arrivò alla 
rottura tra la DC e il PSI. Il pretesto fu la « non 
disponibilità democratica » del PSI, e il problema 
delle Regioni. Ma prima che si giungesse alia rot¬ 
tura del gennaio scorso, il giornale della Curia ge¬ 
novese del cardinale Siri, aveva invitato la DC a 
non cedere al PSI sulle regioni, sostenendo che se 
queste sarebbero state attuate prima delle elezioni, si 
rischiava poi di dover dare al PSI, dopo le elezioni, 
altre concessioni. E da una serie di manifestazioni 
cattoliche durante il periodo elettorale, si vedeva 
chiaramente che la Chiesa voleva tenere in serbo le 
regioni, per averle, dopo le elezioni, quale moneta di 
scambio con la quale costringere i socialisti e altri 
partiti laici ad accettare i finanziamenti statali a fa¬ 
vore della scuola clericale, ed un inasprimento della 
censura dei « pubblici spettacoli ». 

Siamo certi che di queste cose si parlerà nelle 
prossime settimane tra i partiti c che il problema 
della « scuola privata » sarà al centro di tutte le 
nostre vicende politiche dei prossimi mesi. Alcuni 
anni fa la Chiesa mandò a farsi benedire la demo¬ 
crazia francese, impedendo un accordo di collabora¬ 
zione tra i socialisti i Guy Mollet ed i democristiani 
del MRP, semplicemente perchè i socialisti non po¬ 
tevano acconsentire ai finanziamenti statali a favore 
della scuola cattolica. Il problema dei contributi dello 
Stato alle scuole clericali non fu l’unico, ma fu il 
principale motivo della rottura tra i cattolici ed i 
socialisti, rottura che portò al potere De Gaulle. Non 
a caso, uno dei primi provvedimenti presi dal Ge- 


L 


19 







ncrale fu proprio un accordo con la Chiesa a favore 
delle scuole private. Non dimentichiamo questo pre¬ 
cedente, troppo recente, che da noi si sta ripresen¬ 
tando in tutta la sua attualità. E’ precisamente qui, 
dove stanno limiti, oltre i quali la Chiesa non sem¬ 
bra disposta a cedere alla politica italiana di cen¬ 
trosinistra, almeno per quanto riguarda la parteci¬ 
pazione democristiana in essa. 

Di particolare interesse a tal riguardo ci sembra¬ 
no due brevi note, apparse in questi giorni, sull’or¬ 
gano della Curia Vescovile di Pisa. Nella prima leg¬ 
giamo che nonostante la defezione di tanti, « moltis¬ 
simi cattolici hanno votato DC per puro senso,di di¬ 
sciplina e di obbedienza ai richiami dell’Episcopato 
Italiano e che tali obbedienze costano sacrificio e 
superamento di disagio interiore ». Un’altra nota, 
dello stesso giornale vescovile, aggiunge che ora i 
parlamentari « devono spiegarci il perchè del loro 
agire; soprattutto, davanti ad ogni novità che com¬ 
porta rischi per la soluzione dei problemi che ci sono 
più cari, devono rinnovarci tutte quelle garanzie che 
ci hanno promesso per avere il nostro voto ». (Vita 
Nuova, Pisa, 5 maggio 1963). Sono parole che, cre¬ 
diamo, non hanno bisogno di alcun commento. 

"P’ VERO e lo abbiamo già detto che la Chiesa in que¬ 
sto momento autorizza la DC a tentare di nuovo 
la carta del centrosinistra. Una adesione più sincera 
a questa politica sembra quella del Vertice Vaticano, 
meno sincera quella delle varie Curie Cardinalizie e 
Vescovili, delle numerose diocesi italiane. Salvo ecce¬ 
zioni, nessuno oggi, nella Chiesa in Italia, si oppone 
aprioristicamente al centrosinistra, ma si cerca di 
condizionarlo, di neutralizzarlo, di scolorarlo. Come 
altrimenti si potrebbe spiegare la pressione esercitata 
in questi giorni dall’organo genovese del cardinale 
Giuseppe Siri, dove si sostiene che in fin dei conti dei 
socialisti non c’è da fidarsi, e che comunque non 
occore attendere il congresso del PSI per formare un 
nuovo governo stabile e operante? Occorre fare il 
governo prima, perchè, secondo il giornale cardinali- 
zio, « le dichiarazioni di Lombardi... e di Nenni... 
non sono incoraggianti. Già ora, senza attendere il 
Congresso, i socialisti dettano la via da seguire e le 
condizioni da realizzare. Che avverrà quando questo 
atteggiamento sarà sancito dal Congresso? » (Il Nuo¬ 
vo Cittadino, Genova, 9 maggio 1963). 

Secondo lo stesso organo curiale, la DC deve se¬ 
guire una « animazione politico-morale, veramente di 
spiritualismo sociale cristiano; perchè la riduzione di 
tutta la politica all’economia è già un dato marxi¬ 
stico » (7 maggio 1963). La DC, comunque, non 
deve subire la politica del PSI: « Perchè? E’ forse 
il PSI l’arbitro della situazione politica in Italia? 
Fra l’altro non è neanche riuscito a vincere qualcosa 
nelle elezioni. Né ci sembra logico che la DC debba, 
anche in quest’ora indubbiamente bisognosa di forza 
politica e morale, bisognosa di fiducia, dare l’impres¬ 
sione che « accede » ( non diciamo che « cede » ) alle 
tesi care a Nenni. Se gli sono care vuol dire che gli 
giovano. Perchè la guida politica della Nazione do¬ 
vrebbe assumere come criterio ciò che giova al PSI? » 


(8 maggio 1963). Come se una politica di centrosi¬ 
nistra si potesse fare, solo se utile alla DC, e magari 
dannosa agli altri partiti democratici. 


^RA I VARI giornali cardinalizi e curiali abbiamo 
^ scelto questo organo del cardinale Siri, dato che 
l’Arcivescovo di Genova è presidente della Conferenza 
Episcopale Italiana, ma anche perchè il suo giornale 
è stato particolarmente chiaro nell’illustrare l’atteg¬ 
giamento di una autorevole parte del vertice eccle¬ 
siastico italiano, verso la politica di centrosinistra c 
verso l’incontro tra i cattolici ed i socialisti. Tale 
politica va bene se essa serve alla DC (e per l’inter¬ 
posta persona alia Chiesa ) per agganciare alla propria 
locomotrice, il vagone socialista e quello laico. Va 
invece molto meno bene, o non va bene affatto, ^ 
dovesse succedere il contrario. A prescindere da 
quello che possono essere, e che sono, i nuovi orien¬ 
tamenti generali dell’attuale Pontificato, per la mag¬ 
gioranza dei vescovi italiani, il centrosinistra è una 
amara necessità, oggi più forte che ieri, anche a causa 
dei risultati delle ultime elezioni. Lo spauracchio co¬ 
munista obbliga questi dirigenti della Chiesa a per¬ 
mettere alla DC quei contatti col PSI, che a lungo 
andare offrono le speranze alla Chiesa per il dornani, 
e che in ultima linea dovrebbero rendere delinitiva 
la, già esistente, rottura politica tra i comunisti ed 
i socialisti e in un prossimo domani estenderla anche 
negli altri campi, compreso quello sindacale, con tutte 
le conseguenze politiche ed economiche, che essa com¬ 
porta. E’ una politica « riformista » che sul piano 
delle finalità sociali ed economiche, ricorda così da 
vicino le parole del Principe nel « Gattopardo »: 
« Bisogna cambiare qualche cosa, perchè tutto resti 
come prima! ». 


T A SITUAZIONE postelettorale italiana, forse più dj 
^ quella preelettorale, pone un’altra volta ancora il 
problema della vera autonomia politica dei cattolici, ri¬ 
spetto alla Chiesa. La questione è attuale soprat¬ 
tutto nel momento in cui i vescovi presenteranno agli 
eletti e al governo della DC il conto da pagare, 
per l’appoggio ad essi dato. Ecco perchè, nel periodo 
elettorale, fummo tra quanti alzavano la loro voce, 
non per ottenere i voti dei cattolici, a favore di uno 
o deU’altro partito, ma per rivendicare per i cittadini 
credenti la loro libertà e la loto autonoma scelta, 
politica ed elettorale. Tra quanti avevano condiviso, 
nelle ultime settimane, su questo problema, le posi¬ 
zioni vicine o identiche alle nostre, ci piace soprat¬ 
tutto ricordare un editoriale di Pasquale Bandiera, 
apparso su « La Voce Repubblicana » c ove leggem¬ 
mo le parole, valide o^i come ieri: « Non si tratta 
di concorrete alla divisione della torta del voto cat¬ 
tolico, fornendo assicurazioni di legittima discendenza 
cristiana, ma di negare, come principio, la legittimità 
politica di un voto cattolico... ». 

Questo problema è oggi più aperto e più urgente 
di quanto lo fosse ieri. E’ un problema che ci tocca 
tutti da vicino, perchè dalla sua positiva soluzione 
(c noi la vediamo proprio nei termini indicati dal¬ 
l’editoriale della « Voce ») dipende la democrazia 
in Italia. 

ANTONIO JERKOV 


20 








/ baroni del cemento (li) 


Gli emuli di Barnum 

Il concentramento della produzione, la protezione doganale, 
le concessioni di acque pubbliche, i contratti privilegiati per 
l’energia, le intese monopolistiche e la benevola comprensione 
del CIP consentono da molto tempo di realizzare enormi so¬ 
praprofitti alle imprese più grandi nei settore dei cemento. 


di ERISESTO ROSSI 


pER sostenere che non esiste, nel settore del ce¬ 
mento, alcuna struttura monopolistica, la nota 
industriale” del 12 aprile scorso — che mi ha of¬ 
ferto l’occasione di tornare a parlare delle operazioni 
predatorie compiute dai Grandi Baroni — afferma 
che i prezzi del cemento sono in Italia i piu bassi 
tra i sei Paesi del MEC e tra i più bassi dell’Europa 
e. subito dopo, in appoggio alla tesi che l’incidenza 
del prezzo del cemento non costituisce alcuna re- 
niora alle costruzioni edilizie ed alle opere pubbliche, 
afferma che i prezzi italiani del cemento ”sono i 
più bassi d’Europa 

” Ogni secondo nasce un babbeo ”, era il motto 
preferito di Barnum, il famoso re degli imbroglioni 
americani, impresario del più grande museo del mondo 
di fenomeni viventi. Soltanto dei babbei possono non 
rilevare la differenza fra le due asserzioni, a distanza 
di poche righe l’una dall’altra, nello stesso comunicato. 

Ma neppure la prima affermazione corrisponde 
alla verità. In una tabella di Vindustrie du cement 

Europe, pubblicata dall’OECE nel luglio 1962, si 
leggono i seguenti prezzi in dollari (di una tonnel¬ 
lata di cemento Portland qualità corrente, allo sta¬ 
bilimento, non compreso l’imballaggio ed escluse le 
imposte), superiori in Italia ai prezzi della Francia, 
che fa pure parte del MEC: 



Fine 

Fine 

Fine 

Fine 


1958 

1959 

1960 

1961 

Italia 

12,88 

12,30 

12,30 

11,25 

Francia 

11,67 

10,69 

10,69 

10,69 


Si deve, però, osservare che anche queste sono 
cifre non comparabili, in quanto ” non sono state 
sempre stabilite — avverte la pubblicazione del- 
l’OEClE — su basi identiche” (1). E fuori dalle 
statistiche dell’OECE non se ne conoscono altre che 


ci consentano di confrontare i prezzi del cemento 
nei diversi paesi dell’Europa. 

Nella relazione alla Commissione parlamentare di 
inchiesta — da me criticata sull’ultimo numero del- 
\'Astrolabio — anche il prof. Alberti, dopo ^yet 
detto che aveva tentato di rendere comparabili i 
prezzi del cemento senza raggiungere risultati sod¬ 
disfacenti, ha auspicato che l’OECE ” facesse una 
indagine particolareggiata per presentare dei prèzzi 
omogenei, cioè confrontabili fra di loro . 

D’altra parte, se anche si riuscisse ad ottenere 
dei dati omogenei (tenendo conto delle diverse qualità 
di cemento che compongono le medie e delle^ dif¬ 
ferenze nei gravami tributari, nelle tariffe ferroviarie, 
ecc.), il confronto fra i prezzi di vendita non ci da¬ 
rebbe alcun elemento di giudizio sull’altezza relativa 
dei profitti italiani, perché alcuni dei fattori che più 
influiscono sul costo di produzione del cemento ri¬ 
sultano molto differenti passando dall’uno all’altro ' 
paese: disponibilità di marne delle varie qualità; 
ubicazione delle cave in confronto ai mercati di sboc¬ 
co; canoni per lo sfruttamento delle cave; contributi 
dello Stato per la costruzione degli impianti (2); costo 
del denaro a lungo termine; salari e oneri p>er la si¬ 
curezza sociale; prezzo del carburante e della energia 
elettrica. 


Energia sotto costo 

(Conviene soffermarci un poco su quest’ultimo 
elemento del costo, perché le condizioni di particolare 
favore alle quali la Italcementi, la * Unione Cementi 
Marchino » e la « Calce e Cementi di Segni * hanno 
fin’ora ottenuto l’energia è stato uno dei principali 
fattori del loro straordinario sviluppo e dei loro ec¬ 
cezionali sopraprofitti. 

Nello studio su ” Il progresso tecnologico nel- 


1 


k 


21 










rindustria italiana del cemento ”, già citato nel mio 
precedente articolo, Cesareni e Cova hanno calcolato 
che, negli impianti con una capacità produttiva in¬ 
torno a 500 mila tonnellate, il prezzo dell’energia 
elettrica ha una incidenza di circa il 24% sul costo 
complessivo di produzione (mentre la mano d’opera 
avrebbe una incidenza deir8%). 

In confronto alle loro concorrenti, le tre mag¬ 
giori società cementiere — e, in special modo, la 
Italcementi — si sono trovate in una posizione di 
enorme privilegio perché hanno ottenuto dallo Stato 
la concessione di sfruttare quasi gratuitamente i mi¬ 
gliori corsi di acque pubbliche, costruendo degli 
impianti idroelettrici, o cedendo le concessioni a 
•ocietà elettrocommerciali, in cambio di contratti a 
lunghissimo termine di fornitura di energia a prezzi 
bassissimi: in molti casi a prezzi anche inferiori al 
luo costo di produzione. Questi contratti, conclusi 
per la maggior parte nell’anteguerra non sono stati 
neppure allineati alle svalutazioni della moneta e, in 
conseguenza, hanno costituito un onere pesantissimo 
per le società elettrocommerciali, specialmente per 
quelle controllate dall’IRI. 

Non sono riuscito ad ottenere alcun ragguaglio 
preciso su tale argomento. Quando, l’anno scorso, 
i nostri deputati hanno discusso per parecchie set¬ 
timane sulla nazionalizzazione dell’industria elettrica, 
nessuno di loro — che io mi sappia, — ha domandato 
al governo quanta energia idroelettrica veniva pro¬ 
dotta e direttamente consumata da ogni autoprodut- 
torc, i cui impianti avrebbero dovuto essere esclusi 
daH’esproprio, e quanta energia, ed a quale prezzo, 
i maggiori gruppi industriali avevano ottenuto fin’al- 
lora (e, se veniva approvato, come è poi stato 
approvato, il disegno di legge ministeriale, avreb¬ 
bero continuato ad ottenere) in virtù dei vecchi 
contratti privilegiati, conservati in vigore. 


Una protezione scandalosa 

&)sl nessuno sa quante decine di miliardi, con 
la nazionalizzazione dell’industria elettrica, sono stati 
regalati all’Italcementi (e quanti alla Fiat, alla Mon¬ 
tecatini, alla Edison, alla Falck, alla Pirelli e alle 
altre società grandi consumatrici di energia) (3). Se 
lo sapessimo ci potremmo, forse, fare un’idea su 
quella che è stata una delle principali fonti di finan¬ 
ziamento dei partiti, per l’ultima campagna elettorale. 

Il 19 dicembre scorso la Commissione parla¬ 
mentare antitrust interrogò l’ing. Carlo Pesenti, am¬ 
ministratore delegato della Italcementi. Il resoconto 
stenografico di questo interrogatorio non è stato an¬ 
cora pubblicato, mentre sono già pubblicati gli in¬ 
terrogatori del dr. Valletta (della Fiat), dell’ing. 
Giustiniani (della Montecatini), del dr. Pirelli c 
di altri dirigenti dei maggiori gruppi industriali ita¬ 
liani. Pare che il presidente della Commissione, on. 


Mario Dosi, per compiacere l’ing. Pesenti, abbia de¬ 
ciso di tener segreto il suo interrogatorio, conside¬ 
randolo ” non conoscitivo E’ un peccato perché 
la relazione a stampa, distribuita dall’Italcementi alla 
assemblea^ ordinaria del 23 aprile scorso, dopo aver 
ricordato tale interrogatorio e le successive precisa¬ 
zioni scritte presentate dall’ing. Pesenti in risposta 
ai quesiti che la Commissione gli aveva posto, af¬ 
ferma: 


L’interrogatorio di Pesenti 

"Siamo convinti che gli elementi raccolti dallo 
Commissione varranno a confermare che nel settore 
cementifero italiano non esistono situazioni di mo¬ 
nopolio 0 comunque limitatrici alla concorrenza e si 
è ben lungi dal riscontrare elementi che possano far 
ritenere esista la posizione di azienda dominante: anzi, 
ovunque la concorrenza è vivace e battagliera 

La gallina che canta ha fatto l’uovo. 

Poiché fra gli elementi raccolti dalla Commis¬ 
sione c’è pure l’interrogatorio del sottoscritto (g'à 
reso pubblico perché considerato ” conoscitivo ” ) sarei 
veramente curioso di sapere su quale fondamento l’ing- 
Pesenti basa questa sua convinzione. 

Durante il mio interrogatorio ho esposto le cifre, 
già pubblicate sull’ultimo numero deWAstrolabio, pc^ 
dimostrare che nel settore del cemento vigono ancora 
le intese monop)olistiche che erano apertamente di¬ 
chiarate, quali norme del consorzio nazionale, durante 
il regime fascista, e per dimostrare anche che 1® 
Italcementi e le altre due maggiori società produttrici 
di cemento hanno una ” posizione dominante ” tale 
da escludere ogni possibilità di effettiva concorrenza. 
Alla Commissione parlamentare io ho spiegato anche 
che la politica monopolistica delle tre società era 
stata sempre particolarmente favorita dalla protezione 
doganale. 

Il dazio sul cemento, che nella tariffa doganale del 
1950 era segnato nella scandalosa percentuale del 2594 
ad valorem, è stato ridotto più volte; ma dall’ultima 
relazione dell’AITEC risulta che, al principio del 
1962, esso era ancora del 9,60% ad valorem per 
il cemento proveniente dai paesi del MEC, e del 
13,10% per quello proveniente dagli altri paesi. La 
importazione era inoltre assoggettata ad un prelievo 
del 3,50% per ”diritto compensativo” (così si 
chiamano le addizionali ai dazi doganali per far finta 
di rispettare i regolamenti del MEC, liberalizzatoti 
degli scambi internazionali), ed a ” diritto di stati¬ 
stica e amministrativi ” ( altre addizionali ai dazi, 
inventati dalla fervida fantasia del nostri burocrati) 
di circa l’l% (4). 

Per effetto della protezione doganale le impor¬ 
tazioni del cemento sono state ridotte a quantità 
insignificante, anche durante il periodo in cui il 


t2 









nostro paese ne av’rebbe avuto maggiore bisogno. . 
^co le cifre per gli ultimi cinque anni (al netto dalle 
iniportazioni temporanee ) ; 


Anno 

Produzione 
milioni tonn. 

Importazioni 

migliaia tonn. milioni lire 

1958 

12,83 

48 

847 

1959 

14,22 

56 

803 

1960 

15,85 

50 

787 

1961 

17,99 

93 

1169 

1962 

20,21 

112 

1219 


Queste importazioni sono costituite quasi esclusi¬ 
vamente da qualità speciali non prodotte in Italia. 

La protezione doganale sul cemento è uno^^ dei 
privilegi più antisociali concessi dal governo ai pa¬ 
droni del vapore ”, perché questo prodotto è un ele- 
niento d’importanza fondamentale per migliorare gli 
®^^®88Ì c per la costruzione di tutte le infrastrutture 
necessarie allo sviluppo dell’economia nazionale. Se 
si fosse valuto veramente combattere il monopolio 
del cemento, oltre ad abolire completamente il dazio 
doganale e qualsiasi altro ostacolo all importazione, 
si sarebbe dovuto stimolare il più possibile la con¬ 
correnza dall’estero, ribassando le tariffe per i tra¬ 
sporti ferroviari e marittimi. 

Ma la Italcementi è una delle società italiane più 
intimamente legata alla finanza della Santa Sede, ed 
offendere, sia pure indirettamente, gli interessi fi¬ 
nanziari di Vaticano è, per tutti i democristiani, un 
peccato mortale anche più grave che offendere lo 
Spirito Santo. 


Parla il prof. De Maria 

Nella relazione sull’esercizio 1960, l’organizzazio¬ 
ne di categoria dei cementieri, AITEC, ha affermato 
che ”il controllo del CIP sui prezzi esclude di per 
sé la possibilità di vendite monopolistiche ”. 

Alla domanda rivoltami su questo argomento dal¬ 
la Commissione parlamentare antitrust io ho risposto 
press’a poco le stesse cose che aveva dette il prof. 
Giovanni De Maria nell’interrogatorio del 13 dicem¬ 
bre (che io allora non conoscevo). 

Preferisco, perciò, riportare le sue parole, che 
possono avere maggiore autorità delle mie. Il prof. 
De Maria è accademico dei Lincei ed ordinario di 
economia politica alla università Bocconi, di cui è 
stato anche per diversi anni Rettore magnico. 

Dopo aver confermato, nel modo più deciso, che 
nel settore del cemento sono ancora in vigore degli 
accordi tra i produttori per limitare la concorrenza, 
il prof. De Maria ha dichiarato che — nonostante 
tutte le accurate ricerche che aveva fatto lui stesso 
ed aveva fatto fare da altre persone — non era riu¬ 
scito ad ottenere adeguate informazioni sul prezzo 
del cemento. 

" L’Istituto Centrale di Statistica — ha dichia¬ 


rato — è assolutamente carente a questo riguardo. 
Esso dà un indice nazionale che è veramente allegro, 
per non dire di più. Come mai l’Istituto non è at¬ 
trezzato per fornire dati precisi, non dico per città, 
ma per province o quanto meno per regioni? 

Domanda indiscreta, alla quale non credo sia 
possibile rispondere senza chiamare in ballo i gruppi 
che hanno interesse a non far risultare che i prezzi 
del cemento sono molto più elevati nelle province in 
cui opera la Cassa del Mezzogiorno che nelle altre 
province. 

” Neppure i giornali di natura finanziaria — ha 
anche detto il prof. De Maria — rispondono a queste 
esigenze, perché, pur fornendo prezzi di beni di con¬ 
sumo e di beni capitali di peso assolutamente trascu¬ 
rabile nell’economia nazionale, non danno mai i prezzi 
relativi al cemento. E’ vero che il presidente della 
associazione [dei cementieri] venne un giorno da 
me e mise a mia disposizione una certa quantità di 
materiale statistico; però questo materiale risultò al¬ 
l’esame molto povero. La mia domanda sui prezzi 
del cemento in questi ultimi dieci anni, non in rife¬ 
rimento a località generali, ma a località circoscritte, 
non trovò alcuna risposta 


I ])r»*zzi <lel CIP 

Parlando poi dei prezzi stabiliti dal Comitato In¬ 
terministeriale Prezzi (CIP), il prof. De Maria ha 
insistito sulla necessità di organizzare uffici statali 
capaci di esercitare un controllo autonomo sui costi 
di produzione. 

” Ritengo che la politica dei prezzi da parte del 
CIP e degli altri organi dell’amministrazione pub- 
hlica — egli ha affermato — sia basata essenzial¬ 
mente su dati forniti dalle parti interessate. A questo 
riguardo, si possono anche fare delle considerazioni 
veramente gravi, se si pensa che la stessa amministra¬ 
zione dà alle volte dovizia di informazioni statistiche 
di importanza assolutamente trascurabile. [...]. Per 
quale motivo si eccede in certi campi e in altri, in¬ 
vece, esiste il buio più completo? Per quale motivo, 
tutti gli atti ed i verbali e la documentazione del CIP 
non vengono prodotte in cancelleria (ammesso che 
esista una cancelleria), e non sono messi a disposi¬ 
zione del pubblico? Perché non circola un bollettino 
di informazione su questi fatti? Perché non si pro¬ 
cede ad un deposito regolare in cancelleria, né più 
né meno di come avviene nei tribunali, dove, in 
fondo, si tratta di fatti particolari, relativi a due soli 
contendenti, mentre qui i contendenti sono in numero 
molto maggiore: cioè sono, da una parte, gli indu¬ 
striali e, dall’altra, la nazione tutta, che avrebbe il 
diritto di essere informata? ”. 

Altre domande indiscrete, alle quali — sempre 
per la stessa ragione — si può essere sicuri che nes¬ 
suno darà mai una risposta. 

La verità è che la fissazione dei prezzi da parte 
del CIP non impedisce ai Grandi Baroni del ce- 

23 
















mento di sfruttare il mercato nazipnale come meglio 
credono. 

A partire dalla fine della guerra, fino al 1955, il 
rapidissimo aumento del consumo del cemento (de¬ 
terminato dall’aumento dei lavori pubblici e dalle 
costruzioni edilizie sovvenzionate dallo Stato) non 
aveva corrisposto ad un proporzionale incremento 
della capacità produttiva degli impianti. Dato che la 
costruzione di nuove unità produttrici richiede dai tre 
ai quattro anni, l’offerta di cemento, ai prezzi stabi¬ 
liti dal CIP (remunerativi anche per le piccolissime 
imprese, peggio attrezzate) non era sufficiente a co¬ 
prire completamente la domanda. Gli industriali pro¬ 
fittarono di tale congiuntura per vendere il cemento 
anche al doppio del prezzo ufficiale, caricandolo di 
quote di gran lunga superiori ai reali costi per gli 
imballaggi; aggiungendo elevatissime spese di tra¬ 
sporto, nelle zone in cui la domanda era cresciuta 
di piu, come se avessero dovuto far arrivare il ce¬ 
mento dagli stabilimenti più lontani anche quando 
lo producevano sul luogo; costituendo delle società 
commerciali che compravano il cemento dalla società 
madre ai prezzi stabiliti dal CIP per rivenderlo a 
prezzi enormemente maggiorati. 


Il CIP alleato dei Grandi Baroni 

I prezzi del CIP funzionarono, in questo primo 
periodo, soltanto da limiti inferiori, per impedire la 
” concorrenza rovinosa ”, cosi come avevano funzio¬ 
nato i prezzi stabiliti dal ” consorzio ” durante il 
regime fascista. 

Dopo il 1955 l’aumento della produttività dei ce¬ 
mentifici (dovuta alla costruzione di impianti gran¬ 
dissimi, alla introduzione di perfezionamenti tecnici 
ed alla progressiva riduzione del prezzo dell’olio com¬ 
bustibile) ha profondamente modificato la situazione: 
per poter aumentare sempre più le dimensioni delle 
unità produttive era necessario far crescere la do¬ 
manda del cemento negli impieghi tradizionali e ren¬ 
derne conveniente l’impiego in nuovi usi. Le maggiori 
società hanno, perciò, ribassato i prezzi al di sotto 
dei prezzi stabiliti dal CIP. 

E’ probabile che le imprese più antieconomiche 
siano state compensate — come avviene spesso, in 
questi casi, all’interno delle organizzazioni cartellistiche 
— attraverso una cassa di conguaglio, dalle imprese 
più grandi e meglio attrezzate, delle perdite che hanno 
subito per le vendite a prezzi inferiori ai prezzi 
ufficiali, e che tali compensi siano stati calcolati sulla 
quota della produzione complessiva alla quale ognuna 
di esse aveva diritto, in base alle intese concluse al 
momento in cui era entrata a far parte del cartello. 
Dopo l’abolizione legale del ” consorzio ” fascista, 
nessuno può conoscere le clausole di queste intese, 
neppure rivolgendosi alla Cementir o alle altre so¬ 
cietà produttrici di cemento, controllate dallo Stato. 
Ma questa ipotesi mi sembra suffragata dalla os¬ 
servazione che, durante gli ultimi dieci anni, 
nonostante il progressivo incremento degli investi¬ 
menti in impianti sempre più efficienti, la utilizza¬ 
zione della capacità produttiva di tutto il settore 


è stata quasi continuamente superiore al 90% i ® 
che nel 1960 esistevano ancora 56 imprese (cioè 
r80% del numero complessivo) che producevano, in 
media, meno deiri% della produzione complessiva, 
arrivando tutte quante insieme a produrre solo il 
19,23% del totale. Devono, quindi, aver lavorato a 
pieno ritmo anche le imprese minuscole, dotate dei 
macchinari più antiquati. 

Perfino nella relazione Alberti viene riconosciuto 
che le riduzioni di prezzi, disposte dal CIP, ” non 
fanno altro che sanzionare con ritardo quanto si e 
già verificato sul mercato nazionale ”. 

Possiamo, quindi, su questo punto concludere che, 
negli anni di carestia deH’immediato dopoguerra, il 
CIP non ha fatto niente per imporre agli industriali 
i prezzi di calmiere, mentre negli anni successivi ha 
mantenuto spesso per lungo tempo, nei suoi listini, 
dei prezzi massimi superiori a quelli vigenti sul mer¬ 
cato. Ma i Grandi Baroni del cemento non sembrano 
ancora soddisfatti di questa ” leale collaborazione ’’ 
del CIP. Prendendo in esame le ultime riduzioni 
di prezzi stabilite dal CIP il 5 aprile 1961, il prof. 
Alberti ha scritto: 

"Contro quest’ultimo provvedimento — che, se 
è vero che non è che il riconoscimento di una situa¬ 
zione di fatto, non di meno restringe, a danno delle 
imprese, il campo di variazione del prezzo, qualora 
la situazione congiunturale dovesse variare — la As¬ 
sociazione Italiana Tecnico Economica del Cemento 
ha osservato che la riduzione del prezzo danneggiti 
particolarmente gli imprenditori medi e piccoli che 
traggono i mezzi finanziari per le proprie imprese 
soltanto dal cemento e dal credito personale, acqui¬ 
sito attraverso il lavoro tenace ed intelligente di in¬ 
tere generazioni 

” Il rilievo è esatto ” — ha commentato il rela¬ 
tore ufficiale alla Commissione parlamentare antitrust. 

Esatto un corno. La generosa difesa dei diritti 
delle imprese nanerottole da parte dei Grandi Baroni 
mette ben in luce quale funzione questi signori vo¬ 
gliono riservare agli interventi del CIP. 


Insufficienze tecniche 

Producendo con i sistemi ed i macchinari più 
antiquati, le imprese nanerottole mettono in vendita 
cementi di cattiva qualità, che i costruttori senza scru¬ 
poli preferiscono al cemento più caro, con le deleterie 
conseguenze che tutti possiamo spesso constatare. 

La produzione dei leganti idraulici viene in Italia, 
come negli altri paesi, regolata da norme per unificare 
le caratteristiche dei prodotti e per sottoporli a prove, 
che dovrebbero costituire un obbligo inderogabile pet 
gli industriali e per i consumatori. Ma in Italia queste 
norme valgono meno di niente, e sono applicate sol¬ 
tanto per ridere. 

" Le nostre norme risalgono al 1 939 — osser¬ 
vano Cesareni e Cova nel citato studio del 1960 — e 
rispecchiano sotto l’aspetto tecnologico e sotto quello 


24 




^applicativo la situazione tecnica del periodo intorno 
Mentre si attende ormai da tempo l ema¬ 
nazione della legge che dia la sanzione ufficiale alla 
npera di un’apposita commissione (che si è, però, 
limitata ad apportare alcune modifiche non sostanziali^ 
ni vecchio testo), va posto in evidenza che non vi è 
nlcun paese straniero che non abbia operato nel dopo¬ 
guerra almeno una revisione delle norme sui cementi, 
e che praticamente nei paesi più progrediti le ultime 
norme portano la data recentissima del 1958 

Passa un anno, passa l’altro, ed il disegno di 
^88e ministeriale, già superatissimo in confronto agli 
gitimi progressi della tecnica, non arriva in p>orto, 
probabilmente — ha scritto nella sua relazione il 
Pfof. Alberti — perché alcune medie e piccole im¬ 
prese premono sul potere esecutivo in senso con¬ 
trario 

Ultimamente l’organizzazione di categoria dei 
■t}entieri ha proposto al Ministero di assumersi um- 
rialmente il compito di controllare la qualità del ce- 
triento messo in vendita dalle diverse imprese. 

” Certamente il controllo della categoria sarebbe 
efficace — ha aifermato il prof. Alberti, dopo aver 
dato questa notizia — perchè la parte piu sana di 
essa ha interesse ad eliminare dal mercato le qualità 
^Cadenti con cui le imprese meno attrezzate cercano 
di sostenere la concorrenza. Se ciò avvenisse, inevi- 
Nubilmente la stessa categoria troverebbe modo di 
eliminare gradatamente gli stabilimenti non suscet- 
Nibili di rimodernamento 

Soluzione ” squisitamente corporativa ”, si sa¬ 
rebbe detto sotto il regime. 


Costruzioni imperiali 

Se il CIP facesse scendere il prezzo del cemento 
fino all’altezza sufficiente a coprire i costi degli sta¬ 
bilimenti che producono più di 100.000 tonnellate, 
farebbe in breve tempo scomparire senza alcun bisogno 
di affidare alle organizzazioni private delle funzioni 
Pubbliche tutti i piccoli stabilimenti non suscettibili' 
di rimodernamento, che, avendo una anzianità più 
che ventennale, devono essere tutti già compieta- 
mente ammortizzati. 

Nei paesi più progrediti — spiegano Cesareni e 
Cova — non si concepiscono prove ufficiali sui ce¬ 
menti che non siano completate dalle prescritte de¬ 
terminazioni chimiche, c da molto tempo sono adot¬ 
tati dei metodi di prova che riproducono in labora¬ 
torio le condizioni pratiche di impiego, specie per 
ciò che riguarda acqua di impasto e mezzi di confe¬ 
zione. Nel nostro paese, invece, ” le determinazioni 
chimiche non sono obbligatorie ed è assai raro che 
nella pratica comune si ricorra a tali accertamenti 

«In Italia siamo rimasti ancorati al sorpassato 
sistema della malta con consistenza di terra umida 
da confezionare in provini cubici sottoposti all'azione 
di compattamento di caduta determinati. Con tale 
metodo, oltre ad ottenere dei risultati con valori as¬ 


soluti che nulla hanno a che vedere con la realtà 
pratica del calcestruzzo, si falsa spesso la graduatoria 
effettiva di qualità dei diversi leganti ”. 

Non dobbiamo, perciò, stupirci se tante moder¬ 
nissime costruzioni — edifìci, dighe, argini, ponti, 
— crollano p)oco tempo dojx) che sono state inau¬ 
gurate, o debbano essere continuamente riparate o 
riconosciute inutilizzabili. 

Vicino alla mia abitazione vedo ogni giorno uno 
dei maggiori fra questi monumenti alla pubblica 
insipienza ed alla camorra nazionale: il ponte Flaminio; 
ponte imperiale, infarcito di fari, di colonne, di aqui¬ 
le, di lupe con relativi Romolini, terminato dopo la 
guerra e chiuso al traffico da un paio di anni perché 
ha ceduto un pilone. Il Comune di Roma niente fa 
per ripararlo, forse perchè, a confronto col ponte 
Mollo, di semplici mattoni, che da non so quanti 
secoli traversa il Tevere a poche centinaia di metri 
di distanza, all’ingresso nella capitale può ben servire 
come reclame, anche nei confronti degli stranieri, per i 
costruttori edili italiani. 

ERNESTO ROSSI 

(Continua) 


(1) Mette il conto di notare che. fra 1 15 paesi 
europei di cui la pubblicazione dell’OECE porta i 
prezzi, la Spagna risulterebbe il paese col prezzo 
del cemento più basso: alla fine del 1960 e del 1961 
dollari 8.68 cioè quasi la metà dei prezzi rilevati alla 
stessa data per l’Inghilterra di dollari 15,16 e 13.98. 

(2) Non sono riuscito a sapere quali e quanti finan¬ 
ziamenti a condizioni di favore (ERP, BIRS, Cassa del 
Mezzogiorno, ecc.) e quali contributi (da parte dello 
Stato, della Regione Siciliana, della Regione Sarda, 
ecc.) sono stati concessi ai cementieri per la costruzio¬ 
ne de' loro impianti. 

(3) La relazione della Italcementi sul bilancio 
del 1962. pubblicata sui giornali del 24 aprile, rileva 
che € la società possiede impianti elettrici, da con¬ 
siderare complementari aU'attività industriale ». 

€ 11 consumo di energia del Gruppo nel 1962 — 
si legge nella relazione — è stato di 625 milioni di 
kwh. Ai terzi sono stati venduti 61.6 milioni di kwh, 
pari al 19,4% del prodotto. Pertanto gli impianti 
elettrici della Italcementi sono esclusi dalla nazio¬ 
nalizzazione ». 

Se 61.6 milioni di kwh rappresentano il 19,4%' 
della energia elettrica prodotta, la produzione com¬ 
plessiva. durante il 1962, deve essere stata di 317 
milioni di kwh. Moltiplicando questi kwh per il 
prezzo medio di L. 7,7 il kwh, praticato finora dalle 
società elettrocommerciali per le forniture alle mag¬ 
giori società industriali, si ottiene L. 2 miliardi e 
440 milioni. E' da ritenere che tutta l'energia pro¬ 
dotta dal gruppo dell’ltalcementi provenga da cen¬ 
trali idroelettriche, le quali sfruttano quasi gratuita¬ 
mente un bene (acque pubbliche), che dovrebbe essere 
impiegato a beneficio dell'intera collettività. Se que¬ 
sta ipotesi corrisponde ai fatti, escludendo dalla na¬ 
zionalizzazione gli impianti idroelettrici della Ital- 
cementi (che dovevano essere da molto tempo del 
tutto ammortizzati) sono stati regalati alla società 
alcune diecine di miliardi. E molto probabilmente 
altre diecine di miliardi le sono stati regalati obbli¬ 
gando l'ENEL a continuare le forniture di energia 
ai prezzi stabiliti nei vecchi contratti privilegiati. 

(4) Dalla relazione a stampa della Italcementi 
sull'uitimo esercizio risulta che questo dazio, nell'am¬ 
bito del MEC, nel 1962 ha poi subito altre due ridu¬ 
zioni: dal 28 agosto 1962 è del 7,20%. € Malgrado 
questo — conferma la stessa relazione — le impor¬ 
tazioni di cemento estero si sono limitate a mode- 
stisèimi quantitativi di provenienza francese ». 


25 








Formule e fatti 


ARTLRO CARLO JEMOLO 



lare di centro-sinistra vuoi con l’aggiunta ” ri¬ 
pulito ” o senza tale aggiunta; perché dietro quella 
formula si possono avere realtà le più diverse, ed 
è su questo che troppo poco s’insiste. 

Almeno II centro è il titolo di un settimanale emi¬ 
nentemente di Sceiba e Concila, che esprime con 
sufficiente chiarezza un programma, ripartendo equa¬ 
mente le sue direttive al Papa (bisogna ricordare 
ogni giorno che c’è la scornunica per chi vota comu¬ 
nista; il cardinale Mindszenty deve restare a Buda 
pest) ed allo Stato italiano.- 

Ma quando si parla di centro-sinistra, con o senza 
il partito socialista, restano incerte troppe prospettive. 

Il governo Fanfani ha recato un miglioramento 
visibile almeno in un punto, l’opera della p>olizia; 
non si sono avuti sotto questo governo episodi come 
quelli di Modena e di Reggio Emilia e di porta 
S. Paolo a Roma (naturalmente non si possono ope¬ 
rare miracoli, e per la polizia gli antifascisti reste¬ 
ranno sempre i sovversivi, ed i fascisti i buoni 
italiani). 

Ma il consenso originario per la nazionalizzazione 
dell’industria elettrica si è andato intiepidendo, 
quando si è visto il consueto patteggiamento per la 
distribuzione dei posti tra i partiti allorché si è 
trattato di nominare il consiglio di amministrazione 
del nuovo ente, e si è sentito di una specie di 
foyeuse entrée: aumento indiscriminato di salari e 
stipendi a tutti i dipendenti alla vigilia delle elezioni, 
attribuzioni di compensi inusati ai consiglieri di am¬ 
ministrazione. Se i prezzi della energia elettrica do¬ 
vessero aumentare in misura assoluta (cioè indipcn 
dentemente dalla diminuzione del potere di acquisto 
della lira) quel consenso diverrebbe dissenso. Al¬ 
meno per chi parte dal concetto che le nazionaliz¬ 
zazioni debbono compiersi quando lo Stato sa tenere 
saldamente in mano le leve del comando, e trovare 
amministratori e funzionari che abbiano la devozione 
al pubblico bene. 


^ENTRO sinistra; cioè partiti diversi dalla Democra¬ 
zia cristiana e con una connotazione di sinistra, 
che collaborino con essa, meglio se direttamente 
nelle funzioni di governo, comunque appoggiando il 
Ministero in carica. 

Si, ma se questa collaborazione è sterile, allori 
meglio vale che i partiti di sinistra restino alla op¬ 
posizione. 

Quando guardo alle coalizioni governative dal 


maggio ’47 (quarto ministero De Gasperi) fino al¬ 
l’avvento dell’ultimo ministero Fanfani mi chiedo 
sempre cosa abbiano ottenuto i collaboratori di si¬ 
nistra. Ho l’impressione che essi abbiano battuto le 
orme di quegli uomini d’ordine, vecchi liberali o 
magari vecchi radicali, che durante il fascismo, guar¬ 
dando Mussolini, usavano dire: — non lasciamolo 
solo; stiamo nel partito, se possibile nei Ministeri; 
non abbandoniamolo ai suoi scalmanati; qualche piiz" 
zia gliela eviteremo —; e non ne evitarono poi 
nessuna. 

Amerei conoscere quali siano stati i provvedi 
menti, i disegni di legge che ministri della Demo¬ 
crazia cristiana approntarono e che furono arrestati 
dalla opposizione di social-democratici o repubbli¬ 
cani. Ce ne saranno stati (e gioverebbe a questi 
partiti incaricare qualcuno di scrivere un libro volto 
a mostrare l’efficacia della loro opera di affianca- 
mento), ma come tonalità generale di governo non 
credo che nessuno abbia percepito mutamenti sen¬ 
sibili tra i periodi in cui la Democrazia cristiana 
ebbe alleati e quelli in cui governò da sola. 

Ad ogni modo per guardare all’avvenire, ecco 
quel che amerei sapere anziché trastullarmi con le 
formule. 


J\’ POLITICA generale: s’intende seguire il sistema 
attuale, di non dare mai soddisfazione al cittadino 
di fronte all’Amministrazione, di non ammettere mai 
nella rispiosta ad una interrogazione parlamentare, in 
un comunicato al pubblico, che un funzionario ha 
sbagliato, che un certo provvedimento era intem¬ 
pestivo, che una certa misura era vessatoria? seguire 
il sistema delle note caratteristiche per cui su mille 
dipendenti ce ne sono tre mediocri c nessuno cat¬ 
tivo? S’intende fare qualcosa per arginare la corru¬ 
zione nella cosa pubblica, il sistema delle bustarelle? 
(e molto si può fare: cominciando dalla misura 
pilota dell’obbligo di ogni dipendente dello Stato 
c di enti pubblici di denunciare in corso d’impiego 
tutti oli incrementi patrimoniali suoi, del coniuge, 
dei tigli che non abbiano raggiunto i ventisei anni)- 

Le elezioni hanno mostrato che le insofferenze 
del popolo su questi punti vanno sempre crescendo; 
si vuole continuare a non tenerne conto? 

Ancora in indirizzi generali: si vuole affrontare 
seriamente la lotta contro la mafia (lasciando da 
parte inchieste accademiche affidate a commissioni 
numerosissime), a rischio di bruciare qualche uomo 
politico, un certo numero di maggiorenti, di grandi 












elettori? Si vuole combattere la camorra dei mercati, 
snche, occorrendo, con la requisizione dei prodotti 
2 I cui acquisto non può oggi concorrere che chi 
aderisce alla organizzazione? 

In politica interna: si vogliono le regioni, o si 
deve accettare che siano accantonate fino al giorno 
In Cui la Democrazia cristiana abbia l’assoluta certezza 
thè non ce ne sarà una sola con amministrazione 
socialista o comunista? E, se si vogliono, si è disposti 
ad attuarle seriamente, riducendo burocrazia statale 
0 spese statali dove certi compiti passano alle 
regioni? 

Si vuole assumere un impegno formale che quanto 
lo Stato può spendere per l’istruzione, lo dedicherà 
2 rialzare le sorti della scuola pubblica, lasciando 
thè chi vuole altra scuola la paghi, o paghino per 
lui le istituzioni od organizzazioni che vogliono una 
stuoia improntata ad una particolare ideologia, dove 
1 allievo non debba mai incontrare assertori di altre 
■dee, non debba aprirsi al colloquio ed alla scelta? 

JN POLITICA economica: s’intende frenare la per¬ 
dita del potere di acquisto della lira? si è disposti 
®d una scelta giudiziosa tra le varie richieste, ad 
una politica di piano che non può come tale non 
imporre l’accantonamento di una serie di provvedi¬ 
menti in sé auspicabili, e quindi la energia di dire 
uo a categorie, a province? o si vuole continuare nel 
facilìs descensus Averni? 

In politica estera: si vuole che i rappresentanti 
italiani all’ONU continuino sempre a votare nel 
senso più conservatore, rifiutandosi di aderire anche 
a quelle mozioni che hanno per sé la maggioranza 
dei voti, e non sono sospette di essere retaggio 
dei Paesi comunisti? si continuerà a non volere ri¬ 


conoscere la Cina (ciò che mi ricorda sempre il duca 
di Modena che non volle riconoscere né Luigi Filippo 
né Napoleone III)? 

I possibili futuri ministri dei partiti di sinistra 
vogliono farci sapere se si dimetterebbero il giorno 
che il Governo desse l’assenso all’ingresso della Spa¬ 
gna nell’alleanza atlantica? vogliono più generalmente 
dirci quali sarebbero le loro esigenze minime per 
partecipare al governo? 

Queste sono le cose che credo i più degl’italiani 
desidererebbero conoscere per avere un orientamento 
in politica, per sapere se desiderare un governo di 
centro-sinistra o preferire invece partiti di sinistra 
in una opposizione non sistematica, ma che esiga, 
per cessare di essere tale, alcune misure ben circo- 
scritte. Questi partiti, è bene i dirigenti lo ricordino, 
finirebbero di bruciarsi, se si diffondesse la con¬ 
vinzione che i loro parlamentari sono desiderosi di 
partecipare al governo anche non potendo ottenere 
nulla di concreto, solo per assaporare qualche bri¬ 
ciola di potere. 

L’alta percentuale dei votanti non può illudere 
nessuno: un numero sempre maggiore d’italiani sta 
perdendo la fiducia nello Stato, disinteressandosi dei 
partiti. E neppure può trarre in inganno la circostanza 
che i voti di protesta vadano decisamente più verso 
l’estrema sinistra che verso la estrema destra; in una 
crisi dello Stato, della legalità, lo sbocco non sarebbe 
mai un governo comunista, che verrebbe impedito 
anche da forze esterne, ma un regime fascista, o 
di tipo falangista o di tipo salazariano. E’ quanto 
dovrebbero tenere presente gli uomini di sinistra 
che poco sentono lo Stato, che lo scorgono come 
quello che non deve mai dire di no, mai punire, 
spendere senza preoccuparsi del deficit. 

ARTLRO CARLO JEMOLO 


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27 










- —r 

Il «traguardo» di 15 anni 


ili ARTURO BAROISE 


^RA LE VARIE divergen 2 e ve¬ 
nute alla luce in seno alla 
Commissione nazionale per la pro¬ 
grammazione ve ne è una, appa¬ 
rentemente metodologica, che ri¬ 
guarda l’orizzonte temporale della 
programmazione medesima. Secon¬ 
do il rapporto Saraceno, non si 
dovrebbe guardare oltre il 1973 
perchè entro questa data è possi¬ 
bile prevedere il raggiungimento del 
pieno impiego delle nostre forze 
di lavoro. L’urgenza di una politica 
programmata nascerebbe appunto 
dalla necessità d’impedire che anche 
nei prossimi anni nuovi occupati si 
addensino in ristrette zone del pae¬ 
se nelle quali già si riscontrano sin¬ 
tomi negativi di congestione demo- 
grafìca ed urbanistica. 

E’ chiaro infatti che se non si 
interviene al più presto con una 
politica di rapida industrializzazione 
nelle zone che alimentano l’attuale 
imponente fenomeno di esodo rurale, 
e in primo luogo nel Mezzogiorno, 
la loro condizione storica di arretra¬ 
tezza non potrebbe più essere sanata. 
Impoverite demograficamente, tali 
zone si troverebbero a mancare di 
due condizioni essenziali ( abbondan¬ 
za di manodopera e presenza di un 
mercato di consumo sufficientemen¬ 
te ampio) per la localizzazione di 
nuove attività economiche. Nè sa¬ 
rebbe possibile fare assegnamento 
su di un’inversione più o meno lon¬ 
tana delle correnti migratorie: certi 
processi sono praticamente irre¬ 
versibili. 

Si deve convenire pertanto col 
Saraceno circa l’opportunità di con¬ 
tenere la fuga dai campi del Sud 
verso le fabbriche ( italiane e magari 
straniere) delle città del Nord; don¬ 
de l’esigenza, da un lato, di accele¬ 
rare il consolidamento dei « poli di 
sviluppo » già costituiti nel Mezzo¬ 
giorno e, d’altro lato, la necessità di 
avviare — senza ulteriori ritardi — 
una politica di ammodernamento 
strutturale e produttivo della nostra 
agricoltura. Basti considerare che 
il reddito del Mezzogiorno provie¬ 


ne ancora, per circa due terzi, dalle 
attività agricole e che proprio a 
causa di ciò il suo distacco economi¬ 
co rispetto al resto d’Italia è venu¬ 
to via via aumentando — nonostante 
la Cassa — per tutto il corso degli 
« anni cinquanta ». 

Il dissenso fra il Saraceno ed altri 
studiosi ( alludiamo in particolare 
a Giorgio Fuà e a Paolo Sylos Labini, 
autori di una imp>ortante memoria 
alla quale attingiamo i calcoli citati 
in questo articolo) trae origine da 
un diverso giudizio circa il raggiun¬ 
gimento del pieno impiego. Per il 
Saraceno si tratta di un traguardo 
decisivo per il nostro paese, di una 
« svolta » nella storia della economia 
italiana, che segna il passaggio da 
un’epoca di bassi redditi prò capite 
ad un’altra nella quale il fattore 
umano avrà sempre maggiore impor¬ 
tanza. Anche i suoi contraddittori 
riconoscono che la piena occu¬ 
pazione della forza di lavoro è un 
fatto di grande rilievo, .sotto tutti gli 
aspetti, ma non può più essere con¬ 
siderato un « traguardo » in vista 
del quale si debbano coordinare tutti 
gli sforzi della collettività, come ap¬ 
punto si tende a fare con ogni pro¬ 
grammazione « globale » degna di 
questo aggettivo. 

Ormai, anche il semplice gioco 
delle forze dell’economia spontanea 
ci porterebbe ad una situazione di 
teorico pieno impiego, e verosimil¬ 
mente in un periodo assai inferiore 
al decennio. Se bastasse la caduta del 
tasso di disoccupazione ad un li¬ 
vello pari al 3 per cento della for¬ 
za di lavoro per contrassegnare lo 
stato di pieno impiego, si dovrebbe 
senz’altro dar ragione a quanti affer¬ 
mano che l’Italia si troverà in tale 
condizione ancor prima del 1970. 
D’altra parte, più che sul numero 
dei disoccupati veri e propri censiti 
come tali dal Ministero del Lavoro 
o calcolati dall’Istituto Centrale di 
Statistica, il reclutamento di nuovi 
lavoratori incide sempre più larga¬ 
mente sulla riserva dei sottoccupati, 
costituita da individui che oggi fi¬ 
gurano inclusi tra gli addetti all’agri¬ 


coltura o al commercio oppure ap¬ 
partengono alle cosiddette categorie 
non professionali (casalinghe, stu¬ 
denti, ecc.). Anche se le statistiche 
italiane fossero perfettamente ag' 
giornate, anche se arrivassimo a pos¬ 
sedere quella « anagrafe del lavoro » 
di cui da tanto tempo si parla, non 
vi sarebbe nessuna possibilità di 
accertare il raggiungimento del fa¬ 
tidico « traguardo ». 

Che senso ha dunque program¬ 
mare in vista di un obiettivo che 
verrà conseguito in ogni caso, e 
quasi certamente prima della scaden¬ 
za prestabilita? Non si rischia, cosi 
facendo, di dar ragione a Jacques 
Rueff, l’economista liberale france¬ 
se che nel dicembre scorso, al con¬ 
vegno romano del CNEL, ammonì i 
programmatori a non comportarsi 
come il gallo il quale ogni mattina 
— lanciando verso il cielo il suo 
canto — probabilmente s’illude di 
far sorgere il sole? 

Una politica programmata trova 
dunque la sua prima ragione di esse¬ 
re nel fatto di proporre obiettivi cui 
l’economia spontanea non potrebbe 
mai pervenire. Ciò non significa, 
tutt’aitro, che quegli obiettivi non 
siano « economici », che non giovino 
anche allo sviluppo dell’iniziativa 
privata; significa soltanto che solo 
l’intervento pubblico, consapevol¬ 
mente coordinato e continuato per 
un certo spazio — non breve — di 
tempo, può consentire di raggiun¬ 
gerli. Quando nell’autunno 1958 in¬ 
sorgeva contro l’idea stessa di un 
piano decennale della scuola, l’on. 
Malagodi ubbidiva puramente e sem¬ 
plicemente all’istinto privatistico 
della « non programmazione ». Ma 
la forza delle cose deve possedere 
una sua logica se il partito liberale 
si è poi indotto a preparare un pia¬ 
no della scuola che arriva sino al 
1990 (sic!). 

Se questo è vero, sembra prefe¬ 
ribile assumere come finalità della 
programmazione un traguardo che 
l’economia spontanea non potrebbe 
sicuramente mai raggiungere; appun¬ 
to per questo Fuà e Sylos Labini 


28 












propongono come obiettivo premi¬ 
nente l’eliminazione dei gravi squi¬ 
libri settoriali (fra attività agricole 
e non agricole) e territoriali (fra 
Mezzogiorno e resto d’Italia) che 
ancora perdurano nel nostro paese. 
Si tratta di uno degli obiettivi indi¬ 
cati dal ministro del Bilancio La 
Malfa nella ormai famosa « nota ag¬ 
giuntiva * del maggio 1962 sulla 
quale il Parlamento espresse allora 
larghi consensi. Del resto, anche gli 
economisti di parte liberale non osa- 
no apertamente dissentire; e ciò 
sebbene non ignorino che proprio 
l’aggravamento di tali squilibri du¬ 
rante gli « anni cinquanta » costi¬ 
tuisca uno dei più validi motivi 
rii critica allo sviluppo non pro¬ 
grammato. 

A favore dell’obiettivo dell’elimi¬ 
nazione degli squilibri — ossia, in 
pratica, della unificazione economica 
del paese ad oltre un secolo dalla 
sua unificazione politica — milita 
anche una considerazione psicologi¬ 
ca di non trascurabile rilievo: esso 
offre ai giovani che nei prossimi 
anni entreranno nella vita attiva un 
niotivo di tensione ideale, di abne¬ 
gazione collettiva di cui i più anzia¬ 
ni avvertono preoccupati l’assenza 


nella presente società italiana. E’ un 
vuoto interiore che nessun « mira¬ 
colo economico >► può certo colmare: 
quella dell’automobile e degli elet¬ 
trodomestici è purtroppo anche la 
civiltà àcWalienazione e della noia. 

Qualcuno ha già obiettato che si 
vuole così importare in Italia il 
« mito del piano ». Se questo potes¬ 
se servire a dare alle nuove genera¬ 
zioni una valida ragione di vita, una 
dimensione civile e patriottica che 
è venuta meno con la fine delle 
guerre nazionali e della lotta antifa¬ 
scista, non vedremmo perchè non lo 
si dovrebbe fare: anche per la po¬ 
litica di piano, tutto dipende dai 
contenuti che le si attribuiscono. Se 
non ricordiamo male, è stato Tocque¬ 
ville ad invitare gli uomini politici 
a dare ai loro popoli il « gusto del¬ 
l’avvenire »: se non lo fanno, fini¬ 
scono fatalmente dimenticati e vi¬ 
tuperati. 

Va bene si dirà a questo punto, 
accettiamo pure il seducente obiet¬ 
tivo dell’eliminazione degli squilibri 
settoriali e territoriali; ma non si 
tratta per caso di un’utopia? Cre¬ 
diamo proprio di no. Nel numero 
scorso Paolo Sylos Labini ha scritto 
testualmente « Si può dimostrare che 


è possibile raggiungere un tale 
obiettivo in un periodo non enor¬ 
memente lungo ( 15 anni) e con uno 
sforzo perfettamente sopportabile 
per la collettività nazionale ». Egli 
non ne ha però data la dimostra¬ 
zione, trattandosi di tesi già svolta 
analiticamente nella memoria da lui 
presentata col Fuà alla Commissione 
nazionale per la programmazione 
economica. 

Avendo avuto per le mani tale 
rapporto (tuttora riservato) credia¬ 
mo di dover fornire qualche mag¬ 
gior ragguaglio in proposito ai no¬ 
stri lettori. L’orizzonte temporale di 
tre lustri proposto dal tandem Fuà- 
Sylos Labini sembra all’ingrosso suf¬ 
ficiente per ottenere l’auspicato equi¬ 
librio economico fra le « due Italie ». 
La sintesi dei calcoli effettuati per 
arrivare a tale lusinghiera conclu¬ 
sione è da noi riportata nella tabella 
inserita nel testo. Ci limiteremo per¬ 
tanto ad una serie di considerazioni 
illustrative. 

Occupazione — L’aumento glo¬ 
bale previsto può sembrare mode¬ 
sto (poco più di un paio di milioni 
di unità lavorative in tre lustri); 
in realtà non sarà possibile realiz- 


OBIETTIVI DI OCCUPAZIONE E PRODUZIONE AL 1978 


Occupazione Prodotto lordo Prodotto lordo per occupato 

(migliaia (% di (miliardi (% di (migliaia (% di 

di unità) variazione dilire '54) variazione di lire ’54) variazione 

annua ’64-’78) annua ’64-’78) annua ’64-’78) 


AGRICOLTURA 


Centro-Nord 

2.013 

-2,7 

3.172 

+ 2,6 

1.576 

+ 5,4 

Mezzogiorno 

1.287 

-4,1 

2.028 

+ 2,9 

1.576 

+ 7,1 

Italia 

3.300 

— 3,3 

5.200 

+ 2,7 

1.576 

+ 6.1 

INDUSTRIA 

Centro-Nord 

6.849 

+ 1,3 

14.725 

+ 4,2 

2.150 

+ 2,9 

Mezzogiorno 

3.491 

+ 3,2 

7.507 

+ 11,2 

2.150 

+ 8,0 

Italia 

10.340 

+ 1,9 

22.233 

+ 5,8 

2.150 

+ 3.9 

SERVIZI 

Centro-Nord 

5.603 

+ 1,8 

9.818 

+ 4,2 

1.752 

+ 2,4 

Mezzogiorno 

2.857 

+ 2,0 

5.005 

+ 6,4 

1.752 

+ 4,4 

Italia 

8.460 

+ 1,9 

14.822 

+ 4.8 

1.752 

+ 2,9 

TOTALE 

Centro-Nord 

14.465 

+ 0,7 

27.715 

+ 4,0 

1.916 

+ 3,3 

Mezzogiorno 

7.635 

+ 0,9 

14.540 

+ 7.6 

1.904 

+ 6,7 

Italia 

22.100 

+ 0,8 

42.255 

+ 5,0 

1.912 

+ 4,2 


29 


k 









zarlo se non riusciremo a contenere 
rapidamente il flusso migratorio 
verso l’estero. (Osserveremo per 
inciso che la concessione degli asse¬ 
gni familiari ai lavoratori agricoli, 
sebbene controindicata dalla deli¬ 
cata congiuntura attuale dei prezzi, 
potrebbe utilmente servire a questo 
obiettivo di più lunga portata). Co¬ 
munque sia, nel 1978 l’agricoltura 
italiana non dovrebbe impegnare 
più di 3.300.000 addetti, pari al 
15 per cento della forza di lavoro 
complessiva. E’ un’aliquota suffi¬ 
cientemente bassa (circa la metà di 
quella accertata nel 1961 ) da giu¬ 
stificare il forte aumento di pro¬ 
dotto lordo previsto per il singolo 
addetto all’agricoltura (in media il 
6,1 per cento all’anno). 

Tasso di sviluppo — Un aumen¬ 
to medio annuo del 5 per cento 
per il quindicennio 1964-78 non 
pare troppo audace, anche scontan¬ 
do un certo affievolimento nel tem¬ 
po. Lo stesso rapporto Saraceno 
prevede un identico tasso di svi¬ 
luppo per il decennio 1964-73, e 
tutti gli esperti si sono dichiarati 
d’accordo. Si può agiungere che tale 
tasso dovrebbe rappresentare la 
media ponderata tra il 4 per cento 
previsto per il Centro-Nord e il 7,6 


proposto per il Mezzogiorno. Tutto, 
in sostanza, dipenderà dal ritmo di 
sviluppo delle industrie e dei servizi 
nell’Italia meridionale; per l’agri¬ 
coltura gli incrementi ipotizzati so¬ 
no abbastanza uniformi per tutto 
il paese. 

Allineamento dei redditi — Il 
primo squilibrio da sanare è quello 
fra gli addetti agli stessi settori 
nelle varie parti d’Italia. Qualora si 
realizzassero le ipotesi di produzio¬ 
ne e di occupazione formulate, le 
differenze di prodotto medio per 
addetto all’interno dei tre settori 
fondamentali risulterebbero pratica- 
mente annullati. Sopravviverebbero 
invece, ed è opportuno che soprav¬ 
vivano, le differenze connesse alle 
dimensioni, alla struttura organizza¬ 
tiva, alla modernità delle singole 
aziende. 

Ben più difficile da conseguire 
è il pareggiamento fra i vari settori. 
Data l’attuale arretratezza della no¬ 
stra agricoltura e di gran parte dei 
servizi (specie per quanto riguarda 
il commercio) rispetto all’industria, 
gli stessi Fuà e Sylos Labini riten¬ 
gono che un certo scarto di pro¬ 
duttività (e quindi di reddito prò 
capite) non potà non sussistere fra 
i tre settori anche alla fine del quin¬ 


dicennio 1964-78. Ma poiché ana¬ 
loghi scarti si riscontrano in econo¬ 
mie altamente sviluppate e da tem¬ 
po pervenute alla maturità, si e 
giustamente pensato che — entro 
quei limiti — tali scarti abbiano 
carattere fisiologico. Per quanto ri¬ 
guarda in particolare l’agricoltura, 
ci si potrebbe quindi dichiarare ar¬ 
cisoddisfatti se fra quindici anni il 
prodotto prò capite dei suoi addetti 
fosse salito — rispetto alla media 
degli altri settori — dall’attuale 50 
air80 per cento ipotizzato nel rap¬ 
porto Fuà - Sylos Labini. Il morbo 
del sottosviluppo agricolo, endemico 
nel Mezzogiorno ma anche in più 
ristrette aree del « Centro-Nord », 
sarebbe finalmente debellato. 

Come si vede, i programmatori 
della sinistra democratica non chie¬ 
dono la luna. Si propiongono obiet¬ 
tivi concretamente realizzabili, senza 
indebite compressioni di consumi 
privati e pubblici di carattere pri¬ 
mario; ma, proprio perché realisti, 
non ignorano la difficoltà di richia¬ 
mare sulla terra quanti ormai vivono 
nell’era della « nautica da diporto »• 
.4RTL'RO B.\R0NE 


T 


Siluro 

Montecatini 

TJA FAITO impressione negli ambienti finanziari 
ed industriali l’allontanamento di uno dei due 
capi della Montecatini, il più giovane, promotore 
delle più recenti iniziative di sviluppo, l’ing. Piero 
Giustiniani. Resta il più anziano, il conte Faina. 
Interessa a noi rilevare qui soltanto come contro il 
Giustiniani abbia giocato l’insuccesso industriale 
del nuovo grande impianto chimico di Brindisi, im¬ 
postato economicamente su altissime produzioni 
che non si sa come e su quali mercati smaltire. L’im¬ 
pianto o sarà condannato a regimi antieconomici di 
produzione o dovrà essere ridimensionato con per¬ 
dite rilevanti. Questo infortunio industriale è al¬ 
l’origine della tenuta non brillante di questo titolo 
negli ultimi tempi. 

Ma anche il gruppo chimico della Edison mon¬ 
tato negli anni recenti con fortissime immissioni 
di investimenti traversa un momento difficile. La 
capacità di produzione dei fertilizzanti complessi si 
è rivelata in forte eccesso sulla capacità di assor- 

V_ 


bimento del mercato interno e della esportazione, 
e la SICE-Edison accusa perdite rilevanti, di alcuni 
miliardi, in ciascuno degli ultimi due esercizi. Del 
resto voci non favorevoli, anche se non recenti, ri¬ 
guardano l’impostazione industriale ed i risultati 
economici dell’impianto per la fabbricazione della 
gomma sintetica di Ferrara. Ed anche altre impre¬ 
se accusano difficoltà. 

Nulla di straordinario, se questi passi falsi del¬ 
la industria chimica non confermassero ancora una 
volta la gravità delle conseguenze dell’errore pri¬ 
vato di grandi dimensioni sulla economia generale. 

Le ambizioni aziendali generano boom artificiosi, 
le cui conseguenze ricadono pesantemente sulla 
collettività. 

Gli impianti sia della Montecatini sia della Edi¬ 
son hanno beneficiato di rilevanti aiuti di credito. 

Ecco capitali pubblici male impiegati. La disponibi¬ 
lità di capitale è sempre scarsa in Italia rispetto ai 
grandi e crescenti bisogni, donde la necessità di 
criteri razionali d’impiego, ed il danno nazionale 
di questi dirottamente in grandi errori del capi¬ 
tale privato. 

Ed ecco sottolineata la necessità di un’alta qua¬ 
lificazione degli organi tecnici di cui gli organi cen¬ 
trali della programmazione dovrebbero provvedersi. 

M. 

_ J 


30 











lA CHIESA NELLA POLITICA ITALIANA 

L’ondata integralista 

Svanita, alla fine della guerra, la possibilità di una restaurazione fascista con 
Grandi al posto di Mussolini, il Vaticano ha puntato sulla conquista dello 
Stato italiano trasformando l'organizzazione della Chiesa in una macchina 
elettorale rivolta a concentrare i voti sulla D.C. In questa puntata esaminiamo 
il periodo che va dalla caduta del fascismo alla nascita della Repubblica 


di DOMEmCO SETTEMBRim 


T a recente Enciclica Pacem in terris, aggiungendosi 
all’eco sollevata dalla Mater et Magistra, dal Con¬ 
cilio e da diversi altri atti del nuovo pontificato, ha 
definitivamente sanzionato la fama di Giovanni XXIII 
come Papa rinnovatore. Fama indubbiamente meritata. 
E nessun documento meglio della Pacem in terris 
testimonia della decisa volontà di papa Roncalli di 
imprimere un nuovo corso alla politica della Chiesa 
rispetto alla linea precedentemente seguita sotto 
Pio XII. 

E’ evidente che le forze laiche non possono sot¬ 
trarsi alla necessità di prendere atto di questi muta¬ 
menti; che debbono anzi salutarli senza riserve quan¬ 
do essi annunciano, come sul fondamentale problema 
della pace e della guerra, un atteggiamento della 
Chiesa comunque più conforme agli interessi di tutta 
l’umanità. Tanto più che la svolta attuale indica il 
parziale arrendersi della Chiesa alla pressione eserci¬ 
tata dal mondo esterno, e dunque da tutte le vitto¬ 
riose lotte liberatrici che hanno contrassegnato gli 
ultimi vent’anni. 

Sembrerebbe però che di qui a credere che natura 
e fini della Chiesa siano radicalmente mutati, tanto da 
trasformarla da forza di reazione e di conservazione 
in forza di progresso, molto dovesse correrci, specie 
in Italia dove la funzione conservatrice della Chiesa 
è sotto gli occhi di tutti. Ed invece non si deve na¬ 
scondere che tra i principali risultati positivi (per la 
Chiesa) conseguiti dal nuovo papa vi è proprio la 
smobilitazione degli animi nel campo avversario. Uno 
spirito di dimissioni di fronte al mondo cattolico, per 
servirci delle stesse parole qui usate da Piccardi, 
circola ormai, dove più dove meno, in tutta la sinistra 
italiana e ne corrode le superstiti velleità di portare 
avanti la battaglia per la laicità p>ersino sul piano della 
pubblicistica e della propaganda, il solo in cui anche 
in passato essa si sia cimentata. 

Per reagire a questo spirito di dimissioni, all’acri¬ 
tica esultanza con cui da parte laica vengono accolte 
da un pezzo in qua tutte le iniziative di Giovanni 
XXIII (si vedano, a mo’ d’esempio, le cronache sul 
Concilio o le zuccherose esegesi dell’ultima Encicli¬ 
ca), è forse opportuno richiamare per sommi capi, 
alla memoria di chi ha troppo presto dimenticato o 


di chi è troppo giovane per ricordare, l’opera del 
predecessore dell’attuale Papa. Di Pio XII, che col¬ 
l’uso più spregiudicato di tutto l’armamentario me¬ 
dioevale della Curia ha assicurato su solide basi l’ege¬ 
monia della Chiesa sulla politica italiana, lasciando in 
eredità al successore una situazone per molti vera¬ 
difficile, ma anche i margini necessari per intraprende¬ 
re in tutta sicurezza una politica più elastica. 

Salvemini ha documentato come nel 1943, prima 
del 25 luglio, la diplomazia vaticana molto si adope¬ 
rasse in Inghilterra e negli USA per preparare di 
comune accordo con queste potenze una successione 
moderata e magari fascista (Grandi) a Mussolini. Si 
tratta di un episodio su cui deve ancora essere fatta 
luce completa, ma che indica molto chiaramente come 
la naturale propensione della Chiesa vada sempre 
alle soluzioni più conservatrici. Svanita comunque 
assai presto questa possibilità per l’insorgere di mol¬ 
teplici cause che sfuggirono al controllo della Chiesa 
e degli alleati, il Vaticano vide profilarsi la prospetti¬ 
va di una prossima restaurazione della democrazia 
parlamentare in Italia ed apprestò le sue armi per 
trarre dalla nuova situazione il massimo dei vantaggi. 

Sul piano teorico il compito di rispolverare e ri¬ 
mettere a punto l’interpretazione cattolica della de¬ 
mocrazia, elaborata da Leone XIII, fu assunto dai 
gesuiti della Civiltà cattolica. Per tutto il 1944 e 
1945, mentre numerosi cattolici partecipavano alla 
lotta per instaurare un regime di democrazia e di 
libertà, l’autorevole rivista insistentemente ricordava 
in quale conto da parte cattolica andassero tenute le 
moderne libertà, la separazione della Chiesa dallo 
Stato, la parità dei culti, la libertà di stampa, la so¬ 
vranità popolare: 

« Le libertà moderne considerate in se stesse, in 
quanto attribuiscono uguali diritti alla verità e allo 
errore, al bene ed al male, sono assolutamente false 
e da condannarsi. Questa è la tesi: questi sono i 
principi che la Chiesa mantiene con inflessibile fer¬ 
mezza e rigore ». Al più essa può tollerarle come 
minor male ed in via del tutto ipotetica, quando 
ciò le è imposto o consigliato, come appunto accadeva 
allora in Italia, « da un intreccio di circostanze talora 


31 










fortuite, spesso colpevoli, sempre deplorevoli », e 
senza mai sconfessare la tesi. 

Ma a precisare i contorni della democrazia nei 
limiti del cattolicesimo intervenne nel Natale del 
1944 lo stesso Pio XII. Regime democratico sta 
bene, egli affermava, purché però, precisava, il popolo 
sia governato « da mani oneste e provvide » e lo 
Stato non venga lasciato « all’arbitrio della massa », 
che « è la nemica capitale della vera democrazia » in 
quanto tende a livellare quelle « ineguaglianze di 
cultura, di averi, di posizione sociale », derivanti dal¬ 
la natura stessa delle cose. Quanto poi ai rapporti 
Stato Chiesa Pio XII li risolveva in maniera radicale; 

« La maestà del diritto positivo umano allora 
soltanto è inappellabile, se si conforma — o almeno 
non si oppone — all’ordine assoluto, stabilito dal 
Creatore e messo in luce dalla rivelazione del Vangelo. 

E’ questo il criterio fondamentale di ogni sana forma 
di governo, compresa la democrazia ». Il che voleva 
dire che la Chiesa accettava la democrazia, a condizic^ 
ne che questa accettasse di sottostare al suo magi¬ 
stero e desse quindi piena soddisfazione a tutte le sue 
rivendicazioni. Per piegare la democrazia alla volontà 
della Chiesa occorreva però uno strumento adeguato, 
un partito prono alle autorità ecclesiastiche intorno a 
cui raccogliere le masse cattoliche, da utilizzare come 
massa di manovra per instaurare attraverso il rituale 
del sistema parlamentare un regime sostanzialmente 
teocratico. Ed ecco allora la Civiltà cattolico incitare 
all’unione tra i cattolici. Unione intorno alla gerar¬ 
chia, anche in ciò che non appartiene al dominio del¬ 
l’infallibilità: i generali possono sbagliare, ciò non 
toglie che la disciplina militare sia necessaria. 

Era già la tesi, da cui poi la gerarchia non ha più 
receduto e da cui neppure Giovanni XXIII mostra di 
volersi discostare, che in Italia, e per esservi la sede 
del vicario di Cristo e per l’esistenza di un forte par¬ 
tito comunista, i cattolici debbono rinunciare anche 
alla libertà, altrove teoricamente consentita, di sce¬ 
gliere tra due partiti entrambi cattolici. 

Il Papa agit-prop 

Di pari passo con l’elaborazione teorica procedeva 
l’organizzazione degli strumenti che dovevano per¬ 
mettere di calarla nella realtà. Fare della Democrazia 
cristiana il partito unico dei cattolici, dissipare le non 
poche diffidenze ch’essa allora suscitava nella bor¬ 
ghesia cattolica e non cattolica per la sua diretta fi¬ 
liazione dal PPI, che nel primo dopoguerra aveva 
largamente scontentato i ceti conservatori, non era 
impresa da poco, specialmente nella situazione del¬ 
l’epoca che obbligava all’alleanza con i partiti della 
classe operaia in seno ai sindacati e al governo. Ma 
favorita dalla divisione già latente in seno ai partiti 
della sinistra e dai numerosi errori ch’essi commisero, 
utilizzando le capacità indiscusse di un leader della 
statura di De Gasperi, la Curia rapidamente vi riuscì. 

Il partito Cristiano sociale e il movimento dei 
cattolici comunisti, che per il solo fatto di esistere 
costituivano una minaccia al monopolio democri¬ 
stiano della rappresentanza politica dei cattolici, fu¬ 
rono liquidati in breve volgere di tempo. Il primo 


colla complicità addirittura del PSI e del PCI, che 
consentirono alla DC di tenerlo al di fuori dei Co¬ 
mitati di Liberazione Nazionale, nonostante la sua 
eroica partecipazione alla Resistenza. Il secondo fu 
costretto dai ripetuti interventi della Curia all’auto- 
scioglimento. 

Contro la CGIL fu immediatamente eretto il 
contraltare delle ACLI, a cui Pio XII assegnò fin 
dalle origini il compito di intralciare l’attività del 
sindacato unitario e di prepararne la rottura: « abbiate 
cura che il Sindacato non devii dal campo suo proprio 
e non sia tramutato in strumento della lotta di classe »• 

Ma il banco di prova della capacità della Chiesa di 
intervenire come forza decisiva nell’agone politico si 
presentò con la consultazione elettorale del 2 giugno. 

Solitamente si ritiene che solamente con le ele¬ 
zioni del 18 aprile 1948 il clero e le organizzazioni 
religiose siano scesi apertamente in campo con tutto 
il loro peso. In realtà già nel 1946 si ebbe la mobili¬ 
tazione massiccia di tutte le forze cattoliche, dal Papa 
all’ultimo prete, in favore della Democrazia cristiana. 
Se qualcosa mancò fu una precedente esperienza che 
permettesse, come nel 1948, di inquadrare e coordi¬ 
nare in vista del massimo rendimento tutte le molte¬ 
plici iniziative. 

LA. C. scavalca il Concordato 

Il Papa in persona prese più volte la parola per 
incitare a votare e a votare l^ne. Tra le sue molte¬ 
plici prestazioni l’appello alle giovani cattoliche è 
particolarmente indicativo degli argomenti elevati 
ch’egli introduceva nella campagna elettorale: « con 
la vostra scheda voi avete in mano i superiori interessi 
della vostra patria: si tratta di tutelare e conservare 
al vostro popolo la sua civiltà cristiana, alle sue fan¬ 
ciulle e alle sue donne la loro dignità, alle sue famiglie 
le loro madri cristiane ». I vescovi di tutta Italia lo 
assecondavano validamente, scendendo ad indicare 
nominativamente i partiti e gli uomini per cui i 
fedeli non dovevano votare. Così ad esempio suonava 
la Circolare emanata dai presuli della Sardegna: 

« L’Episcopato, esaminati i programmi dei vari partiti 
e le liste dei nomi pubblicati, riprova, oltre al Partito 
Comunista e a quello Socialista, anche il Partito Sardo 
d’Azione perchè accoglie elementi notoriamente ostili 
alla Chiesa. A tale giudizio debbono ispirarsi tutte 
le direttive e propagande elettorali dei cattolici, te¬ 
nendosi presente che il Partito della Democrazia cri¬ 
stiana dà maggiore affidamento tanto per il program¬ 
ma quanto per le persone ». 

Quanto all’Azione Cattolica, nonostante cadesse 
sotto la prescrizione dell’art. 43 del Concordato, non 
rimase inerte, iniziò anzi proprio allora quel processo 
di politicizzazione, che doveva portarla alle successive 
elezioni a divenire il fulcro dei Comitati civici, con 
grave scandalo anche di molti cattolici. Le direttive 
impartite dall’Ufficio centrale agli uffici diocesani sol¬ 
lecitavano l’unione di tutte le associazioni cattoliche 
a fini elettorali e politici, che trovò appunto la sua 
realizzazione con due anni di ritardo nei Comitati 
civici: « L’A.C. ha il compito di concorrere all’edu¬ 
cazione politica del popolo, richiamandolo alla ecce- 


32 








zionale delicatezza della scelta che si deve fare dei 
propri rappresentanti. Già l’A.C. attende a questa 
opera, ma iniziandosi ora il momento più decisivo 
deve intensificare la sua attività, sospendendo even¬ 
tuali altre iniziative e costituendo un fronte unico con 
tutte le Associazioni cattoliche aventi scopo di apo¬ 
stolato ». 

A elezioni concluse, lo spettacolo offerto dal clero 
nel corso della campagna elettorale così venne de¬ 
scritto da un osservatore laico: « Quel che sta capi¬ 
tando da qualche tempo in Italia senza che si levi 
la più timida voce di protesta è qualcosa di inaudito: 
monache che si alzano le sottane per andare ad appic¬ 
cicare manifesti elettorali; preti che minacciano le pene 
deU’inferno dal confessionale e rifiutano i sacramenti 
a chi non vota per la DC; Papa, Cardinali e Vescovi 
fascisti che trattano la politica italiana come fosse 
qualcosa di loro esclusiva pertinenza ». 

Mentre ordinava perentoriamente ai fedeli di 
convogliare i loro voti sulla DC, entrando anche in 
aspra polemica con i partiti di destra che si sforzavano 
di accaparrarsi una parte del voto cattolico, la Chiesa 
sì asteneva dal dare indicazioni ufficiali in merito al 
referendum. Ciò le è valto in seguito il riconoscimen¬ 
to di avere di fatto e consapevolmente, sia pure p)et 
fini suoi particolari, favorito l’avvento della Repub¬ 
blica. Qui almeno ci sarebbe dunque stato un contri¬ 
buto della Chiesa allo sviluppo civile dell’Italia, e 
per di più nella risoluzione di un nodo di tanta im¬ 
portanza! Senonchè si tratta di un giudizio errato, che 


si fonda essenzialmente sulla facilità con cui in 
seguito la Chiesa dietro il paravento della Repubblica 
fece dell’Italia uno Stato confessionale. Ma lo stru¬ 
mento di questa rivincita della Chiesa fu la democra¬ 
zia cristiana e non la Repubblica. Ed in favore della 
DC, e non già della Repubblica, va interpretata la 
saggia decisione della Curia di non vincolare in senso 
monarchico il voto dei cattolici. 

Non bisogna infatti dimenticare che nella loro 
maggioranza gli iscritti alla DC erano di orientamento 
repubblicano, ed in questo senso si erano pronunciati 
al loro primo Congresso. In queste condizioni le ge¬ 
rarchie ecclesiastiche e l’ala degasperiana della DC, 
per quanto di spiccate simpatie monarchiche, non po¬ 
tevano impegnarsi a fondo per la monarchia, vinco¬ 
lando il voto dei cattolici e costringendo la DC a 
mantenersi agnostica, senza provocare una grave crisi 
in seno al partito cattolico, col pericolo che se ne 
distaccasse un’ala repubblicana. Compromettere le 
fortune della EXZ per meglio assicurare quelle incerte 
della monarchia, quando, monarchia o Repubblica, a 
quel partito sarebbe comunque toccato il compito di 
clericalizzare l’Italia, sarebbe stata follia. E la Chiesa 
si guardò bene dal commetterla, tanto più che la de¬ 
cisione di affidare direttamente agli elettori, mediante 
referendum, la scelta istituzionale, consentiva al clero 
di vincolare in favore della DC il voto dei cattolici e 
contemporaneamente di svolgere, come effettivamente 
svolse, un’attiva propaganda in favore della Monar¬ 
chia. E il risultato elettorale denunciò clamorosamen- 


33 



















































te il proselitismo monarchico del clero: degli otto mi¬ 
lioni di voti riportati dalla DC, che si era ufficialmente 
schierata in favore del mutamento istituzionale, solo 
due milioni scarsi andarono a favore della Repubblica. 

La Repubblica quindi vinse nonostante l’ostilità della 
Chiesa e non già grazie alle sue simpatie. 

Il voto del 2 giugno 

E va tenuto fermo che l’esito del referendum rap¬ 
presentò oggettivamente una sconfitta per la Chiesa, 
e tale fu da essa giudicato; anche se in seguito, por¬ 
tando la DC alla vittoria del 18 aprile, essa potè ^r 
un lungo periodo annullare le conseguenze di quell’in¬ 
successo. La vittoria della Monarchia avrebbe infatti 
messo al servizio della Chiesa un altro non disprez¬ 
zabile strumento, poiché Umberto II, oltretutto perso¬ 
nalmente assai bigotto, sapendo di dovere il trono 
all’appoggio del clero e di poterlo conservare solo 
grazie ad esso, si sarebbe ben guardato dal riportare 
la sua Casa nel solco della tradizione risorgimentale: 
l'avrebbe piuttosto ricondotta alle sue origini clericali. 

Se l’esito del referendum fu una sconfitta, la som¬ 
ma di voti raccolta dalla DC non costituì per la Chiesa 
quella vittoria che allora tutti vollero vedervi. Certo, 
fu un’affermazione notevole, ma il confronto con la 
forza elettorale che il PPI era riuscito a raccogliere 
nei suoi giorni migliori la fece sopravvalutare. Non si 
considerò che mai la Chiesa aveva sostenuto con altret¬ 
tanto impegno quel partito e che nel 1946 per la pri¬ 
ma volta era intervenuto nella mischia l’elettorato fem¬ 
minile. Del resto oggi, dop>o 18 anni di controllo asso¬ 
luto del potere, un risultato in percentuale molto simile, 
anzi leggermente migliore, viene giudicato con molta 
apprensione dai dirigenti della DC, mentre suscita a 
sinistra una ragionevole speranza. 

E’ vero invece che favoriti dagli errori e dalle divi¬ 
sioni della sinistra e dalla situazione internazionale, 
la Chiesa e De Gasperi sepp>ero valorizzare al mas 
simo quel risultato, portando in due anni la DC al 
trionfo del 18 aprile, che consegnava l’Italia per lun 
go tempo in mano a governi vicari del Vicario di 
Cristo. 

I due anni successivi servirono alla Chiesa per 
preparare la crociata anticomunista del 18 aprile, men¬ 
tre al Governo e nell’Assemblea Costituente la DC 
utilizzava la copertura dei comunisti per mettere le 
mani sul Ministero della PI, consegnare l’Assistenzi 
in mano al clero, restaurare la struttura amministra¬ 
tiva dello Stato fascista, organizzare una forte polizia; 
quando addirittura non si valeva dell’apporto diretto 
dei voti comunisti, come nel caso dell’art. 7. 

I molti sacrifici consentiti dal PSI e dal PCI non 
valsero d’altra parte neppure a ritardare lo scatenarsi 
di quel clima di guerra di religione, in cui per volontà 
della Chiesa saranno combattute le elezioni del 18 
aprile. Anzi fu proprio all’ombra dei governi tripar¬ 
titi, DC-PSI-PCl, che avvenne la prima mobilitazione 
in grande stile dell’esercito sanfedista. 

A pretesto per le grandi manovre le gerarchie 
ecclesiastiche presero la campagna di stampa anticle¬ 
ricale che s’era sviluppata come reazione ai vergo¬ 
gnosi interventi del clero nelle elezioni del 2 giugno. 


Ne furono alfieri tre periodici. Il Pollo, Il Mercante 
e II Don Basilio, destinati a perire uno dopo l’altro 
di morte violenta sotto i colpi congiunti della Magi 
stratura e del Governo, dove al Ministero della Giu¬ 
stizia siedeva un comunista. Non contenti dell’inter¬ 
vento delle autorità, vescovi e sacerdoti incitavano da 
un capo all’altro d’Italia la gioventù cattolica a pas 
sare all’azione con prediche infiammate. E i giovani 
d’Azione Cattolica risposero all’appello, bruciando sul¬ 
le pubbliche piazze pacchi degli odiati giornali e mi¬ 
nacciando le edicole che li esponevano. Finché sì 
volle ravvisare in alcuni scritti di quei periodici una 
offesa diretta alla persona del Papa, e fu l’ira di Dio. 
Venne immediatamente organizzata una gigantesca 
manifestazione di popolo in Piazza San Pietro, nel 
corso della quale Pio XII si rivolse alla folla con 
queste bellicole parole: « Dal suolo romano il primo 
Pietro, circondato dalle minacce di un pervertito pt> 
tere imperiale, lanciò il fiero grido di allarme: "Resi¬ 
stete forti nella fede”. Su questo medesimo suo'o Noi 
ripetiamo oggi con raddoppiata energia quel grido a 
voi, la cui città natale è ora il teatro di sforzi inces¬ 
santi volti a rinfiammare la lotta tra i due opposti 
campi: p>er Cristo o contro Cristo, pier la sua Chic 
sa o contro la sua Chiesa. Destatevi, o romani. L ora 
è suonata, pjer non pxKhi fra voi, di svegliarvi da un 
troppx) lungo sonno. Agire fortemente e fortemente 
patire: è la divisa del nome romano ». 

« Chi tocca il Papa ne muore » 

Da Roma la campagna contro l’anticlericalismo 
dilagò p)er tutto il paese e oltre le frontiere. Per mesi 
VOsserva/ore Romano continuò a riportare quasi ogni 
giorno cronache dall’Italia e dall’estero su quella che 
definì la mondiale crociata contro l'empietà. In Ita¬ 
lia queste manifestazioni si. svolgevano alla presenza 
di tutte le autorità locali: generali, prefetti, questori 
e procuratori della Repubblica. Per dare un’idea del¬ 
l’atmosfera di odio e di rozza superstizione medie 
vale che queste Feste del Papa, come venivano anche 
chiamate, sollevavano, ecco à&W'Osservatore Romano 
la cronaca di una di esse, svoltasi a Palermo alla 
presenza del cardinale arcivescovo Ruffini, che vi 
pronunciò il discorso ufficiale: 

« Noi protestiamo la nostra devozione appas¬ 
sionata a Pietro e al suo Successore. E se per ripa¬ 
rare le offese dirette contro la sua Augusta Persona, 
se per accendere più vivo l’amore al Papa nel cuore 
degli uomini, se per accrescergli onore e gloria fosse 
richiesto il nostro stesso sangue, noi saremmo pron¬ 
ti — con la grazia di Dio — a darlo non a gocce, 
ma a torrenti ». « Al termine delle parole di Sua Emi¬ 
nenza, proseguiva il cronista vaticano, la folla gridò 
scandendo le parole: "Il Papa non si tocca, il Papa 
non si tocca”. "Chi tocca il Papa — riprese Sua 
Eminenza il Cardinale — NE MUORE! Non osino 
più offendere il Papa, perchè offendere il Papa non 
è soltanto offendere Dio e la Chiesa, ma è altresì 
attirarsi la maledizione di Dio” ». La campagna elet 
torale del 1948 era già cominciata con più di un anno 

di anticipo! __ 

DOMEMCO SEITEMBRLM 

(Continua) 


34 






I superiori del giudice 

Con questo articolo di Antonio Chiavelli L’astrolabio apre un dibattito su 
un problema che trova oggi divisi i magistrati italiani tra quanti vedono 
nella carriera del giudice un ostacolo alla sua libertà e chi invece la ritiene 
un indispensabile incentivo per evitarne l’appiattimento professionale. 


d/ AMOy'IO CHIAÌ ELU 


Qualche mese fa la stragrande 
maggioranza di tutti i giudici 
Italia, interpellati con un refe- 
fendum, si dichiaravano disposti a 
ticorrere allo sciopero, considerato 
come l’estremo rimedio loro rima¬ 
sto per richiamare l’attenzione del 
governo e del paese sui problemi 
della giustizia. 

Saranno stati in molti a scrollare 

testa di fronte al fatto che an¬ 
che i giudici intendessero scioperare 
come i ferrovieri o i metalmecca¬ 
nici. Taluno ha gridato allo scan¬ 
dalo, a malapena dissimulando l’ari¬ 
stocratica convinzione che lo sciope- 
fo è diritto che si conviene appunto 
a ferrovieri o metalmeccanici e non 
a giudici. 

Giustificato o meno che fosse lo 
scandalo è certo, però,, che uno 
sciopero di giudici è cosa grave e 
scria: hanno scioperato c vero an¬ 
che professori e avvocati, diploma¬ 
tici e direttori generali, ma è pari- 
menti vero che nessuna di dette 
attività attinge così immediatamente 
le fondamenta stesse dello Stato. 
Ebbene lo sciopero non è stato più 
effettuato: il sintomo è rientrato 
ma il male è rimasto. 

Sembra quindi utile che l’opinio¬ 
ne pubblica, la più vasta possibile 
e a tutti i livelli, sia informata, 
brevemente e chiaramente, dei ter¬ 
mini essenziali delle questioni che 
quello sciopero avrebbe dovuto 
drammaticamente e perentoriamen¬ 
te sollevare. 

Tutti i magistrati, in sostanza, 
lamentano il disinteresse dei più 
vari governi succedutisi fino ad oggi 
(disinteresse non del tutto casuale) 
per tutti i problemi della giustizia 
c, più in particolare, la grave ina 
dempienza costituzionale costituiti 
dalla mancata attuazione delle nor 
me della costituzione che riguardano 
la posizione del giudice nell’ordina¬ 


mento dello Stato. Sulla gravità di 
questo fatto tutti sono concordi, 
giudici di tribunale o di cassazione; 
l’accordo purtroppo viene meno 
quando si tratta di scegliere le so¬ 
luzioni da adottare. 

La stragrande maggioranza dei 
magistrati, autorevolissimi studiosi 
del processo ritengono — e non 
da oggi — che l’indipendenza del 
giudice non sarà mai piena e sin¬ 
cera se non sarà abolita la cosid¬ 
detta carriera, in conformità del 
dettato costituzionale secondo cui 
« i giudici sono soggetti soltanto 
alla legge » e i magistrati si distin¬ 
guono fra loro soltanto per diversità 
di funzioni ». Una piccola minoran¬ 
za e la corte di cassazione sono 
convinte, invece, « che un generale 
livellamento della carriera dei ma 
gistraii con progressione fondata 
soltanto su scrutini di anzianità ap 
porterebbe conseguenze dannose al¬ 
l’Amministrazione della Giustizia, 
abbassando il tono dei Collegi giu 
dicanti e favorendo la fuga dei mi 
gliori elementi verso altre carriere ». 

Ne è sorta, tra giudici, una po¬ 
lemica talvolta aspra ma il dibattito 
non ha fatto molti passi innanzi 
a causa, soprattutto, del sostanzia¬ 
le agnosticismo delle classi politi 
che che non hanno saputo o voluto 
rendersi conto che l’adozione del¬ 
l’uno o dell’altro sistema comporta 
precise scelte politiche in relazione 
alla costituzione « sostanziale » del¬ 
lo Stato. Di questo agnosticismo si 
giovano le forze di inerzia del si¬ 
stema. Infatti è evidente che non 
si tratta di problemi tecnici, di limi 
tato interesse specialistico, che ri¬ 
guardano soltanto un’efficiente or 
ganizzazione dei servizi giudiziari, 
ma si tratta, in definitiva, di fon¬ 
damentali questioni di principio: 
poiché, eguaglianza di stato giuridico 
fra tutti i giudici, pur nella di¬ 


versità delle funzioni rispettive, de¬ 
riva dal principio di democrazia e 
di libertà, come ordinamento ge 
rarchico è conseguenza nece.i.saria 
del principio di autorità, più o 
meno illuminata che sia. 

Questo è il punto e una soluzione 
consapevole di esso implica corag¬ 
giose e responsabili scelte politiche. 

Al di sopra di ogni polemica, è 
fuopi discussione che i sostenitori 
del sistema della carriera non vo¬ 
gliono l’asservimento del giudice co¬ 
me i sostenitori dell’abolizione della 
stessa non ne vogliono l’appiatti¬ 
mento professionale. La verità è che 
i: primo sistema ha una forza espan¬ 
siva positiva che consiste nel solle¬ 
citare un affinamento tecnico - pro- 
fc.ssionale dei giudici (di natura, 
tuttavia, piuttosto accademica) ma 
comporta altreoì, ineluttabilmente, 
lo scatenarsi tra essi di uno spirito 
agonistico che ne mina le coscienze 
e ne favorisce il conformismo. 

L’asservimento può esserne o me¬ 
no lo stadio ultimo, a seconda che 
la classe politica al governo sarà 
più o meno liberale. E’ retorica af¬ 
fermare che l’indipendenza del giu¬ 
dice deve fondarsi nella sua coscien¬ 
za adamantina: vi saranno sempre, 
e con qualunque sistema, dei giudi¬ 
ci, sordi ad ogni lusinga, obbedienti 
solo alla legge e alla propria co¬ 
scienza ma la stragrande maggioran¬ 
za, mentre si adatterà a cauti com¬ 
promessi in un regime illiberale, 
sarà, invece, indipendente e sempre 
più fiera della propria indipendenza 
in un regime che questa giuridica¬ 
mente garantisca. 

E’ semplicistico, se non è insin¬ 
cero, affermare che l’indipendenza 
del giudice, nel nostro attuale ordi¬ 
namento, non può es.sere insidiata 
e non è stata insidiata, nè all’in¬ 
terno nè all’esterno dell’Ordine giu- 

35 










diziario; pressioni dirette non 
possono avvenire e forse ( anche 
durante la dittatura) non sono mai 
avvenute ma il sistema consente 
certamente idonee pressioni indiret¬ 
te. Come si formerà allora, in ca¬ 
mera di consiglio, di fronte ad una 
grave questione, la cui soluzione 
tecnica, come spesso accade, ha lar¬ 
ghi margini di opinabilità, il voto 
del magistrato preoccupato della 
propria carriera? Se non ha nulla 
da temere o da sperare, entro i 
limiti della opinabilità tecnico-giu¬ 
ridica o di fatto, deciderà secondo 
coscienza; viceversa è ineluttabile 
che sia spinto a giudicare secondo 
convenienza, reale o supposta, e non 
gli sarà diffìcile trovare, anche nel 
foro interno, gli alibi morali che 
lo giustifichino di fronte a se stes¬ 
so. Il secondo sistema, quello au¬ 
spicato dalla maggioranza dei giu¬ 
dici comporta naturalmente il ri¬ 
schio, non di un appiattimento 
generale, ma bensì che alcuni tra¬ 
scurino il loro costante affinamento 
professionale o rallentino la propria 
operosità per il venir meno di ogni 
materiale incentivo. 

Il rischio, però, non potrà avere 
dimensioni notevoli e contro la man¬ 
canza di operosità vi è pur il rime¬ 
dio del procedimento disciplinare, 
con le garanzie del contraddittorio 
c contro l’impigrimento intellettua¬ 
le non può non soccorrere il sen¬ 
timento della propria dignità, lo 
esempio dei più, il rispetto di se 
stessi, sollecitato dal contradittorio 
tecnico che deve precederne le mo¬ 
tivate decisioni. 

Pigri e mediocri, forse, ve ne 
sarà sempre e con qualunque siste¬ 
ma, ma è meglio un ordinamento 
che tende ad assicurare che le sen¬ 
tenze dei giudici siano sempre one¬ 
ste, ancorché possa accadere che 
talune di esse siano tecnicamente 
sbagliate o un sistema che, per 
assicurare il maggior numero di sen¬ 
tenze formalmente corrette, induca 
il pericolo grave che esse, nella so¬ 
stanza, non siano il frutto della 
serena e disinteressata determinazio¬ 
ne del giudicante, non nascano, cioè, 
« ex coscientia animi »? 

Non si potrà contestare, invece, 
la forza espansiva e positiva insita 
nel principio della eguaglianza dei 
giudici, pur nella diversità delle 
funzioni esercitate: una sicura in¬ 
dipendenza, non più condizionata 
dal maggiore o minore liberalismo 


dell’esecutivo, un’elevazione del giu¬ 
dice al livello della sua posizione 
di partecipe della sovranità dello 
Stato, soggetto solo alla legge, sen- 
z’altra mediazione che quella del 
proprio libero spirito. 

Non più il magistrato che va pe¬ 
regrinando da una funzione all’altra, 
sollecitando all’uofX) il favore dei 
capi degli uffici: da un ufficio di 
istruzione ad una sezione penale, 
da questa ad una sezione civile, 
non secondo le proprie specifiche 
attitudini ma nell’ansiosa ricerca di 
trovarsi al posto giusto per la rea¬ 
lizzazione dei propri interessi di car¬ 
riera. Una giurisprudenza più libe 
ra e aperta, non più frutto di mec¬ 
canica e conformistica adesione ma 
risultante da un libero e responsa 
bile confronto di idee e di argo¬ 
menti, dibattuti e vagliati con le 
sole garanzie previste dagli istituti 
processuali. 

E’ quanto il Legislatore costitu¬ 
zionale ha intuito e voluto sancendo 
che il giudice è soggetto soltanto 
alla legge e, corollario di questo 
principio, che i giudici si distinguo¬ 
no tra loro soltanto per diversità 
di funzioni. 

Nè varrebbe obiettare, come cau¬ 
tamente è stato detto e come è fer¬ 
mamente sottinteso dagli avversari 
dell’abolizione della carriera, che 
l’ordinamento gerarchico dei giudici 
serve proprio a garantire la dip)en- 
denza di essi dalla legge. E’ proprio 
qui il nodo politico e costituzionale 
del problema: il giudice non può 
essere soggetto che alla legge e sol¬ 
tanto alla legge e, a garanzia di 
questa dipendenza, non vi possono 
essere — sul piano morale e giu¬ 
ridico — che la sua coscienza e il 
suo giuramento e — sul piano 
strettamente giuridico — i rimedi e 


i gravami previsti dal codice <1* 
procedura. . 

Spostare la suprema garanzia del¬ 
la sovranità della legge sul giudice 
dai rimedi processuali, che si at¬ 
tuano pubblicamente dopo liberi di¬ 
battiti, dalla libera critica dell’opi¬ 
nione pubblica, all’indiretta ma non 
meno decisiva influenza dell’interna 
gerarchia significa svuotare di ogni 
contenuto il precetto costituziona¬ 
le, ridurre il potere della legge nel 
potere di una ristretta oligarchia 
che, per la logica obiettiva del si¬ 
stema, è più facilmente influenza- 
bile dalla naturale « vis attractiva » 
dell’esecutivo. Non più democrazia 
quindi o stato di diritto ma, al putì 
un paternalismo illuminato. 

Questi in succinto i termini della 
questione. 

Vorrà, finalmente, il governo; 
vorranno i gruppi politici rappre¬ 
sentati in Parlamento sentire 1 iir^ 
portanza del tema; rimediare ad 
una troppo prolungata inadempien¬ 
za costituzionale eseguendo, qua*' 
che siano, le loro scelte politiche e 
giuridiche di fronte al dettato 
stituzionale, uscendo dalle secche 
dei cauti patteggiamenti, delle astu¬ 
zie di corridoio? 

In questa fase storica in cui tutti 
sono, comprensibilmente e umana¬ 
mente, protesi verso la civiltà de 
benessere è forse indispensabile che 
la magistratura faccia comunque 
giungere a tutti il suo ammoni¬ 
mento: che nessuna riforma di stru^ 


tura, che nessun miracolo economi; 
co varrà ad attuare lo stato di 
diritto e a fondare una moderna de¬ 
mocrazia se non sarà risolto il pro¬ 
blema della Giustizia — che è pro¬ 
blema di Libertà nella legge —' 
secondo lo spirito della costituzione. 

ANTONIO CHIAVELLI 


Direz. e Amministrazione: Casella postale 100 - TORINO 
SOMMARIO DEL NUMERO DI APRILE 1963 

Amedeo: La lotta continua - Aldo Garosci: La libertà di levtuscei^o- 
Carlo Catalegno: Il carnefice Franco - Ugo Buzzolan: Il futuro delia 
TV in Italia - Giorgio Mornese; Inchiesta sul neofascismo in Italia. 
Genova - Luca Bernardelli: L’aggressione a Fanfani - Gastone Cottino: 
Non basta una legge a stroncare il neofascismo - A. Perez: Esperi¬ 
menti • liberali • in Spagna - Alfonso Di Nola: Ha vinto ancora la 
mafia - Luigi Baccolo: Sortilegio della destra - Marco Ramai: L obiet¬ 
tore di coscienza in Italia. 

RUBRICHE: Resistenza libri - Notes. 

Per richieste di numeri di saggio e per abbonamenti rivolgersi diret¬ 
tamente all’Amministrazione di « RES1STEN21A » - Tonno, Casella 
postale n. 100. I versamenti vanno effettuati sul conto corrente postale 
n. 2 33166. 


36 








Guai vecchi e nuovi 
della finanza italiana 


pRANCESCO Repaci, scolaro de¬ 
voto di Luigi Einaudi ed ora 
continuatore fedele del suo inse¬ 
gnamento, dopo aver dedicato per 
più di quaranta anni una lunga serie 
di studi analitici e faticosi per ten¬ 
tare di veder chiaro nei nostri bi¬ 
lanci e di rettificarne e completarne 
le cifre ufficiali, raccoglie ora ed 
aggiorna i risultati di questi studi 
in un poderoso volume su La finan¬ 
za pubblica italiana nel secolo 1861- 
1960 (Bologna, Zanichelli, 1962). 

I cento anni di storia della finan¬ 
za italiana sono divisi dal R. in 
tre periodi: dal 1861 al 1913, dal 
1913-14 al 1934-35, dal 1935-36 al 
1959-60. La data d’inizio del terzo 
periodo, che a prima vista può sem¬ 
brare un po’ strana, è scelta dal- 
l’A. perchè appunto da quell’anno 
si apre una nuova serie di guerre, 
per la conquista dell’Etiopia e del¬ 
l’Albania, e per l’intervento del¬ 
l’Italia nella guerra civile in Ispa- 
gna; e perchè nello stesso anno fu 
definitivamente instaurato il regime 
corporativo, che provocò un più 
rapido aumento dell’intervento del¬ 
lo Stato nella vita economica. 

Un (lefioit nanrot^to 

Per ciascuno di questi periodi, 
ma con maggiore attenzione per il 
secondo e il terzo — nei quali, di 
pari passo con l’aumento delle spese 
per le ordinarie funzioni dello Stato, 
si moltiplicano le deviazioni dal più 
corretto sistema dell’unicità del bi¬ 
lancio — il R. offre precise notizie 
sulle rettifiche da lui proposte ai 
rendiconti dello Stato, e fa una 
analisi tninuta delle varie specie di 
entrate e di spese, del movimento 
di capitali e in particolare del de¬ 
bito pubblico. 

Per il primo periodo, rettificati 
con maggior precisione gli errori 
contabili, fra cui il più grave, già 
noto, è quello di non aver tenuto 
conto, quando nel 1875 si annunciò 


di GIISO LUZZATTO 


il pareggio fra entrate e spese, del 
disavanzo nella gestione ferrovia¬ 
ria, il R. arriva alla conclusione 
che, fino al 1898, il bilancio dello 
Stato italiano era sempre stato de¬ 
ficitario; e che soltanto dopo quella 
data, per dieci anni, il bilancio si 
chiuse con un avanzo. Poi le guerre 
di Libia e dei Balcani riportarono 
il disavanzo, che si volle nascon¬ 
dere con l’espediente, che doveva 
fjoi ripetersi in proporzioni estre¬ 
mamente più gravi, di registrare 
quelle spese nelle cosiddette gestio¬ 
ni fuori bilancio, che, in realtà, era¬ 
no delle spese deliberate senza una 
corrispondente copertura di entrate 
effettive, e a cui si provvedeva con 
detrazioni dal fondo di cassa della 
Tesoreria, oppure con accensioni di 
debiti fluttuanti o consolidati. Il 
R. calcola, e il calcolo ci sembra 
ineccepibile, che, includendo queste 
spese nel bilancio, il disavanzo degli 
esercizi 1911-12 e 1912-13, rag¬ 
giunse rispettivamente le cifre di 
346 e 556 milioni di lire. 

Il male si ingrossa dopo il 1914: 
fra le numerose gestioni fuori bi¬ 
lancio, istituite durante la prima 
guerra mondiale, la più grave fu 
quella per gli approvvigionamenti 
e i consumi, mantenuta in vita nel 
primo quadriennio del dopoguerra 
e di cui sentiamo ancora, con nomi 
e con forme diverse, le pesantissi¬ 
me conseguenze. 

Nella sua prima forma, questa 
gestione dura dal dicembre 1915 
al luglio 1922, quando la sua liqui¬ 
dazione passò nell’ambito del bilan¬ 
cio. I mezzi finanziari per lo svol¬ 
gimento della sua attività erano co¬ 
stituiti dai conto corrente con gli 
istituti di emissione, alimentato dal¬ 
le anticipazioni straordinarie, ' che 
gli istituti stessi erano tenuti a fare 
allo Stato, e che, con R.D. del set¬ 
tembre 1919, erano state elevate a 
un massimo di 1850 milioni: dalle 
somme che essi incassavano per 
conto della gestione approvvigiona¬ 


menti e consumi; dal ricavo delle 
vendite delle derrate; dai crediti 
concessi al Tesoro italiano dai go¬ 
verni inglese e statunitense. 

Altri mezzi finanziari erano asse¬ 
gnati alla stessa gestione sul Fondo 
di cassa, messo a disposizione per 
le spese non iscritte a bilancio, e 
che si mgrossava registrando come 
entrata effettiva i cambi, che si 
presumeva di dover pagare ed effet¬ 
tivamente non si pagavano, sui pre¬ 
stiti esteri in valuta pregiata. 

La gestione fuori bilancio 

Conseguenza delle fortissime spe¬ 
se di guerra e del sistema della 
gestione fuori bilancio l’aumento 
pauroso del debito di tesoreria: 
disceso da 40 a 8 miliardi nel primo 
decennio del dopoguerra, esso rico¬ 
minciò a salire dopo il 1931, fino 
a toccare i 14 miliardi nel 1935, 
determinando un aumento preoccu¬ 
pante della circolazione bancaria, 
che salì da 2199 milioni di lire 
alla fine del 1914 a 13.028 milioni 
nel 1935, con l’inevitabile conse¬ 
guenza del rapido aumento dei prez¬ 
zi, per cui si andava minacciando 
alla lira italiana la stessa sorte del 
marco tedesco. 

Altra, e non meno grave conse¬ 
guenza dcH’aumento del debito di 
tesoreria fu l’impossibilità di prov¬ 
vedere alla temporanea deficienza di 
cassa con l’emissione di buoni ordi¬ 
nari del tesoro a breve termine, e 
la conversione forzata dei buoni sca¬ 
duti in consolidato al 5%, che, de¬ 
cretata nel 1926, determinò una 
perdita di 5 miliardi per i posses¬ 
sori dei buoni ordinari. Questa per¬ 
dita rese impossibile per molti anni 
ogni nuova emissione, sicché la Te¬ 
soreria fu costretta a ricorrere quasi 
esclusivamente alle anticipazioni del¬ 
la Banca d’Italia, cioè alla stampa 
di biglietti. 

Nello stesso tempo le gestioni 
fuori bilancio, riprese con la guerra 












per la conquista etiopica, crebbero 
continuamente, assumendo un carat¬ 
tere permanente, e si moltiplicarono 
gli enti speciali con funzioni di Sta¬ 
to, ma con propria contabilità. Con 
legge dciril luglio 1941, integrata 
da provvedimenti successivi, si au¬ 
torizzò l’iscrizione nella categori.: 
dei movimenti di capitali di alcune 
spese per opere pubbliche, per i 
soccorsi alle famiglie dei militari 
e — quel che è più grave — per 
fronteggiare i disavanzi degli enti 
ausiliari dello Stato. 

1 (U Valletla 

Dopo la caduta del fascismo e 
la fine della guerra, nuova esca al 
moltiplicarsi di questi espedienti 
contabili e finanziari fu data dal¬ 
l’articolo 81 della Costituzione, che 
avrebbe dovuto ricondurre alla nor¬ 
malità del sistema, rendendo impos¬ 
sibile l’approvazione di nuove spese, 
se non si fosse provveduto alla loro 
copertura con entrate di uguale va- 
lore. 

Fra gli espedienti a cui si fece 
c si fa più frequente ricorso uno 
fra i preferiti è stato quello delle 
spese diluite nel tempo, cioè a pa¬ 
gamento differito in un numero di 
esercizi spesso molto elevato, per 
cui i bilanci futuri si troveranno 
gravati da un cumulo crescente di 
spese per opere iniziate e spesso 
compiute già da parecchi anni. 

Secondo i calcoli accuratissimi 
fatti dal Repaci, i pagamenti rin¬ 
viati ( residui passivi ) salivano alla 
fine dell’esercizio 1958-59 alla bella 
cifra di 1464 miliardi di lire cor¬ 
renti, di cui 1060,7 miliardi risul¬ 
tanti dai rendiconti e 403,4 miliardi 
da spese non contabilizzate. 

Queste somme, che sono aumen¬ 
tate nei due anni successivi, e che 
graveranno in misura sempre meno 
tollerabile sui bilanci futuri, ci sem¬ 
brano più che sufficienti per dimo¬ 
strare quanto siano assurde e peri¬ 
colose certe opinioni dei nostri mag¬ 
giori capitani d’industria in materia 
di finanza pubblica. 

Per citare un esempio solo, fra 
i più recenti, nel suo interrogatorio 
presso la Commissione parlamen¬ 
tare d’inchiesta sui limiti posti alla 
concorrenza, il presidente della Fiat, 
Vittorio Vailetta — dopo aver in¬ 
vocato misure di difesa contro il 
preteso e non documentato dumping 
che i due colossi dell’industria ame¬ 


ricana dell’automobile (la « Gene¬ 
ral Motor » e la Ford) minaccereb- 
bero all’industria europea — ha 
insistito nella richiesta che, per 
superare il momento difficile che 
ora si sta attraversando, lo Stato 
provveda alla costruzione immedia 
ta a proprie spese o con i suoi 
contributi, di un grande numero di 
scuole, ospedali e abitazioni; non 
solo si soddisferebbe così un urgen¬ 
te bisogno sociale, ma si ravvive 
rebbe lo sviluppo economico nazio 
naie. Per provvedere al finanzia 
mento di questa maggiore attività 
edilizia, egli disse, « dato che il 
Governo si trova nella condizione 
di non poter fare in questo momen¬ 
to spese immediate, perchè per il 
famoso articolo 81 della Costitu¬ 
zione non si trova in grado di repe¬ 
rire i cespiti necessari per far fron¬ 
te a determinate spese, si potrebbe 
ricorrere a un prelievo dai residui ». 

« Esiste infatti — egli aggiunse — 
una massa ingombrante di residui, 
che giacciono inutilizzati. Per quale 
motivo non si potrebbe con una leg¬ 
ge speciale, la quale costerebbe po¬ 
che sedute al Parlamento, provve 
dere in tal senso?» (1). 

Con questa facile trovata, che 
purtroppo non è del tutto nuova 
nella più recente pratica finanziaria, 
il grande industriale (che, fra l’altro, 
è stato per vari anni professore di 
tecnica commerciale, o di ragioneria 
in una Facoltà Universitaria di Eco¬ 
nomia e Commercio), dimentica 
semplicemente che in moltissimi casi 
i residui attivi sono costituiti da 
crediti inesigibili, in altri da somme 
stanziate per opere in corso e di cui 
non si è pagata che una prima quo¬ 
ta; ma, soprattutto, dimentica che 
di fronte ai residui attivi ci sono 
anche i residui passivi, che spesso 
ne superano l’entità. 

L’arlifolo 81 

L’esempio su cui abbiamo voluto 
trattenerci è particolarmente preoc¬ 
cupante perchè è tipico della men¬ 
talità dei nostri uomini di affari, 
e, purtroppo, non soltanto degli uo¬ 
mini d’affari. Alcuni ministri e al¬ 
cuni dei più alti funzionari dei 
ministeri finanziari ed economici, 
considerano l’art. 81 (che riteniamo 
sia stato voluto da Einaudi per dare 
forza alla sua politica di difesa della 
lira), come un ingombrante e inuti 
le ostacolo al finanziamento di im 


prese che — secondo loro — avreb¬ 
bero per l’economia del paese una 
utilità ben maggiore che il ristabi¬ 
limento dell’unità, della sincerità 
e della chiarezza del bilancio, c non 
SI preoccupano del minacciato crol¬ 
lo della moneta, che promette larghi 
profitti agli speculatori più audac. 
e senza scrupoli. 

Per questo noi dobbiamo scusar 
ci se, nel parlare dell’opera podero¬ 
sa del Repaci, il quale si è proposto 
di illustrare la storia secolare dell’ 
nostre finanze in tutti i suoi aspetti 
(delle spese, dei tributi, del debito 
pubblico, della contabilità e del scr 
vizio di cassa) ci siamo trattenuti 
quasi esclusivamente sulle pagine, 
che egli dedica alle deviazioni dalli 
normalità del bilancio, proponendosi 
soprattutto di rettificarne i dati uf 
ficiali, sulla base di documenti o di 
calcoli che ci sembrano in gran parte 
attendibili. 

I pericoli 

(lei isisteinu attuale 

Se la nostra attenzione si è rivol¬ 
ta soprattutto alle deviazioni conta¬ 
bili è stato perchè è questo il campo 
in cui più evidentemente si manife¬ 
stano i pericoli del sistema attuale; 
ma non meno ci hanno interessati 
le cifre in cui il R. espone le conse¬ 
guenze immediate e più gravi del 
sistema; l’aumento, cioè, del debito 
pubblico in tutte le sue forme, e 
parallelo ad esso, l’aumento dcHii 
circolazione bancaria, che, dopo le 
proporzioni paurose assunte nei 
quattro anni della seconda guerra 
mondiale, ha avuto una ripresa 
preoccupante negli ultimi mesi, e 
in cui noi — a costo di essere 
condannati come antiquati — ei 
ostiniamo a vedere una delle cause 
principali dell’aumento del costo 
della vita. 

Per la luce che getta su questi 
importanti fenomeni, per la ric¬ 
chezza dei dati raccolti con rara 
diligenza e obiettività, per la critica 
acuta a cui li sottopone, il volume 
del Repaci offre una guida preziosa 
a chiunque voglia tentare di orien¬ 
tarsi in quel labirinto che è la 
storia della nostra finanza nel primo 
secolo dell’unità italiana. 

GINO Ll’ZZ.VTK» 


(1) Camera dei deputati. Commh- 
.sionp d'inchiesta sui limiti po.sti alla 
coìécorrema nel campo economico. 
Seduta del 24 ottobre 1962 (p. 15). 


38 








LIBR I_ 

«Mea culpa» per la Germania 


La nuova Germania e i vecclji 

nazisti 

T. H. Tetens 

t^diiori Riuniti, 280 pagg. L. 2800. 

t'* 'ERO quel che dice Sergio Se- 
gre, nella prefazione all’interes¬ 
sante libro di Tetens che La nuova 
Germania e i vecchi nazisti è « impor¬ 
tante perchè (...) rappresenta un mo¬ 
mento di quella più adeguata presa di 
coscienza dei termini reali del proble- 
ma germanico cui si assiste ora in 
alcuni strati influenti della vita sta¬ 
tunitense ». E’ vero e triste al tem¬ 
po stesso. Tetens, che si riaccosta 
alla Germania dopo esser fuggito dal 
Paese nel ’33, è sdegnato per il nuo¬ 
vo assetto della Germania federale 
ohe, con l’etichetta della democrazia 
autoritaria, conserva istituzioni e uo¬ 
mini del passato regime. Il suo li- 
oro è dunque un grido d’allarme, ri¬ 
tardato finché si vuole, destinato an¬ 
che a restare un semplice atto di 
buona volontà, ma utile, impegnato, 
clamoroso. 

. Eppure, benché per certi aspetti 
impressionante. La nuova Germania 
c t vecchi nazisti ha il limite di una 
raccolta di episodi di cronaca. ISfila- 
no — tratti da citazioni di giornali 
tedeschi o americani — i casi di an¬ 
tisemitismo, le attività delle orga¬ 
nizzazioni nazista più o meno camuf- 
fate, la riabilitazione dei gerarchi e 
dei militari, la mascheratura demo¬ 
cratica dell’apparato statale (inse- 
gnanti, magistrati, diplomatici, fun¬ 
zionari governativi). Ci sono episo¬ 
di che paiono impossibili (l’ammis¬ 
sione delle SS, fino al grado di co¬ 
lonnello, nella nuova armata tede- 
sea; l’utilizzazione dei ji^ggiori fer- 
rivecchi del nazismo nei servizi di¬ 
plomatici; l’appoggio autorevole con¬ 
cesso ai nazisti mimetizzati) ma che, 
purtroppo, non sono che un aspetto 
■7 forse il più esteriore e superfi¬ 
ciale, anche se di richiamo giornali¬ 
stico — della nuova struttura dello 
Stato tedesco. 

Sfugge al Tetens Tanalisi di questa 
nuova struttura della Germania di 
Bonn, così come l’esame delle respon- 
sabilità — ve ne sono molte, ben pre¬ 
cise, in campo economico e politico 
^ di chi ha voluto che la Germania 
divenisse ciò che ora è: un Paese do- 
'’c le formali istituzioni democrati¬ 
che si confondono con una pesante 
eredità. Il colpo di spugna che gli al¬ 
leati passarono sulle responsabilità te¬ 
desche alla fine della prima guerra 


mondiale è una bazzecola al confron¬ 
to di quel che è avvenuto dopo il 
1945. Gli aiuti diretti e indiretti, Tin. 
eoraggiamento per una riconcentra¬ 
zione dei vecchi monopoli, l’assolu¬ 
zione delle colpe naziste (Norimber¬ 
ga è stato un simbolo, ma dopo No¬ 
rimberga migliaia di criminali di 
guerra sono stati festeggiati, onorati, 
ben ricompensati) ecco alcuni degli 
alibi forniti da francesi, inglesi ma 
soprattutto dagli americani alla Ger¬ 
mania di oggi. 

Gli stupori americani di questi ul¬ 
timi tempi, e le dichiarazioni deluse 
sul conto di Bonn, sono dunque in 
certa misura sorprendenti. E’ meri¬ 
to di un libro come quello di Te¬ 
tens, nonostante i limiti accennati, 
prendere per mano il lettore e mo¬ 
strargli gli episodi, i fatti dai quali 
si può risalire a un esame più com¬ 
pleto. Forse è anche un invito a 
recitare il « mea culpa ». 

1. fo. 


L* Algeria 
si trasforma 

Sociologia «Iella rivoluzione al¬ 
gerina 

ili Frantz Fanon 

Einaudi, 150 pagg. L. 1200. 

R iecco Frantz Fanon, diplomatico, 
sociologo, combattente della rivo- 
lozione algerina, che con < I dannati 
della terra » — un documento essen¬ 
ziale sul movimento dei popoii co¬ 
loniali — si aggiudicò il premio Ome. 
gna 1962. < Sociologia della rivoluzio¬ 
ne algerina » è nient’altro che la rac¬ 
colta di saggi, già pubblicata tre an¬ 
ni or sono in Francia con il titolo 
L’an V de la révolution algérienne, 
sequestrata, ripubblicata e di nuovo 
sequestrata. Un libro, comunque, che 
appare indagine insostituibile dei va¬ 
lori di trasformazione della società 
algerina di fronte al colonialismo esa. 
sperato e alla guerra di liberazione 
e nel contempo una testimonianza del¬ 
la personalità intransigente e appas¬ 
sionata del Fanon (morto, come è 
noto, alla fine del ’61 per una ingua¬ 
ribile forma di leucemia contratta 
con le ferite provocate dall’esplosio¬ 
ne di una mina al confine algerino). 
Giovanni Pirelli — al quale si de¬ 


vono in questi anni la ricerca e la 
cura degli studi più importanti sul 
movimento rivoluzionario algerino — 
parla nella prefazione a < Sociologia 
della rivoluzione algerina » di < pre¬ 
potente presenza» di Frantz Fanon nei 
congressi internazionali dei popoli di 
colore, dove cominciò a farsi cono¬ 
scere come militante del Fronte di 
liberazione nazionale. Anche Tana¬ 
lisi che Fanon fa della situazione al¬ 
gerina, negli anni più angosciosi del. 
la guerra, è «prepotente », dura, esclu. 
siva. La trasformazione del suo popo¬ 
lo, degli stessi costumi tradizionali 
considerati per molto tempo « tabù », 
sotto Tinfuriare della ondata di re¬ 
pressione, tutte le modifiche nei rap- 
porti familiari sono considerate dal 
Fanon nella prospettiva di un Paese 
che scuote, in una rivolta di sangue, 
l’apatia di secoli e l’assuefazione di 
intere generazioni al dominio colonia¬ 
le. Fanon intravvede appena, e se ne 
occupa sullo sfondo, del consueto 
schema (a noi caro) degli europei 
non tutti ultràs, dei francesi pacifi¬ 
sti e disposti alla collabiurazione. 

A Fanon interessa il « suo » popo¬ 
lo, la < sua » rivoluzione. Anche se 
non coinvoige « tutti > gli europei in 
una condanna, a tutti gli europei egli 
vuole impartire la lezione di un popo¬ 
lo che rifiuta, consciamente o incon¬ 
sciamente, di modernizzarsi, di evol¬ 
versi — di abbandonare i tabù — 
come resistenza al colonialismo; men. 
tre invece, appena l’Algeria è co¬ 
sciente della sua unità, la rivoluzione 
armata influenza e determina preci¬ 
pitosamente una rivoluzione nei rap¬ 
porti, negli usi, nella mentalità, n 
libro di Fanon è lo specchio di un 
Paese, rabbiosamente, sanguinosa¬ 
mente in evoluzione, 

1. fn. 


LIBRI RICEVUTI 

MICHAEL EDWARDES; Asia al bi¬ 
vio. Feltrinelli Editore, lire 500. 

GIUSEPPE AGNELLO: La mia vita 
nel ventennio. Mescali Editore, 
lire 700. 

MARGHERITA BERNABEI: Ag¬ 
giornamenti sulla questione me¬ 
ridionale. Edizioni Opere Nuove, 
lire 700. 

M. ROSSI BORIA: Rapporto sulla 
Feder consor zi. Editori Laterza, 
lire 10(X). 


3 » 











opere di Gaetano Salvemini 

1. “Magnati e popolani,” e altri scritti di storia medioevale 

a cura di Ernesto Sesian 

2. Scritti di storia moderna e contemporanea 

>/■ voi. I La Rivoluzione francese (1788-1792) a cura di Franco V'enturi 

* voi 11 Scritti sul Risorgimento a cura di Piero Pien e Carlo Pischedda 

voi 111 Stato c Chiesa a cura di Elio Conti 

3. Scritti di politica estera 

voi. 1 "Come siamo andati in Libia," e altri scritti dal 1900 al 1915 a cura di Augusto Torre 

voL II "Dal patto di Londra alla pace di Roma." e altri scritti sulla prima guerra mondiale 

a cura di Carlo Pischedda 

voi. Ili La politica estera italiana dal 1871 al 1914 a cura di Augusto Torre 

voi IV "Mussolini diplomatico.” c altri scritti sulla politica estera fascista a cura di Augusto Torre 

4. Il Mezzogiorno e la democrazia italiana 

V voi. I "Il ministro della mala vita." e altri scritti suH’Iialia giolittiana 
a cura di Elio Apih 

voi 11 Movimento socialista e questione meridionale 
a cura di Gaetano Arfé 

5. Scritti SLilla scuola 

a cura di Lamberto Borghi c Beniamino Fìnocchiaro 

6. Scritti sul fascismo 

};• voi. 1 a cura di Roberto Vivarelli 
voi. II a cura di Roberto Vivarelli 
yol. Ili a cura di Nino Valeri e Alberto Merda 

7. L’Italia vista dall’America 

voli. 1 e II a cura di Enzo Tagliacozzo 

8. Saggi vari (Saggi metodologici e ricordi biografici) 

a cura di Ernesto Rossi 

9. Epistolario 

a cura di Enzo Tagliacozzo 

10. Biografia e bibliografia 

a cura di Enzo Tagliacozzo e Michele. Cantarella 

richiedere il piano dettagliato delle "Opere" a Feltrineni Editore «Via Andegari 6 Milano 
volumi pubblicati 

feltrinelli 


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