Anno I — N. 6
10 giugno 1963
Lf astrolabio
problemi della vita italiana
il feudo
INCHIESTA DI
ERNESTO ROSSI
PAPPI : I TIMOPI DEL GOVEPNATOPE CAPLI
GIOLITTI: PPOGPAMMAZÌONE . STEPILIZZATA
Il VATICANO DOMANI
PICCARDI: RICORDO DI UNITA' POPOLARE | JEMOIO:
GIOBBIO: I MISSILI INUTILI DELL' EUROPA | le ambizioni modeste
L’ASTROLABIO • Via XXIV Maggio, 43 . Roma
Mondo Operaio
Rassegna mensile
di politica economia cultura
Direttore: Francesco De Martino
Condirettori: Gaetano Arfé e Antonio Giolitti
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scuola e città Sommario del n. 5
Direttore: Ernesto Codignola maggio 1963
Lamberto Borghi: Scuola e sviluppo di comunità. Risposta a Dina Bertoni dovine — Jean Giraud:
L educazione civica nei collegi francesi di istruzione tecnica — Antonio Santoni Rugiu; Il posto delle
attività nella scuola media, 2 — Francesco Francescaglia: Attitudini e orientamento — Roger Gal: Lo
scuola media in Francia.
OSSERVATORIO
Maria Gloria Barontini Parigi e Ciriaco Pietro Costantini: Una iniziativa di democrazia scolasti¬
ca nel Mugello: il GIM — Un'esperienza di democratizzazione della scuola in un liceo veronese — R. C.:
Il convegno nazionale di studio sull’edilizia per la nuova scuola media — Sculture per i giochi dei bam¬
bini — Notizie.
Abbonamento annuo per il 1963: per l’Italia: L. 2500; per l’estero: 3000.
Direzione: Via delle Mantellate, 8 — Red. e Amm. cLa Nuova Italia», P. Indipendenza, 29 — Firenze
IL PUNTO
Opinioni e documenti della settimana
Colloquio tra socialisti e cattolici, attiva presenza italiana nella politica interna¬
zionale, crisi del comuniSmo: sono i temi di fondo che nei suoi sette anni di
vita « Il Punto » ha affrontato chiamando ad esprimersi personalità responsabili
di un vasto settore politico, fornendo così sui vari temi la possibilità di un im¬
mediato confronto di idee, di considerazioni e di contributi. In questo quadro
anche i fatti della cultura trovano ne « Il Punto » la loro espressione in quanto
aspetti significativi dell'azione e dei giudizi di una classe dirigente la quale deve
vivere questi anni difficili della nostra costruzione democratica con un impegno
sempre sincero ed organico.
IL PUNTO
è il settimanale del centrosinistra diretto da Vittorio Cale)
Dire», e Ammin.: Via del Babuino 85 • Roma . Abbon. annuali: L. 4000 Italia, L. 10.000 Europa
t
L’astròlabio
problemi della vita italiana
Anno I _ N. 6 10 giujsno 1963
DIRETTORE: FERRUCCIO FARRI
n;l prossimo
NUMERO
La storia del
COMITATO ni REDAZIONE
Lamberto borghi — luigi fossati _ anna
Garofalo — Alessandro galante garrone
Gino luzzatto — Leopoldo ficcardi — erne-
STO ROSSI — PAOLO SYLOS-LABINI — NINO
VALERI — ALDO VISALBERGHI
Redattore res^ponsabile : Euigi Ghersi
Sommario
EDITORIALE: Un Papa del nostro tempo.5
JERKOV: I problemi del nuovo pontificato .... 6
SEGRE: Le alternative del P.S.1.10
PARRI: I timori di Carli . . . . ..8
ClOLITTI: Programmazione sterilizzata,.18
EICCARDI: Ricordo di Unità Po|Hdare.15
JEMOLO: Le ambizioni modeste.18
ROLIS: La Francia dopo De Canile.19
SALVADORI: Birmingham e la Luna.20
CIOBBIO: I missili inutili dell Europa.22
ROSSI: I feudi deH’ingegner Pesenti.25
Luzzatto : Una sinistra più responsabile.30
Battaglia : La funzione delle minoranze.31
ENRIQUES: I>!ttera aperta a Malagodi e La Malfa ... 32
PICCARDI: Una postilla.34
RAMAT: I privilegi della Polizia.36
LIBRI: Anna Garofalo: « L’amico dell'anima » • Ala¬
dino: « I conservatori nazionali » .... 38
Una copia L. 100. arretrata il doppio. Abbonamenti: annuo L. 2300. estero il
«oppio, sostenitore L. 5000. Versamenti sul c.c.p. n. 1/40736 intestato al
Periodico L’AstroIobio.
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monopolio banane
GLI «AIUTI»
ALLA
SOMALIA
di Ernesto Rossi
if
Per ragioni di spazio siamo sfati
costretti a rinviare al N. 7 la se¬
conda puntata di: La chiesa nella
politica italiana.
VEKTQ
DI
CROCIATA
di Domenico Settembrini
LETTERE
Il Vaticano
e Franco
Caro Direttore,
la lettera di Giusy Macrì, rela¬
tiva al mio articolo ” Il Vaticano e
Franco ”, mi obbliga a fare alcune
considerazioni. Credo di conoscere
abbastanza bene ” gli errori del go¬
verno repubblicano ”, ma ciò no¬
nostante, questo fu l’unico gover¬
no legale e l’aggressione clericofa-
scista contro la Repubblica Spa¬
gnola, proprio a causa delle sue
debolezze, fu doppiamente crimi¬
nosa e vile. Un’altra faccenda poi
è la questione se ” il terrorismo di¬
lagante ” sia stato la causa o la
conseguenza del complotto contro
tale Repubblica. A mio avviso, era
la conseguenza di una situazione
disperata e non la sua causa. Quan¬
to alla grossolanità del ” gioco di¬
plomatico della Chiesa”, di essa
esistono tali e tante prove, alle
quali potrei aggiungere (e non lo
faccio, semplicemente per motivi
di spazio) qualche testimonianza
che io stesso sono riuscito a rac¬
cogliere negli ambienti del clero
spagnolo.
Se poi la narrazione dell’insieme
delle vicende, passate e odierne
spagnole, dimostri o no ” che l’uni¬
ca carta valida, oggi, da giocarsi
nell’interesse della democrazia in
Spagna, è purtroppo nelle mani
di quello che diverrà il partito dei
cattolici ” è un problema a sé. Per¬
sonalmente non riconosco cittadi¬
nanza politica ai partiti confessio¬
nali, cioè extrapolitici, che non so¬
no strumenti dell’interesse popo¬
lare ma servono altre finalità. No¬
nostante ciò, credo che in questo
momento sia positivo il ruolo di
ogni spagnolo (cattolico o ateo)
che lotti per la caduta della ditta¬
tura fascista. Parlando dei Popola¬
ri di Don Luigi Sturzo, Antonio
Gramsci scriveva che ” i popolari
rappresentano una fase necessaria
del processo di sviluppo del prole¬
tariato italiano... Come potrebbe,
per quali vie potrebbe la concezio¬
ne socialista del mondo dare una
forma a questo tumulto, a questo
brulichio di forze elementari? Il
cattolicismo democratico fa ciò che
il socialismo non potrebbe: amal¬
gama, ordina, vivifica e si suici¬
da” ("L’Ordine Nuovo”, I, N. 24,
1 novembre 1919).
Senza condividere del tutto que¬
sto giudizio di Gramsci, anche per¬
ché espresso in un'epoca diversa
dalla nostra, mi pare che esso pos¬
sa ancora contenere in se qualche
germe della verità attuale. Ma que¬
sto ci porterebbe ad un lungo di¬
scorso sulla natura e sul significato
del partito cattolico. La Spagna in
questo momento certamente non
attende da noi trattati di teoria
politica, ma una solidarietà espres¬
sa in modo ben diverso.
Fraternamente
ANTONIO JERKOV
Un voto
di opposizione
Signor Direttore,
io sono uno di quelli che il 28
aprile hanno votato comunista. E
non sono tesserato, ma trovo oggi,
come ho trovato ieri, che in un
paese cosi sfasciato una forte oppo¬
sizione di sinistra è una necessità
fisiologica. Dico opposizione, nien¬
te quindi responsabilità di gover¬
no. Ora viene il Togliatti e dice
che al governo ha diritto di starci
anche lui; anzi, la presenza dei
comunisti al governo è la condizio¬
ne di una politica di sinistra seria.
Io ho paura che non sia una para¬
ta di scherma, ma stia sul piano di
quelle grandi alzate d’ingegno che
ogni tanto servono a guastare il no¬
stro paese, come l’art. 7. Si ren¬
dono conto i comunisti che andia¬
mo incontro ad anni duri, quando
le necessità aumentano e i soldi di¬
minuiscono?
Lo Stato avrà qualche anno di
bilanci quasi disperati, ed i comu¬
nisti credono anch’essi sul serio di
empire le casse dello Stato con le ri¬
forme di struttura? Vadano al go¬
verno e pagheranno le spese di una
amministrazione che va a pezzi e
dell’inflazione che basterebbe la
loro presenza a far diventare ga¬
loppante. Se Moro fosse Togliatti
dovrebbe aprirgli la porta e poi
fargli pagare il conto, che avreb¬
be trovato la vera maniera di fre¬
gare i comunisti.
GOFFREDO PAUTASSO
Nazionalizzazioni
e privilegi
Egregio Direttore,
il prof. Ernesto Rossi ne L’antro-
labio n. 3 del 25 aprile lamenta
che la statizzazione dell’industria
elettrica possa risolversi < in un
pessimo affare per lo Stato, anche
per il fatto che i governanti at¬
tuali mirino con essa a fare riem¬
pire dalle società espropriate le
casse dei partiti e a mettere alla
Direzione dell’Enel uomini di par¬
tito, anziché uomini tecnicamente
capaci >.
Quando il prof. Rossi scriveva sul
Mondo quegli ottimi articoli sulle
imprese private elettriche, sulle lo¬
ro ingordigie e sul loro potere,
per dimostrare la necessità della
loro statizzazione, non aveva pre;
visto che la statizzazione di tali
imprese potesse risolversi « in un
pessimo affare per lo Stato » ?
Sta bene ed è vero quanto scri¬
ve il prof. Rossi, pensavo io leg¬
gendo quegli articoli, ma non pre¬
vede egli che il partito dominan-;
te, animato da pari ingordigia di
potere politico ed economico, mi¬
ri, con la statizzazione, a creare
dei feudi di potere per sé e a collo¬
care nelle imprese statizzate delle
persone favorite dal partito?
I comunisti ridono delle nostre
statizzazioni, ed hanno ragione,
perchè da noi la statizzazione del¬
le imprese private serve soltanto
a realizzare il principio: levati di
li perchè ci voglio star io. E per¬
chè manca nei dirigenti politici
l’onestà nel governo della cosa pub¬
blica e quella severità di leggi, per
la quale il dirigente dell’impresa
statale è costretto ad agire bene
(vedi le fucilazioni di dirigenti di
aziende statali in Russia).
PROF. MARIO FORMENTINI
Gli amici
di Franco
Caro Direttore,
si sentiva proprio, nel nostro va¬
riopinto Paese, la mancanza di un
giornale portavoce della Falange.
I giornali neofascisti, da sempre,
guardano alla Spagna col cuore
gonfio di commozione: ma il fe¬
nomeno era riservato a una parti¬
colare fauna politica. Adesso in¬
vece un rotocalco dalla vita av¬
venturosa ha portato il proprio cuo¬
re al monte pegni di Madrid. E’ un
rotocalco « indipendente », come ve
ne sono tanti: Rotasti. Ed ecco
dunque una bella intervista con un
ceffo della falange e del regime
(pardon: con un onorevole mini¬
stro della quasi alleata Spagna) in
cui si dimostra che non v’è regi¬
me più democratico di quello di
Franco e che l’assassinio di Gri-
mau è cosa legittima, normale, che
non merita attenzione. Piuttosto
sconfortante, come episodio edito¬
riale e di costume.
CLAUDIO FORTI
4
T’astrolabio
Un Papa del nostro tempo
I L nriiiio miracolo questo Papa lo lia fatto oblriiganclo noi unticlericali prima al rispetto,
poi all’ammirazione. Affettuoso rispetto per quel caldo spirito di charitas ecumenica
cliVra al fondo del suo animo; commosso compianto jier la sua morte. Il nostro im¬
pegno aiiticifcicale rimane. Deriva dal modo di formarsi della nazione italiana, dal peto
che sul suo sviluppo e sulla sua vita politica e civile ha esercitato ed esercita quel com-
idesso di interessi e pretese temporali che forma da noi il più massiccio potere di deci¬
sione Ma se non amiamo nessuna forma d’idolatria c di superstizione, così diffuse in o-rni
a^jjrrepato sociale, in ogni angolo della terra, è invece dovuto e sentito il nostro rispetto
per il sentimento religioso quando ha sincerità ed intensità di adesione.
E non saremmo obiettivi se non riconoscessimo a Giovanni XXIIl il mento di aver
alleggerito quel peso, svincolando almeno il Papato dalle angustie della politica italiana, e
conrentcndo quindi un maggior gioco alle fori-c in campo e maggiori possibilità di equi-
liltrio. Ad un cardinale che gli aveva inflitto una lunga intemerata sul pericolo delle inac-
c-ltahili collusioni con i «marxisti» rispose soltanto, «sono tutti figli di Dio». Krusce.v
stesso, alla fine, era un figlio di Dio. E non si trattava d’indulgenza lassista per i marxisti;
il suo atteggiamento mirava più lontano che ad una semplice maggior tolleranza per i cri¬
stiani rimasti sotto il giogo comunista. -in
Erano ora più che obliterate le scomuniche e gli anatemi, e su questa strada il Papa
conduceva deliberatamente la Chiesa ad un punto di svolta di alto interesse storico sulla
linea, dall’apparenza immutabile, che dalla Controriforma conduceva attraverso il Syllabo
alla infallibilità del Pontefice, proseguiva sino alla chiusa teocrazia di Papa Pacelli ed al¬
l’autocrazia della Curia Romana.
La forzi morale della sua personalità, così come la larga esperienza di mondo, sono
naturalmente alla base della sua opera. Non è tuttavia la bontà, la pietà, la tolleranza che
nc si>iegano la grandezza e giustificano il profondo compianto ma il suo disegno, che ha la
semplicità logica, l’arditozza e lo slancio del e grar.di costruzioni.
Lna Chiesa che pareva sempre più rattrappirsi, come una pelle di zigrino, incapace di
rinuovars’ e di adeguarsi ni problemi più elementari della vita moderna, egli si sforzò di
ripoilaria alla maggior espressione di cattolicità e nella rappresentanza cardinalizia e col
salvataggio delle minoranze cattoliche rimaste nei paesi comunisti, ed infine — meta più
ardila con il riavvicinamento alle chiese scismatiche di Oriente ed alle confessioni prote¬
stanti di Occidente.
r. Concilio, pur mantenendo intatta la struttura dogmatica e ritualistica della tradi¬
zione, doveva servire ail eliminare o ridurre gli ostacoli a queste convergenze « aggiornan¬
do » _ come egli prudentemente disse — aia l’insegnamento sia la struttura della Chiesa, re¬
stituendo ai V’escovi di fronte alla Curia l'autorità della autonoma responsabilità pastorale.
Alle soglie di questa contrastatissima riforma il Concilio si è interrotto; ed è grave l’interro-
aalivo che pende sulla sua ripresa.
Il Concilio s’inserisce tra le due maggiori c ben note encicliche di Papa Giovanni: Ma-
Ur et Magisira, Pacem in terris. Questa dà il quadro generale della società cristiana, quella
'iiiticipa l’aggiornato e sistematico modello dcliò sua socialità. La Chiesa ha fatto con esse
lo sforzo più completo e impegnato di comprensione e di adeguamento ai problemi nuovi e
‘'aiigianti ilei mondo moderno. Essa ignora seuipr? la classe e la sua dialettica; ed i limiti
alia sua avanzata sono noti e forse non valicabili. Ma l’esigenza della giustizia ha una rap-
(ire.wniazione che non potrebbe essere più integrale di fronte al diritto dell’iiomo e delle
genti. Ed il richiamo alla pace, costante in oiini suo appello, trova qui la sua espressione
piu alta ed ansiosa. E’ il Vangelo non il dogma che ad un Pontefice semplice e sincero sug¬
gerisce le parole veritiere che in questo niond ^ inquieto e turbato dairinciiho della distru-
zioue atomica arrivano al cuore di ogni uomo. F.P.
5
I problemi del nuovo Pontificato
di ANTOJSIO JERKOV
^RA LA morte di Pio XII e quella di Giovanni
XXIII sono passati meno di cinque anni. I
ricordi dei due pontificati sono troppo freschi e
ciò ci dispensa dal dover fare un esame appro¬
fondito sulle loro differenze. Una cosa va tut¬
tavia subito notata e sottolineata. Comparando
la politica dei due ultimi Papi, noi ci possiamo
rendere conto quanto è importante, o meglio,
sino a che punto è determinante, la personalità
del Pontefice per tutta la politica della Chiesa,
durante il suo regno. Pensando agli atti di Gio¬
vanni XXIII e all’impronta personale che egli
ha dato alla politica mondiale della Chiesa ne¬
gli ultimi cinque anni, ci si accorge sino a che
punto bisogna attribuire le precedenti posizioni
del Cattolicesimo ufficiale, alle posizioni e alle
inclinazioni personali di Pio XII.
Il giudizio sull’opera di Papa Roncalli getta
una particolare luce sulla politica di Eugenio
Pacelli e sotto molti aspetti rende meno respon¬
sabile l’attività dei collaboratori di quest’ulti¬
mo. Al Papa spetta non soltanto la scelta dei
collaboratori, ma anche la direzione totale del
loro operato. Lo abbiamo visto proprio durante
la prima fase del Concilio Ecumenico Vaticano
Secondo, quando Giovanni XXIII interveniva
d’autorità per imporre alla suprema assise della
Chiesa l’indirizzo e le finalità che egli riteneva
necessari e opportuni.
Quando nel 1958 Angelo Roncalli fu eletto a
succedere a Pio XII, molti, quasi tutti gli os¬
servatori delle cose vaticane, attribuirono al
nuovo pontificato un carattere transitorio. Sono
troppi i fatti ormai che chiaramente indicano
come Giovanni XXIII non volle essere un «papa
di transizione» e desiderò orientare tutta la
Chiesa verso una politica di rinnovamento. Ma
Giovanni XXIII ha regnato troppo poco tempo,
per poter imprimere la sua impronta determi¬
nante ad un epoca che va al di là della durata
del suo Pontificato. Cinque anni sono un periodo
molto breve della storia, possono essere dimen¬
ticati troppo presto, ma possono anche diven¬
tare l’inizio di un’epoca molto più lunga. Per
questo motivo, a nostro avviso, dipenderà prin¬
cipalmente dall’indirizzo che sarà scelto dal suo
successore quali tracce la politica di Giovanni
XXllI lascerà nella storia della Chiesa. Se il
nuovo Papa seguirà le orme di papa Roncalli,
allora Giovanni XXIII rimarrà nella storia della
Chiesa come iniziatore della sua più grande ri¬
forma nei tempi moderni. Se invece il nuovo
Papa dovesse scegliere un’altra strada, e tor¬
nare alla tradizione e al conservatorismo po¬
litico, sociale e religioso, della politica di Gio¬
vanni XXIII rimarrà soltanto un certo ricordo,
che man mano potrebbe sbiadire.
Nel breve periodo di cinque anni il Papa de¬
funto ha fatto tutto quello che era nel suo po¬
tere umano, e che si poteva fare, in un ambiente
particolarmente difficile come lo è la Chiesa
Cattolica. Dipenderà dal suo successore se l’a^'
berello piantato da Angelo Maria Roncalli con¬
tinuerà a mettere radici, o sarà invece estirpato
dai venti del conservatorismo, che Giovanni
XXIII ha saputo dominare, ma che non ha po¬
tuto eliminare del tutto, nemmeno tra i suoi
più vicini collaboratori.
Basterebbe ricordare che l’art. 229 del Codice
di Diritto Canonico prevede che nel caso della
morte del Papa, il Concilio Ecumenico in corso
viene automaticamente sospeso, e ripreso sol¬
tanto se e quando lo vorrà il nuovo Pontefice.
Anche se in questo momento nessuno pone in
dubbio che il Concilio continuerà, seppure in
una data forse più lontana da quella prevista,
non si deve dimenticare che durante la prima
sessione non fu concluso nulla e che tutto di¬
penderà dall’impronta che il nuovo Papa vorrà
dare alla seconda fase dei lavori conciliari. Qui,
a nostro parere, sta il punto principale da cui
uscirà non soltanto la caratterizzazione del nuo¬
vo Pontificato ma anche il giudizio storico sul
Papato di Giovanni XXIII. (Lo spazio non ci
permette di analizzare, almeno in questo ar¬
ticolo, le vicende della prima sessione del Con¬
cilio e specialmente la composizione delle sue
commissioni ed il suo regolamento. Basterebbe
applicare con un certo rigore lo stesso regola¬
mento conciliare emanato dal Papa defunto,
per bloccare qualsiasi iniziativa riformista in
sede di Concilio. Non a caso Giovanni XXIII,
durante la prima sessione del Concilio, inter¬
veniva di persona, anche per annullare le vo¬
tazioni, che falsificavano la volontà della mag¬
gioranza dei vescovi, ma che erano perfetta¬
mente in regola con le disposizioni formali da
lui stesso precedentemente emanate).
Un’altra opera di grande importanza che Gio¬
vanni XXIII aveva iniziato ma che non potè
ultimare, riguarda il nuovo rapporto tra la Chie¬
sa Cattolica e le altre comunità religiose. Lo
stesso vale per quel delicato lavoro diplomatico
che fu iniziato circa un anno fa, tra il Vaticano
ed i paesi comunisti dell’Europa Orientale, per
giungere ad una ragionevole normalizzazione
dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato. Questa ope¬
ra impegnava la diplomazia vaticana ad una re¬
visione quasi completa per quanto riguarda la
valutazione storica della esistenza degli stati so¬
cialisti ed implicava un profondo riesame della
6
«politica estera» del Vaticano, l’abbandono del
niassiccio schieramento della Chiesa a fianco
della politica militare ed economica americana
e tedesca, e l’accostamento della diplomazia ec¬
clesiastica ad una politica che lo stesso Gio¬
vanni XXIII definiva di «perfetta neutralità so¬
prannazionale » e che una successiva e molto re¬
cente nota deir« Osservatore Romano » definiva
una « neutralità attiva » (« Osservatore Roma¬
no» 15 marzo 1963). Non dimentichiamo che fu
Giovanni XXIII a invocare drammaticamente
la pace, nell’autunno scorso, quando il primo
Presidente cattolico degli Stati Uniti sembrò de¬
ciso ad affrontare i rischi di una guerra mon¬
diale, per la presenza degli armamenti sovietici
a Cuba. Fu proprio in seguito a questo gesto
del Papa defunto, che i rapporti tra il Vaticano
e i governi dei paesi comunisti presero una piega
del tutto nuova, che portò alla visita di Adjubej
in Vaticano, alla liberazione del Primate catto¬
lico dell’Ucraina, monsignor Slipjy, alla Pro¬
spettiva di un « modus vivendi » e di una ripresa
delle relazioni diplomatiche o consolari tra il
Vaticano ed alcuni paesi della Europa Orientale.
La morte di Giovanni XXIII ha bloccato di colpo
tutto questo lavoro, che era ispirato da una^ vi¬
sione politica anche di effetti non immediati.
I nuovi rapporti con le comunità religiose non
cattoliche e con i paesi comunisti, sono due ro¬
taie di uno stesso binario, che evidentemente
nella mente di Giovanni XXIII aveva un suo
concreto punto di arrivo. Basterebbe ricordare
un recente discorso « quaresimale » pronunciato
dal cardinale Ottaviani air« Angelicum » di Ro-
naa, per renderci conto che non tutti in Vaticano
condividevano la strada « politica » imboccata
dal Papa Roncalli. Ora questa strada è stata in¬
terrotta e anche qui tutto o quasi dipenderà
dal nuovo Papa.
Molte altre cose si potrebbero citare. Baste¬
rebbe menzionare le encicliche «Mater et Ma-
gistra » e « Pacem in terris », le quali, pur
senza contenere alcuna revisione della dottrina
ecclesiastica, hanno tuttavia offerto ai cattolici
un linguaggio nuovo per le cose del mondo,
superando tutti i precedenti documenti papali-
Lo stesso vale per quel continuo dialogo, senza
posa, amichevole, più fraterno che paterno, che
Giovanni XXIII ha sempre cercato di stabilire
con gli umili, con i poveri, andando a trovarli
egli stesso, nelle borgate e nelle chiesette di
Roma.
Confrontando i due ultimi pontificati, di
Pio XII e di Giovanni XXIII, noi vediamo come
un papato è caratterizzato soprattutto dal me¬
todo personale del Papa, dal suo modo di pro¬
cedere, ed anche di comunicare con gli altri.
Ricordiamo le scomuniche di Pio XII e una
lunga continua benedizione di Giovanni XXIII,
rivolta a tutti, senza eccezione, una benedi¬
zione che è durata quanto il suo pontificato.
Anche in agonia, Giovanni XXIII benediceva
Il nuovo Papa sarà l’uomo H»!’» «'’^muniche o
delle benedizioni?
Si è scritto e si è parlato molto in questi
ultimi tempi - delle «riforme» di Giovanni
XXIII. A noi pare più esatto dire che Papa
Giovanni aveva mutato più che altro il metodo
di contatto con la gente e con le cose e che
voleva imprimere questo suo modo personale
di agire anche ai rapporti tra la Chiesa e il
mondo.
Abbiamo indicato soltanto alcuni punti del
pontificato roncalliano, non per fare un esame
della politica di Papa Giovanni, ma per indi¬
care alcuni problemi che egli lascia aperti e che
dovranno essere affrontati, in un modo o nel¬
l’altro, dal suo successore. Ma bastano queste
poche questioni, tra tante altre (e nessuna di
queste che abbiamo menzionato era di natura
teologica, e perciò non implicava alcuna riforma
della dottrina della Chiesa) per definire il breve
pontificato di Giovanni XXIII un papato rifor¬
mista. A chi si domanda, dove sono allora que¬
ste riforme, si può rispondere che lo spirito
nuovo, riformistico, appare dall’insieme di tutti,
0 quasi, gli atti, piccoli e grandi di Angelo
Roncalli. Sono come piccoli punti, che messi
insieme in un £erto modo, creano una precisa
immagine- Nella percezione totale degli atti
di Giovanni XXIII noi vediamo qualche cosa
che non c’è nei singoli elementi, e questo qual¬
che cosa è appunto la forma di un pontificato
che necessariamente rivela anche il suo conte¬
nuto più profondo, cioè la sua sostanza. E’ il
caso di parlare di «qualità di forma» (Gestalt-
qualitaeten).
Giovanni XXIII non ha creato nessuno dei
problemi che cercava di affrontare. Li ha tro¬
vati tutti quanti, ammucchiati attraverso i se¬
coli, nella Curia Romana, nella Chiesa, nel mon¬
do ed ha cercato di comprenderli. Ha voluto poi,
per quanto era nelle sue possibilità, togliere
almeno una parte della ragnatela e delle incro¬
stazioni. Alcuni mesi fa, il religioso svizzero,
p. Emile Legault, ha riferito che mentre erano
in corso i lavori della prima sessione del Con¬
cilio, un amico di Giovanni XXIII aveva chie¬
sto al Papa che cosa si aspettasse da tale evento.
Per tutta risposta il Papa aprì la finestra della
sua stanza e rispose: «Far entrare l’aria pura
nella Chiesa ».
Passando in questi giorni in Piazza San Pie¬
tro, si poteva vedere questa finestra che il
Papa aveva aperto, alcuni mesi fa. Era chiusa,
con le serrande abbassate, perché dietro di essa
moriva Angelo Roncalli. Questa finestra rima¬
ne il simbolo di quello che Giovanni XXIII ha ♦
voluto e che invece non è riuscito a fare. Toc¬
cherà ora al suo successore lasciarla chiusa o
riaprirla, quella finestra, per « far entrare l’aria
pura nella Chiesa». Questo, in fondo, è il vero
problema del nuovo Pontificato, che sì sta
affacciando sulle soglie della Chiesa, e per certi
aspetti anche sulle soglie del mondo.
ANTONIO JERKOV
1
I timori di Carli
di FERRUCCIO FARRI
JL GOVERNATORE Carli ha concluso la sua espo¬
sizione finanziaria all’Assemblea della Banca d’Italia
con un quos ego di una nettezza e fermezza che non
consentono evasioni ed equivoci. Soprattutto per la
politica economica che ora si dovrà seguire, prima e
diretta controparte, anche se il discorso investiva più
largamente tutto il sistema economico del paese e le
sue deficienze.
L’invito a tirare i remi in barca era la conclusione
rigorosa di una rigorosa analisi della vicenda monetaria
c finanziaria del 1962, di un’azione e sobrietà am¬
mirevoli. Non tutti gli elementi di quella sorta di
processo che Tanalisi comporta sono forse apparsi in
luce, ed è mancato più ancora un giudizio complessi¬
vo sulla congiuntura del boom, necessario ad una
valutazione oggettiva delle forze operanti.
Ma sarebbe ingiusto un commento che non sottoli¬
neasse la sincerità senza attenuazioni di una analisi
anche se autocritica, il preciso coraggio di molte in¬
dicazioni, la estrema discrezione nei riguardi dei poteri
pubblici e del loro operato, una lezione di modestia,
congiunta ad una vigile coscienza della propria respon¬
sabilità. L’apertura della crisi ba forse liberato il dott.
Carli da qualche preoccupazione di creare imbarazzi a
chi governa e gli ha dato maggior libertà di parola.
Anzi ha accresciuto il suo dovere di parlar chiaro in
vista della nuova situazione politica. Le strettezze ora
incombenti e le tentazioni e pressioni che esse stesse
accresceranno lo hanno perciò condotto a riaffermare
la indipendenza dal potere politico della banca centrale.
Ciò che è giusto, anzi ovvio, in termini generali; la
Banca d’Italia non è la banca del governo; ha una
funzione e responsabilità istituzionale, di garante della
sanità monetaria, che esìge una adeguata autonomia
di azione.
Ma Tappiauso, anzi l’ovazione, che ha salutato la
chiusa ne ha colto piuttosto il valore polemico. Non
era tanto Tappiauso degli esperti convinti della giu¬
stezza delle conclusioni ricavate dalla lezione del 1962,
quanto lo sfogo di un lungo malanimo contro il
centro-sinistra che ha un sottofondo prima che tecnico
politico e di classe. La Banca d’Italia non è la banca
di certi gruppi sociali. Auguriamo sappia guardarsi
da certi abbracci.
Definire grave la situazione ora creatasi sarebbe
fare dell’allarmismo ingiustificato. E’ seria, e come
tale è bene che i politici la considerino.
Il fabbisogno di capitale richiesto dallo sviluppo
dell’economia è ingente, più che in passato. Ad oltre
2000 miliardi il dott. Carli calcola al netto la domanda
per il 1963 richiesta dai programmi d’investimento,
pubblici e privati: TENEL solo per le nuove costru¬
zioni ha bisogno di forse 400 miliardi; notevole è la
tronche imputabile al 1963 per i programmi delTENI.
Saranno da aggiungere le occorrenze ancor ignote ma
assai probabili della Tesoreria dello Stato. La massima
parte di questa massa di miliardi, più di tre quarti,
dovrebbe esser fornita da emissioni obbligazionarie.
Nel 1962, su un totale di emissioni mobiliari per
1642 miliardi solo 857 sono stati forniti dal pubblico.
Poiché ridurre i programmi avrebbe significato ridurre
il ritmo dell’attività economica, l’istituto di emissione
si è visto obbligato a mettere a disposizione del siste-
rna bancario, per assorbire la parte non coperta, dispo¬
nibilità aggiuntive, che alla fine del ciclo si sono tra¬
sformate in disponibilità monetarie del pubblico, di
senso inflazionista.
I rilevanti aumenti dei salari e stipendi hanno ri¬
dotto le possibilità di antofinanziamento, e quindi ac¬
cresciuto la domanda di capitale, in contrattempo con
il semi-congelamento del suo mercato classico. Gli
aumenti dei costi salariali non assorbiti da incrementi
di produttività o da riduzioni di profitti — la mag¬
gior parte — ed i conseguenti aumenti dei prezzi
hanno elevato il livello della richiesta di credito. Don¬
de tensioni creditizie superate con immissioni di li¬
quidità. In complesso una situazione sempre più
pesantemente artificiosa, riassunta dalla caduta nel
1962 del saggio d’incremento del capitale al disotto
del saggio di aumento del reddito nazionale, in con¬
trasto con il 1961. Cioè un arresto nel flusso del ri¬
sparmio privato, che è ancora l’alimento essenziale del
circolo economico.
Nel frattempo sono maturati altri fattori negativi.
La svalutazione in termini di potere d’acquisto interno
della moneta favorisce le imp>ortazioni, sfavorisce le
esportazioni, rese più diffìcili dal mutare della situa¬
zione generale anche in seno al MEC, ed anche, forse,
da ritardi e mancati rinnovi di qualche settore del
nostro apparato produttivo. Ai riflessi di questo mutar
di correnti sulla bilancia internazionale si è aggiunta la
circostanza che una frazione sensibile della liquidità
indotta è venuta da fonti esterne. La nuova partita
passiva ha contribuito a squilibrare sensibilmente la
bilancia dei pagamenti. Le riserve valutarie restano
notevoli e sufficienti; ma è già necessaria una posi¬
zione di difesa.
E’ insieme peggiorata la situazione della Teso¬
reria, come riflesso dei pesanti impegni via via assunti
dal bilancio dello Stato, creando una nuova corrente
di drenaggio a carico della Banca d’Italia e della circo¬
lazione; ed un futuro potenziale di drenaggio
fin quando non si raggiunga una nuova fase
di assestamento.
Ed ecco la morale di Carli. La situazione di emer¬
genza del 1962 non è ripetibile; il mercato monetario
ed il credito bancario ch’esso può stimolare non
possono surrogare il mercato normale del capitale se
8
non transitoriamente, sotto pena di grave pericolo
per la moneta; se il risparmio non si muove la liqui¬
dità indotta non può surrogarlo.
Perciò, nella situazione mutata e delicata de*
1963 la Banca d’Italia non potrà, non dovrà soddi¬
sfare domande, pubbliche e private, d’investimenti
ehe eccedano le disponibilità di risparmio con immis¬
sioni artificiose di liquidità. E voi Governo, voi Par¬
lamento provvedete in conseguenza ad un riesame
critico dei mezzi che Stato, enti locali, enti pubblici,
IRI, ENEL ed ENI si propongono di chiedere al
■ttercato; coordinate questo fabbisogno con quello
delle imprese private; differite le spese meno urgenti
secondo un programma ordinato secondo scelte
prioritarie.
Discorso dunque di quaresima, che ha sembra
—■ due causali principali; la delusione per la persistente
ed ancor perdurante atonia del mercato finanziwio, la
preoccupazione per la bilancia internazionale. "Tra le
ipotesi dell’avvenire Carli non esclude la possibilità di
doversi rivolgere per sostegno della moneta al Fondo
monetario internazionale. E’ la fine, per ora, del mo¬
mento aureo della lira come « moneta forte *.
Condizione di cose, tuttavia, non ancora grave.
Situazione controllata e controllabile, dice il Gover¬
natore. Le previsioni congiunturali, quanto al merca¬
to interno ed al livello della domanda, restano buone.
entrate tributarie di bilancio non accusano flessio¬
ni. L’aumento dei prezzi tende a ricostituire margini
di autofinanziamento. Sulla base di una certa^ stabilità,
attenuata la fuga verso gli investimenti eduiu c ridotti
sii imboscamenti all’estero, il mercato finanziario potrà
tisvegliarsi. E’ inutile peraltro illudersi: la nuova sta-
l^ilità il risparmiatore anonimo l’attende dall onore-
''ole Moro.
E qui è il discorso nostro che deve farsi preciso
®d obiettivo. Deve in primo luogo riconoscere che le
®*igenze di fondo prospettate da questo rappono de¬
vono essere soddisfatte, e la barriera posta dal C^ver-
natore deve essere rispettata. Le limitazioni "I 5
possibilità di azione del governo che ne posano deri¬
vare sono di duplice ordine. Riguardano in primo l^go
*1 bilancio dello Stato, che presenta sin d ora difficili
problemi di quadratura e copertura — statali, scuola,
®Pcse militari — e la Tesoreria in relazione ai disa¬
vanzi da coprire. Sarebbe sgradevole dover ricorrere
® nuove imposte. In secondo luogo — e non è gra¬
devole per un governo di spesa come quello di centro-
ministra — saranno da rivedere i piani di investimen-
^0 a carico del bilancio dello Stato e dei bilanci delle
82iende statali e delle imprese parastatali. Una delle
Condizioni perchè la nuova garanzia al risparmiatore
funzioni è data dal posto adeguato da lasciare aU’im-
Ptesa privata: e già l’on. Tremelloni solleva a questo
riguardo le sue riserve sui piani del Ministro Bo per
fc Partecipazioni.
Ma è chiaro che una politica economica razionale
non solo non contraddice ma esige un piarlo globale,
fogico ed organico di spese di realizzazioni graduate
nelle priorità, quantità e nel tempo secondo obiettivi
fissati dal potere politico. Il rapporto Carli colpisce
l’affastellamento dei piani di settore, deficienza dei
governi centristi, ed anche del centro-sinistra passato,
nia non il principio della programmazione integrale
come cardine di una nuova politica economica, solo
chiedendo il proporzionamento dei piani alle disponi¬
bilità effettive di risparmio. . . ...
A questa stessa direttiva si riconduce una politica
più impegnata di controllo dei prezzi-base del costo
della vita, come anche della trasformazione industriale,
e più impegnata quindi nella cosiddetta « commercializ¬
zazione » dei prodotti agricoli, e nel J^rtar rimedio
al disordine urbanistico, ben colpito dalla diagnosi del
Carli. Il quale pone tra i problemi più urgenti di oggi
la lotta contro « le forze che cospirano all’aumento dei
prezzi », e quindi la difesa del salario reale ( bilancio
alimentare, affitti) condotta sin'ora senza la efficacia e
tempestività necessarie.
Restano peraltro, anche nel ragionamento Carli,
alcune zone d’ombra ch’è bene cercar di chiarire per
intendere quale funzione può spettare a forze di sini-
stra nel governo di domani.
Alcuni dubbi e riserve possono servire a rettifica¬
re il giudizio complessivo sulla congiuntura dal quale
scaturisce il suggerimento finale. Vi ^ è ona cwta
corresponsabilità dell’autorità monetaria con il Go¬
verno nell’aver tollerato e mantenuto sacche di li¬
quidità oziosa e speculativa e piu ancora di aver troppo
alimentato l’impiego nell’edilizia residenziale. Nel
processo all’inflazione deve trovar posto la ribellioiie
insormontabile dei capitalisti contro le imposte, la
fuga dei capitali, gli imprenditori negligenti. Se 1 on¬
data delle rivendicazioni salariali interviene al terzo
atto del boom ad esigere la parte cui ha diritto, «sa
s’inserisce in un movimento al rialzo dei prezzi già in
pieno sviluppo: se questo avesse potuto esser cont^u-
to, è da climostrare quale incidenza quella avrebbe
avuto. In realtà è il cosidetto boom nel suo cido
complessivo che dev’essere messo sotto accusa, feso ha
operato in un sistema economico che dispone di una
buona organizzazione creditizia, ma non è coordinato,
nel quale quindi non è solo la dinamica salariale ad
agire come variabile autonoma. Quando la spinta eco¬
nomica generale interna si è venuta attenuando, si
è conclusa anche la fase propulsiva del MEC ed è
subentrata a danno dei produttori imprevidenti la
fase concorrenziale. Supporre che l’emergere di una
situazione inflazionista possa arrestare l’avanzata sa¬
lariale che la spinta generale ha generato è assurdo.
Anche il boom ha una sua logica unitaria, che è inva¬
riabilmente inflazionista in ogni società in equilibrio
instabile. Esso scompagina il sistema c fa saltare i
prezzi, cosi come in fisica la somma di vibrazioni di
origine diversa fa crollare la costruzione.
Forse si potrebbe dire che una concezione non
produttivistica avrebbe consigliato di frenare il boom,
o, se fosse stato possibile, di equilibrarne il decorso.
Comunque un osservatore sereno potrà ritenere che
siano le conseguenze difficilmente dominabili del boom
ad aver fatto saltare anche governo Fanfani.
Ponendo un blocco, forse ritardato, di tipo
cinaudiano a questa fase congiunturale che cosa sug¬
gerisce per l’avvenire il dott. Carli? Una « politica dei
redditi ». Formula vaga oltre la quale egli nella sua
competenza non ritiene di poter andare, che implica
peraltro una regolazione consensuale tra le forze anta¬
goniste del profitto e del salario, ed un potere che
tragga la forza coordinatrice dalla tutela delle propor-
t
2 Ìoni fisiologiche vitali tra reddito, risparmio e inve¬
stimenti. E quindi, sempre, un piano a breve e lungo
termine.
Ma l’on. Moro ammette una regolazione consen¬
suale che come contropartita della disciplina invocata
inserisca i sindacati — e quindi quelli della CGIL —
in negoziati nazionali che ripartiscano il reddito senza
rompere l’equilibrio?
Il problema del * sindacato nella programma¬
zione » è uno dei più gravi, e decisivi, delle società
occidentali ad elevato sviluppo industriale. Ne ha
trattato un recentissimo ed interessante convegno
romano della CISL, che da tempo se ne preoccupa,
suggerendo forme di « risparmio contrattuale » che
dovrebbero evitare o limitare l’effetto disordinatore di
ingenti ondate di nuovo potere d’acquisto rovesciate
bruscamente sul mercato. Il problema della casa do¬
vrebbe, forse, esser tenuto particolarmente presente.
E’ materia comunque degna di attento studio. La CGIL
avrebbe torto se non lo considerasse tale, cioè come
im problema oggettivo e centrale dello sviluppo eco¬
nomico attuale, mentre ha ragione di protestare contro
tentativi di esclusione, non realizzabili e alla lung®
dannosi. E’ vero che una effettiva inserzione del sin
dacato in una politica di piano può esser raggiun
solo ove si realizzi l’unità sindacale, unica esp''*
sione da noi possibile dell’unità della classe lavora
trice, non sinceramente possibile sin quando i w.
non si sottraggano alla strumentalità di partito. 1"
senza la presenza dei sindacati manca una condiz'on
di programmazione democratica e manca la jwssibili
della armonizzata politica dei redditi preconizzata
Governatore della Banca d’Italia. ..
E torniamo così ancora al contenuto di una pò**'
tica di centro-sinistra che ha in questa capacità acrao-
cratica di programma la sua sostanza e la sua caratte¬
ristica. Se è una garanzia di serietà, concretezza e reaj
lismo che l’operatore economico attende, questa
. centro-sinistra la può dare. Se è una garanzia soltant
di tranquillità, quella cioè che la Borsa attende, t
discorso è diverso.
FERRUCCIO PARR»
Le alternative del PSI
di UMBERTO SEGRE
1?ARAMENTE il dibattito interno alla direzione
socialista è stato, come questa volta, lo specchio
della consapevolezza politica di un partito, e diciamo
pure dello ” stato di necessità ” in cui esso si trova.
La decisione molto severa che esso deve prendere
— se, e in quali limiti, dare un immediato appoggio
di astensione al nuovo governo; in vista di una par¬
tecipazione piena, eventualmente, al di là del con¬
gresso; o se ricusare sin d’ora un’adesione che sem¬
bra promettere frutti particolarmente magri — di¬
pende infatti, in parte, da ciò che il partito è, nella
complessità di fattori, che vanno da un indubbio
ristagno elettorale, al contrasto di posizioni, che a
nostro avviso è a volte originato da una serie di
intrepide ” fughe in avanti ”, non sempre garantite
da un volenteroso e robusto esame autocritico.
Ma, la difficoltà della decisione dipende anche
da una condizione generale del Paese; da una fase
di transizione che esso attraversa, e da congiunture,
cui il capitalismo italiano crede di poter oggi offrire
taluni dei suoi più qualificati rimedi, mentr.> il socia¬
lismo è ancora, da noi, ad un esordio anche troppo
contestato per poterne contrapporre dei propri — e
ad un grado di unità e forza ancora insufficiente¬
mente risoluto, per accettare a cuor leggero quelli
avversari sapendo che potrebbe, dal canto suo, as¬
similarli e appropriarsene.
Di tutto questo intrico di problemi e tendenze,
di giudizi e timori, l’ultima riunione di direzione ci
sembra essere stata un testimone raramente chiaro.
Il fatto che i poteri dati a Nenni, per i contatti
con i democristiani, siano solo apparentemente quell)
della « carta bianca *, ma di fatto vengano circondati
da obbiezioni e cautele, è la riprova esteriore, in sede
di formula pratica, della condizione ardua in cui *'
svolge oggi in Italia l’esperienza di un partito socialista.
Proviamo a riassumere banalmente, anzitutto, 1^
alternative che stringono da ogni parte la dirigenza
del partito.
a) La più ampia, e di ordine generale, è: g®"
verno o opposizione. Non si oppone, è ovvio, alcuno
scrupolo massimalistico alla partecipazione ad un
verno che opera in una società a ordinamenti bor¬
ghesi, insieme con partiti borghesi. Tale riserva c
del tutto caduta in Europa nel periodo fra le due
guerre, e la disponibilità comunista dopo il ’45 *
solo una convalida di questa autonomia di movi¬
mento. Ma la ragione concreta di essa sta però in
giudizio storico, e cioè che il grado di sviluppo
obbiettivo del sistema capitalistico consente oggi l’iO'
serimento al governo dei partiti socialisti in una fun¬
zione di spinta, di rottura, di trasformazione delle
strutture. Alla morale della non partecipazione, che
si fondava sulla norma puritana della lotta contro o
compromesso, si rinunzia nel punto, in cui un’altra
tesi morale si impone: quella della piena iniziativa
del partito socialista, al centro di una situazione m
sviluppo.
Questo stesso giudizio politico ha come correlato
l’altra alternativa: di collocarsi all’opposizione, e di
restarvi, e non più in posizione di protesta e di assalto,
ma come pressione che si appropria dell’intera lati-
tudine A azione consentita dalla legalità borghese.
Ip questo caso, partecipazione al governo o pres¬
sione dall’opposizione hanno il medesimo Kopo, e
si può anche ammettere che, ove sia poss‘hile prc
vedere e progettare un’azione, anche solo minale, i
trasformazione socialista dello stato — un azione so¬
prattutto che produca strumenti per ulteriori tras or
■t'azioni socialiste — la via del governo sia, ®
efficienza dei mezzi che offre, preferibile “ ^“elia
della opposizione. Se c’è ancora nel PSI quale e
serva di principio contro questo modo di
s'.può ben dire che sia largamente superata dallo
sviluppo storico dell’ideologia socialista.
Ma la condizione (a) intanto è vah a,
quanto sia concretamente trasferita nel giudizio ^
tico contingente. Ora intorno al PSI vengc^ P* er-
tatamente presentandosi, come proposte, obbiezicini,
c risposte, queste alternative pratiche. Primo, o
'erta di associazione (come astensione prima, e m
seguito come partecipazione alla maggioranza di go¬
verno) effettuata da Moro consente un inserimento
almeno ” presocialista ”, o "verso" un esordio di
strutture socialiste? Secondo; se non lo consente
't®ve egualmente essere accolta, affinché non si
■ermini un deterioramento generale dello schierati!
politico italiano, per U quale la DC, ««>spmta final-
"tente dai dorotei verso destra, famsca col produrre
|1 proprio, più consono ” accordo legislatura , di
formula centrista? Terzo: se è difficile, nel seco
caso, mantenersi in una vera e propria tensione so-
C‘alista, è più facUe raggiungere questo
banchi dell’opposizione? O non piuttosto il Fbl na
8ià compiuto una così avanzata conversione verso la
partecipazione governativa, da non potere o non sa¬
pere più ricostruire una propria funzione di opposi-
ainne, non solo e non tanto nel Parlamento e nei
centri di potere politico, ma negli organismi di massa?
c) Se "verifichiamo” le posiziom emerse daUa
direzione socialista vediamo subito che 1 alterativa
‘corica (a) non è stata messa in discussione da nes¬
suno. Ma tutte le facce dell’alternativa politica (b)
hanno in direzione la loro rappresentanza; e^ mentre
ngura negli interventi di Valori e Vecchietti la tesi
che una ” aggiunta di socialismo ” si coglie solo dall op¬
posizione, e in quella De Martino-Pieraccini la tesi
simmetricamente opposta; nelle posiziom I^mbar-
°i-Giolitti-Codignola-Santi si ravvisa quella piu com¬
plessa coscienza di una ” lotta per d governo o di
ytta ” lotta per l’opposizione ”, che ci sembra sia da
identificare, in questo momento, come 1 aspetto piu
■ttaturo dello sviluppo del PSI.
di necessità
La situazione di fatto offre ai socialisti alcuni
dati non modificabili, dei quali essi non possono non
tenere conto. . ,. .
E’ vero che Moro non può fare a meno dt loro.
■n quanto egli non è un qualunque candidato ^la
presidenza, ma il candidato democristiano per la tor-
tnula di centro sinistra. E’ anzi, accantonato Pantani,
il leader di questa posizione; e dopo la lezione de
*60, riteniamo che Moro abbia anzi irrigidito la sua li¬
nea di condotta poHtica. Ma la DC può fare « ^
socialisti perché è disposta, anzi decisa a governare
^oanì mSo, e quindi ad assumere anche alterna-
tive,^in concreto meno costos^ che quelle costituite
daU’associazione con U PSI. Questo significa che i
socialisti, con Moro, hanno un margine di "“«“iato;
ma saltato Moro, quel margine "O"
hanno quindi affatto un "potere
limitato; anzi, notevolmente circoscritto. E
l’orizzonte deUa DC, che include m se come delle
sue alternative il moroteismo, è piu ampio e autore¬
te del proteismo stesso, anche Moro ^e^o non
può, finché non si decida a passare ^e
restringere la piattaforma di governo ad un pac
chetto” di concessioni, il cui contenuto è formto
ufrmitrdi'^ciasse, non è indifferente, ad e^m-
pio che gli "esperti” cui Moro ricorre non siano
que’Ui chf siedono alla sinistra, nf a Coi^issioM
della programmazione; ma siano 1 S
della stabilizzazione del "sistema — gente seiwa
dubbio acutamente aggiornata e di S^^de prestigi
pubblico, ma ideologicamente qualificata m un sen
L quello di un ” liberismo corretto (disposto cioè
ad’ assumere, come strumenti di autoconservazione,
alcuni dei congegni del dirigismo), di cui non credo
vogliano essi stessi celare la base
Sono loro i veri, grandi dirigenti di una struttura
Ki^^omico-sociale, di cui i dorotei costituiscono solo
l’efflorescenza al livello della politica come combma-
zione, o come tecnica della conservazione di gruppo.
Le concessioni « massime »
Né qui si vuole farne un a^ebito
lare severità a Moro stesso: ,
rebbe ricorso ad altri esperti, o almeno “neh®
tecnici del "nostro” versante, se già non avesse
gfudkatfche l’attuale tensione della congiuntura
ftaliana o si risolve entro la stabilizz^ione del si¬
stema qual è, o non si risolve affatto. 11 massimo
concessione che può dunque essere fatta ron-
troparte, è che essa stessa si assi^ri, partecipando
all’impresa, che la congiuntura verrà davvero r^d^
zata; che non si consentirà (almeno di proposito)
che i monopoli privati, l’affarismo, il sottogovern^
ne approfittino scandalosamente per mettere radici
segrete, contro le quaU ogni lotta f'vendicauva di¬
venga impossibile in futuro per il
In breve: Moro costituisce l’optimum dell offerta
odierna di centro sinistra che possa provenire M
DC ma appunto per questo, pur esistendo un certo
"tratto” marginale di negoziabilità, 1 oriKonte del
negoziato è quello, e non altro, /li
viene riservato quasi nulla, o nulla del tutto, che
operi nel senso del socialismo, in quanto riduzione
Tpoure economico e politico della cl^se pro^-
taria italiana; viene invece accordato di partecipare
af contfollo del modo, in cui il rilancio deUa ~n-
giuntura sarà tentato nei limiti del sistema (blcKW
dei salari, eccetera), e per la ^.affermazione d. ^o. ,
Ma secondo noi, lo stato di necessità che si im
pone in questo momento ai socialisti non dipende
•olo dalla rÌ 8 olute 22 a, con la quale le for 2 e econo¬
miche del sistema intendono prendere in mano la
causa del loro ricupero (e promettono, all’uopo,
un ricupero di "interesse generale”). Dipende an¬
che dalle intrinseche condizioni della coscienza so¬
cialista in Italia. E impossibile sorvolarvi o accan¬
tonare il discorso come inopportuno.
Rapporti con i comunisti
L offerta democristiana non è tuttavia cosi nuda
come nello schema qui definito.
AU’interno di quel « ricupero », stanno alcune
rettifiche alla stessa illegalità borghese, che è stata
così ampiamente esercitata dalla destra economica ita¬
liana ( e sotto questo nome non sono in questo caso da
indicare solo le direzioni monopolistiche, ma la rimar¬
chevole frangia di nuovo ceto medio, che da quelle
ricava profitti marginali di complesso intreccio, c per
canali che il tumultuoso sviluppo italiano degli ultimi
anni ha imprevedibilmente aperto) negli ultimi anni:
determinando nelle campagne il dramma della mezza¬
dria e la fuga del bracciantato; nelle città la corsa alla
speculazione immobiliare; e così via. La DC si rende
conto che la riparazione almeno parziale di queste
sfasature deve pur essere offerta ai socialisti, se in
qualche modo si vuole ottenerne l’appoggio alla stabi¬
lizzazione del sistema. Sta ai socialisti decidere, se essi
abbiano tale forza ideologica e organizzativa da accet¬
tare di segnare il passo per un certo periodo, allo scopo
di organizzare, in una più favorevole congiuntura, un
rilancio di socialismo; o lasciare che, retrocedendo
la DC al vecchio centrismo, si facciano più aspre le
contraddizioni di questa epoca del capitalismo italiano,
e 1 occasione rinasca, per loro, più aperta dalle
cose stesse.
L’apprezzamento però di queste due possibilità,
da parte socialista, non può prescindere dalla consa¬
pevolezza che essi hanno della loro verità e attualità:
ed è qui, temiamo, che possono inserirsi falsi scopi e
decisioni pretestuose.
Il problema della partecipazione alla maggioranza,
in condizioni di maggiore o minore vantaggio per un
programma socialista, è legato per il PSI alla sua
rottura con il PCI; e ad una serie di giudizi politici,
che formalmente « corrono », ma dietro ai quali c’è
stato sinora ben poco lavoro ideologico e pratico. La
coppia fondamentale di questi giudizi è: 1 ) il fronti¬
smo è una tattica, legata ad un certo momento della
guerra fredda; superato quel momento, tale tattica deve
essere impugnata e mutata; 2 ) nelle attuali condizioni,
di attenuazione della guerra fredda, il partito socialista
riprende e pratica la sua piena autonomia e si appresta
a partecipare ad altre alleanze, rimanendogli indiffe¬
rente se taluno dei nuovi alleati pronunzi verso il PCI
determinate ripulse, che il PSI o non condivide o non
ha interesse ad esprimere.
Di fatto, il PSI, dal 1956, è andato sviluppando
proprio in questo senso il suo rapporto con il comu¬
niSmo. Ma ciò che vi è, secondo noi, di « non risolto *,
m questo modo di vedere, è: che il PSI, giudicando il
frontismo una tattica, sembra giudichi ì non esserne
stato affetto, caratterizzato esso stesso, mentre lo fu.
come ben ricordiamo, sino all’apologià dello stalinismo,
e certo sino all’adozione della identità leninista ideo¬
logia-organizzazione.
Abbandonando poi la « tattica frontista », il
non ha compiuto alcuna critica effettiva di se stesso»
ma solo del PCI; tant’è vero che il rovesciamento del¬
le posizioni di allora, dal punto di vista dottrinale, è
consistito nel procedere verso una concezione del so¬
cialismo, per la quale le riforme si fanno dall’alto delle
istituzioni borghesi, senza alcuna modifica delle loro
modalità politiche, anzi, impegnandosi a serbarle in¬
tatte (con una singolare disgiunzione di struttura e
soprastruttura, che non vorremmo qualificare come
tipica del metodo socialdemocratico); cioè senza 1*
minima invenzione di nuove forme di « legalità socia¬
lista ». E non già perchè questa ultima « cuzione » ita
estranea al PSI: esso la adotta, anzi, quando serve co¬
me parametro al processo delle intenzioni comuniste;
ma non affatto, invece, come proprio strumento di lot¬
ta « per il governo », quando si tratta di negoziare
con la DC.
La mancanza di tale autocritica è anche quella, s®'
condo noi, che rende oggi così disperata, per la destra
autonomistica, l’ipotesi di un rovesciamento di ten-
denza, e di un passaggio all’opposizione. « Che cosa
ci impedirebbe, in questo caso, di tornare a confon¬
derci nell’abbraccio comunista? e di naufragarvi? »•
L angoscia di questa domanda è profondamente mo¬
tivata. Infatti, per aver considerato il frontismo come
un momento epidermico della persistenza socialista
in Italia, un momento che si poteva porre impregiudi¬
catamente tra parentesi, ci si ritrova ideologicamente
impoveriti di tanto, quanto era invece stato adottato
( e poi^ tormentosamente lasciato decadere ) di leni¬
nismo insufflato dai comunisti da un lato, e di labori;
smo accettato dalla critica azionista — non mai giunti
poi a una elaborazione razionale e risolutiva. Alla fin®
ci si trova insoddisfatti e timorosi di ambedue le ai-
ternative. Si teme che un certo laburismo possa ptt^
gredire senza di noi al governo; che un certo leni¬
nismo torni a premere su di noi se stiamo all’opposi;
zione; che un certo laborismo sia insufficiente per tioi
se andiamo al governo; che un certo leninismo pro¬
gredisca senza di noi, fra le masse sempre più guidate
dai comunisti, se, ritornando all’opposizione, finiamo
per sottostare a loro, sarcasticamente vincitori.
Decisione urgente
Eppure, allo stato delle cose, il PSI non può non
decidere. E se torniamo per un momento al dibattito di
direzione, così contrastato e apparentemente non con¬
cluso, abbiamo l’impressione che forse per la prima
volta dopo il 28 aprÙe ( ma anche dopo un gran nume¬
ro di altre direzioni e comitati centrali) la coscienza
di doverne « venire fuori al netto » — e cioè con una
risoluzione politica che ravvicini l’azione socialista
esigenza di una propria dottrina — stia finalmente
emergendo.
Dicevamo che alcune intrepide soluzioni socialiste
rassomigliano troppo a fughe in avanti — e quella
del rovesciamento di fronte, del governo a qualsiasi
costo, aveva troppo l’aspetto di una soluzione, nei
12
confronti dei comunisti, cercata nell’azione pura, nella
azione che pone noi di qua e voi di là, e stabilisce ^ a
sola, irreparabilmente, la contrapposizione. E tuttavia,
che questa fuga in avanti avesse una sua legittimi^,
si vede ora dal frutto che offre: di una revisione, anc e
solo iniziale, della politica del PSI; della ricerca j
una linea di condotta, che ponga certe condizioni a
partecipare al governo, e certi scopi al ritornare al a
opposizione.
Quando la cronaca di queste giornate romane ci
informava che « non ci sarà al congresso socialista una
terza corrente », quella che si voleva dare corne una
zelante assicurazione di unità del PSI non ci fa i^ ca o
nè freddo: nè ci conforta, nè ci insospettisce. Per noi
vale il fatto, che nel PSI si incominci a considerare
la partecipazione al governo come una lotta con la
e con il « sistema »; e che l’opposizione stessa inco-
minci ad essere pensata come un’azione socialista c e
non è pregiudizialmente in contrasto con quella conm
nista, ma che, se vi perviene, adotta il modo già indi¬
cato dai comunisti stessi al loro congresso: fare del
movimento operaio, dei lavoratori, democraticamente,
i giudici dei due metodi, delle due proposte, capi a-
rizzandone la discussione, attivizzando la propaganda,
specificando la propria pedagogia politica. Il Poi tro¬
verebbe qui stesso la regola e la via della sua resurre¬
zione elettorale, alla base della quale sta indubbiamente
una negligenza sul piano di classe, che e inuti e
sottolineare.
Il PSI non può non decidere, secondo noi. Non
vogliamo dire: deve decidere di andare al governo.
'Vogliamo dire: deve decidere di andare al governo,
se è pronto a organizzare la pressione delle masse per
l’esecuzione di quanto, nella trattativa, può aver strap¬
pato alla controparte di « presocialista » (le regioni!)
se non propriamente di socialista (abbiamo visto che
non c’è molto forse da ottenere in questo senso), be
è disposto a operare, dalla maggioranza e dal governo
affinchè la ristabilizzazione della congiuntura, nel
quadro del sistema dominante, non pregiudichi una
nuova partenza per la « riduzione » del sistema stesso.
Queste ragioni possono, anzi debbono essere dette
alla controparte, cioè a Moro, con estrema lealtà. 11
PSI non deve accettare, ma non deve meritare, accu¬
se di doppiezza. Deve spiegare perchè non scioglierà
anzi rafforzerà l’unità sindacale; perchè non amrnet-
terà discriminazioni anticomuniste, che rnenomerebbe-
ro la sua stessa lotta per distinguersi dat comunisti.
Tutto questo, è la materia della decisione socialista
— in un momento di avversa congiuntura economica
e anche politica, in una stagione in cui non ha pro¬
dotto originali tesi socialiste benché incominci ad av¬
vertirne l’esigenza. Un partito di fiato ampio e torte,
queste cose le può fare, e a noi sembra che incominci
a sforzarsi per farle. Ma come la prova di centro sini¬
stra può essere la forza, oppure la fine di Moro, essa
può divenirlo anche per gli attuali dirigenti esecutivi
del PSI. Anche i partiti invecchiano, benché abbiano
la morte molto più lenta degli individui; è prudente
non lasciare che ne sorga anche solo la previsione,
il sospetto. UMBERTO SEGRE
Programmazione sterilizzata?
di AISTOMO GIOLITTI
A LL’ESATTISSIMO e stringente ragionamento svol-
to da Paolo Sylos Labini su questa rivista per
confutare come ” chiaramente sofistica e ideologica¬
mente viziata ” la pretesa di escludere dalla compe¬
tenza della Oimmissione nazionale per la programma¬
zione economica le questioni ” politiche , si potrebbe
3ggiungere, ad abundantiam, un’ulteriore considera¬
zione. La decisione di procedere alla programmazione
economica è una scelta politica: lo è, di per sé, in
modo implicito; lo è, in modo esplicito, per le mo¬
tivazioni che di tale decisione sono state date dal
governo e dal Parlamento. Non si è trattato di una
scelta a favore di una tecnica di amministrazione
pubblica, bensì di una scelta per il raggiungimento
di certi fini di politica economica e sociale e per la
predisposizione e l’impiego di strumenti ad essi ade¬
guati. E’ stata, quindi, una scelta di indirizzo e di
contenuto riformatore. Ne consegue —• riprendendo
c sviluppando su questo punto il ragionamento di
Sylos Labini — che se relativamente agli strumenti
si dovesse accogliere la distinzione da taluni pro¬
spettata circa le scelte che la Commissione sarebbe
o no legittimata a discutere, si dovrebbero allora
escludere dalla competenza della Commissione, perché
già escluse dalla scelta preliminare del potere politico,
proprio le ipotesi che muovono dalla premessa di
una conservazione dello status quo.
Una simile premessa è in stridente contraddi¬
zione con le analisi su cui si fonda e le finalità
cui tende la programmazione economica secondo le
intenzioni — poiché solo d’intenzioni finora si tratta
— delle forze politiche che la propugnano in Italia.
Ma al di là di codeste intenzioni, anche oggettiva¬
mente l’esigenza della programmazione in questo pae¬
se nasce da quel complesso di problemi non risolti
che si usano chiamare gli ” squilibri ” e che impon¬
gono delle scelte non soltanto sul piano delle alter¬
native tecnico-economiche ma anzitutto e soprattutto
su quello dei contrasti d’interesse e di ideali tra le clas¬
si sociali. Insomma, nonostante la gran copia di disqui¬
sizioni accademiche pullulate nei convegni e nella
pubblicistica intorno alla programmazione, questa
13
si presenta, da noi, intrinsecamente refrattaria alla
sterilizzazione, alla sua riduzione a una pura istanza
intellettualistica di razionalizzazione della economia di
mercato.
Tuttavia, il tentativo di ” spoliticizzazione ” della
Commissione nazionale della programmazione non de-
V essere sottovalutato nel suo significato politico. In¬
capace, o timorosa, di contrapporre apertamente alla
politica di programmazione una sua coerente linea
liberista, la destra ricorre appunto alla tattica della
sterilizzazione, dello svuotamento daH’interno; ed è
favorita in questa manovra dall’irrequieto velleitarismo
di certi ” programmatori ”, dalla loro riluttanza a
sporcarsi le mani ” con la politica e dalla propen¬
sione, invece, a civettare con le eleganze formali.
In ^sostanza, quel tentativo della destra non è che
un’applicazione specifica della sua più generale ope¬
razione politica di sterilizzazione del centro-sinistra:
perciò va affrontato e respinto per quello che è, e
non accarezzato e ricevuto come se fosse una prova
di buona volontà e una promessa di futura amicizia.
Profitto e potere
Ciò che rende la programmazione, come dicevo,
refrattaria alla sterilizzazione, è il fatto che essa ha
rappresentato e rappresenta, per larga parte del mo¬
vimento operaio italiano, una precisa scelta di classe
e una consapevole assunzione di responsabilità poli¬
tica. E chiaro che fuori di quella scelta e senza quella
diretta responsabilità la programmazione sarebbe de¬
stinata a rimanere quel figmentum cogitationis di cui
elegantemente parlava Raffaele Mattioli nella suo
relazione all’assemblea della Banca Commerciale. E
il fatto che in una economia mista come la nostra,
la prograrnmazione ” si risolve necessariamente nella
salvaguardia del profitto ” — come soggiungeva con
nitidezza di giudizio, e forse con una punta di disde¬
gno verso le illusioni di palingenesi sociale degli
ideologi della programmazione, lo stesso illustre ban¬
chiere umanista — non toglie nulla alla validità di
queU’impegno politico, che sa di muoversi all’interno
del sistema di un’economia di sfruttamento e quindi
di profitto, sa che questo è il limite storico del
suo operare nelle condizioni attuali della società ita¬
liana ed europea, ma sa anche che limiti e condi¬
zionamenti di portata trasformatrice e alla lunga
eversiva possono essere imposti, con gli strumenti
della programmazione, al processo di accumulazione
capitalistica.
E’ una ingenuità o una faziosità — a seconda
dei casi — l’accusa fatta talvolta ” da sinistra” alla
politica di programmazione, che questa non aggre¬
disce il processo di accumulazione perchè affronta
soltanto i problemi degli investimenti, dei consumi,
della distribuzione, degli squilibri, e cioè colpirebbe
gli effetti senza risalire alla causa delle cause, alla
rnolla del sistema: quasi che le riforme di struttura,
che la programmazione postula e senza le quali essa
non è programmazione ma soltanto vaniloquio, fos¬
sero anch’esse un figmentum cogitationis c non aves¬
sero invece la forza d incidere proprio nel funzio¬
namento del sistema, non soltanto agli effetti della
utilizzazione e dello sviluppo delle forze produttive
ma anche agli effetti dei rapporti di produzione e
quindi dei rapporti di potere tra le classi sociali.
Il limite storico di cui si diceva poc’anzi va appunto
accettato e al tempo stesso superato in questo senso,
che il processo di accumulazione non può essere af¬
frontato, per così dire, dall’alto, direttamente nei
centri di potere che lo dirigono, ma può essere in¬
vestito dal basso, contestando, correggendo e capo¬
volgendo gli effetti che esso tende a produrre sul
processo di sviluppo economico, e facendo emergere
la incompatibilità tra gli obiettivi democratici deH^
programmazione per Io sviluppo e la gestione dispo¬
tica del potere di organizzare la produzione per il
profitto.
La programmazione sarebbe, inoltre, inconcepi¬
bile e inattuabile, come fatto democratico, senza il
consenso attivo dei lavoratori organizzati nei sinda¬
cati e nei partiti. Orbene, un tale consenso, o an¬
che soltanto una pur cauta predisposizione al con¬
senso (che basterebbe, intanto, per cominciare), non
potrà mai aversi se la programmazione si presenta
come una politica di piccoli aggiustamenti congiun¬
turali e non di grandi riforme strutturali. Peggio,
poi, se essa vien fatta dipendere — come da auto¬
revolissime fonti si va proclamando — dalla pre¬
giudiziale condizione dell’indisturbato funzionamento
del sistema rebus sic stantihus: cioè, dalla garanzia,
anzitutto, della ” stabilità monetaria ” e quindi della
subordinazione dell’incremento della domanda all’in¬
cremento di un’offerta che si assume come arbitra
delle sue scelte e delle sue strutture produttive.
La dinamica salariale diventa così la variabile
dipendente di una dinamica della produttività affi¬
data alle autonome decisioni dei centri di potere
privato: di quei centri di potere che per quindici
anni e più hanno esercitato sulla politica economica
italiana una spietata dittatura di classe, sfruttando
la discKcupazione e i bassi salari per una espansione
capitalistica che ha del miracolo tutta la precarietà
e la irripetibilità e che invano si vorrebbe perpetuare
invitando i lavoratori a praticare l’austerità nel pre¬
sente per raggiungere l’opulenza nell’avvenire.
Una svolta politica
Perche negli anni delle vacche grasse non si è
badato a rnetterc un po’ d’ordine dal lato dell’of¬
ferta, e oggi si invocano o minacciano provvedimenti
dal lato della domanda? E come si può pretendere,
per una politica che ha un così sfrontato contenuto
di classe, di ottenere delle solidarietà politiche da
parte del movimento operaio? No, la programma¬
zione non può essere un espediente per continuare
come prima, per chiedere agli sfruttati di aiutare
gli sfruttatori a mantenere il loro potere e i loro
privilegi. Se dopo quindici anni vengono al pettine
i nodi sempre più ingarbugliati di una politica eco¬
nomica tutta intessuta di imprevidenze e di sprechi,
di egoismi e di favoritismi, non si può chiedere a
una parte del movimento operaio — e cioè, nelle
presenti circostanze, al partito socialista — di aiu-
14
tare a scioglierli solo per ricominciare poi a tessere
la vecchia tela. Un partito del movimento operaio
può anche assumersi responsabilità necessariamente
impopolari qaundo si sia per operare una svolta
nell’indirizzo politico e adottare i provvedimenti di
emergenza che questa impone: ma a patto che di
svolta effettivamente e sicuramente si tratti. In una
situazione come questa, l’equivoco è esiziale. La
partita si gioca sul senso che avrà la programmazione.
sul senso che avrà il centro-sinistra. La reale alter¬
nativa tra destra e sinistra è oggi quella tra contenuto
conservatore e contenuto trasformatore della pro¬
grammazione e del centro-sinistra. Bisogna perciò
rendere assolutamente chiare ed esplicite le scelte
politiche rispetto alle quali non possono mai esser
neutrali le questioni ” tecniche ” della programma¬
zione economica.
ANTONIO GIOLITTI
Ricordo di Unità Popolare
«li LEOPOLDO PICCARDI
JN QUESTI giorni, U 7 giugno, compiono dieci
anni dalle elezioni politiche che tuttora ricordia¬
mo per il loro risultato più clamoroso: la condanna
della legge che, nonostante ogni moderazione di lin¬
guaggio, è difficile chiamare con un nome diverso da
quello invalso allora nella polemica elettorale, di
legge-truffa. E’ un avvenimento importante, t:he se¬
gna, in questo ventennio ormai trascorso dalla caduta
del fascismo, la fine di una fase e 1 inizio di una
nuova fase della nostra vita politica. Vale perciò
sempre la pena di parlarne, per sforzarsi di chiarire
quale fu precisamente il significato di quell avveni¬
mento: ma, non avendo alcun gusto personale per le
commemorazioni, non coglieremmo l’occasione di que¬
sto decimo anniversario per riprendere il discorso,
se questo non assumesse, nel momento che attraver¬
siamo, un particolare carattere di attualità. E poiché
nessuno può ricordare fatti ai quali in qualche modo
fia partecipato prescindendo dalla propria esperienza
personale, ricordare la lotta elettorale del ’53 significa
per noi rievocare la battaglia che, nel quadro di
quella lotta, condusse il gruppo che si raccolse intor¬
no all’insegna di Unità Popolare e intorno a colui
che oggi dirige questo giornale.
E’ una rievocazione che, per chi fece parte di
quel gruppo e collaborò alla sua azione, non può
andar esente da commozione, come sempre accade
quando si ricordano vicende ormai lontane nel tempo
0 si rivivono le passioni dalle quali si fu un giorno
animati e si ritrova la compagnia ideale delle per¬
sone alle quali ci si sentì legati da un comune pen¬
siero e da una comune volontà. Commozione non
esente da tristezza, perché il pensiero si rivolge non
soltanto a coloro che oggi possiamo sentire con noi
accomunati nel ricordo, ma anche e soprattutto agli
scomparsi: non si può parlare di Unità Popolare senza
che si riaffaccino alla nostra memoria le figure care
di uomini come Piero Calamandrei, Tullio Ascarelli,
Giacomo Noventa, e altri ai cui nomi è legato quel
momento della vita politica italiana e della nostra
esperienza personale.
Senza indulgere alle tentazioni sentimentali, vor¬
remmo dire che quella di Unità Popolare fu una
bella battaglia. La coscienza che il nostro paese si
trovasse di fronte a una situazione estremamente gra¬
ve, la sensazione di un pericolo imminente, la con¬
vinzione che soltanto un’azione risoluta potesse evi¬
tarlo condussero a incontrarsi uomini che avevano
bensì in comune la fede in alcuni principi fondamen¬
tali della convivenza umana, ma che avevano una
storia personale diversa l’uno dall’altro, che avevano
partecipato in varii modi alla lotta politica del paese.
Nata da questa spontanea concordanza di pensieri
e di propositi. Unità Popolare si impegnò nella lotta
senza riserve, fuori di qualsiasi prospettiva di suc¬
cessi personali o di partito. Giovani e uomini già
avanti negli anni seppero trovare, nella coscienza di
un comune compito da assolvere, quella passione,
quella spregiudicatezza, vorrei dire, quello spirito di
avventura che assistono chi, in momenti difficili, si
assume gravi responsabilità. Ciascuno diede alla cam¬
pagna il massimo contributo, fino ai limiti delle pro¬
prie possibilità di resistenza fisica; non ci si arrestò
di fronte all’esiguità delle forze o alla povertà dei
mezzi; si parlò dai marciapiedi, all’angolo delle stra¬
de, quando non esistevano altre possibilità. Uomini
abituati a misurare le proprie azioni non esitarono
ad accettare candidature nel massimo numero con¬
sentito dalla legge, tre per la Camera e tre per il Se¬
nato, affrontando le situazioni più disperate: ricordo
ancora l’atteggiamento paziente e rassegnato di Ca¬
lamandrei mentre attendeva, senza esprimere desi¬
deri o preferenze, che gli si assegnassero le sue sei
candidature. Uomini usi al severo linguaggio delle
aule universitarie affrontarono per la prima volta nel¬
la loro vita la prova dei comizi o si mescolarono
alla folla per distribuire manifestini di propaganda.
L’impegno morale e il deliberato disprezzo di ogni
limite segnato dalla convenzione o da ragioni di
personale prestigio diedero alla campagna di Unità
Popolare un carattere di novità e di vivacità che ne
fecero sentire la presenza, molto al di là delle mo¬
deste forze che essa aveva potuto raccogliere.
Con questa sua presenza. Unità Popolare contribuì
a dare un tono alla lotta elettorale, influendo sul
suo esito forse più ancora che con il pugno di voti
che essa raccolse c che parvero, per se stessi, deter¬
minanti. Risultato che dà all’esperienza di Unità Po¬
is
polare il valore di una testimonian 2 a a favore del
metodo democratico: il quale deve essere veramente
ricco di risorse, se un piccolo gruppo di uomini,
privo dì mezzi e senza collegamenti con le grandi
formazioni che dominano la scena politica, può con¬
correre in modo non trascurabile a determinare il
corso degli eventi.
Ma la lezione della coraggiosa sortita di Unità
Popolare appare oggi attuale per un più specifico e
prossimo riscontro che essa trova nel momento che
stiamo attraversando. Quell’azione politica ebbe un
successo e chi vi partecipò la ricorda tuttora con com¬
piacimento perche il disegno che ispirò la formazione
di Unità Popolare e che diresse la sua battaglia tro¬
vava una rispondenza nella situazione che allora sta¬
vamo attraversando; perché gli uomini di Unità Po¬
polare seppero collocarsi su quella linea di sviluppo
degli avvenimenti che meglio serviva all’affermazione
dei loro comuni ideali. La legge maggioritaria rap¬
presentava l’epilogo di un processo di involuzione che
si era venuto svolgendo dalla liberazione in poi. Dal
clima di speranza e di solidarietà in cui si era svolta
la lotta di liberazione, dalla breve fioritura di illusioni
che era seguita alla sua fine vittoriosa, si era presto
passati all’atmosfera pesante della guerra fredda. Un
nuovo pericolo, che pareva venire dal seno stesso
delle forze già unite nel combattere il fascismo, di-
vise profondamente l’Italia uscita dalla Resistenza,
ostacolando lo sforzo comune per ricostruire, su
nuove basi di libertà e di democrazia, le sue istitu¬
zioni e le sue strutture. Dallo smarrimento prodotto
da questa grande paura trasse vantaggio un partito,
la Democrazia Cristiana, che, potendo valersi di una
imponente organizzazione quale quella ecclesiastica c
potendo fare affidamento su una tradizione di con¬
formismo, ravvivata dalle difficoltà del momento,
si era trovata in condizioni più favorevoli di ogni
altro movimento politico per affermare il proprio
predominio.
Paralisi politica
Alla divisione del mondo in due blocchi cor¬
rispose così una spaccatura del nostro paese, che
contrappose un raggruppamento di forze dominato
dalla Democrazia Cristiana e dalla stessa Chiesa cat¬
tolica a un raggruppamento di forze a direzione co¬
munista. Le forze socialiste e di democrazia laica
furono attratte, secondo le loro tendenze e le loro
valutazioni della situazione, verso l’uno o l’altro dei
poli sui quali gravitava la vita politica italiana, in¬
capaci, nonostante i ripetuti tentativi, di delineare
e imporre una loro autonoma linea di sviluppo po¬
litico. Le conseguenze di questa situazione si riassun¬
sero presto in quella paralisi che fu chiamata, nel
gergo del tempo, l’immobilismo. L’impossibilità di
governare un paese così disunito e la sensazione del
logorio che la coalizione di governo stava fatalmente
subendo fecero nascere allora lo sconsigliato disegno
di una legge maggioritaria, attraverso la quale si potesse
costituire una maggioranza capace di esprimere un
governo stabile ed efficiente. Ma se il sistema mag¬
ici
gioritario è sempre sospetto di scarsa rispondenza
ai principi della democrazia, il ricorso a esso in quelle
circostanze rappresentava un vero colpo di stato,
destinato a porre fuori gioco forze politiche sor¬
rette da un largo consenso popolare. Il giudizio su
quell’episodio della nostra vita politica, che potè,
al tempo in cui avvenne, suscitare vivaci contrasti,
dividendo anche uomini vicini per convinzioni e per
propositi, dovrebbe oggi trovare una facile concordia. /
Il successo della legge-truffa avrebbe consolidato le
posizioni della Democrazia Cristiana, attribuendole
la maggioranza assoluta e rafforzando in essa le ten¬
denze integralistiche e conservatrici; i partiti di de¬
mocrazia laica, suoi alleati, avrebbero bensì ricevuto
una maggior fetta della torta parlamentare, ma non
avrebbero potuto evitare così la loro totale sviriliz¬
zazione c la loro pratica distruzione politica; le si¬
nistre, pKJSte fuori gioco con un disonesto espediente
di tecnica elettorale, non avrebbero potuto fare a
meno di ricorrere a quei mezzi di lotta che soli sono
consentiti in queste condizioni. Lo svolgimento di
una vita democratica in Italia ne sarebbe stato defi¬
nitivamente compromesso.
La « legjre - truffa »
Fu merito di Unità Popolare di avere levato la
bandiera della ribellione contro una manovra che
offendeva al tempo stesso le regole del gioco de¬
mocratico e i criteri della prudenza politica. Ribcl-
lione tanto più significativa in quanto espressa da
uomini estranei a quel raggruppamento di forze con¬
tro il quale la legge-truffa era diretta; da uomini
che avrebbero potuto senza difficoltà partecipare al
banchetto per il quale la Democrazia Cristiana era
alla non disinteressata ricerca di commensali. Questa
sua particolare posizione consentì a Unità Popolare
di porre con chiarezza ed efficacia le premesse della
sua azione politica: il ripudio dei metodi e degli
slogans ^ della guerra fredda; l’appello alla ragione
contro i richiami di un cieco fanatismo; l’obbiettivo
riconoscimento della funzione che spetta a tutte le
forze politiche espresse dalla volontà popolare; la
coscienza che la democrazia, per evitare i pericoli
che la insidiano, deve guardarsi da ogni lato; la
convinzione che, in quel momento, il pericolo più
grave e più imminente non fosse costituito dal co¬
muniSmo, ma da quelle tendenze clericali e conser¬
vatrici che del comuniSmo si servivano, come di uno
*P^'J'^^^chio, per i loro fini. Uomini lontani dal-
1 ideologia e dai metodi comunisti, divìsi in maggiore
o minore misura dalle concezioni e dalle direttive
politiche del partito socialista, presero posizione, par¬
tendo da quelle premesse, accanto alle due grandi
formazioni di sinistra, combattendo insieme ad esse
una battaglia che aveva un preciso scopo immediato: *
il rigetto della legge maggioritaria. E crediamo di
poter affermare che nel coro della sinistra italiana,
quale si presentò all’elettorato in quell’occasione, la
voce di Unità Popolare rìsuonò sempre con il suo
timbro particolare, senza compromessi né confusioni. [
OrS*» molti di coloro che militarono in Unità
J
T
T
Popolare ritengono che il problema italiano possa
trovare una soddisfacente soluzione in quella formula
che prende il nome di centro-sinistra: un centro-si¬
nistra che sia il frutto di una chiara scelta della DC,
2I quale le forze democratiche laiche e socialiste pos¬
sano collaborare in condizioni di parità, che sia ca¬
pace di attuare una politica di trasformazione di una
società invecchiata come la nostra e delle sue strut¬
ture egualmente invecchiate, che non si sottragga
alla funzione di controllo e di stimolo spettante alle
forze estranee allo schieramento governativo.
Purtroppo, gli sviluppi della situazione non ci
fanno mancare le ragioni di preoccupazione. Rifio¬
riscono, fuori sragione, i temi della guerra fredda;
1* bruciante perdita di voti subita dalla DC risveglia
le sue tendenze egemoniche; il conservatorismo ita¬
liano, cosi radicato e diffuso in ogni ceto della po¬
polazione, sta muovendo alla riscossa, atterrito dai
primi timidi passi del centro-sinistra come se si trat¬
tasse dei prodromi di una sanguinosa rivoluzione. E
poiché, d'altro lato, non si può ripudiare apertamente
una linea di azione nella quale si sono compromessi
larghi strati della classe politica, né si possono aper¬
tamente riesumare formule politiche definitivamente
superate, nasce da un'inclinazione al compromesso,
tipicamente italiana e cattolica, il disegno di una so¬
luzione che salvi la volontà egemonica della DC e
le tendenze al cosiddetto allargamento dell’area de¬
mocratica, che concili i sacri diritti dell iniziativa
privata con le esigenze della programmazione, nella
quale trovino il proprio conto conservatori e progres¬
sisti, monopoli e sindacati, ceti privilegiati e masse
popolari.
Di fronte a queste prospettive di un nuovo ” pa¬
sticciaccio ” lo spirito di Unità Popolare può essere
una valida difesa. Può tornare il momento di ricor¬
dare che i pericoli che insidiano la libertà non si evi¬
tano senza correre altri rischi; che la prudente tattica
del meno peggio può essere spesso rovinosa; che
qugndo una situazione appare priva di vie d’uscita,
una ne esiste sempre, capace di dare risultati impre¬
veduti. Quella di essere fedeli alle proprie idee, costi
quel che costi.
LEOPOLDO PICCARDI
NOTE E C O MMENTI
La marcia sui Sudeti Omertà
,, ^ERRA’ il giorno della libe¬
razione * ha detto il mini¬
stro germanico della difesa von
Hassel al raduno dei profughi te¬
deschi dai Sudeti. E’, se vogliamo,
una fortuna che questo spensiera¬
to ministro, creatura di Adenaucr,
abbia parlato con tanta innocen¬
za nel momento in cui governo e
stampa reclamano con sempre
maggior risolutezza per la Germa¬
nia il controllo suH’armamento
atomico destinato alla difesa eu¬
ropea. Difesa europea? Che cosa
succede se viene un nuovo suona¬
tore di flauto che intona l’aria del¬
la Grande Germania da rifare?
Sconcertante paese, sconcertante
socialdemocrazia. Se anche questa
gente riprende una sua force de
frappe, è sicuro che la frappe
casca sulla testa di noi tutti.
Lambrakis come Matteotti
QUESTO è uno dei cartelli re-
'^cati in corteo dai bravissimi
giovani di Nuova Resistenza, di¬
mostranti per l’assassinio del de¬
putato greco di opposizione Lam-
brakis. L’analogia è azzeccata, sia
per la violenza della lotta politica
' in Grecia, sia per il furore fazio¬
so con il quale la destra intende
liberarsi degli oppositori, sia pei
il desanoi del Governo, sia per la
disunione degli oppositori, uniti
solo nel richiedere nuove elezioni
non fraudolente come quelle pas¬
sate. E potrebbe anche darsi che,
come da noi dopo il 3 gennaio, il
Governo greco si rinfrancasse e
tutto tornasse come prima. Au¬
guriamo il contrario, cioè che le
opposizioni trovino un terreno di
intesa leale e solido, che la pres¬
sione dell’opinione pubblica eu¬
ropea si faccia più stringente. Ci
sono troppi bubboni pericolosi nel
nostro piccolo occidente europeo
dai quali sarebbe necessario libe¬
rarci. Sarebbe un bel giorno quel¬
lo del licenziamento della regina
Federica.
burocratica
f L DOTTOR Gioia, già direttore
generale delle Dogane, ha reso
al processo Mastrella una depo¬
sizione che non potrebbe essere
più mortificante per il buon nome
dell’Amministrazione e della gran¬
de maggioranza dei funzionari
onesti che tribolano negli uffici.
Questa omertà che sembra regna¬
re, o aver regnato, nelle alte sfe¬
re di quella direzione è intollera¬
bile. E’ forse per merito di omer¬
tà che il dott. Gioia collocato a ri¬
poso ha ottenuto il posto di con¬
sigliere della Corte dei Conti?
Perchè il ministero delle Finanze
tace sui procedimenti disciplinari
che — speriamo — ha avvia¬
to? Si sa bene come occorrano
provvedimenti severi, anzi drasti¬
ci. Circolano voci sgradevoli su
altri uffici finanziari relativi ad ac¬
certamenti tributari. Bisogna col¬
pir duro, e colpire esemplarmente.
11
Le aspirazioni modeste
! - -—---
di ARTURO CARLO JEMOLO
J^ON DIREI che tra gli uomini politici attuali ab¬
bondino quelli che sentano come Cesare: meglio
primi nell ultimo villaggio delle Alpi che secondi a
Roma.
Paiono tutti desiderosi di essere alleati minori della
democrazia cristiana; tutti bramosi di venire scelti, più
d uno timoroso che altri non gli contenda questo posto
di alleato primo in ordine d’importanza.
Mi chiedo se non sarebbe un vero senso di sbi¬
gottimento quello che coglierebbe tutti se un giorno
la democrazia cristiana non fosse più il partito di
maggioranza relativa, il perno intorno a cui deve gra¬
vare ogni combinazione; probabilmente più sbigottiti
di ogni altro i comunisti, almeno gli uomini politici
del comuniSmo. Ben a ragione; come non dovrebbe
temere ogni mutamento, ed in particolare il rischio
di assumere il potere, chi in una comoda posizione
di opposizione ha sempre approvato ogni assalto allo
Stato, non ha mai ricordato che esistono obblighi?
La diminuzione di voti della democrazia cristiana
ha fat^o piacere a molti solo perché non le toglieva
la maggioranza relativa e le consentiva di restare il
perno di ogni combinazione; perchè doveva portarla
a maggiori concessioni ad alleati, a dare posti di go¬
verno o posti<hiave.
Sono come sempre un isolato, e mi rallegro di
questa diminuzione di voti solo a condizione ch’essa
mostri alle gerarchie ecclesiastiche, e se fosse possibile
a tutti i cattolici, l’errore che unità dei cattolici non
voglia già dire unità loro, a qualsiasi partito apparten¬
gano, allorché vengano alla ribalta questioni che inte¬
ressino la Chiesa o la morale, bensì ch’essi debbano
restare uniti in uno stesso partito a votare insieme an¬
che quando si tratti di nazionalizzare l’energia elettrica
o di affrontare i delicati temi della politica monetaria.
In fatto, la vita politica italiana è falsata da questo
involucro del partito che deve contenere forze con¬
trastanti (perchè quel che avviene nella democrazia
cristiana si rif>ete, sia pure in proporzioni notevol¬
mente attenuate, per la socialdemocrazia, per il partito
repubblicàno, per il movimento sociale, e non vorrei
che tra poco dovesse ripetersi anche per il partito
socialista. Soli, partito liberale e partito comunista
mostrano una struttura omogenea.
^EDREI come soluzione logica una combinazione
Scelba-Gonella-Malagodi, e non avrei nemmeno
timore che facesse le sue prove. Il liberismo è facilmen¬
te predicabile allorché non si è al governo, ma mi pare
ben difficile ad attuare, soprattutto quando non ci sono
classi ricche disposte a compiere spontanee rinuncie,
ad attuare esse quel che fanno i governi non liberisti
nel cam|X) sociale.
Preferirei naturalmente una combinazione Fanfani-
Saragat-Nenni.
Ma in un caso come nell’altro, che ciascuno por¬
tasse con sè sostenitori omogenei, convinti del pro¬
gramma che il governo si accingerebbe ad attuare.
La democrazia cristiana com’è costituita ora o
resta nell’immobilismo, o deve necessariamente con¬
trobilanciare ogni spinta con una spinta opposta.
La nazionalizzazione dell’industria elettrica è stata
controbilanciata con la rapida liquidazione della pO"
litica del povero Mattel nel campo degl’idrocarburi
(quei solenni funerali resigli avevano un po’ l’aspet¬
to di un sospiro di liberazione) e con la eliminazione
di Fanfani: se si guardano giornali e giornaletti di de¬
stra, si vede che l’hanno accolta come una soddisfa¬
zione data loro.
Non giudico: può darsi che quella nazionalizza¬
zione, così com’è stata compiuta, non sia stata felice,
che sia stato giusto liquidare la politica di Mattei;
ma mi pare chiaro che al colpo a sinistra è seguito
quello a destra.
In un partito assolutamente eterogeneo, ma con
due masse contrapposte di cui per l’una è bene quella
che per l’altra è male, non sarebbe possibile operare
altrimenti. E’ probabile che il segretario del partito
abbia con senso di uomo politico fiutato le sue mas¬
se ed il punto di resistenza oltre cui non era possibile
andare, allorché ha rifiutato ai socialisti le regioni,
ed ha disimpegnato il partito.
^LTRI può opporre che questo è vero, ma che la
massa degl’italiani non dimostra grande desiderio
di novità; che ciò che il segretario del partito di mag¬
gioranza ha ritenuto rispetto al suo partito — po¬
litica del colpo a destra e di quello a sinistra; con
l’avvertenza di non urtare certe avversioni profonde,
di non oltrepassare il limite oltre cui potrebbero
aversi reazioni violente —, può bene come capo di
governo ritenerlo del pari opportuno per la nazione.
Ed il contegno dei capi dei diversi partiti gliene da¬
rebbe appunto conferma.
Ma c’è stata quella diminuzione di voti e quella
massa di voti di dispetto andati al partito comunista,
a dire che le cose non stanno così. Che questi ita
liani, purtroppo così poco idonei per l’organizzazione,
così incapaci a fondare nuovi partiti, ad imitare i loro
nonni che con il buon volere supplivano alla man¬
canza di mezzi, così poco fatti per lo spontaneo la¬
voro comune, hanno però l’insofferenza; avvertono
qualcosa che non va.
E questo qualcosa che non va è l’erosione dello
Stato. Non prodotta dalla partitocrazia, così discara
a quanti hanno la nostalgia degli uomini provviden¬
ziali, ma dai partiti che non sono partiti, bensì coa¬
lizioni di uomini dalle vedute quanto possibili di¬
scordi, uniti solo per mantenere il potere.
Leggo dalla sua creazione II centro, il settimanale
di Sceiba e Gonella.
Rispettoso per le idee che vi si esprimono, se
pur non siano le mie, trovo invece deleterio che si
possa proclamare ad alta voce che un certo governo
18
è nefasto per il bene del Paese, ma che gli si darà il
voto, che certe leggi sono esiziali, ma le si approve¬
ranno. I religiosi che osservano il voto di obbedien¬
za almeno tacciono, e forse hanno anche la docilità
interiore.
Dire che si vota ciò che è male, ciò che è cat¬
tivo, perché la disciplina di partito lo impone, e
questo non in un momento unico, eccezionalissimo,
ma quotidianamente, senza limiti di tempo, è proprio
quel minare l’idea di Stato, dire che il parato, come
coalizione di uomini, conta più dello Stato, in defini¬
tiva del popolo.
Questo è ciò che sia pure indistintamente mi
pare stiano avvertendo gl’italiani, ribellandovisi; e se
questa ribellione risponde ad un desiderio di chia¬
rezza, al desiderare, oltre gli uomini e le frasi vuote,
i piani concreti, ringraziamone Dio.
ARTURO CARLO JEMOLO
lettera da PARIGI
La Francia dopo De Gaulle
di LUClAm BOLIS
J RECENTI congressi UNR, MRP,
e SPIO hanno avuto tutti una
spinta comune: il desiderio di porre
le basi per un’autoaffermazione a
lunga scadenza, assumendo come
termine di riferimento temporale
il momento, vicino o lontano che
sia, della scomparsa di de Gaulle.
Trattisi di attentato (improbabile,
dopo il tramonto dell’ÒAS), di
morte naturale (il generale ha 72
anni) o di sdegnoso ritiro sotto la
tenda per qualsivoglia questione di
menomato prestigio (... c non sa¬
rebbe la prima volta!), la scompar¬
sa di De Gaulle creerà un vuoto
sulla scena politica francese, almeno
grande quanto è oggi la sua pre¬
senza, che appare effettivamente co¬
sì ingombrante da non lasciare più
posto per nessun altro, le forze del¬
l’opposizione non meno che i suoi
Stessi sostenitori.
Com’è naturale, tutti si sentono
ormai la precisa vocazione storica
di occupare quel vuoto, e anzi di¬
mostrano sin d’ora di volercisi pre¬
parare con cura, per quando si pro¬
durrà.
Per le opposizioni, le ultime oc¬
casioni di contrastare la marcia
trionfale del gollismo sono stati il
referendum istituzionale di ottobre,
che ha introdotto la nuova regola
delle elezioni presidenziali, e le ” po¬
litiche " di novembre, che hanno
effettivamente sancito l’appoggio
del popolo francese alle forze e agli
uomini del seguito di de Gaulle.
A favore delle opposizioni mili¬
tavano allora la cessazione dell’in¬
cubo algerino e dei suoi prolunga-
menti metropolitani, nonché la no¬
tevole disinvoltura costituzionale del
capo dello Stato. Ma più forti di
ogni altra considerazione si mostra¬
rono invece, per la maggioranza de¬
gli elettori francesi, il timore di un
ritorno al vecchio regime delle in¬
vestiture parlamentari, e per contro
l’aspirazione a una stabilità di go¬
verno che l’uomo del 18 giugno si
prestava a garantire meglio di chiun¬
que altro.
G)n sulle spalle il peso di quel¬
le dolorose esperienze, da cui si
lasciarono cogliere del tutto impre¬
parate, le opposizioni si sono fi¬
nalmente rese conto che era del
tutto fatica sprecata quella di con¬
tinuare a spendere fiato e energie
per predicare l’inversione di una
rotta che la navicella gollista do¬
veva evidentemente percorrere sino
in fondo.
Di qui il loro progressivo distac¬
co da tutte le possibili occasioni
offerte dalla politica contingente.
Lo stesso grande successo dello scio¬
pero dei minatori, nel marzo scorso,
e due mesi prima l’improvvisa no¬
tizia della rottura dei negoziati con
l’Inghilterra, non sono stati politi¬
camente sfruttati dalle opposizioni
così come certamente lo sarebbero
stati se l’equilibrio del potere sì
fosse presentato come ancora abba¬
stanza fluido e non già cristallizzato.
Di qui anche i reiterati propositi
di ripensamento manifestatisi a più
riprese in tutti i partiti nel corso
di questi ultimi mesi, come i recen¬
ti congressi hanno cominciato con¬
cretamente a testimoniare.
La vagheggiata opera di rinnova¬
mento in tutti i partiti si va com¬
piendo con fatica, sotto il fuoco di
fila degli strali che singoli gruppi e
personalità gareggiano nel lanciarsi
l’un l’altro, nel tentativo sterile, ma
vecchio quanto il mondo, di trarre
ciascuno giovamento dalle disgra¬
zie e imperfezioni altrui.
In una situazione apparentemente
così confusa, è naturale che variino
e divergano anche i giudizi sulla na¬
tura e il significato storico del gol¬
lismo, questo fatto, apparentemen¬
te nuovo, che ha così profondamen¬
te rivoluzionato, condizionandola,
tutta la problematica politica fran¬
cese dell’ultimo quinquennio.
I giudizi sono interamente con¬
trastanti tra loro, ma in essi è però
possibile rilevare una tendenza che
è sostanzialmente identica, anche se
appare motivata da considerazioni
opposte.
E’ la tendenza a non ridurre il
gollismo a semplice riflesso della
personalità del suo capo, identifi¬
candolo in essa, ma a fissarlo con
caratteri più obiettivi e permanenti
sul piano stesso della scienza poli¬
tica e della storia.
E’ in questo nuovo tentativo di
interpretazione del gollismo non co¬
me semplice appendice di de Gaul¬
le, ma come complesso e originale
fenomeno storico implicante tutta
una revisione dei tradizionali con¬
cetti e rapporti di libertà e auto¬
rità, esecutivo e legislativo, cit-
19
ladino e Stato, che risiede il signi¬
ficato dei recenti congressi e si
estrinseca la loro aspirazione a rap¬
presentare un’effettiva apertura.
L’esperienza storica del gollismo
comincia comunque a pesare sulla
formazione degli stessi antigollisti,
che sempre in maggiore numero
vanno convincendosi della necessi¬
tà di tenere conto anche degli in¬
segnamenti che, sia pure per assur¬
do, esso ha fornito ai francesi, at¬
traverso l’esposizione delle proprie
lacune e dei propri errori.
Non più quindi un gollismo me¬
ramente episodico — colpo di ma¬
no di militari a caccia di potere o
wgno di grandezza di un’ennesima
incarnazione nazionale, — come ce
lo presentavano le cronache dei pri¬
mi tempi, ma verità profonda, gra¬
datamente imponentesi sulla realtà
quotidiana; rottura, non certo ca¬
suale, di una consuetudine parla¬
mentare, già condannata nei fatti;
ed espressione di crisi acuta, neces¬
sitante cure non improvvisate
Ecco il complesso delle preoc¬
cupazioni e speranze che, sulla scor¬
ta dell’ex ministro democristiano
Buron, si è tacitamente convenuto
di riassumere nell’avveniristica for¬
mula di post-gollismo.
Dietro questo neologismo — ma¬
gistralmente presentato ai lettori del
Monde da Jacques Fauvet, che è
uno dei più accorti osservatori fran¬
cesi del fenomeno gollista — pos¬
siamo agevolmente riconoscere tre
fondamentali atteggiamenti di pen¬
siero, rivelatori di altrettante, incon¬
ciliabili soluzioni: lo schieramento,
che si vorrebbe compatto, delle si¬
nistre nazionali, per cui il gollismo
va battuto frontalmente sul terreno
della lotta di classe (donde le re¬
centi avances di un Mollet ai co¬
munisti e il rinnovato mito dell’uni¬
tà sindacale, da realizzarsi natural¬
mente in seno alla CGT e sotto
la spinta sostanziale di questi ulti¬
mi); lo schieramento, più informe
e variopinto, delle opposizioni, cat¬
toliche e radicali, di centro, dove
molti ancora s’illudono di potere
digerire il gollismo, convertendolo
alle proprie irrinunciabili esigenze di
democrazia, così come Giolitti, al¬
la vigilia della Marcia su Roma,
poteva ancora desiderare di ” assi¬
milare ” il fascismo; e infine lo stes¬
so composito schieramento dei neo¬
gollisti, per i quali il problema è
oggi soprattutto quello d’impian¬
tarsi più stabilmente nel paese, so¬
stituendosi in ogni provincia, con
le più baldanzose schiere dei pro¬
pri improvvisati sostenitori, alle
vecchie clientele tradizionali, che fa¬
cevano il buono e il cattivo tempo
a ogni elezione.
li gioco alterno di queste forze
e delle soluzioni che esse rappre¬
sentano condiziona e condizionerà
ancora per un pezzo gli alti e bassi
della politica francese: oggi, come
rapporto astrattamente dialettico tra
opposizioni e governo; domani, co¬
me effettiva alternativa di potere da
proporre concretamente ai francesi,
perché possano finalmente scegliere
tra un sostanziale, anche se più o
meno mascherato, ritorno al pre¬
gollismo, e una presunta continuità
gollista, ma senza più de Gaulle;
se non vorranno tentare invece nuo¬
ve vie che, rompendo con le con¬
traddizioni del passato, siano dav¬
vero un ponte aperto sull’avvenire.
LUCIANO BOLIS
lEHERA DAU'AMERICA
Birmingham e la Luna
^ENTIDUE giri intorno al mondo:
in maggio nessun avvenimento
nazionale o intemazionale ha assorbi¬
to l’attenzione del pubblico america¬
no più del volo del maggiore Cooper.
Sono passati al secondo posto i pro¬
blemi razziali del sud e quelli econo¬
mici del nord; almeno per un po’
di tempo, sono passate pure al se¬
condo posto le preoccupazioni che
destano fidelismo, maoismo, nasse-
rismo e gollismo. L’entusiasmo che
ha accompagnato il successo del volo
è stato sincero, generale e rumoroso.
Sono stati fatti confronti, favorevoli
è naturale per gli americani, con le
in^rese spaziali sovietiche, e si è
di fiusa la convinzione che gli Stati
Uniti hanno guadagnato parte del
terreno perduto in seguito alla deci¬
sione del Congresso dieci anni fa di
di MAX SALVADORl
ridurre i crediti necessari alle ricer¬
che ed alle esperienze spaziali. Molti
già sono convinti che gli americani
potranno essere i primi ad arrivare
alla luna: quando? gli esperti par¬
lano del 1968. La prima fase degli
esperimenti — il progetto Mercu¬
rio — è terminata, o sta terminando,
con successo. Poi nel 1964-65 vi sarà
la seconda fase — il progetto Ge¬
mini: due astronauti potranno pren¬
der posto nel bolide che sarà più
grande di quelli usati fino ad ora e
dovrà esser lanciato nello spazio da
razzi più potenti. Poi vi sarà la terza
fase — il progetto Apollo: quando
piedi umani toccheranno il suolo lu¬
nare saranno trascorse dieci o dodici
generazioni dall’epoca in cui con i
trattati di Bacone, Galilei e Descar¬
tes sul « metodo », ebbero inizio il
razionalismo moderno e lo sviluppo
del pensiero scientifico.
Vi è naturalmente il problema del
costo dell’impresa: dai 20 ai 40 mi¬
liardi di dollari, dicono gli esperti;
questo vuol dire con tutta probabi¬
lità una spesa superiore ai 50 mi¬
liardi. Quanti si preoccupano del pa¬
reggiamento del bilancio, della ridu¬
zione del debito nazionale, della so¬
lidità del dollaro — e sono mi¬
lioni — brontolano: può darsi che,
come avvenne dieci anni fa, la pru¬
denza — se prudenza si può chia¬
mare — trionfi; in quel caso i so¬
vietici troveranno il campo libero e
non avranno difficoltà ad essere i pri¬
mi sulla luna. D’altra parte, obbiet¬
tivamente, la preoccupazione econo¬
mica di molti è eccessiva: anche se
l’economia americana continua a svi¬
so
Wparsi a ritmo relativamente mo-
apto come è avvenuto durante gli
ultimi anni, e per quanto male pos¬
sano andare le cose, il reddito nazio¬
nale americano raggiungerà, o supe¬
rerà, nel 1968 i 700 miliardi di dol¬
lari, somma più che sufficiente per
assicurare il successo del progetto
Apollo senza pesare eccessivamente
sul pubblico. La corsa alla luna non
® più ormai un problema che deb¬
bano risolvere scienziati ed inge¬
gneri, è sempbcemente questione di
denaro.
ptJR NON volendoci pensare, Bir¬
mingham è stata presente per tut¬
to il mese di maggio nella mente se
non altro della minoranza di citta¬
dini americani i quali sinceramente
SI preoccupano deU’avvenire della
demcxrazia negli Stati Uniti; e con
Birmingham sono state presenti de¬
cine di altre località del sud, ed an¬
che parecchie località del nord dove
SI sono avute manifestazioni di bigot¬
tismo razzista. (Questo è avvenuto
in particolare nei grandi centri indu¬
striali dove è forte l’ala che potrebbe
essere descritta come democristiana
del Partito Democratico — da Bo-
?ton a Chicago: i discendenti di
irlandesi, polacchi, italiani, franco¬
canadesi, ecc., oggi « arrivati » so¬
cialmente, cioè economicamente e
politicamente, non vogliono ricono-
^ere alle comunità di gente di co¬
lore quell’uguaglianza che essi stessi
reclamavano non molto tempo fa nei
confronti degli yankees, e che hanno
ottenuto). E’ bene ricordare che gli
btati Uniti non hanno il monopolio
delle discriminazioni anche se se ne
parla e se ne scrive di più che in
•fualsiasi altro paese; che in Stati
3 partito unico collettivisti e non col-
jttivisti sono oppresse, a volte fino
All’estinzione, comunità razziali, na¬
zionali, religiose ed altre; che a fa¬
vore degli Stati Uniti è una Costi-
tuzione che dà ai cittadini la possi¬
bilità di agire per eliminare, o al-
•neno per alleviare, ingiustizie.
Quello che preoccupa gli amici
degli Stati Uniti è l’atteggiivmento
della maggioranza della popolazione
la quale evidentemente è inoilferente
® contraria ai princìpi sui quali la
istituzione è fondata. Sta al potere
giudiziario in particolare il far ri¬
spettare la Costituzione, ma non ba¬
stano le decisioni dei giudici i quali,
^pra tutto dal 1954 in poi, hanno
ratto il possibile per eliminare la
discriminazione razziale nel settore
delle attività pubbliche. Per raggiun¬
gere l’uguaglianza nella libertà oc¬
corre che vi siano larghi settori del
pubblico animati sia dal senso della
libertà che da quello dell’uguaglian¬
za: è chiaro che questi settori non
sono sufficientemente larghi per assi¬
curare il successo di una politica
antidiscriminatoria. E’ anche chiaro
che nei confronti di una popolazione
che aumenta rapidamente, questi
settori diminuiscono come percen¬
tuale numerica e come influenza cul¬
turale e perciò anche politica. Elimi¬
nata in un punto, la discriminazione
riappare altrove, spesso più vigorosa.
Le decisioni della Gjrte suprema
e degli altri tribunali federali
trovano l’ostacolo di un muro
fatto di pregiudizi, di luoghi
comuni assurdi, di timori scioc¬
chi, di miopia nei riguardi di
interessi economici. Invece di essere
smantellato, il muro diventa più
spesso e più alto; a rafforzarlo in¬
terviene l’elemento nuovo in rapida
diffusione del razzismo negro —
spiegabile e giustificabile ma ugual¬
mente nocivo alla causa della paci¬
fica coesistenza di razze diverse. Vie¬
ne da domandarsi se forse non è
già tropjx) tardi per raggiungere lo
scopo al quale miravano i progres¬
sisti bianchi convinti che la solu¬
zione al problema razziale era l’in¬
tegrazione dei negri nella cultura
americana: aumenta, sopra tutto fra
i giovani, il numero di negri colti
i quali non vogliono diventare ame¬
ricani ma vogliono la creazione di
una nazione negra separata da quella
bianca degli Stati Uniti.
gONO PASSATI i tempi quando
pochi americani, relativamente, si
interessavano al commercio con l’e¬
stero: Tanno scorso le esportazioni
hanno superato i 20 miliardi di dolla¬
ri e le importazioni i 16 miliardi. Co¬
me percentuale del reddito nazionale,
il commercio con l’estero degli Stati
Uniti resta inferiore a quello di
molte nazioni europee, ma come to¬
tale rappresenta una cifra enorme,
ed è un elemento di prim’ordine nel
benessere della nazione americana.
Non è da sorprendersi perciò se
molti si sono interessati a quello che
avveniva alla recente riunione del
GATT a Ginevra, dove era in di¬
scussione la riduzione delle tariffe
doganali. L’anno scorso il Congresso
aveva autorizzato il Presidente a
concludere accordi commerciali con
altri stati sulla base di concessioni
reciproche che avrebbero avuto co¬
me , risultato T intensificarsi degli
scambi. Grande fu la costernazione
della delegazione americana quando
i membri più influenti della riu¬
nione respinsero la proposta fatta
da Herter di una riduzione generale
delle tariffe: le autorità di Washing¬
ton non avevano preso in conside¬
razione il fatto che quello che sem¬
brava generoso da una parte del¬
l’Atlantico, diventava oneroso dal¬
l’altra parte. Un quinto delle tariffe
americane infliggono alle merci im¬
portate una dazio che supera il 30
per cento del valore; per l’Europa
considerata complessivamente solo
l’un per cento delle tariffe raggiun¬
ge un tasso così elevato. La situa¬
zione non cambia: da un secolo e
mezzo gli americani parlano della
necessità di una liberalizzazione del
commercio mondiale; però continua¬
no ad avere un protezionismo supe¬
riore a quello degli altri stati, nè
hanno intenzione di modificarlo ra¬
dicalmente.
MAX SALVADORI
LA PAROLA DEL POPOLO
Rivista di politica e cultura in lingua italiana fondata nel 1908
Direttore: EGIDIO CLEMENTE
Direttore per Tltalia: Vincenzo Terranova
Respoiiaahile della parte letteraria: Nino Caradonna
Redazione: 627 West Lake Street, Chicago, Illinois
Redazione per Tltalia: Largo Lilierotti 18, C.P. 13, Terni
Abbonamenti annuali per Tltalia: ordinario L. 2000, soste¬
nitore L, 5000, Bost. onorario L. 10.000. Un numero L. 300
_l
21
lA NATO DOPO OTTAWA
I mìssili inutili dell’Europa
di ALDO GIOBBIO
T A SERA del 20 maggio l’amba¬
sciatore sovietico Dobrinin ha
consegnato al Dipartimento di Sta¬
to americano una nota contenente
la proposta di fare del Mediterraneo
una zona di disarmo atomico. Poi¬
ché la nota arrivava alla vigilia
della sessione di primavera del con¬
siglio dei ministri dell’Alleanza
atlantica (Ottawa, 22-24 maggio),
il cui tema era la discussione della
proposta americana dì una forza
atomica multilaterale (o, nella for¬
ma inglese, attenuata, della propo¬
sta — che si è visto essere poi
la sola con un minimo di proba¬
bilità di essere accettata dagli altri
— multinazionale), e poiché la
consistenza concreta della forza mul¬
tilaterale (o multinazionale) è data
dai tre sommergibili Polaris che, in
una forma o nell’altra, il governo
americano è ben deciso a tenere
nel Mediterraneo, il passo sovie¬
tico è stato subito bollato a fuoco
dal Corriere della Sera c dagli
altri giornali di stretta osser¬
vanza atlantica come il solito ten¬
tativo dei diabolici cervelli orien¬
tali di spargere la confusione e il
dubbio nella compagine occidenta¬
le, in un momento particolarmente
delicato della sua esistenza.
Monopolio atomico
Occorre dire, a scanso di equi¬
voci, che nemmeno il Corriere del¬
la Sera è particolarmente entusiasta
della forza multinazionale, giudican¬
dola esso, come effettivamente è,
un espediente neanche poi tanto ben
mascherato per indurre i paesi del¬
l’Europa occidentale a rinunciare al¬
le loro piuttosto ipotetiche forces
de frappe e a lasciare in aeternum
il controllo dell’arma atomica in
mano degli americani. Il timore del
Corriere è, tuttavia, che gli ame¬
ricani possano servirsi del loro mo¬
nopolio atomico per non farne uso
nel caso di un attacco sovietico li¬
mitato alla sola Europa: ossia, in
fondo, ciò che esso teme è che la
cosiddetta forza multinazionale si
traduca di fatto nel disarmo atomi¬
co del Mediterraneo, e non, come
si potrebbe credere, che essa au¬
menti le concrete possibilità di
guerra atomica nel Mediterraneo
stesso.
Vi sono attualmente alcune ra¬
gioni per ritenere che la posizione
del Corriere della Sera (conforme¬
mente, del resto, alla tradizione dei
benpensanti italiani di essere sem¬
pre più realisti del re) sia sensi¬
bilmente più oltranzista della stessa
dottrina ufficiale della NATO. L’i¬
dea di fare dell’Europa, o di una
parte di essa, una zona di disarmo
atomico ha fatto molta strada dal¬
l’ottobre 1957, quando il piano
Rapacki (che rimane tuttora la più
completa formulazione in materia)
urtò contro la più assoluta incom¬
prensione da parte degli occiden¬
tali. Il 3 marzo 1961 Paul-Henri
Spaak si dimise da segretario ge¬
nerale della NATO in seguito ad un
contrasto con la amministrazione
americana: Spaak sosteneva allora
la necessità di fornire all’Alleanza
atlantica un deterrente autonomo,
ossia dipendente dagli organi di¬
rettivi dell’Alleanza stessa, e non
dalla sola volontà dell’amministra¬
zione americana. Oggi la dottrina
ufficiale dell’amministrazione ame¬
ricana è molto più vicina alle
posizioni di Spaak di due anni
fa che non alle proprie di allora.
Spaak sosteneva allora che il deter¬
rente NATO fosse l’unico mezzo
per impedire la proliferazione degli
armamenti atomici nazionali; l’am¬
ministrazione americana offre oggi
una soluzione analoga, per impe¬
dire il fenomeno temuto e denun¬
ciato due anni fa da Spaak, c in
particolare la costituzione di ione
atomiche nazionali francesi e tede¬
sche. Ma lo stesso Spaak, in questi
due anni, ha compiuto un altro pas¬
so avanti, e, mentre i benpensanti
tipo Corriere della Sera arrivano
oggi al concetto di deterrente atlan¬
tico, il cui impiego dovrebbe esse¬
re deciso a maggioranza dai mem¬
bri dell’Alleanza, e non dai soli
Stati Uniti, il ministro degli Esteri
belga, in un’intervista alle Isveslia,
si dichiara favorevole alla creazione
di una zona di disarmo atomico in
Europa, e accetta la proposta ame¬
ricana di forza multilaterale proprio
per il motivo per il quale il Cor¬
riere della Sera la rifauta: perché
” essa sarebbe un pegno del fatto
che i paesi che vi partecipano non
avrebbero armamenti nucleari a lo¬
ro disposizione ”. Al di là della sua
dottrina ufficiale del 1961 e di ^nel¬
la ufficiale americana di oggi, 1°
Spaak del 1963 raggiunge Varrière-
pensée americana di oggi: che le
bombe atomiche sono una cosa trop¬
po grande per l’Europa.
PropoHta laburista
Contemporaneamente, i laburisti
britannici, un partito che ha ottime
probabilità di essere in un futuro
imminente il partito di governo del
più importante dopo gli Stati
Uniti fra i paesi occidentali (c.
non dimentichiamolo, l’unico, oltre
gli Stati Uniti, che bene o male di¬
sponga di una forza ” H ” propria,
anche se resa monca dalla mancanza
di un veicolo adatto), dichiarano
apertamente nel loro programma la
loro intenzione di fare della Gran
Bretagna la promotrice di un club
non-atomico, e Herman Kahn, il
più coerente fra i teorici della for¬
za d’urto, afferma che la proposta
laburista é ” di speciale interesse.
U
cd è un peccato che non sia stata
!” P*” considerazione ”.
opinione di Kahn è che l’apporto
delle forze armate europee alla di-
tesa degli Stati Uniti sia quasi tra¬
scurabile, e che, per la stessa sicu¬
rezza degli Stati Uniti, sarebbe più
utile poter contare sulle maggiori
possibilità di azione diplomatica che
deriverebbero a dei paesi amici dal
di essere liberi da impegni
militari rigidi.
Due fatti hanno contribuito a
spingere l’amministrazione america¬
na, in questi ultimi due anni, sulla
via di una completa revisione della
tradizionale strategia americana. Il
primo è l’atteggiamento di de Gaul-
m. Tutto lo sforzo dell’amministra¬
zione Kennedy, in questi due anni,
e m particolare del Segretario di
Stato alla Difesa, McNamara, si è
concentrato su due obbiettivi: 1 )
dare agli Stati Uniti i mezzi per
una serie di azioni graduali, senza
dover necessariamente arrivare, ad
ugni aumento della tensione mon¬
diale, alla minaccia del finimondo
atomico; 2) subordinare l’eventuale
uso delle armi capaci di suscitare
mie finimondo alla capacità di de¬
cisione dell’uomo in cui si accen-
fra la massima responsabilità, ossia
il presidente degli Stati Uniti, eli¬
minando tutti quei centri di deci¬
sione collaterali che pullulavano sot¬
to l’amministrazione Eisenhower e
che moltiplicavano per cento e per
mille il pericolo della ” guerra per
caso Per quello che ne sappia¬
mo, questi obbiettivi sono stati in
larga misura raggiunti. E’ quindi
ovvio che il presidente americano
sia totalmente contrario ai progetti
di de Gaulle, la cui realizzazione
metterebbe in scacco il lavoro fatto
sino a questo momento dall’am¬
ministrazione Kennedy; 1 ) perché,
conformemente a quella che è stata
in tutto il dopoguerra la dottrina
dei teorici francesi (Gallois, Char-
pentier), le armi atomiche sareb¬
bero per la Francia non la suprema
risorsa da usare all’ultimo momento,
quando ogni possibilità di fronteg¬
giare il nemico con le armi conven¬
zionali fosse venuta meno (quale
è oggi la dottrina McNamara), ma
l’opportuna integrazione all’arma¬
mento convenzionale, che sola met¬
terebbe l’esercito convenzionale
francese in grado di resistere al¬
l’attacco di un nemico (nella fat¬
tispecie rURSS), la cui superiorità
nel campo convenzionale si dà per
scontata. Questo significa che, men¬
tre gli Stati Uniti affermano che
userebbero le proprie armi nuclea¬
ri solo se il nemico per primo por¬
tasse la guerra su questo piano, la
Francia le userebbe sempre e co¬
munque, perché il suo esercito o
sarebbe un esercito atomico, o non
sarebbe nulla; 2) la proliferazione
dell’armamento nucleare riprodur¬
rebbe la situazione dei molteplici
centri di decisione, che Kennedy
si è sforzato fin qui di eliminare.
Se la politica di de Gaulle, con
le conseguenze che essa comporta,
agisce in modo da obbligare l’am¬
ministrazione americana a prendere
posizione contro il diffondersi del¬
l’armamento nucleare, essa da sola
non basterebbe a far accettare agli
americani l’idea di un disarmo ato¬
mico dell’Europa, inteso non solo
nel senso che le nazioni europee
non debbano avere un armamento
proprio, ma anche in quello che
non debbano esserci in Europa basi
atomiche americane. Ma un secondo
fatto, accompagnato da un certo
ordine di considerazioni, potrebbe
indurli ad accettare anche questa
ipotesi.
Gli ultimi anni dell’amministra¬
zione Eisenhower sono trascorsi nel¬
la psicosi del missile gap. Ai primi
del 1959, l’allora sottosegretario di
Stato alla Difesa, McElroy, dichiarò
che nel 1961 l’URSS avrebbe avu¬
to un vantaggio di 3 a 1 in missili
intercontinentali (ICBM), ossia che
si sarebbe trovata a disporre di 600
missili. Supponendo una testa di
guerra di 5 megaton e un margine
di errore dello 0,1 per cento, questi
600 missili sarebbero stati in grado
di distruggere almeno cento ber¬
sagli situati sul suolo americano,
ossia di cancellare quasi tutto il di¬
spositivo dello Strategie Air Com-
mand, sul quale allora si basava la
forza d’urto americana (poiché non
bisogna dimenticare che ancora nel
febbraio 1960 tutta la forza mis¬
silistica intercontinentale americana
consisteva in un solo missile Atlas,
a combustibile liquido). Secondo
(da Trance Observateur)
23
dati attendibili (gli ultimi forniti
da un’isiiiuzione ortodossamente oc¬
cidentale quale YhtstUut for Stra~
Uve Silici ies), risulterebbe che
! èJR'iS disponeva alla fine del 1961.
ii; 5U ICBM, alla fine del 1962 di
T'.'J e che nel corso di quest’anno
nc stia costruendo altri 25. Nel
frattempo gli americani hanno co¬
struito più di 200 ICBM del tipo
Miiiuteman (a combustibile solido),
e hanno messo in cantiere un pro¬
gramma che, contro i 600 Minute-
tnen previsti ai primi del 1961 per
la fine del 1964, ne lascia prevedere,
dato il ritmo di produzione di più
di un missile al giorno, circa 1.200
entro la stessa data, per ra^iungere
infine entro il 1967 la cifra vera¬
mente impressionante di 2.000 mis¬
sili intercontinentali. Ciononostante,
convinti di un’inferiorità inesisten¬
te nel campo degli ICBM, essi han¬
no riempito l’Europa di missili di
media gittata (IRBM), con lo ko-
po dichiarato di sopperire con l’av¬
vicinamento delle basi all’obbietti-
vo alla minore gittata dei missili
in questione, e quindi poter uti¬
lizzare anch’essi per colmare il sup¬
posto missile gap. Questi missili so¬
no oggi 250, e contro di essi stan¬
no puntati 700 IRBM russi.
La dottrina della NATO
Che cosa significano queste ci¬
fre? Significano, innanzi tutto, che
rURSS non ha nessuna inteiizione
di attaccare p>er prima gli Stati Uni¬
ti. La dottrina ufficiale della NATO
è stata in questi anni quella che
l’URSS avrebbe cercato di distrug¬
gere con un solo colpo di sorpresa
il dispositivo atomico americano,
per poi continuare la guerra con
le armi convenzionali, sfruttando la
sua superiorità in questo campo per
invadere l’Europa occidentale una
volta che gli Stati Uniti non sareb¬
bero più stati in grado di difender¬
la. Questa dottrina si è rivelata
palesamente errata. Nessun dirigen¬
te russo può essere così pazzo da
pensare di poter distruggere tutte
le basi missilistiche americane con
soli 75 o 100 ICBM, e, quanto ai
700 IRBM, essi non possono rag¬
giungere il continente americano.
Pertanto, se i russi attaccassero per
primi, agli americani resterebbero
intatte abbastanza rampe di lancio
da infliggere ai russi una ritorsione
tale da rendere l'operazione pazze¬
sca. D’altra parte, poiché è comu¬
nemente ammesso che il vantaggio
iniziale e l’alto livello tecnologico
deirURSS le avreb’oero permesso di
munirsi di una forza d’urto dieci
volte superiore, ne consegue che,
se i russi non se la sono procurata,
è perché non l’hanno voluta. Inol¬
tre, 75 o 100 missili, puntati non
sulle rampe, ma sulle principali cit¬
tà americane, possono produrre un
numero tale di morti (valutabile
tra i 50 e i 100 milioni) da sco¬
raggiare qualsiasi aggressione. Na¬
turalmente, perché questo sia pos¬
sibile, occorre che le basi siano tali
da resistere ad un eventuale primo
attacco del nemico. Ma questo non
è un grosso problema, perché i
russi contano, oltre che su quegli
accorgimenti di protezione e di mo¬
bilità che sono adottati anche da¬
gli americani per le proprie basi,
su un’estrema segretezza circa la lo¬
ro ubicazione (sia detto per inciso,
è proprio il fatto che la segretezza
sia un elemento così essenziale alla
loro sicurezza che rende i russi così
restii ad accettare, a qualunque ti¬
tolo, ispezioni sul loro territorio).
La stessa ripresa degli esperimen¬
ti nucleari nel settembre 1961 è
una riprova del carattere sostanzial¬
mente difensivo della strategia nu¬
cleare sovietica, giacché è chiaro
che, disponendo i sovietici di rela¬
tivamente pochi missili, ma, in com¬
penso, di un materiale qualitativa¬
mente eccellente, sia come precisio¬
ne che come potenza (come dimo¬
strano i risultati spettacolari otte¬
nuti nel lancio dei satelliti artifi¬
ciali), il modo più economico di
sfruttare questa superiorità quali¬
tativa è quello di caricare ogni mis¬
sile con una grossa bomba (magari
da 50 megaton), e non con una
piccola, come sarebbe il caso se si
disponesse di un numero elevato
di missili relativamente imprecisi e
destinati a colpire un bersaglio re¬
lativamente piccolo, come può esse¬
re una base missilistica, e non un
bersaglio molto grande, quale può
essere una grossa città.
Se le cose stanno in questi ter¬
mini, e se si ammette anche che
gli americani non vogliano attac¬
care per primi, sfruttando la loro
superiorità numerica per tentare di
colpire tutte in una volta le basi
missilistiche sovietiche, in modo da
privare il nemico della sua forza
di ritorsione (impresa che appare
disperata, anche disponendo di 2
mila missili), resta da dom^darsi
che cosa impedisca agli Stati Umti
di ritirare dall’Europa le basi IRBM,
evidentemente superflue. Il
dei missili Jupiter dalle basi ita¬
liane e turche, in effetti, è stato
evidentemente causato dal sempli¬
ce fatto che tali missili, e di conse¬
guenza tali basi, erano ormai supe¬
rati tecnicamente. E’ estremamen¬
te probabile che nel giro di un
anno o due tutte le basi missili¬
stiche di terra in Europa debbano
seguire la stessa sorte, e non è del
tutto improbabile che in una data
successiva, probabilmente localizza¬
bile intorno al 1967, anche i Eo-
laris possano essere ritirati.
Un passo auspicabile
Tuttavia, sarebbe altamente au¬
spicabile che gli americani non
aspettassero ancora quattro anni *
mettere in atto un’operazione del
genere, ma comprendessero l’oppor¬
tunità politica di un’azione imme¬
diata. Con la sproporzione attuale
fra il ” deterrente minimo ” dei rus¬
si e r« arma totale » che gli ame¬
ricani sembrano voler ancora per¬
seguire, anche un solo Polaris nel
Mediterraneo è chiaramente provo¬
catorio: poiché esso non è essen¬
ziale alla difesa del suolo america¬
no, è difficile per chi si trova dal¬
l’altra parte non pensare che il suo
scopK) sia quello di attaccare.
Nel 1959, quando gli americani
erano convinti che i russi godes¬
sero di un’immensa superiorità nei
loro riguardi nel campo degli ICBM,
essi erano altrettanto convinti che
i russi si fossero poco curati di
costituirsi una forza di IRBM. I
700 missili intermedi oggi puntati
sull’Europa occidentale sono quin¬
di, con ogni evidenza, una contro¬
forza, la cui costituzione è stata
dettata dall’installazione degli IRBM
americani in Europa, e che il ri¬
tiro di questi ultimi renderebbe a
sua volta inutile.
Nel difficile negoziato per il di¬
sarmo, il ritiro delle basi missilisti-
che americane dall’Europa, Polaris
compresi, sarebbe al tempo stesso
per gli americani il passo meno co¬
stoso e quello maggiormente suscet¬
tibile di benefiche ripercussioni psi¬
cologiche.
ALDO CIOBBIO
I baroni del cemento (III)
I feudi dell’ingegner Pesenti
Sarebbe assurdo che la politica di un maggiore intervento del¬
lo Stato per realizzare uno sviluppo economico più equilibrato,
propugnata dalla sinistra, consentisse all’ing. Pesenti ed agli
altri Grandi Baroni del cemento di moltiplicare, nei prossimi
anni, con i sopraprofitti di monopolio, i loro patrimoni ancor
più rapidamente che nell’ultimo decennio.
di ERNESTO ROSSI
^ELL’ULTIMO punto della ” nota industriale ”,
pubblicata sui giornali del 12 aprile, alla quale
nti sono riferito nei miei due precedenti articoli, i
Grandi Baroni affermano che ” l’incidenza del cemento
sul costo globale di una costruzione popolare è, in
inedia, del 2%; per le opere publiche varia tra il 5
e il 6% una riduzione del suo prezzo non po-
|rebbe, quindi, modificare in misura apprezzabile né
il costo delle case popolari, né il costo delle opere
pubbliche.
Il somaro e il contadino
Nessuno può prendere sul serio queste percen¬
tuali, calcolate su statistiche fasulle, senza tener con¬
to delle ripercussioni ” a cascata ” che le differenze
snche minime nei prezzi delle materie prime possono
avere sul costo del prodotto finito. Ma anche se le
volessimo prendere per buone non potremmo accet¬
tare il ragionamento che i Grandi Baroni basano su
Queste percentuali per affermare la innocuità del
caro-cemento.
In polemica con Giacinto Motta, consigliere de¬
legato della Edison, su La Riforma Sociale del set¬
tembre-ottobre 1934, Luigi Einaudi ricordò che il
OTedesimo argomento "era usato dagli elettrici per
dimostrare che centesimo più, centesimo meno, non
francava la spesa ai consumatori di far baccano per
Pwhe lire o poche diecine di lire l’anno; dai ri-
saiuoli per chiarire che non tornava conto strillare
^ la minestra costava cinque centesimi di più a te¬
sta, se il riso veniva fatto salire da 30 a 60 lire per
quintale; dai granicultori per persuadere che le 20
lire di più per quintale, bastevoli per rendere remu
perativa la coltivazione del frumento, si traducevano
jn miseri venti centesimi per chilogrammo, pagati
in più per U pane
" E’ l’argomento principe — osservava Einaudi
di tutti gli industriali i quali chieggono la prote¬
zione doganale e fanno il conto che, alla perfine, a
proteggere con dazi del cento per cento sul prezzo
oll’ingrosso della siderurgia, il fitto della casa per l’in¬
quilino aumenta in proporzioni praticamente non av¬
vertibili
Nessuna persona di buon senso poteva essere
convinta da questi argomenti.
” Tutto, nella catena economica, comincia dal
guadagno o dalla minor perdita di diecine e diecine
di milioni per il produttore e finisce in soldi e in
centesimi per il consumatore
Il consumatore non organizzato, che non fa bac¬
cano o non riesce a farsi ascoltare dai governanti,
non si può rivalere su altri dei centesimi di maggiori
spese che gli cascano addosso, e ” fa la figura di quel
somaro sul cui groppone il contadino aveva caricato
un quintale di frumento, e vedendolo ritto sulle
gambe pensò; ben potrei caricarlo ancora del peso
di una emina, e poi di una coppa, ed ancora di un
cucchiaio; e vedendolo sempre ritto, andò caricando,
l’un dopo l’altro, cucchiai e cucchiai, sicché ad un
certo punto, al chicco marginale, il somaro stramaz¬
zò a terra, né volle o potè più rialzarsi ”.
Troppi colleghi aveva l’ing. Motta — osservava
Einaudi — pronti a fare il suo stesso calcolo dell’in¬
cidenza perché il somaro non cadesse a terra.
Mille volte abbiamo sentito ripetere gli stessi
pseudo ragionamenti dai successori dell’ing Motta
alla direzione della Edison, prima che l’industria
elettrica venisse nazionalizzata; ed ancora oggi li sen¬
tiamo continuamente ripetere dai loro colleghi delle
industrie parassitarie. Né può esserci di alcun con¬
forto il sapere che, più di duemila anni fa, questa
forma di argomentazione era conosciuta dai sofisti
greci e che è stata poi chiamata ” sorite ” in tutti i
trattati elementari di logica formale.
Erba trastulla
La lettura dei bilanci e delle relazioni alle assem¬
blee annuali degli azionisti delle tre maggiori società
che dominano il mercato nazionale del cemento —
Italcementi, ” Unione Cementi Marchino ” e ” Calce
e Cementi di Segni ” — non ci può dare alcun aiuto
per riconoscere quali sono stati i loro effettivi pro¬
fitti durante gli ultimi dieci anni.
2S
Se così non fosse, l’ing Carlo Pesenti non po¬
trebbe continuare a denunciare allegramente al Fisco
— che basa i suoi accertamenti su siffatti bilanci —
30 soli milioncini di reddito annuo; mentre, anche
a lume di naso, chi possiede un patrimonio mobiliare
qual è quello del Grande Barone del cemento ed ha
la sua posizione nel mondo degli affari non può ” va¬
lere ” — come dicono gli americani — meno di
un miliardo l’anno (1).
Il conto economico della Italcementi per il 1962
segna quattro sole cifre dalla parte dei ” profitti ” e
quattro dalla parte delle ” spese invece del fattu¬
rato, porta (in 43 miliardi e 981 milioni) il ” ricavo
vendita prodotti e diversi E’ questa la cifra del
ricavo lordo complessivo od è una cifra già depurata
da qualche titolo di spesa? Che cosa significala pa¬
rola ” diversi ”? Se nei ” diversi ” sono compresi,
come credo, i redditi dei titoli, perché non vengono
tenuti separati dalla vendita dei prodotti?
Il conto economico porta al passivo, in una sola
voce, 28 miliardi e 69 milioni per ” costo di produ¬
zione E’ evidente che in cifre tanto grandi, corri¬
spondenti a voci così generiche, è possibile nascon¬
dere tutto quello che si vuole. La stessa osservazio¬
ne va fatta per le cifre segnate nel bilancio patri¬
moniale che porta all’attivo, senza alcuna specifica¬
zione: 73 miliardi e 679 milioni di ” impianti e mac¬
chine 16 miliardi e 722 milioni di "partecipazio¬
ni ’’; 4 miliardi e 45 milioni di ’’ titoli di credito a
reddito fisso”; 9 miliardi e 135 milioni di "crediti
verso banche ”; 7 miliardi e 978 milioni di ” crediti
verso società collegate” (alla quale ultima cifra so¬
no contrapposti, al passivo, soltanto 13 milioni per
"debiti verso le stesse società”).
Collegamenti eoi Valicano
La relazione del consiglio di amministrazione è
di dieci pagine, con larghissimi margini, dedicate
per un terzo alla commemorazione del presidente
defunto, al progresso dell’economia italiana, allo svi¬
luppo dell’industria del cemento, all’aumento della
produzione e del consumo nei diversi paesi del MEC,
alla incidenza dei costi dei principali materiali da
costruzione sul valore complessivo degli alloggi, e
ad altre notizie del medesimo genere, che si possono
leggere anche nei bollettini di statistica e nelle pub¬
blicazioni delle organizzazioni di categoria. Sole tre
pagine sono dedicate ad illustrare il bilancio; in esse
sono esposte, per le diverse voci, le differenze risul¬
tanti in confronto all’esercizio precedente, che chiun¬
que sappia fare la sottrazione potrebbe calcolare per
proprio conto (2).
Come si può consentire che continuino a pub¬
blicare situazioni contabili così ermetiche e relazioni
piene di chiacchiere senza costrutto anche società quo¬
tate in Borsa, che producono beni di prima neces¬
sità (qual è il cemento) con un giro di affari per pa¬
recchie diecine di miliardi ogni anno? (3).
Per capire quale pericoloso centro di potere eco¬
nomico (e quindi di potere politico) è la Italce-
menti nel nostro Paese bisognerebbe conoscere i suoi
collegamenti con le altre società industriali e con le
società finanziarie e bancarie, italiane e straniere.
Ma il nostro anacronistico ordinamento giuridico
delle società per azioni non consente alcuna fruttuo¬
sa indagine di questo genere neanche agli uffici
studi delle maggiori banche. Per mio conto non sono
riuscito a sapere neppure quali partecipazioni 1 mg
Pesenti ha, in proprio o attraverso le società da lui
controllate, negli istituti di credito (Banca Provin¬
ciale Lombarda, Piccolo Credito Bergamasco, Credi¬
to Commerciale, Istituto Bancario di Roma, ecc.) e
nelle società assicuratrici e finanziarie (Bastogi, Ital
mobiliare, Fincomind, SOFIS, Fidia, RAS, Sodete
Anonime International de Financement di Basilea,
(1) Ling. Carlo Pesenti. oltre ad essere
gaio della Italcementi, (società con un capitale di 32 ”",'‘"“1,
della quale possiede in proprio, o attraverso i t^ig‘*“ :
il maggiore pacchetto azionario) è anche „ato
e? nella finanza italiana - 1962 -.amministratore delegato
delle società: Italmobillare (cap. IO miliardi). Cernente
di Sardegna (2 miliardi). Cementerie delle Puglie (1 mi
nardo e mezzo). Cementerie Siciliane (1
SACELIT - Manufatti cemento (500 milioni), Cementer
Apuane (360 milioni), Cementi Portland C*®® .milmhU- “Jf.
liana SACELIT (200 milioni) Calci Idrate d Ital^ J,?flojd),
noni); presidente delle società: Nitro Cellulosa (6W milioni).
Cementeria di Livorno (440 milioni). Industria Meridional
Imballaggi (300 milioni). Onicine Trasformatori Elettr ci 122
milioni). Soterna (100 milioni); '■iceprcsidente delle so
cietà: Lancia Fabbrica Automobili (6 miliardi). Union
Adriatica di Sicurtà (4 miliardi e 320 milioni). Ferr<w_
Valle Seriana (241 milioni). Ferrovie Elettriche di Valle Brem
bana (16 milioni), ISMES (50 milioni); c"n«‘gl‘ere delle s‘
cietà: Edisonvolta (140 miliardi). Strade Ferrate Mcridionaj
(45 miliardi). Orobia (21 miliardi) Generale Immobiliare a
Lavori di Utilità Pubblica e Agricola '20 miliardi). 1I^P_
(20 miliardi). Acciaierie e Ferriere Lombarde '*0 ,, ,
nardi). Cartiere Burgo (10 miliardi e mezzo), EflbaMa
Ente Finanziario Interbancario (5 miliardi). Franco _
miliardi e mezzo). Banca Provinciale Lombarda 1 m“'‘",
do) Credito Commerciale (1 miliardo). Italconsult (I n“
nardo e mezzo). Philco Italiana (625 ,milion ). B.»cosarda
(300 milioni). SAITI - Industrie Tessili ^Italiane 3M mi
noni), I.R.Mo . Impresa Ricostruzioni Montane t^3(W mi
lioni). Trasporti Meccanizzati (131 milioni). Azienda N
zinnale Consumatori Carboni Industriali (50 milioni).
Ho confrontato la precedente edizione del Chi è? ne' “
finanza italiana. L'ing, Pesenti ha conservato tutte le cariente
del 1959. e ne ha aggiunte cinque di nuove. Anche per rlco
dare solo il nome di tutte le società nelle quali è consigliere
delegato, presidente, vice presidente o consigliere. 1 ingegn
Pesenti deve avere la memoria di Pico della Mirarmola.
(2) Tra le scarsissime spiegazioni, si trova quella ,
minore consistenza, rispetto al 1961. di 3 miliardi e M m**i
della voce « partecipazioni •* va attribuita principalnaen
alla sottoscrizione per la quota a pagamento delPaumento m
capitale della nostra controllata • Italmobillare » . Che cosa
vuol dire a principalmente..? La contabilità si fa con 1 n
meri, non con gli aggettivi e gli avverbi. Analogamenu..
nella relazione sul bilancio del 1961. la minore consistenza
di 202 milioni delle «partecipazioni-, rispetto all cs^cizn
precedente, era attribuita * in prevalenza » al t^rasferimenio
delle azioni Flncominder alla associata Italmobillare.
L'ultima relarione sull'esercizio 1961-62, prMcntata
25 maggio scorso all'assemblea degli azionisti dell Italmooi-
llare (cap. 10 miliardi, portato poi a 15 miliardi)
una pagina e mezza, con grandissimi margini
non dà nessuna spiegazione delle cifre portate in bilancio-
I - titoli azionari e diversi (?) - sono segnati nel conto pair -
moniale al 31 marzo 1962 nella cifra complessiva di 1 » mi¬
liardi e 898 milioni (valutazione che — secondo quanto e
scritto nella relazione dell'esercizio precedente -- e®':;,*:
sponde ai prezzi di acquisto). Il conto economico dà. nena
parte profitti, solo 1 miliardo e 583 milioni di «dividendi,
cedole, interessi attivi e prooenti oari (?) » pld 8 .mUm"*
di affitti attivi, da cui detraendo 260 milioni di imposte
e tasse. 91 milioni di interessi passivi e 1 milione d'ammon¬
tare dotazione ufflci, si ottiene l'utile netto di 1.174 milioni.
Relazioni e bilanci di questo genere non sono rendiconti,
sono prese di bavero. ■
Nel consiglio di amministrazione dell Italmobillare tro-
vlamo. oltre ad un presidente pro-forma, l’inK- Carlo Pe-
senti quale amministratore delegato e direttore generale, e
cinque altri consiglieri, fra 1 quali il dott. Massimo Spada,
in rappresentanza della finanza del Vaticano.
(3) Purtroppo si deve anche osservare che la Cementir.
società quotata in Borsa, il cui pacchetto azionario è per l
51% di proprietà dell'IRI. cioè dello Stalo, batte le maggiori
società cementiere private nella eimeticità dei bilanci e
nella sobrietà delle relazioni. 11 conto economico della Ce-
mentir per il 1962 non dà la cifra del fatturato; segna al¬
l'attivo due sole voci (4.263 milioni di «utili industriali - e
36 milioni di - rendile diverse-) e al passivo quattro sole
voci (512 milioni di «spese generali amministrative-, 327 mi¬
lioni di - imposte e tasse-, 505 milioni di «Interessi sconti
ed accessori ». 2000 milioni di « quota ammortamenti e de-
perimenti »).
26
** gruppo della Italcementi
partecipazioni azionarie; né mi è stato
possibile individuare quali persone, oltre all’ing Pe-
senti ed ai suoi familiari, hanno l’effettivo comando
su questo colossale impero finanziario (4).
Le poche notizie che ho potuto mettere insieme
*n argomento (notizie che ho esposte anche
^ a Commissione parlamentare antitrust, con evi-
ente disagio del suo presidente, il deputato demo-
cristiano Mario Dosi) riguardano la Banca Provin¬
ciale Lombarda, nella quale, trent’anni fa, furono rag¬
gruppate cinque piccole banche — Banco di S. Alessan-
di Bergamo; Banco di S. Siro, di Cremona; Ban¬
ca Piccolo Credito S. Alberto, di Lodi; Piccolo Cre¬
tto del Basso Lodigiano, di Codogno; Credito Pa-
che, come molte altre banchette cattoliche,
erano cadute sul gobbo dello Stato, durante il regi¬
me fascista. Dopo la Liberazione, il Tesoro dichiarò
• essere disposto a restituire la Banca Provinciale
ombarda ai privati se il suo capitale fosse stato ri¬
partito tra i diversi gruppi, rappresentanti delle zone
•n cui la banca operava, escludendo il predominio di
'-‘U qualsiasi gruppo. In conseguenza, il pacchetto di
'iiaggioranza (circa il 75% del capitale) andò per
^U^^erzo all’Istituto Opere di Religione, per un terzo
3ll Italmobiliare (la finanziaria della Italcementi) e
per un terzo ad un altro gruppo di industriali privati;
u rimanente capitale restò suddiviso in piccolissime
Quote fra migliaia di azionisti, quasi tutti clienti della
banca. Per dare il suo consenso, rUffìcio di vigilanza
della Banca d'Italia aveva anche messo la condizione
ehe venisse costituito un sindacato fra i gruppi della
niaggioranza, per la durata di cinque anni, con la
clausola che eventuali offerte di vendita sarebbero
state ripartite proporzionalmente fra tutti i compo¬
nenti il sindacato, in modo da evitare, per quanto
possibile, l’accentramento del comando in un solo
gruppo. Ma nel 1950, allo scadere del sindacato, lo
stesso ufficio non ne impose il rinnovo, e l’ing Pe-
senti riuscì ad ottenere dal dr. Massimo Spada, rap¬
presentante dell’Istituto Opere di Religione, la cessio¬
ne della partecipazione di questo istituto nella banca
jin cambio, pare, di un pacchetto di azioni della
talcenienti ). L’ing. Pesenti divenne così il vero pa-
*^nne della banca (5). Data da quell’epoca la stretta
collaborazione dell’ing Pesenti col dr. Spada. No¬
nostante non rappresentasse in proprio nessun azio¬
nista, il dr. Spada tornò a far parte, per conto della
talmobiliare, del consiglio della Banca Provinciale
Lombarda; e lo troviamo, in compagnia sempre
dell ing. Pesenti, nei consigli di amministrazione del-
a Italcementi, della Italmobiliare, dell’Istituto Ban¬
cario Romano, del Credito Commerciale, della Ba-
stogi, della Italpi, della RAS, della Franco Tosi,
^lla Lancia e di molte altre società nelle quali il
Lirande Barone del cemento è maggiormente inte¬
ressato.
DaWAn^uario Pontificio risulta che il dr. Spada
— oltre ad essere segretario amministrativo dell’Isti¬
nto delle Opere di Religione — è presidente della
fondazione Pio XII per l’apostolato dei laici, con¬
sigliere della Pontificia Opera per la preservazione
della Fede, membro del Segretariato amministrativo
del Vaticano. E’, quindi, uno dei principali rappre¬
sentanti della finanza vaticana, come lo sono il conte
Marcantonio Pacelli (nipote di Pio XII) e l’ing Eu¬
genio Gualdi, che troviamo, sempre insieme all’ing.
Pesenti, nel consiglio di amministrazione della Ge
nerale Immobiliare e di molte altre società.
"In questi collegamenti con la finanza vaticana
— ho fatto osservare alla Commissione parlamentare
antitrust — sarebbe forse possibile trovare, appro¬
fondendo l’indagine, la spiegazione dei privilegi della
Italcementi e della crescente potenza industriale e fi¬
nanziar a del suo consigliere delegato" (6).
I sopraprofitli di monopolio
Qualche informazione più interessante sulla con¬
sistenza patrimoniale e sui sopraprofitti della Ital-
cementi può risultare dall’esame delle quotazioni di
Borsa, perché queste quotazioni riflettono, in modo
MI L aspetto forse più preoccunante del eoncentramento
di potere economico nelle mani deiring. Pesenti è quello rela
Uvo alla stampa Durante il mio interrogatorio davanti là
Commissione parlamentare antitrust, ho accennato a questo
argomento dicendo; « Non sono riuscito ad avere cotuerma
della rete di giornali dei quali viene attribuita la proprietà
totale o parziale al presidente della Italcementi: La notte
di Milano; Il corriere lombardo, Il piornole del Popolo di
Bergamo; Il giornale d'Italia: Il Messaggero veneto, di Udi¬
ne; La Tribuna del Mezzogiorno, di Messina, ecc Tutti que-
sti giornali servono all'lng. Pesenti per esercitare pressioni
sul governo, in difesa dei suoi privilegi, e per formare una
" sana opinione pubblica ». favorevole alia sua politica di
ex-presidente, durante roccupazlone nazista, del " circolo de¬
gli amici della Germania " di Bergamo- Secondo quanto
mi hanno assicurato persone in grado di conoscere I retro¬
scena della nostra vita pubblica, ring. Pesenti è la persona
alla quale la Contlndustrla affida il compito di mantenere
1 piU delicati rapporti col MSI, ed ha il controllo diretto
ed indiretto di almeno un giornale in ognuna delle regioni
. Ktuppo possiede i maggiori stabilimenti Indu-
1 uiiimo oecennio la cianca Provinciale Lom¬
barda si è sviluppata con un ritmo eccezionalmente rapido
Autorizzata al credito agrario di esercizio, essa ha potuto
fare anche tutte le operazioni privilegiate connesse agli
ammassi, al «fondo di rotazione-, ed al «plano verde-
Oltre che a Bergamo, Codogno. Crema. Cremona. Lodi. Mor-
una sede a Milano; ha 13 succursali, 73
" ? K‘«tlsce le esattorie di 122 Comuni Nel bilancio
ai 3t dicembre 19B2 segna un capitale di 4 miliardi e ri¬
serve per 2 miliardi e ISO milioni di lire Nell'esercizio 196’
a sua mawa nduMsria è passata da 141 a 179 miliardi: con
li." a 20,45%; percentuale assai superiore a quel¬
la della mi^ia nazionale NeU'aasemblea del 19 marzo 19«3
hanno partecipato, secondo la «Agenzia Eco-
orMiHor,! nrlonlstl — * stato nominato vice
?ionÌHo C!<ld^iro*DrTghi
dlminli approfondita In questo campo, piU che
una ri elio impossibile. Il Vaticano «
h,"2i nnanziare del mondo, per i
e Immobiliari che possiede in proprio o at¬
traverso gli ordini religiosi, per gli istituti bancari e le
rTon'^itJri pubblici che controlla, per t
mantiene con 1 maggiori gruppi ca-
® quattro 1 continenti. (Lo sviluppo di
?n‘7t ril!’°rit7'r' * atato particolarmente favorito
o«nl'‘tnil.rv «"'aft. 30 ha escluso
Pat'**' hello Stato nella gestione ordinaria
{“‘‘ì* appartenenti a qualsiasi Istituto
^ *?’'*?** o"'!. religiosa) Nél’Amminlstrazlo-
** Santa Sede, ne l'Istituto per le opere di
Beni della Santa Sede
ne I Amministrazione dello Stato della Città del Vaticano nà
finanziario della Chiesa, pubblica dei
bilanci. Nt-mun laico riesce, perciò, a farai unMdea neppur
lontanamente approssimativa di qual è la parte della rlc-
riAM«“r-i'.'** In Italia dalla Chiesa, o per conto
«mI!** ^ i Istituti finanziari del Vaticano, ancor me-
* «A " ^ e delle scKletà finanziarie svizzero, na-
scondtmo l sopraprofllti delle società monopolistiche e ser-
vono di copertura alle operazioni di Alta Finanza, conai-
derate poco ortodosse secondo le nostre leggi. La scarsls-
"I?'’ abbiamo di ouestl fatti rende anche
Impossibile capire le vere ragioni del «salvataggi, di ban-
Che e ai industrie che venj^ono continuamente compiuti
con 1 quattrini del contribuenti; delle conceeeloni di privlle-
capitaliatici; della inefficienza del
pubblici controlli aulle società conceaelonarie; della ecce¬
zionale indulgenza del FUco nei confronti di alcuni groasi
contribuenti; e di molti altri aapetti importanti della vita
economica, nella nostra singolare repubblica papalina
27
più o meno esatto, anche le valutazioni delle riserve
occulte, che gli esperti riescono ad accertare sulla
base di indici di varia natura.
Va, pero, osservato che i corsi delle azioni di
una società industriale rappresentano abbastanza be¬
ne la effettiva situazione patrimoniale soltanto se ed
in quanto gli amministratori non sottraggano una
parte dei suoi utili agli azionisti, trasferendola nei
bilanci di altre società industriali o finanziarie in cui
sono maggiormente interessati. La nostra deficientis¬
sima legislazione in questa materia (e specialmente la
mancanza dell’obbligo di presentare bilanci "conso¬
lidati ” di gruppo e di specificare nelle situazioni pa¬
trimoniali il numero, la qualifica e il valore delle
azioni esistenti in portafoglio) rende molto agevole
compiere tali operazioni predatorie, attraverso il sem¬
plice trucco di acquisti a prezzi superiori ai loro
reali valori, dalle società che gli amministratori vo¬
gliono favorire, e di vendite alle stesse società a prez¬
zi inferiori.
Fatte queste riserve, dal Panorama economico
1962, edito da 24 Ore, rilevo che il capitale sociale
della Italcementi è aumentato da 147 milioni, quale
era nel 1938, a 32 miliardi alla fine del 1962. Tale
aumento (del 218%) è stato conseguito per il 66,5
con la emissione di azioni gratuite, (o, il che è lo
stesso, con l’aumento gratuito del valore nominale
delle azioni) e per la parte rimanente (33,5%) con
la emissione di azioni a pagamento. La percentuale
del 66,5% è molto più elevata di quella risultante
come emissione di azioni gratuite rispetto al totale
degli aumenti dei capitali di tutte le società quotate
in Borsa (39,5%), ed è anche superiore alla per¬
centuale che si rileva per le tre maggiori società ca¬
pogruppo: 14,5% per la Fiat (cap. 150 miliardi);
31,2% per la Montecatini (225 miliardi); 49,8%
per la Edison (cap. 276 miliardi). Durante gli ulti¬
mi 24 anni, quindi, il capitale della Italcementi si è
costituito, molto più che il capitale delle altre so¬
cietà, senza chiedere quattrini freschi agli azionisti;
impiegando utili non distribuiti e nascosti nelle ri¬
serve ( ” sulle quali — ha osservato il prof De Ma¬
ria—, il Fisco a suo tempo, non ha mai aperto gli
occhi”). Se si tiene conto che, nel periodo consi¬
derato, la Italcementi non è mai stata debitrice delle
banche ( 7 ), e che ha autofinanziato la costruzione dei
suoi impianti, gli acquisti di grossi pacchetti azionari
e le altre sue misteriose operazioni, con le quali
ha esteso sempre più il proprio dominio anche al di
fuori del settore del cemento, mi pare che l’altissima
percentuale degli aumenti di capitale, compiuti con
la distribuzione di azioni gratuite, possa già essere
considerato un primo elemento rivelatore dei suoi
eccezionali profitti.
L’ultima pubblicazione Indici e dati (1948-1962)
della Mediobanca ci dà poi la valutazione di Borsa
dei capitali sociali ai corsi delle azioni alla fine
del 1961. A questa data il capitale nominale della
Italcementi era ancora di 24 miliardi, ma il suo va¬
lore di Borsa era di 224 miliardi e 560 milioni. Il
(7) Alla fine del 1961 la Italcementi era creditrice delle
banche per 13 miliardi e M2 milioni ed alla fine del 1963
per 9 miliardi e 135 milioni.
rapporto di 9,4 tra la prima e la seconda cifra era
assai superiore all’analogo rapporto per le tre mag¬
giori società capogrupfX): Fiat 5,8; Montecatini 3,9;
Edison 2,8. Questo significa che — nonostante i ri¬
petuti annacquamenti del capitale sociale — il mer¬
cato riteneva che la Italcementi avesse ancora riser¬
ve occulte relativamente molto maggiori di quelle esi¬
stenti nel patrimonio delle altre società.
Ma il dato, ancor più significativo, secondo me,
è l’indice di capitalizzazione dei titoli azionari, ai
corsi del 28 giugno 1962, che la Mediobanca calco¬
la nell’ipotesi che ” il possessore abbia aggiunto al
possesso azionario iniziale tutti i proventi ad esso
28
relativi, a mano a mano che venivano • maturarsi,
investendoli immediatamente in azioni della mede¬
sima società Chi, al principio del 1948, avesse
acquistato azioni della Italcementi per un milione
di lue, e si fosse poi comportato come prevede tale
ipotesi, al 28 giugno 1962 si sarebbe trovato a pos-
«dere azioni della Italcementi per un valore di
Borsa di 28 milioni e 180 mila lire. L’indice 1:28,2
e molto superiore a quello risultante per tutte le
azioni quotate in Borsa (1:12,8), ed anche a quello
risultante per le tre maggiori società capogruppo:
riat 1:17,4; Montecatini 1:10,5; Edison 1:12,9.
" Queste tre società — ho detto, dopo avere
esposto le sopradette cifre alla Commissione parla¬
mentare antitrust — vengono accusate, a mio parere
^ustamente, di aver sempre fatto eccessivi guada¬
gni con la loro politica monopolistica. Che cosa
dovremmo allora dire della Italcementi?
Nel regime capitalistico in -cui viviamo, sopra¬
profitti così alti possono essere giustificati — per
un periodo più o meno lungo, ma sempre limitato
— sè chi li ottiene ha inventato nuovi prodotti,
che molto meglio soddisfano i bisogni dei consu¬
matori, o nuovi procedimenti industriali, che hanno
fatto crollare i costi di produzione; ma nessuno ha
sentito parlare, durante f’ultimo quindicennio, di in¬
novazioni del genere nel settore di cemento. Nello
studio che ho citato nel mio precedente articolo,
Cesareni e Cova scrivono che l’industria del cemento
” non presenta quelle rivoluzionarie innovazioni nei
processi tecnologici, tipiche, ad esempio, della indu¬
stria chimica, nè sostanziali modifiche al macchinario
adottato ”.
"Anche nei più moderni impianti recentemente
realizzati, processo e macchinari sono rimasti, nelle
loro caratteristiche essenziali, identici a quelli adot¬
tati nell’immediato anteguerra
Gli enormi sopraprofitti della Italcementi sono,
quindi, la più convincente prova indiretta del fatto
che, quale risultato delle intese fra i produttori, nel
settore del cemento non esiste un regime di con¬
correnza.
Per una nuova politica
La politica di interventi massicci nell’economia
nazionale, che il governo si è impegnato a realiz¬
zare nei prossimi anni, per stimolare un più equi¬
librato sviluppo economico a vantaggio delle zone
depresse e degli ultimi strati della popolazione, ri¬
chiede che esso prenda saldamente nelle sue mani
alcune leve di comando, ancora tenute dai Grandi
Baroni dell’industria e della finanza italiana; una
di queste leve è l’industria del cemento, che negli
ultimi dieci anni ha incrementato la produzione ad
un ritmo molto superiore a quello di tutte le altre
industrie, proprio perchè è stata particolarmente
favorita dagli investimenti dello Stato nella costru¬
zione di autostrade, di case popolari, di centrali
elettriche, di opere pubbliche (8). Sarebbe assurdo
che, come conseguenza del nuovo indirizzo di poli¬
tica economica, venissero moltiplicate ancor più ra¬
pidamente le fortune dell’ing. Pesenti e del suol
colleghi. Grandi Baroni del cemento.
Anche se non si vuole pensare alla nazionaliz¬
zazione dell’industria del cemento (nazionalizzazio¬
ne richiesta con sempre maggiore insistenza, an¬
che da economisti non socialisti, in Inghilterra ed
in altri paesi europei) — ho osservato, a conclu¬
sione dell’interrogatorio davanti alla Commissione
parlamentare antitrust — lo Stato potrebbe far co¬
struire, nei prossimi anni, molti nuovi cementifici
per gestirli direttamente (non a mezzadria con i
gruppi capitalistici privati seguendo la «formula IRI»)
e riservare ad essi le migliori cave e i sottoprodotti
della sua industria siderurgica, che costituiscono le
materie prime fondamentali per la produzione del
cemento. In tutti i modi il governo, per prima cosa,
dovrebbe far cessare ogni forma di « collabora¬
zione » della Cementir e delle altre società cemen¬
tiere controllate dallo Stato con i gruppi capitali¬
stici privati imponendo a queste società di
staccarsi dalle organizzazioni private di catego¬
ria (A.I.T.E.C. ed Assocemento); e dovrebbe met¬
tere alla loro testa uomini, non addomesticabili dai
Grandi Baroni, che avessero veramente fiducia nei
servizi pubblici che possono rendere, come stru¬
mento antimonopolistico, le imprese industriali del¬
lo Stato.
ERNESTO ROSSI
(Fine)
(8) Dal 19M al 1962 la produzione del cemento, tn Italia,
è quadruplicata. L'incremento che al è vertflcato negli ul.
Uml ^1 nel nostro paese — al legge nelPultlma rerazioii»
della Cementir — «è 1] più elevato di quelli registrati negli
altri paesi produttori, fra I quali solo 11 Giappone manter¬
rebbe un ritmo di produzione preesapoco uguale ».
FILMCRITICA
MENSILE DI CINEMA . TEATRO . TELEVISIONE
Diritto da EDOARDO BRUNO
Edoardo Bruno: «La rivoluzione tradita di
Luchino Visconti »
Alberto Pozzolini: « Il neorealismo e il Poli¬
tecnico di Vittorini »
Ottavio Spadaro: « Responsabilità della dram¬
maturgia contemporanea »
Paolo Alatri: « Dialogo aperto: sincerità e
passione »
Alexandrov, Alatri, Rasumni, Castellani, Ka-
raganov. Tolsijkh, Baldelli, Lizzani, Ciu-
kray, Arnscstan: « .Mosca 1963: tavola
rotonda »
Bertolt Brecht: « L’Antigone di Sofocle »
29
Le scelte dei democratici
L'articolo di Ernesto Rossi « Perchè voto PSI e non per il PRI » ha aperto una discus¬
sione sulla funzione delle minoranze democratiche in Italia e sulla linea che esse
dovrebbero seguire rispetto all'esperienza del centro-sinistra e alla politica estera del
nostro Paese. Le lettere di GINO LUZZATTO, ADOLFO BATTAGLIA, GIOVANNI EN¬
RIQUES e la postilla di LEOPOLDO PICCARDI allargano il tema della discussione
mettendone a fuoco, da punti di vista diversi, gli aspetti di maggiore importanza.
I
Una sinistra
più responsabile
RARISSIMO Ernesto,
la breve lettera, in cui ti esprimo molto succin¬
tamente alcuni dubbi suscitati in me dalla tua risposta
” all’amico repubblicano ” nel II numero dell Astro¬
labio, ti ha indotto ad invitarmi ad esporre più
esplicitamente il mio pensiero sull’indirirao politico
del Movimento Salvemini e di questo periodico.
L’invito mi richiama alla memoria un episodio,
non molto diverso, di più di mezzo secolo fa, quando
io, nelle prime settimane di vita àeW’Unità, pretK-
cupato dal tono eccessivamente aggressivo ed ostile
assunto da Salvemini contro il Partito Socialista, gli
scrissi una lettera per mettere in evidenza il pericolo
di quell’atteggiamento. Non sono così vanitoso da
illudermi che quella lettera di un novellino della
politica sia servita a convincere Salvemini; ma è
certo che ad essa seguì una polemica che valse a
chiarire molte idee allora confuse e indusse i nazio¬
nalisti ad abbandonare ogni velleità di conquisi^
il giornale, dopo il fallimento di un loro tentativo
di un colpo di mano, che avrebbe dovuto culminare
nella cacciata del direttore.
Oggi però la situazione è assai più complessa ed
incerta: allora era relativamente facile trovare con¬
sensi nella campagna contro le ambizioni colonia-
liste ed anche — almeno inizialmente — imperialiste,
e nello stesso tempo nella opposizione all espansione
degli Asburgo nei Balcani. Oggi tutti i partiti, ad
eccezione dei comunisti e dell’estrema destra, sono
divisi non solo sull’indirizzo della politica interna,
ma anche sulla politica estera, e le cause di dissenso
sono così profonde che l’unità può essere, molto a
stento, mantenuta soltanto per l’influenza di
estranee: per i democristiani del Vaticano e delle
gerarchie ecclesiastiche, quando anch esse non siano
divise; per i socialisti del timore di essere total¬
mente staccati dalle forze sindacali e di subire la
sorte dei social-democratici. Anche in politica estera,
sebbene né la sinistra democristiana, né quella so¬
cialista si spingano fino a propugnare apertamente
l’alleanza coi sovietici, tuttavia esse non nascondono
— e più la seconda che la prima — la loro sim¬
patia per il mondo d’oltrecortina, e il loro malumore
contro la preponderanza americana.
In mezzo a così profonde divisioni e a tanta
incertezza, quale è l’azione che noi {xjssiamo ^ auspi¬
care per il nostro movimento? Tu sei per il pas¬
saggio immediato e deciso all’opposizione contro _ d
centro-sinistra di cui metti in dubbio la sincerità
e la volontà di una azione rinnovatrice. Io, pur¬
troppo, non posso negare che molti dei tuoi sospetti
e delle diffidenze abbiano un fondamento, che molti
democristiani e socialdemocratici e forse qualcuno
fra i socialisti e fra gli stessi repubblicani siano mossi
principalmente da ambizioni personali e da interessi
clientelistici. Ma non possiamo nemmeno dimenti¬
care che il centro sinistra rappresenta in questo
disgraziato periodo l’unica salvaguardia contro due
pericoli contrari fra loro, ma non meno gravi: la
rivincita totale della destra, fascista e clericale; op¬
pure il trionfo del fronte social<omunista, con tutte
te conseguenze che ne potranno derivare nei rap¬
porti internazionali.
Di fronte al pericolo che una nostra opposizione
sistematica e unilaterale fornisca le armi ai nemici
del centro-sinistra, che sono poi anche i nostri più
irriducibili avversari, non mi sogno certamente di
augurare che il nostro periodico diventi un organo
ufficiale degli uomini al potere; ma credo che una
posizione di assoluta indipendenza e di critica libera
da ogni preferenza e prevenzione sia anzi quella che
meglio convenga per impedire le troppo comode de¬
viazioni del programma del centro sinistra e per m-
tensificare quell’opera di preparazione, specialmente
dei giovani, che è condizione indispensabile perché
una politica di opposizione sbocchi finalmente in una
politica di azione.
Non vi ha dubbio che una delle massime debo¬
lezze del Partito Socialista Italiano è stata quella
30
di non aver saputo o voluto trasformarsi in partito
di governo nel primo dopoguerra. La colpa di quella
rinuncia non può imputarsi soltanto ai massimalisti,
ma alla impreparazione generale, sia delle masse, sia
— tolte pochissime eccezioni — degli stessi di¬
rigenti.
A combattere questa impreparazione, a dim^
strare come sia possibile scoprire la realtà sotto le
menzogne esaltatrici degli interessati, a dimostrare
come tutta la nostra vita pobtica sia inquinata dai
privilegi, hai contribuito con rara efficacia ^ con la
campagna che hai condotto da quasi vent’anni. E’ da
Augurarsi che salute ed età ti permettano di conti¬
nuare per lungo tempo questa sacrosanta campagna,
ma è anche indispensabile che un gruppo di giovani
si preparino, sul tuo esempio, a continuare la tua
campagna, e ad estenderla a molti altri campi, dove
si sente il peso dei cosiddetti grandi uomini d’affari.
Se il centro-sinistra non avrà la forza o il coraggio
di condurre questa campagna risanatrice, l’opposizio¬
ne sarà pienamente giustificata.
I^OLTO più incerta e gravida di incognite e la
scelta che dovremmo propugnare in politica este¬
ra. Esclusa l’alleanza coi sovietici, non solo per motivi
ideologici, ma anche e più — per la certezza che
essa condurrebbe l’Italia alla stessa situazione che è
toccata alla Polonia, alla Cecoslovacchia, all’Ungheria,
alla Bulgaria e alla Rumenia, cioè al partito unico,
alla soppressione di ogni libertà di discussione e di
stampa; riconosciuto d’altra parte il f^ricolo che si
faccia del nostro paese la base di lancio dei temibili
strumenti bellici dell’esercito nordamericano, non vi
ha dubbio che la soluzione migliore dovrebbe rite¬
nersi quella della neutralità.
Ma è possibile?
Tu citi l’esempio della Svizzera, di cui la neu¬
tralità è stata rispettata da tutti i belligeranti così
nella prima, come nella seconda guerra mondiale. Ma
la situazione geografica dell’Italia, protesa al centro
del Mediterraneo, coi sui 2000 e più km. di coste
marittime offre tali vantaggi strategici, che nessuno
dei belligeranti vorrà rinunciarvi, e si affretterà, quan¬
do possa precedere l’altro, ad occupare per lo meno
i porti della Sicilia e quelli di Taranto e Brindisi.
L’unità dell’Europa, che tu e Altiero Spinelli, a
Ventotene prima e poi in Isvizzera avevate propu¬
gnata con tanto calore, è oggi, a vent’anni di distanza,
più lontana che mai; e nonostante le varie istitu¬
zioni europeiste, che si sono create, non ha, di
fronte al malaugurato infierire delle ambizioni e delle
f ;elosie nazionali, alcuna consistenza reale. Ma questo
allimento non è una ragione sufficiente perché noi
non si riprenda la campagna per il raggiungimento
effettivo di un ideale, da cui soltanto può aspettarsi
la salvezza dell’Europa. Purtroppo l’attesa può essere
ancora molto lunga, ma non per questo dobbiamo
rinunciare a questa speranza, e intanto dobbiamo de¬
nunciare e controbattere la campagna di una stampa
interessata, che tende ad ogni istante ad inasprire il
conflitto; dobbiamo dare il nostro appoggio a tutte
le iniziative che mirano al disarmo materiale e morale
fra i popoli.
Può apparire per lo meno ingenuo che da un
piccolo periodico come il nostro noi possiamo aspet¬
tarci un’azione di portata europea; ma sarà già un
risultato promettente se fra le poche migliaia dei
nostri lettori riusciremo a far trionfare la convin¬
zione che le frequenti e terrificanti notizie del pe¬
ricolo russo son diffuse al solo scopo di assicurare
appoggi alla destra laica e clericale, mentre all’estremo
opposto il rigonfiamento delle pretese manovre im¬
perialiste degli Stati Uniti è destinato soltanto a fa¬
vorire il giuoco politico della Russia.
Con un’azione di questo genere costantemente di¬
retta al ravvicinamento dei popoli dei due blocchi
contrastanti, noi possiamo sperare di raggiungere una
efficacia maggiore che da una platonica dichiarazione
di neutralità.
Scusami la chiacchierata che forse in vari punti
può apparirti ingenua e poco persuasiva, e credimi
GEVO LUZZATTO
La funzione
delle minoranze
Adolfo Battaglia, V* amico
repubblicano * a cui Ernesto
Rossi aveva risposto nel nu¬
mero 2 dell’Astrolabio, ci ha
inviato la seguente lettera:
^ARO Ernesto,
grazie per la tua lunga lettera pubblicata sul-
VAstrolabio (l’ho avuta di ritorno dalla campagna
elettorale a Torino e solo oggi mi riesce di rispon¬
dervi). Ma ho paura che la tua lettera confermi che
tu non credi più all’utilità e alla validità delle forze
politiche di minoranza. Quel che dici riguarda in¬
fatti (e chi non vi crede?) l’utilità della cultura
politica (cioè di uomini indipendenti che dicono li¬
beramente il loro pensiero) o della moralità civile,
(cioè di uomini che tengono fermi alcuni principi
costi quel che costi). Ma tu dici poi che non ritieni
utile una forza organizzata di minoranza, perché al
governo ”non potrà mai farsi valere più di quello
che gli consente il rapporto delle forze esistenti in
Parlamento ”. Ora io non voglio neppure obbiettarti
che questo di fatto non è vero, che non è stato vero
negli ultimi venti anni, e forse mai; che un partito
anche di minoranza — e così il Partito Repubblicano
— sta al governo o all’opposizione non programma¬
ticamente, ma secondo che le circostanze gli consen¬
tano meglio di applicare le sue forze e di rendere
la sua battaglia più' efficace (mentre, appunto, le
forze che stanno programmaticamente all’opposizione
non sono partiti politici ma puri movimenti); e,
infine, che sono proprio i partiti di minoranza i
quali portano avanti sul terreno politico, cioè delle
forze, delle maggioranze, del potere, ciò che la cul¬
tura politica indipendente elabora o intuisce. Mi li¬
mito a constatare con sconforto che tu non credi
più ai partiti di minoranza (quali il P, d’A. o il P.R.
furono, e come il PRI è) ma credi solo ad un’opera.
31
fondamentale senza dubbio, di critica libera. E può
darsi che tu abbia poi ragione. Dubito che scompa¬
rendo una forza organizzata di minoranza scompaia
anche il veicolo primo di trasmissione di quest’opera
(e mi pare che anche adesso, dopo le elezioni, sa¬
remmo in condizioni un poco diverse se i repubbli¬
cani avessero guadagnato solo cinquanta o cento mila
voti in più, per i socialisti quasi irrilevanti); ma,
certo, è inutile piangere sul latte versato; se tu nella
politica di centro-sinistra (che è una politica e non
una serra, e durerà probabilmente cinque anni, non
tino), vedi soltanto la funzione del PSI, è ben per
qualche ragione. Per questo, come ti dicevo, rifletto
con sconforto, essenzialmente, agli innumerevoli er¬
rori dei nostri amici repubblicani e radicali. Ma un
poco di sconforto, credi pure, lo fornisce la tua let¬
tera e questa tua posizione odierna. Una volta non
avresti usato il paragone della pulce e del rinoce¬
ronte (che è anche ingiusto) ma quello del piccolo
pesce-pilota che fa la strada alla grossa balena (anche
se è un poco, ma solo un poco, esagerato).
Tanti saluti affettuosi, come sempre, dal tuo af¬
fezionatissimo.
ADOLFO BATTAGLIA
Lettere aperte di un conservatore
a La Malfa e Malagodi
^ARO La Malfa,
ci vedemmo a Bologna qual¬
che settimana prima delle ele¬
zioni. Sono stato poi lieto di ap¬
prendere dai risultati della tua
rielezione alla quale ho contri¬
buito con un voto nel Collegio
piemontese, tuttavia sento il do¬
vere di indirizzarti questa let¬
tera per dirti i motivi delle mie
perplessità.
Il mio voto è stato dato ad un
artito piccolo, che si è sempre
attuto con molta coerenza; non
è stato dato all’amico La Malfa,
ma soprattutto, ad uno dei prin¬
cipali artefici di quel processo di
liberalizzazione degli scambi che
anni addietro fu fattore premi¬
nente nello sviluppo economico
italiano.
Posizione dogmatica
Ti nasconderei il mio pensie¬
ro se ti dicessi che ho compre¬
so con altrettanta immediatezza
i motivi che hanno spinto le e
11 partito Repubblicano a pren¬
dere una posizione così dogma¬
tica nella questione della nazio¬
nalizzazione della energia elet¬
trica.
Tutti i difensori, più o meno
d’ufficio, di questa nazionalizza¬
zione si sono richiamati ai pre¬
cedenti della nazionalizzazione
delle ferrovie; in effetti il siste¬
ma adottato ha qualche analogia,
ma la situazione di allora e la
situazione di oggi, tenuto in de¬
bito conto la struttura economi¬
ca del Paese nel 1905 e nel 1962,
permettono a tutti di vedere le
profonde differenze esistenti.
Si può affermare che, ora co¬
me allora, le Società esercenti
avranno modo di investire i fon¬
di provenienti dalla nazionaliz¬
zazione in altre imprese con be¬
nefici per l’economia? Ne dubi¬
to. Se prendiamo l’esempio della
Bastogi, questa Società passò
dall’esercizio di ferrovie al set¬
tore elettrico, rimase cioè di fat¬
to in imprese strutturalmente
analoghe in cui il capitale fisso
prevale sul capitale di gestione;
in parole più povere gli ammi¬
nistratori di quei capitali riin¬
vestiti si misero allora a fare
un mestiere più congeniale alle
loro abitudini e quindi è ragio¬
nevole presumere che i riinve¬
stimenti, nel decennio che ha
seguito il 1905, siano stati com¬
plessivamente non negativi per
l’economia italiana.
Siamo oggi nella stessa situa¬
zione? Non si corre il rischio che
centinaia e centinaia di miliar¬
di siano investiti sotto il control¬
lo e lo stimolo di persone che
per quanto possano essere egre¬
gie non hanno da dire una pa¬
rola nuova in settori estrema-
mente più dinamici e tecnologi¬
camente più simili ai beni di
consumo?
Tu sai meglio di me che nel¬
le imprese in cui il capitale fisso
prevale la questione finanziaria
è di grande momento, ma se ci
spostiamo in altri settori, siano
essi meccanici, alimentari, turi¬
stici, allora il ragionamento cam¬
bia ed è preferibile che i capitali
seguano le migliori iniziative, e
non le precedano.
Non c*era VIRI
L’obiettivo dei socialisti era
quello di togliere o diminuire il
potere politico dei gruppi di
pressione? Il risultato sarà di
aumentare tale potere: gli
amministratori di una società
avranno certo maggior potere
se dovranno investire diciamo
400 miliardi, seppure in dieci
anni, di quello che avevano ge¬
stendo impianti elettrici anche
di maggior valore.
Anche per un altro motivo il
paragone tra il 1905 e il 1962
non regge, poiché allora non
esisteva l’I.R.I. Complessiva¬
mente TIRI è formula felicissi¬
ma e concreta per risolvere al¬
cuni problemi nostri infrastrut¬
turali e contribuire all’incre¬
mento del capitale fisso naziona¬
le tra cui ovviamente cadono
gli impianti elettrici.
Nessuno mi ha saputo dire
per quale motivo logico l’iriz-
zazione sia stata esclusa. Uno
degli argomenti che più volte ho
sentito riportare è così grave
che mi vergogno quasi a ripe-
n
j^lo. Mi è stato 'detto: «Poi¬
ché Virizzazione è a questo pun¬
to desiderata dalla Confindu-
stria, ciò è un motivo sufficien¬
te per un rigetto ». Quante vol¬
te abbiamo reagito di fronte a
frasi come questa: « Sì, il mer¬
cato di Porta Palazzo non fun¬
ziona, ma poiché chi lo afferma
® di parte comunista noi non
dobbiamo prendere in considera¬
zione alcun provvedimento, ecc».
Motivi strettamente politici che
riguardano il partito socialista
italiano? ma allora tutti i partiti
(PSI, PSDI, PRI) avrebbero do¬
vuto essere estremamente più
rigidi nella questione della Pre.
sidenza.
Comunque si rigiri, sia per la
sua anacronistica strutturazione,
sia per motivi di tempo — dub¬
bi di incipiente crisi economica
e finanziaria — la nazionalizza¬
zione é stata una delle cause di
alcuni risultati deludenti nelle
ultime elezioni.
Quasi quale controprova ri¬
fletti che nel bilancio familiare
della media famiglia italiana la
bolletta della luce non é que¬
stione fondamentale, mentre la
scuola e la casa sono i due pro¬
blemi cui tutti sono sensibili,
fucila scuola tutti si occupano,
uiale 0 bene, ma quale partito
ha un piano ragionevole, econo¬
micamente solido per garantire
1 imponente sviluppo edilizio del
prossimo decennio?
Questa lettera ti sembrerà
forse inutile e più inutile an¬
cora ti sembrerà questa postilla
finale.
Per quanto è a mia conoscen¬
za, ho l’impressione che con la
programmazione si sia partiti
male. Tu sai quanto l’esperimen¬
to francese sia stata cosa lunga
a carattere prevalentemente
tecnico, e come essa attraverso
il Commissariat Général du Pian
si sia radicata nel costume eco¬
nomico francese indipendente¬
mente dal regime politico, gra¬
zie sopratutto all’opera di uno
stuolo di esperti non politici.
La programmazione é cosa vi¬
tale per il futuro di un Paese,
ma non può essere concepita co¬
me figlia di compromessi poli¬
tici. Può avere un fine politi¬
co (determinato dal Parlamen¬
to) e potrà essere da tutti accet¬
tata purché nasca sotto l’inse¬
gna di una metodologia scien¬
tifica e alla luce di altre espe¬
rienze straniere e, sopratutto, in
molti anni di lavoro e di cauta
sperimentazione. La gatta fret¬
tolosa fa i gattini ciechi.
Il dovere del P. R. é di essere
molto cauto e antidemagogico,
di mantenersi in posizione cri¬
tica e spregiudicata.
Non volermi male per questa
amichevole lettera, tra cinque
anni sarò ancora più vecchio e
vorrei poter spostare il mio voto
ancora più a sinistra, non co¬
stringetemi a votare per Mala-
godi a cui scrivo un’altra al¬
trettanto amichevole lettera.
Credimi tuo
GIOVANNI ENRIQUES
Un terreno
elle eonfina
eoi faseisino
^ARO Malagodi,
ho appena deposto la penna
un po’ affrettatamente impugna¬
ta per scrivere una lettera aper¬
ta a La Malfa, ma non posso
fare a meno di pensare che essa
necessita di un .«contrappeso».
Con le idee che io espongo a
La Malfa su due specifici punti
tu ti chiederai per quale motivo
io non ho votato per il partito
liberale. Non ho difficoltà ad
illustrarti meglio il mio pensie¬
ro, meglio di quanto non potei
fare quando ci trovammo in casa
di comuni amici prima delle ele¬
zioni. Parlammo allora del-
r« esprit de géométrie» e del-
r« esprit de finesse », ma ci di¬
menticammo di parlare del-
r« esprit de prévoyance » che
non credo fosse compreso nelle
categorie di Pascal.
Le parole dei vostri program¬
mi sono allettanti e seducenti
per un medio industriale che
lotta come io faccio con le dif¬
ficoltà quotidiane. Non sono so¬
cialista, anche se ho votato PSI
per il Senato per un amico del
Collegio di Ivrea, voto, lo dico
chiaramente, riequilibratore del¬
l’indirizzo del partito liberale
italiano. Indirizzo che condivido
in una certa misura, finché mi
appello alla logica, ma che ri¬
pudio quando penso alla storia
recente e metto un grano di im¬
maginativa nel mio pensiero po¬
litico.
Tu sarai giustamente fiero del
successo del tuo partito. Ma cer¬
tamente ti sarai domandato chi
sono i tuoi elettori: i grandi, i
medi e i piccoli; quanto vi era
di protesta nei voti raccolti?
quanto di coerenza?
Isolato ho dato le dimissioni
nel 1955 dal partito liberale ita¬
liano per motivi meramente po¬
litici: l’appoggio che il partito
ha dato in Parlamento alla leg¬
ge che deferisce al Tribunale Mi¬
litare i reati compiuti nell’am¬
bito del lavoro. Se una persona
ripudia il fascismo ha una natu¬
rale allergia per tutto ciò che
con esso ha anche una lontana
parentela. Non era questo uno
dei nostri temi quando deambu¬
lavamo al buio insieme per Pa¬
rigi — maschera antigas a tra¬
colla — nel lontano autunno e
inverno del 1940?
La difesa contro la colletti¬
vizzazione dei beni di produzio¬
ne, quando tale collettivizzazio¬
ne non riguarda particolari in¬
frastrutture è legittimo compito
del tuo partito. Ma quando per
la difesa di questi interessi con¬
tingenti e materiali si deprime il
puro ideale liberale, allora i con¬
sensi sembrano a tutti, e certa¬
mente lo sembrano anche a te,
viziati all’origine. Quali argini
potrai erigere per impedire ai
tuoi grandi e piccoli elettori di
portare inevitabilmente il tuo
partito nelle questioni di poli¬
tica internazionale, nelle que¬
stioni di politica interna, non
dico nella palude fascista, ma
su terreni viscidi che con esso
fascismo confinano?
La parola del Santo Padre è
stata ripresa dal PLI e da te
personalmente sul video. Era e
3S
rimane a ben vedere una paro¬
la altissima, sia per il suo ac¬
cento di grande sincerità, sia per
il carattere di universalità e tol¬
leranza religiosa (e quindi anche
verso una confessione quale è
l’idea marxista). E perchè al¬
lora recriminare, oggi, e qua¬
si lagnarsi che questa superiore
concezione possa (e rimarrebbe
ancora da provarlo) avere au¬
mentato i voti del partito co¬
munista?
Mi giudicherai tremendamen¬
te ingenuo, ma proprio perchè
non accetto il materialismo sto¬
rico, penso che più dei voti e
degli interessi siano gli « at¬
tributi qualitativi » di queste
due entità che possono sia pure
non esclusivamente entrare a
determinare e caratterizzare in
un certo periodo storico una cer»
ta ideologia politica.
Appellati al tuo senso della
storia; vorrei, ma per il momen¬
to non posso, contare sul tuo
«esprit de prévoyance» per le
vere fortune del PLI che non
sono quelle elettorali.
Coi più cordiali saluti abbi¬
mi tuo
GIOVANNI ENRIQUES
Una postilla
PUBBLICHIAMO volentieri queste due lettere
aperte del nostro amico Giovanni Enriques, non
soltanto perché dicono cose interessanti, ma anche
perché esprimono in modo significativo una posizione
caratteristica di un tempo contrassegnato da grandi
mutamenti, quale quello in cui ci accade di vivere.
Enriques si definisce, non senza una punta di civet¬
teria, un ” conservatore e qualcosa di un intelli¬
gente e colto conservatorismo c’è indubbiamente nel
suo atteggiamento. Ma la qualificazione di conser¬
vatore non lo definisce completamente o lo definisce
soltanto se si tiene conto di una certa sottolineatura
ironica e problematica della parola. Egli ci appare un
uomo diviso fra due contrastanti aspirazioni e ten-
"lenze; e fin qui la sua posizione non è diversa da
quella della maggior parte dei suoi contemporanei,
perché chi non è diviso ai nostri giorni? Ciò che
interessa è il particolare significato di queste intime
divisioni: e, per Giovanni Enriques, il senso della
contraddizione nella* quale egli si muove risulta chia¬
ramente dalle lettere che pubblichiamo.
Egli è attaccato ai valori della civiltà alla quale
apparteniamo, ma non consiste in questo il suo con¬
servatorismo. Avverso al fascismo e a tutti i movi¬
menti involutivi attraverso i quali si contrasta invano
lo sviluppo della società verso forme di convivenza
aperte a una sempre più attiva partecipazione di
tutti gli es.seri umani, devoto agli ideali della libertà
e conscio di tutte le esigenze che ne derivano, Enri¬
ques sa bene che democrazia e libertà non si identi¬
ficano in determinate istituzioni e strutture convali¬
date da un’antica esperienza, ma assumono espressioni
sempre nuove e diverse in un mondo che va conti¬
nuamente mutando. Su questo piano, sul piano della
democrazia politica, egli non ha esitazioni né timi¬
dezze; noi che non possiamo, neppure con qualche
ammiccamento, chiamarci conservatori, sappiamo che
lo avremo sempre vicino in qualsiasi battaglia, si tratti
della difesa del laicismo, o della lotta contro la cen¬
sura, o della resistenza agli arbitrii polizieschi. Le
cose cambiano quando dai problemi morali della
vita politica si passa ai problemi economici. Qui si
desta in Enriques, come in altri della sua forma¬
zione, qualcosa che resiste ai mutamenti e alle ri¬
forme, quel qualcosa che egli chiama il suo conser¬
vatorismo. Di fronte a misure quali la nazionalizza¬
zione dell’energia elettrica, Enriques si ritrae; si ri¬
fiuta di riconoscervi una diversa espressione degli ideali
di libertà che egli coltiva in altri campi della vita
sociale; ha l’impressione di trovarsi di fronte a un
prodotto di una politica deteriore, a una manifesta¬
zione di demagogia.
QUESTO è il motivo centrale della lettera a La
” Malfa. Nella quale, se il nostro amico ci con¬
sente di fare su di lui queste ricerche psicologiche,
prevale, sul cittadino appassionato ai problemi della
libertà e della democrazia, il dirigente industriale,
l’imprenditore, l’uomo abituato a partecipare come
protagonista al processo produttivo. Lo diciamo con
molto rispetto e molta comprensione. L’impresa pri¬
vata, come si è venuta sviluppando nel periodo
capitalistico, è stata uno strumento che ha consentito
a uomini delle qualità di Enriques di soddisfare, non
tanto i piaceri connessi al possesso dei beni materiali,
quanto il gusto dell’azione, la capacità creativa, la co¬
scienza di contribuire al progresso tecnico ed eco¬
nomico. Non può meravigliare che chi ha partecipato
e partecipa alla vita dell’impresa privata traendone
queste soddisfazioni veda con preoccupazione la pro¬
gressiva limitazione dello spazio che le è riservato.
Da quali pericoli sia insidiata la vita dell’impresa
pubblica, quale lungo cammino questa debba percor¬
rere per raggiungere — se mai li raggiungerà — •
livelli di efficienza propri all’impresa capitalistica, nel
periodo del suo massimo fulgore, lo sappiamo bene
anche noi che abbiamo, di fronte a questi problemi,
una posizione diversa da quella del nostro amico
Enriques. Possiamo dunque comprendere le sue per¬
plessità, che sono talvolta anche le nostre.
JpERCHE’ di solito le superiamo, perché ritenia¬
mo che debbano essere superate? Sarebbe lungo
e inutile tentare di esporne qui le ragioni. Se si parla
su un piano razionale c generale, prescindendo dalle
reazioni istintive che in ciascuno di noi possono es¬
sere determinate dalla nostra personale esperienza
e dal nostro temperamento, Enriques sa meglio di
noi quanto i problemi della libertà politica siano
strettamente connessi, anche per chi non fa pro¬
fessione di marxismo, con quelli delle strutture eco¬
nomiche; sa quale pericolo per la vita democratica
rappresentino quei centri di potere che sono le grandi
concentrazioni capitalistiche; sa che l’impresa pri¬
vata, quando abbia raggiunto certe dimensioni, subisce
un processo di degenerazione che l’allontana dal mo¬
dello al quale sono connesse le sue passate fortune
34
e la rende incapace di svolgere quella funzione che
■n altri tempi le fu assegnata. Per chi, come noi e
come Enriques, non sia ancorato alle posizioni di
un astratto e superato liberismo, né si ispiri a ideo-
Jpsie collettivistiche, il problema è dunque soltanto
di stabilire in quali casi e a quali condizioni l’im¬
presa privata possa sopravvivere; e come debba es¬
sere organizzata e debba funzionare l’impresa pubblica,
quando non si possa fare a meno di ricorrervi. Da
questo punto di vista non vorremmo lasciare senza
cisposta i dubbi che Enriques solleva sulla nazio¬
nalizzazione dell’energia elettrica.
Questa misura, che costituisce indubbiamente il
più impegnativo atto politico compiuto in Italia
dalla liberazione in poi, non è stata determinata da
ragioni di astratto dottrinarismo, né da una passiva
acquiescenza a motivi di propaganda. Le ragioni po¬
litiche, economiche e tecniche che l’hanno giustifi¬
cata sono state troppo ampiamente illustrate perché
occorra ricordarle. Enriques pare ammettere che l’in¬
tendimento di distruggere o contenere i centri pri¬
vati di potere creati dal controllo della produzione
c distribuzione dell’energia elettrica potesse concor-
rere a giustificare un provvedimento di nazionaliz¬
zazione. Ma egli nega che quell’intendimento possa
essere attuato: e qui, Enriques me lo consenta, la
sua argomentazione è contraddittoria. Egli afferma,
da un lato, che la messa a disposizione dei gruppi
privati espropriati delle somme ingenti costituite dal¬
le indennità di esproprio darà a quei gruppi una
potenza maggiore di quella che essi possedevano in
passato; d’altro lato, si chiede come quelle somme
potranno essere investite. Quando passò allo stato
la rete ferroviaria, egli ricorda, i capitali resisi di¬
sponibili a favore delle società espropriate furono
•mpiegati nella costruzione di quegli impianti elet¬
trici che sono ora stati, anch’essi, nazionalizzati. Si
presenta oggi ai baroni dell’energia elettrica una
analoga possibilità?
gNRlQUES ne dubita: e ben a ragione. Le stesse
ragioni che hanno condotto alla nazionalizzazione
dell’energia elettrica escludono che all’impresa pri¬
vata possano essere oggi affidate iniziative determi¬
nanti per lo sviluppo del nostro sistema produttivo,
come fu a suo tempo la costruzione della rete fer¬
roviaria o quella del complesso di produzione e di¬
stribuzione dell’energia elettrica. Non a caso la crea¬
zione di una moderna e razionale siderurgia e quella
di un’industria degli idrocarburi — le due grandi
iniziative economiche di questo dopo-guerra — sono
state assunte dal pubblico potere. Ma ciò non toglie
che le indennità pagate per l’esproprio degli impianti
elettrici possano essere utilmente investite nell’ampio
settore in cui è ancora riconosciuta, in Italia, una
funzione aH’imprcsa privata. Se le circostanze im¬
porranno un frazionamento di impieghi e di inizia¬
tive, tanto meglio: sarà questa una garanzia contro
quel consolidamento di potere, che Enriques sembra
temere.
Il nostro amico ” conservatore ” chiede ancora,
nella sua lettera a La Malfa, perché, volendosi sot¬
trarre l’industria elettrica al controllo dei privati,
non si è fatto ricorso all’* irizzazione ». Veramente,
le ragioni di questa scelta sono state ripetutamente
spiegate. Innanzi tutto, la sopravvivenza di una
pluralità di imprese, dotate di un’autonomia pa¬
trimoniale e obbligate a tener conto dei legittimi
interessi delle loro minoranze azionarie, non avrebbe
consentito quell’unificazione tecnica ed economica che
è la prima finalità della nazionalizzazione. Ma c’è di
più: e qui il discorso si allarga. Il sistema che prende
il suo nome dall’IRI ha soddisfatto le esigenze di
un periodo di transizione, nel quale lo Stato si è
trovato costretto a integrare e sostituire l’iniziativa
privata inadeguata o carente. Perciò, a prescindere
da possibili insufficienze o colpe individuali, le in¬
dustrie IRI si sono inserite in un sistema produttivo
dominato dalla logica dell’iniziativa privata e della
volontà dei gruppi capitalistici prevalenti. Oggi que¬
sto processo si è rovesciato; oggi è l’impresa privata
quella che, se vuole sopravvivere, deve sapersi inse¬
rire in un sistema dominato, attraverso la pianifica¬
zione, i controlli, l’iniziativa pubblica diretta, dallo
Stato. Enriques, che è uomo aperto a ogni moderna
corrente di idee, non condanna la nazionalizzazione
in nome di un vecchio credo liberistico, ma sembra
riecheggiare alcuni più recenti motivi della polemica
contro le nazionalizzazioni. Sempre più si sente ripe¬
tere che la nazionalizzazione è ormai uno strumento
arcaico, ripudiato dai paesi più progrediti e più aperti
alle esigenze sociali. Ma si ha torto a non ricordare
perché, nei paesi che si additano ad esempio, la na¬
zionalizzazione possa considerarsi, in qualche misura,
superata. A chi soffra di queste amnesie, vorremmo
consigliare la lettura di alcune pagine del Myrdal,
nelle quali egli parla del suo paese, di quel paese
che qualche ” progressista ” nostrano ama citare ad
ogni piè sospinto. In Svezia, egli dice, da quando è
al governo il partito socialista democratico, non si
è verificata alcuna ulteriore spinta verso la naziona¬
lizzazione. Ma l’economista svedese fa un ampio qua¬
dro dei controlli ai quali è soggetta l’iniziativa privata,
concludendo che essa è già ” socializzata ” nei suoi
aspetti essenziali; che non si potrebbe ottenere di
più attraverso la sua assunzione da parte dello Stato.
pA DUNQUE bene Enriques a rivolgersi, piut¬
tosto che a La Malfa e a chi ha patrocinato la
nazionalizzazione, a Malagodi e a quel ceto impren¬
ditoriale che trova nel partito liberale la sua espres¬
sione. Non vi è Stato moderno che, in una certa
misura, non ricorra alla nazionalizzazione. E, quando
si tratta dell’energia elettrica, non vi è forse nulla
che, in definitiva, possa evitarla. Ma non c’è dubbio
che le misure di nazionalizzazione possono essere li¬
mitate da quello che Enriques chiama Vesprit de pré-
voyance degli imprenditori, i quali, per citare ancora
una volta il Myrdal, dovrebbero imparare quello che
sanno i proprietari e i direttori di azienda svedesi, e
cioè ” di dover giustificare ogni anno l’esistenza del¬
l’azienda stessa come impresa privata, se vogliono evi¬
tare che essa venga più strettamente controllata e,
magari, nazionalizzata ”. Ma, perché il nostro ceto
imprenditoriale fosse capace di apprendere questa
lezione, occorrerebbe che esso contasse un maggior
numero di ” conservatori ” come Giovanni Enriques.
LEOPOLDO PIC.CARDI
35
I privilegi della polizia
di MARCO RAMAT
^jrsA DELLE prime sentenze della Corte Costitu-
zionale nella nuova legislatura sarà quella sulla
legittimità costituzionale dell'istituto della « autoriz-
zazione a procedere per i reali commessi in servizio
di polizia» (art. 16 cod. proc. pen.: «Non si pro¬
cede senza autorizzazione del Ministro della Giusti¬
zia contro gii ufficiali od agenti di pubblica sicu¬
rezza o di polizia giudiziaria o contro militari in
servizio di pubblica sicurezza, per fatti compiuti in
servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro
mezzo di coazione fisica. La stessa norma si applica
alle persone che legalmente richieste hanno prestato
assistenza. L’autorizzazione è necessaria per proce¬
dere tanto contro chi ha compiuto il fatto, quanto
contro chi ha dato l’ordine di compierlo»),
E’ compatibile questo articolo con il principio
costituzionale della eguaglianza di tutti i cittadini
davanti alla legge senza distinzioni di condizioni
personali? E con quello secondo cui nessuno può
essere distolto al giudice naturale precostituito per
legge? E con il principio che il pubblico ministero
ha l’obbligo di esercitare l’azione penale?
Risponderà fra pochi giorni la Corte Costitu¬
zionale, Ma intanto, nell’attesa della pubblicazione
della sentenza e in qualsiasi modo quest’ultima ab¬
bia a decidere, sembra opportuno accennare alla
origine ed alle caratteristiche che sul piano poli¬
tico-costituzionale si vollero dare all’art. 16 della
procedura penale da parte del legislatore del 1931.
Nella relazione preliminare al progetto del cod.
proc. pen. del guardasigilli Rocco si legge: « ... non
si può sperare che i predetti ufficiali ed agenti
adempiano ai loro doveri con la necessaria pron¬
tezza ed energia, se la legge non li solleva dalla
preoccupazione di andare soggetti ad un procedi¬
mento penale ogni qual volta nell’esercizio di quelle
funzioni accada loro di compiere un fatto che la
legge astrattamente prevede come reato. Non ba¬
stano le disposizioni sulla legittima difesa, sullo
stato di necessità ecc.; occorre eliminare anche l’an-
lia e la molestia del processo, nei casi in cui risulti
evidente la legittimità dell’azione ».
E nella relazione al progetto definitivo lo stesso
Rocco scriveva:
« Non si tratta di una arbitraria ingerenza della
amministrazione nella funzione giurisdizionale, ma
di un potere, riconosciuto previamente e in modo
generale, per legge, al Governo, come supremo rap¬
presentante dello Stato, di decidere se, nei singoli
casi, sia da procedersi o meno. Del resto questo
potere, che, dato il sistema del progetto, non po¬
trebbe negarsi al p.m., a maggior ragione deve attri¬
buirsi al Governo, dal quale il p.m. dipende ».
Questo è dunque l’atto di nascita della autoriz¬
zazione a procedere per i reati commessi in ser¬
vizio di polizia. E si tratta di un atto di nascita molto
significativo per le seguenti ragioni.
1 ) Questa autorizzazione a procedere è stata
introdotta in via generale nel nostro ordinamento
dal legislatore fascista il quale prese spunto, a tal
fine, aggravandola, da una norma eccezionale (il
decreto luogotenenziale 10-12-1917, n. 1952, art. 6)
dettata per il periodo di guerra ed emesso subito
dopo Caporetto.
2) Deriva direttamente dalla concezione asso¬
lutistica dello Stato, del quale il « Governo » è il
« supremo rappresentante », padrone di tutto e
uindi padrone, anche, di decidere se la giustizia
ebba o non debba avere il proprio corso.
3 ) La si volle, sul piano dei « principi giuri¬
dici », giustificare sulla allora esatta premessa che
il p.m., cui spetta il promovimento della azione pe¬
nale, dipendeva gerarchicamente dal Governo, per
cui si voleva dire che attribuire al Governo il po¬
tere di concedere o di rifiutare l’autorizzazione a
procedere, equivaleva in sostanza ad un trasferimen¬
to di attribuzioni dalla base al vertice della pira¬
mide del medesimo ordine.
4) Fu ispirata a palese diffidenza verso la ma¬
gistratura e verso l’attività giudiziaria, c con il di¬
chiarato scopo di sottrarre alla magistratura un giu¬
dizio che, senza l’autorizzazione a procedere, sareb¬
be stato di sua naturale ed esclusiva competenza
(« ... l’uso legittimo delle armi da parte della forza
pubblica... neppure deve dar luogo a procedimento
penale »).
5) Era strettamente collegata, come mezzo
allo^ scopo, alla norma del codice penale ( art. 33 )
sull’uso legittimo delle armi da parte del pubblico
ufficiale, uso assurto a causa autonoma di non puni¬
bilità, al di là dei limiti delle altre tradizionali cause
di non punibilità (Esercizio di un diritto o adempi¬
mento di un dovere; difesa legittima). E l’uso Ic-
delle armi (tale, l’uso, quando il pubblico
ufficiale vi sia « costretto dalla necessità di respin¬
gere una violenza o di vincere una resistenza al-
1 Autorità»), era un caposaldo del regime totali¬
tario, ostentatamente presentato in antitesi a quegli
« aberranti criteri » secondo i quali appariva natu¬
rale c giusto che la polizia si servisse delle armi
per difendersi, non per attaccare i cittadini.
Ora è facile dimostrare puntualmente che, sul
terreno giuridico-costituzionale, nessuna delle ragioni
sulle quali fu fondato l’istituto della autorizzazione
a procedere per reati commessi in servizio di polizia
esistono più; e che anzi siamo in un regime che si
fonda su princìpi opposti.
Siamo, infatti:
1) In un regime democratico e in periodo di
pace, dove sarebbe davvero desiderabile che, nel-
S6
1 ambito del rapporto cittadini-autorità, si raggiun¬
gesse finalmente la distensione fra i cittadini e la
polizia.
2) Il governo non è nient’affatto più il supre-
•mo rappresentante dello Stato, ma ha soltanto le
massime attribuzioni del potere esecutivo; ed è anzi
nelle tendenze costituzionali degli stati democratici
il predisporre garanzie contro gli eventuali abusi del
potere esecutivo che, fra i tre poteri dello Stato, è quel¬
lo istituzionalmente più forte. E, soprattutto, la nostra
Costituzione vuole impedire nel modo più assoluto
l’ingerenza dell’esecutivo nell’amministrazione della
giustizia (mentre in qualunque modo si esprimesse
il ministro Rocco o chiunque altro, è ingerenza nella
amministrazione della giustizia l’autorizzazione a pro¬
cedere del ministro).
3) Il pubblico ministero non è più il rappre¬
sentante dei potere esecutivo, ma, essendo l’ufficio
del pubblico ministero composto da magistrati, è an-
ch’esso indipendente dal Governo (parliamo, natu¬
ralmente, in termini di (istituzione, anche se pur¬
troppo di Costituzione inattuata, ché è ancora in
vigore l’art. 69 dell’Ordinamento giudiziario del 1941,
appena corretto nel 1946, secondo il quale il P.M.
esercita le proprie funzioni sotto la sorveglianza del
Ministro di Grazia e Giustizia).
Non sarebbe, quindi, più sostenibile oggi, la pur
allora strana giustificazione del Rocco, e cioè che
con l’autorizzazione a procedere del Ministro ti
avrebbe soltanto un trasferimento a quest’ultimo del¬
la funzione di promuovere l’azione penale, assegnata
per legge al pubblico ministero.
4) Non è ammissibile alcuna diffidenza gover¬
nativa verso l’attività della magistratura, e non sono
pertanto ammissibili i diaframmi autoritari destinati,
per mezzo di giudizi preventivi, a « coprire * da de¬
terminate imputazioni; neanche è ammissibile il so¬
spetto che tali diaframmi mirino a questo scopo,
sospetto che del resto era più che confermato dalle
relazioni ministeriali più sopra riportate.
Il problema posto alla Corte Costituzionale è
dunque di stabilire se l’istituto della autorizzazione
* procedere sia, nonostante questi connotati tipica¬
mente totalitari che accompagnarono e favorirono il
suo sorgere, compatibile con la Costituzione repub¬
blicana e con il nuovo regime democratico. Alla
tesi che, dalla nascita e dafie caratteristiche totali¬
tarie dell’istituto, fa discendere un chiaro sospetto
rii illegittimità di ciuest’ultimo, si potrebbe obbiet¬
tare che non tutte le norme legislative emanate du¬
rante il fascismo sono, per ciò solo, incostituzionali,
c che anche leggi emanate con l’intento di farne armi
totalitarie, possono sopravvivere, con diversa inter¬
pretazione e diversi scopi, in regime democratico.
A noi, però, modestamente non sembra che questa
obbiezione possa valere per l’istituto della autoriz¬
zazione a procedere per i reati commessi in servizio
di polizia, perché non riusciamo a vedere a quali
altri scopi che non siano quelli del prepotere del¬
l’esecutivo, dell’esautoramento della magistratura e
di un regime di privilegio per la polizia, l’istituto
possa corrispondere.
Del resto, la stessa Corte Costituzionale pare es¬
sersi messa da sé sulla strada del riconoscimento della
illegittimità costituzionale dell’art. 16 cpp., e pre¬
cisamente con la sentenza 5 maggio 1959 n. 22.
La Corte esaminò allora la questione della le¬
gittimità costituzionale di un altro tipo di autoriz¬
zazione ministerale a procedere: quella dell’art. 313
cod. pen., richiesta per una serie di reati politici
o parapolitici previsti dallo stesso codice penale. La
C^rte decise allora che in questa autorizzazione a
procedere non vi era illeggittimità. La questione era
diversa perché, mentre in quel caso il privilegio della
autorizzazione a procedere riguardava soltanto quei
dati reati, da chiunque commessi (era, quindi un
privilegio oggettivo), nel caso della autorizzazione a
procedere per reati commessi in servizio di polizia,
il privilegio non riguarda certi determinati reati, ma
certi determinati imputati (qui si tratta, dunque, di
un privilegio soggettivo).
Disse la Corte Costituzionale nella motivazione
di quella sentenza: « ... non sussiste l’asserito con¬
trasto tra l’istituto della autorizzazione a procedere
preveduto dall’articolo 313, 3° comma del c.p. e il
principio deli’art. 3, 1° comma della Costituzione,
secondo il quale tutti i cittadini sono eguali davanti
alla legge?
«Ed invero il citato art. 313 nessuna discrimi¬
nazione opera tra i cittadini, in quanto i medesimi,
qualora si trovino nelle situazioni prevedute da tale
disposizione, ricevono tutti indistintamente il mede¬
simo trattamento.
« Il che appare evidente, ove si consideri che
la valutazione demandata al Ministro della Giustizia
ha per oggetto il promuovimento o la prosecuzione
dell’azione penale per determinati reati, chiunque ne
sia l’autore ».
Argomentando e contrario, dalle premesse poste
dalla Corte Costituzionale in questa sentenza, si hi
che ove un’autorizzazione a procedere non riguardi
determinati reati, chiunque ne sia l’autore, bensì
determinati imputati, qualunque sia il reato conte¬
stabile, allora siamo di fronte ad una discriminazione
fra cittadini e, quindi, alla violazione del principio
dell’eguaglianza davanti alla legge.
Disse, ancora^ la Corte (Costituzionale nella stessa
motivazione, che non aveva rilevanza nella questione
allora decisa « il richiamo all’art. 68, 2® comma (Co¬
stituzione per argomentare... che quando il Costi¬
tuente ha voluto stabilire un’eccezione lo ha fatto
con norma non estensibile oltre i casi indicati. Infatti
l’autorizzazione a procedere contro i membri del
Parlamento (art. 68, 2“ comma Costituzione), giu¬
stificata dalla esigenza di garantire il funzionamento
di un organo costituzionale, non si riferisce al reato,
come quella preveduta dallart. 313, bensì al suo
autore. £ il motivo di tale espressa previsione sta
nel fatto che l'autorizzazione riguarda i membri del
Parlamento ».
Anche qui, argomentando <• contrario, si ha che,
non essendo la polizia un organo costituzionale, non
si può porre per essa il privilegio della autorizzazione
a procedere, e forse anche che l’unica autorizzazione
a procedere costituzionalmente legittima è quella po¬
sta dalla stessa Costituzione riguardo ai membri del
Parlamento, e nessun’altra.
5IARCO RAMAT
S7
LIBRI
“L’amico dell’anima,,
echiraiiile di Poggio Gherardo
di C. Marghieri
Riccardo Ricciardi Editore, 1962.
QUESTO secondo libro di Clotil-
” de Margliieri, che segue quella
"Vita in villa", pubblicata con
successo nel 1960, me ne riporta
^lla mente un altro di dieci anni
fa: " Camera oscura " di Libero
de Libero (Garzanti), che non eb¬
be, per ovvii motivi, la fortuna
che meritava.
Se, nelle ” Educande ”, l’autrice
racconta in prima persona i suoi
anni di collegio in un nobile e cat¬
tolicissimo istituto fiorentino, de
Libero fa la storia di uno di quei
ragazzi che entrano nei seminari non
per vocazione religiosa ma per stret¬
tezze finanziarie della famiglia e ne
escono con quelle ” graffiature del¬
l’anima ”, con quei microbi dell’ipo¬
crisia e della menzogna da cui tutta
la loro vita futura sarà segnata c
determinata.
Nel libro della Marghieri le graf¬
fiature, i lividi, le deformazioni so¬
no presentati con mano leggera, sul
filo di una costante ironia, che è
tipica di questa scrittrice, mentre in
de Libero sono urlati e pianti, ma
entrambi i racconti si chiudono la¬
sciando la stessa impressione di cu¬
pa rivolta.
La bambina che entra a otto anni
fra le educande di Poggio Gherar¬
do viene subito affidata ad una del¬
le ” grandi ”, che da ben cinque
anni vive in collegio e non ne è
mai uscita, perché ” dal collegio non
si usciva mai, neppure per le gran¬
di vacanze, per perdere ogni con¬
tatto col mondo o col secolo, come
si preferiva chiamarlo
La grande ricorda pochissimo le
cose di ” fuori ” c quando la pic¬
cola chiede: ” Ma allora, è come
essere in prigione? ” essa risponde:
” Il mondo è una prigione e an¬
che tutto pieno di inganni
Misterioso e scoraggiante inizio,
per la bambina che veniva da una
Napoli festosa, da una famiglia di
intellettuali laici ed era approdata
nelle mistiche aure fiorentine per
la debolezza di genitori distratti c
indulgenti e malgrado l’opposizione
di un nonno libero pensatore che
” si era prefisso di obbedire solo
alla Ragione {della dea Ragione,
una bella popolana dai seni scoperti
e il resto della persona avvolto in
una bandiera tricolore aveva una
stampa accanto alla scrivania ”).
L’atmosfera del convento, con i
suoi risvegli alle sei del mattino, gli
abiti grigi e grevi che si dovevano
indossare dietro le tende inamidate
che dividevano i letti, senza mo¬
strare neppure un centimetro di pel¬
le, la mancanza di igiene e le eter¬
ne soste in cappella ” nelle varie se¬
quenze di genuflessioni, inchini e
atteggiamenti estatici ” avvolge la
ragazzina in un alone di meraviglia
e di repugnanza.
Il sentir sempre nominare la mor¬
te la riempie di paura: ” Nell’ora
della nostra morte. Orrore. Perché
dicevano cosi? ”
Per fortuna, c’è in collegio un
motivo di grande attrazione, il sa¬
cerdote giovane e aitante, ” tutto
vestito d’argento ”, che in chiesa
benedice sorridendo e posa lo sguar¬
do su tutte le bambine con tene¬
rezza. La piccola ne è colpita e
chiede il suo nome alla grande, non
nascondendo la sua ammirazione:
” Il Padre — rispose Vittoria sec¬
camente — è a! di sopra del pia¬
cere e non piacere. E’ il Padre e
basta
Ogni tanto, in convento, suona
una campanella fioca, ”che sembra
quella che a Napoli accompagna il
Santissimo ”, ma non suona a mor¬
to, ” suona a uomo ”, come dicono
le compagne, avverte, cioè, che un
uomo è entrato in casa (visitatore,
fornitore, operaio) e le ragazze deb¬
bono ritirarsi. ” Che c’è di male
vedere un uomo? — domanda la
piccola. Ma la risposta non viene.
Tante, troppe risposte non vengono,
mentre si prepara febbrilmente la
prima comunione. La bambina sten¬
ta a capire il grande mistero, non
sa spiegarsi come ” il corpo di Ge¬
sù possa entrare nell’Ostia ”, la not¬
te non riesce ad addormentarsi, le
sue continue richieste di spiegazioni
urtano contro un muro: ” Se non
credi, andrai all’inferno ”.
Il racconto dello scoramento del¬
l’educanda che non prova alcuna
emozione durante il rito, dopo tan
ta attesa e tanti misteri, che prega
inutilmente in ginocchio, che aspet¬
ta, con il viso nelle mani, l’arrivo
della grazia, ha ispirato a Clotilde
Marghieri le sue pagine migliori.
” Non sentivo nulla, assolutamente
nulla. Forse ero condannata, io so¬
la, l’unica condannata ed esclusa ”•
Ma ” dopo ”, il meccanismo del¬
l’educazione confessionale — che
già ha dato i suoi frutti — scatta
e la bambina sa che dovrà mentire,
inventare una emozione, un’estasi
che non ha provato. Nel rispondere
alla suora che indaga: ” si, era inef¬
fabile ” essa è entrata spontanea¬
mente nel gran cerchio dell’equivoco
da cui le sarà così difficile e così
penoso uscire più tardi.
Ancora anni che passano. Arriva
la pubertà, con le sue ferite che
tanto più spaventano l’educanda in
quanto in collegio il corpo viene
considerato un nemico da combat¬
tere, una vergogna da occultare e
per questo i rari bagni vengono pre¬
si in camicia da notte, chiusa al
collo e ai polsi, che nell’acqua della
vasca ” si gonfia come una mon¬
golfiera ”. Ma ora che la ragazzina
” ha pagato il suo tributo come fi¬
glia di Èva ” passerà a far parte del¬
le ” grandi ” e avrà la gioia di in¬
contrare più spesso il Padre e di
far con lui perfino gite in campagna.
Apprende cosi che le ” grandi ” so¬
no tutte innamorate del prete e
hanno fondato insieme a lui una
specie di comunità, con scambio di
santini e di poesie ambigue e al¬
lusive.
” Vedi — disse lentamente Vit¬
toria — si tratta di un legame se¬
greto che unisce tutte noi, se pre¬
ferisci una ghirlanda spirituale in¬
torno al nostro grande amico del¬
l’anima, il Padre
38
■ ® lungo andare l’esta¬
si delle adolescenti, sapientemente
attizzata dall’unico uomo che ne vie
ne a contatto è troppo pericolosa
e prende forme profane, come bi-
® *®*5’,^* dolcissimi e abbracci ” pa-
un certo momento ” l’ami-
eo deH’anima ” viene trasferito al-
trove, anche per suggerimento del¬
ie famiglie allarmate.
E il collegio, senza ” l’uomo ve¬
stito d’argento ”, perde ogni incan¬
to per l’educanda di Poggio Ghe¬
pardo, che chiede di tornare a casa,
orse, a un lettore non molto esi¬
gente o troppo preso dalla grazia
esteriore del racconto, il libro del¬
la Marghieri potrà sembrare solo
un poco malizioso, un libro di sa¬
pore antico, in cui si racconta di
cose lontane da noi. Ma nel libro
c’è di più. C’è la condanna di un
sistema educativo falso e bugiardo,
c’è la critica di un conformismo
sistematico e gelido, che frena ogni
slancio sincero ma non preserva da
malsani e pericolosi turbamenti, c’è
il costante richiamo al pericolo del¬
la menzogna che nasce dall’imposi¬
zione di regole aride e assurde, ca¬
muffate da virtù.
Anna Garofalo
I «conservatori nazionali»
^ conservatori nazionali. Bio-
tiraiia <li Carlo Santurri
di G. De Rosa
En Morcelliana, 1962. pp. 252,
L. 1600.
I ” CONSERVATORI nazionali ”
(ai quali ha dedicato ora uno
studio lo storico Gabriele De Rosa)
sono quei dirigenti cattolici che,
toossi da una posizione di ” cleri-
co-nazionalismo ”, hanno compiuto
"ella loro area la stessa parabola
dei nazionalisti verso il fascismo.
De Rosa ha potuto lavorare —
con la consueta finezza di analisi;
badando a non gravare mai la ma-
"0. e a lasciare che la morale della
storia esca dalla storia stessa — sui
Materiali inediti delle carte private
di Carlo Santucci; ha visto anche
lettere importanti del Cardinal Ga-
sparri, e le ” Memorie ”, sempre
ancora inedite, del Segretario di
Stato.
Carlo Santucci fu, insieme a Mat-
toi Gentili, Grosoli e Martire, Ca-
l’apelle e Mauro, fra gl’iniziatori del
Centro Nazionale il raggruppa¬
mento di ” popolari ” che si dimi¬
sero dal partito, per allinearsi al
lascismo. Che uomini erano?
Da giovani, scrive De Rosa ri-
^struendo la biografia spirituale di
Carlo Santucci, avevano accettato
toalisticamente la fine del potere
temporale. ” Fino a ieri l’altro cre¬
demmo al miracolo che avrebbe im¬
pedito la caduta temporale del Pa-
P3: ma poiché il miracolo non è
avvenuto, deve ritenersi che Dio
foglia un altro ordine politico...
Ce unificazioni italiana e tedesca co¬
stituivano il dato ” nazionale ” sul
quale costruire ora una linea di con¬
servatorismo illuminato. Brasi af¬
fermato ” un nazionalismo, che ri¬
formava tutta la storia moderna,
destinato a svolgersi, a compiersi,
a stabilirsi come una di quelle gran¬
di tappe della storia politica del
mondo, che non sono certo perpe¬
tue, ma devono percorrere tutta la
curva dei grandi avvenimenti che
formano un’epoca ”.
In questa ” esaltazione del pro¬
digio prussiano ” si formano questi
giovani cattolici ” nazionali ”, anche
se dominati sempre ” da un senti¬
mento più grande di fedeltà alla
Chiesa ”. Costoro pertanto ” fecero
politica credendo sempre di ” do¬
vere ” intervenire per salvare reli¬
gione, ordine e autorità ”, sino a
non saper più vedere la ” irreligio¬
ne, la violenza, l’arbitrio, in coloro
cui si affidavano
” Credettero che la persecuzione lai¬
cistica e ateistica fosse molto più
pericolosa dell’adescamento, del cor-
rompimento sottile della politica
strumentale di un potere totalitario,
assetato di servitù ”. Vite sbagliate,
se vogliamo giudicarle con pietà;
tragiche vite, rose nella tortura del¬
lo scrupolo e del dubbio: finite nel¬
la compromissione con la ” causa
perduta ”, quella del fascismo.
I ” conservatori nazionali ” non
avevano atteso, narra De Rosa, il
delitto Matteotti, per avvicinar¬
si definitivamente al fascismo. Il¬
lusi all’inizio che il ” popolarismo ”
fosse stato assecondato o incorag¬
giato dalla Chiesa, poi venuti in
chiaro che questa voleva esservi net¬
tamente estranea (e si vide poi fino
a qual punto), uomini come il San¬
tucci lo avevano tuttavia accettato
con mente apparentemente aperta
(” non credo ai blocchi antisocia¬
listi e antisovversivi ”), sinché si
trattava di puri propositi verbali.
” Ma la situazione incominciò a far¬
si insopportabile quando i popo¬
lari cercarono un’intesa con i socia¬
listi in sede parlamentare, nel ten¬
tativo di sostituire, al governo del¬
l’ottimismo imbelle di Facta, un
ministero antifascista, nel luglio del
Fu questa la linea di demarca¬
zione: da quel momento, Santucci
e i suoi amici incominciarono a in¬
sistere ” perché i popolari collabo-
^^ss^ro al primo ministero Mussoli¬
ni ”. Poi, per le elezioni del 6 apri¬
le 1924, che si tennero con la ” leg¬
ge Acerbo ”, antenata di tutte le
” leggi truffa ”, centocinquanta fra
le maggiori personalità cattoliche re¬
dassero un manifesto (che il San¬
tucci corresse e perfezionò di suo
pugno), con il quale si impegna¬
vano a dare appoggio alla lista ” na¬
zionale ”,
Un mese dopo appariva un libro
di Giacomo Matteotti, intitolato
” Un anno di dominazione fasci¬
sta ”; ai primi di giugno, apertasi
la^ Camera, il deputato socialista
iniziò quella requisitoria contro le
violenze elettorali del "regime”,
che doveva portarlo alla morte. lì
10 giugno, Giacomo Matteotti scom¬
parve. Santucci, Martire, Carapelle,
erano ormai sulla china fatale: ӏ
assurdo, scrivevano, elevare ad
espressione di partito o di regime
un delitto, che era il fatto isolato
di alcuni fanatici o profittatori o
traditori del Partito fascista ”; an-
~ come diceva un amico del San¬
tucci, il Carapelle — ” la respon¬
sabilità era stata del Partito Po¬
polare: di avere chiuso la sua esi¬
stenza con due fatti ignominiosi, la
proclamata possibilità di collabora¬
zione col socialismo — e la cam¬
pagna per la così detta questione
morale ”.
Costituito il Centro Nazionale dei
clericofascisti, non bastò l’« occhio
di riguardo » dei prefetti a dargli
fortuna e durata. E neppure che,
dopo il delitto Matteotti, Pio XI
irrigidisse la sua severità verso quel¬
la ” collaborazione coi socialisti, che
nessun cattolico avrebbe potuto ap¬
provare con il pretesto (r/c) di una
opposizione alle violenze fasciste
Aladina
39
Feltrinelli
Nella Storia del mondo moderno è uscito: Gli Stati Uniti, due
volumi di Michael Kraus e Poster Rhea Dulles. Dai primi
viaggi di scoperta e di esplorazione alla sfida spaziale. Le idee, gli avvenimenti,
le personalità che hanno fatto gli Stati Uniti quali sono oggi. Un “racconto”
accuratamente documentato, spregiudicatamente obiettivo.
Dopo le entusiastiche accoglienze della critica tributate a Musica antica e
orientale esce il secondo volume della Storia della musica (The New
Oxford History of Music), Musica mediocvale fino al Trecento
a cura di Dom Anselm Hughes. Ogni capitolo è opera del piu auto¬
revole studioso del periodo e dell’argomento trattato.
I
Autobiografia precoce di Evgenij Evtusenko: ricordi d’in¬
fanzia dell’epoca di Stalin, chi decideva della politica letteraria, dialogo con
un antisemita del Komsomol, la morte di Stalin, quattro incontri con Paster-
nak, i pericoli del dogmatismo, come fu pubblicata "Babij Yar."
Il romanzo vincitore del Premio internazionale degli Editori “Formentor”:
Il terzo libro su Achim di Uwe Johnson autore del noto Con¬
getture su Jakob. La storia del giornalista Karsch a contatto col dramma
delle due Germanie. La differenza tra due mondi ormai lontanissimi, tra due
opposte alienazioni. “Un racconto sulla soglia del capolavoro.”
Una profonda e obiettiva indagine sulla natura e le caratteristiche delle società
africane nei secoli che precedettero la loro distruzione e la degradazione pro¬
vocata dalla conquista europea: La riscoperta dell’Africa di
Basii Davidson.
Feltrinelli