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Full text of "L'Astrolabio 1963 n° 13"

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L? astrolabio 

problemi deliavita italiana 


Anno 1 — N. 13 
10 ottobre 1963 


Una copia lire 100 



« Il 35° Congresso dovrà cimentarsi 
con problemi analoghi nel loro fondo 
a quelli dibattuti in Inghilterra. Siamo 
anche nel nostro paese a una svolta in 
cui soltanto l'accesso dei socialisti a 
posizioni di potere ed al governo può 
introdurre un elemento di sviluppo e 
di controllo nella direzione dello Stato 
secondo l'interesse dei lavoratori ». 



« Il progresso scientifico pone i pro¬ 
blemi economici e industriali sotto una 
nuova luce e apre nuove prospettive 
al socialismo. La scelta è tra una cieca 
impostazione del processo tecnico, con 
tutte le immaginabili conseguenze per 
quel che riguarda la disoccupazione, e 
un uso cosciente pianificato del pro¬ 
gresso scientifico ». 


L'astrolabio - vi* xxiv Maooio, 43 - Roma 


Tornado sulla Borsa 







Lettere 


Un progetto di legge 


Egregio Direttore, 

ho letto con vivo interesse l'ar¬ 
ticolo di Anna Garofalo sul n. 11 
dell’* Astrolabio » a commento e 
illustrazione del progetto di legge 
delTU.G.I. per la riforma del di¬ 
ritto famigliare, riforma quanto mai 
importante e urgente per il deco¬ 
ro stesso delle nostre leggi. 

A questo proposito, devo ricor¬ 
dare il progetto di legge elaborato 
sullo stesso argomento dal « Co¬ 
mitato per l’affermazione dei di¬ 
ritti della donna », da me presie¬ 
duto, che abbiamo reso noto in 
una conferenza stampa del 23 no¬ 
vembre 1962. 

Ne parlarono tutti i giornali — 
dal « Resto del Carlino » all’« Uni¬ 
tà » —, e avrei gradito sentirlo ri¬ 
cordare anche nell’articolo della 
Garofalo, anche perchè è il pri¬ 
mo progetto che abbia affrontato 
il problema in modo ampio e com¬ 
pleto. Esso riforma tutti gli ar¬ 
ticoli del Codice civile in materia 
di rapporti personali tra coniugi 
e di rapporti tra genitori e prole; 
estendendosi poi anche al Codice 
penale, propone l’abrogazione dei 
famigerati articoli 553 (Incitamen¬ 
to a pratiche contro la procreazio¬ 
ne), 559 (Adulterio), 587 (Delitto 
a causa d’onore). Il progetto fu in¬ 
viato a tutti i presidenti di gruppo 
della Camera e del Senato, ai Pre¬ 
sidenti delle due Camere, al Presi¬ 


dente del Consiglio e al Presidente 
della Repubblica. Molti parlamen¬ 
tari, fra cui gli on. Reale, Nenni, 
Terracini, Saragat, Rodano, ci ri¬ 
sposero in modo favorevole. 

Le sarei grata. Signor Direttore, 
se volesse pubblicare questa preci¬ 
sazione. E’ bene si sappia che tutte 
le associazioni femminili si occu¬ 
pano di questa riforma cosi pro¬ 
fondamente sentita dalle donne 
italiane; e inoltre, la ...primogeni¬ 
tura è una cosa a cui naturalmente 
teniamo molto. 

Mariadele Michelini Crocioni 

Bologna 


Il voto segreto 


Eqrepio Direttore, 
in una lettera pubblicata sul n. 12 
dell'Astrolabio, il signor Raffaello 
Levi ha trattato il problema dei 
franchi tiratori. Si è scagliato con¬ 
tro le segreterie dei partiti che 
cercano di individuarli, e ha giu¬ 
stificato la loro opposizione-ombra 
con i principi del liberalismo e del 
parlamentarismo. Secondo me è 
fuori strada. Egli si richiama alle 
norme costituzionali che garantisco¬ 
no la libertà di opinione e di voto 
dei parlamentari: ma che c’entra? 
Non sono in discussione i parla¬ 
mentari in genere, ma solo coloro 
che evitano di prendere una posi¬ 
zione pubblica durante votazioni 
particolarmente importanti, e ap¬ 


profittano del voto segreto P er 
assumere delle posizioni in contra¬ 
sto con le direttive delle segreterie 
di partito. 

Innanzitutto chiariamo un fatto: 
i franchi tiratori sono un fenome¬ 
no caratteristico di un partito, la 
D-C. Ora si verifica questo: il par¬ 
tito assume una data posizione uf¬ 
ficiale che. talvolta, in una votazio¬ 
ne decisiva alla Camera, non rie¬ 
sco ad affermare perchè il grupp 0 
parlamentare è indebolito dai voti 
dei franchi tiratori. Il Levi consi¬ 
dera il dramma del povero parla¬ 
mentare franco tiratore di fronte 
alla segreteria del partito. Secon¬ 
do me, è più grave l’effetto che 
questa pratica ha sul corpo eletto; 
rale. Non è in gioco la libertà dei 
deputati, è in discussione il I° r0 
diritto di evitare delle prese di P°" 
sizione pubbliche. Faremo l’apo¬ 
logià del gesuitismo? E’ chiaro, 
giuridicamente non esiste un man¬ 
dato degli elettori o dei partiti che 
vincoli il deputato. Ma non possia¬ 
mo ignorare che il cittadino dà la 
preferenza a un certo candidato 
anche in base al programma poli¬ 
tico di cui è portatore. E questo 
programma è quello del partito a 
cui appartiene. A un certo momen¬ 
to il candidato eletto vota contro le 
direttive del proprio partito, senza 
prendere una posizione pubblica, 
cioè senza poter fornire alcuna spie¬ 
gazione agli elettori. 

Il Levi se la prende con la di- 

(Contlnua a pag. 4) 



di 


cronaca. 

politica 

La più aggiornata rassegna degli avveni¬ 
menti interni e internazionali che inte¬ 
ressano il nostro Paese. 

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lina cronaca obiettiva per un giudizio 
obiettivo sugli uomini e sui fatti del 
nostro tempo. 

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mentazione Italiana » Lungotevere Tor di 
Nona, 3 - Roma . Tel. 564.825. 


scuola e città 

Direttore: Ernesto Codignola 

Sommario del fascicolo di settembre : 

B. Suchodolski : L'educazione e il progres¬ 
so della civiltà moderna. 

G. Grassi: Classicità e cristianesimo nella 
pedagogia del Livingstone. 

E. Becchi: Il aritratto composito » del 
superdotato nelle indagini di Lewis Ter¬ 
mali. 

T. Tornasi: La pedagogia nei tribunali mi¬ 
norili. 

L, Tornatore: L’insegnamento scientifico 
nelle scuole primarie inglesi. 

Esperienze e ricerche - Osservatorio - 
Libri. 

Direzione: via delle Mantellate. 8, Firenze 
Abbonamento annuo lire 2500 














Anno 1 — N. 13 


10 ottobre 1963 


T'astrolabio 

problemi della vita italiana 


DIRETTORE: FERRUCCIO PARRI 


Sommario 

Ferruccio Parri 

note e commenti 


ATTUALITÀ' 

Ernesto Rossi 


Leopoldo Piccardi 


Aldo Giobbio 
Federico Artusio 

inchieste 

Luciano Bolis 
Max Salvadori 
Guido Fubini 
Donato 
Sergio Turone 

Ernesto Rossi 

Rubriche 

A. C. Jemolo 
A. Galante Garrone 
Sergio Angeli 


COMITATO DI REDAZIONE 
Lamberto Borghi - Luigi Fossati - Anna Garofalo 
Alessandro Galante Garrone - Gino Luzzatto 
Leopoldo Piccardi - Ernesto Rossi - Paolo Sylos 
Labini - Nino Valeri - Aldo Visalberghi. 
Redattore responsabile: Luigi Ghersi. 


L'esempio laburista. 

Roma - Tornado in borsa. 

Algeria - Algeri e Tzi-Ouzou . 

Sud-America - Castrismo e anticastrismo . . 

Spagna - Stabilizzazione del regime . . . 

La scomparsa di Gino Frontali: Un umanista 

laico . . • 

Il congresso dei magistrati: Anche i giudici 

sono uomini . 

Le trattative sul disarmo: I passi possibili . . 

Le conseguenze ideologiche della distensione: 

Revisione de! neutralismo? • • • • 

Lettera da Parigi: Il doppio senso . . . . 
Lettera dall'America: Kennedy controluce 
Il messaggio di Segni: Gli aspetti politici . . 

Il messaggio di Segni: I poteri del Presidente 
Perchè no al battesimo. 


5 

7 

7 

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9 

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19 

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34 

36 


La riduzione del prezzo del grano (II): La bat¬ 
taglia continua . 

La finestra - Perplessità. 

Controluce - All'inglese e all'italiana . . . 

Diario politico. ; • 

Libri - Documenti sulla Sicilia - 2 miliardi di 
affamati.. • 


24 

13 

35 

37 

38 


Redazione amministrazione: Roma Via XXIV Muffe.« Jf a !%,»&*• 

al% P e?iod^o"r n oÌab?o nn ra pubbScita't'ceU^p^sso ^.'amm.n.straz.one deUAstroiabio TarUfe: una pagirta 150 
mila tire mezza pagina 80 mila lire _ r; A TE Via dei Taurini 19 Roma Distribuzione nelle librerie: 

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Spedizione in abbonamento postale Gruppo II. 


3 






















(*«*ue da pag, J) 

sciplina di partito; ma i parlamen¬ 
tari devono sottoporsi alle direttive 
politiche del loro partito. O voglia¬ 
mo tornare ai notabili rappresen¬ 
tanti di clientele personali? Ce ne 
sono già tanti, e non è il caso di 
difenderli. Che poi gli accordi tra 
le segreterie dei partiti portino al¬ 
la rovina il sistema parlamentare, 
mi sembra un discorso da lasciare 
all'on. Mario Sceiba. 

Antonio Riggio 
Catania 


Un penitente 
smemorato 


Caro Direttore, 

nel numero 32 de « L'Arco » — 
bollettino dell’omonima agenzia di 
informazioni e commenti — il di¬ 
rettore scrive, a proposito degli 
avvenimenti altoatesini, che il pro¬ 
blema è solo un problema di po¬ 
lizia; e che, se non si riporterà in 
tale ambito, « fremeranno di sdegno 
sotto le montagne sacre che sono di¬ 
ventate la loro tomba le centinaia 
di migliaia di soldati italiani che 
sono morti per restituire all’Italia 
Trento e Trieste, e fremeranno di 
sdegno le grandi figure da Vittorio 
Emanuele II, a Cavour, a Mazzini, 
a Garibaldi, a Mussolini, e per¬ 
chè no, a De Gasperi ». 

Il direttore responsabile de 
< L’Arco » ha debole memoria. 
Provvediamo a rinfrescargliela. 
Non ricorda più di aver scritto, 
dopo la caduta del fascismo, che il 
fascismo era « una cosa da nulla », 
e di avere auspicato — retorica- 
mente,- s'intende — una processio¬ 
ne espiatoria di fascisti pentiti co¬ 
me lui, le chiome cosparse di ce¬ 
nere, in Campidoglio? 

Se ora colloca l’autore di quella 
« cosa da nulla » accanto ai quattro 
principali fattori del Risorgimento 
italiano, vuol dire che si è pentito 
del pentimento. Siate certi che, in 
avvenire, si pentirà altre volte: 
tante quanti saranno i cambiamenti 
di direzione del vento che tira. 

L'n lettore 

Roma 


Pangloss a Saigon 


Illustre Direttore. 

mi ha stupito la passività con cui 
la stampa di sinistra ed in gene¬ 
rale tutta quella stampa che ama 
chiamarsi democratica ha accolto 
l'ignobile * inchiesta » televisiva 
sul Vietnam del Sud. L’inchiesta in 
questione è consistita in realtà in 
una semplice intervista ad un ve¬ 
scovo cattolico di Saigon, che ri¬ 
spondeva alle domande dell’inter¬ 
vistatore leggendo le risposte già 


preparate in precedenza su un fo¬ 
glio di carta che l'operatore cer¬ 
cava di tenere nascosto. Tutto il 
discorso era improntato ad una zuc¬ 
cherosi! e conciliante ambiguità, 
non volendo dispiacere né al go¬ 
verno clericale del Sud-Vietnam né 
ai tele-spettatori italiani. 


civcasc scruno sui gior¬ 
nali i tragici avvenimenti di quel 
lontano paese, dove una minoranza 
cattolica opprime e perseguita la 
maggioranza buddista, si sarebbe 
fatta un idea del tutto arbitraria 
delle attuali condizioni di quelle 
popolazioni. Infatti, a sentire il can¬ 
didissimo vescovo (o meglio, a sen¬ 
tire chi gli aveva scritto le rispo¬ 
ste), tutto nel Vietnam va per il 
meglio: i cattolici sono i più tolle¬ 
ranti degli uomini e i buddisti non 
possono che essere grati di questo: 
e infatti frequentano volentieri le 
scuole cattoliche, si fanno curare 
con piacere negli ospedali cattoli¬ 
ci, approfittano quando possono del- 
assistenza cattolica; persecuzioni 
religiose non ce ne sono, dal mo¬ 
mento che il reverendo vescovo 
on ne fa parola; dunque non c’è 


motivo di condannare il governo 
di Diem: e infatti il bravo vescovo 
non lo condanna: se ne deduce che 
il Vietnam del Sud è il migliore 
dei mondi possibili, che il suo pre¬ 
sidente è il migliore e il più 
mocratico dei presidenti possibili 
e che lo zelo religioso della catto¬ 
licissima signora Nu non può che 
deliziare i buddisti, che infatti, 
com’è noto, ardono per lei 
Questo reportage panglossiano è 
stato ammannito ai telespettatori la 
sera del 23 settembre. Nei gior¬ 
nali del giorno dopo non ho tro¬ 
vato nessuna protesta, ma solo la 
compiaciuta notizia (riportata per; 
sino dalla stampa straniera) che < 
vescovi del Vietnam erano disten¬ 
sivi — bontà loro — nei confron¬ 
ti dei buddisti. Un bel servizio, 
dunque, alla dittatura di Diem. reso 
in modo ipocrita e tuttavia non 
meno fazioso, attraverso uno stru¬ 
mento d’informazione che dovreb¬ 
be essere obbiettivo in quanto ap¬ 
partiene a tutti i cittadini e n° n 
al governo in carica. 

Enrico Parenti 

Fi renzt 


Dibattito tra Basso , Jeniolo 
Rovaio li, Rossi e Visentini 
sul finanziamento dei partiti 

Domenica 20 ottobre, alle ore 10. al Ridotto dellT.liseo 
('■a Nazionale. 183), si terrà una tavola rotonda, organizzata 
Oal Movimento «Gaetano Salvemini», sul tema: 

IL FINANZIAMENTO DEI PARTITI. 

Parleranno l'on. Lelio Basso, il prof. A. C. Jemolo l av- 
vocato Domenico Ravaioli, il prof. Ernesto Rossi e il profes- 
sor Bruno Visentini. 

Sarà questo il primo di una serie di pubblici dibattiti 
che d Movimento intende organizzare nei prossimi mesi sui 
lem, di più scottante attualità, con la partecipazione ilei soste¬ 
nitori dei diversi punti di vista. 

Per consentire a tutti di esporre la propria opinione, alle 
tavole rotonde, che saranno tenute sempre al Ridotto del- 
I Eliseo, seguiranno — nei giorni e nelle ore elle verranno 
di volta in volta comunicati suìVAstrolabio — una o più se¬ 
rate di discussioni presso la sede del Movimento (via XXIV 
Maggio, 43). 

Questi incontri fra il pubblico e i rappresentanti delle 
varie tendenze ideologiche sono dedicati specialmente ai gio¬ 
vani, nella fiducia che possano servire a far loro meglio com¬ 
prendere l'importanza del dialogo. 


4 















L’astrolabio 


L’esempio laburista 


DI FERRUCCIO l’ARRl 


T A PREVISIONE corrente di una vittoria la- 
burista alle elezioni inglesi ormai non lon 
tane ed il congresso di Scarborough esercitano t 
eserciteranno una influenza notevole forse de¬ 
terminante, sull’andamento della politica 1 a- 
liana, ed anche, forse, sullo scioglimento della 

prossima crisi. .... . . 

I laburisti incoraggiano i socialisti italiani ad 
andare al governo. E’ chiaro 1 interesse rl a 
nico di trovare un appoggio alla difficile pai 1 a 
tra America, De Gaulle e pretese germaniche 
che promettono di condurre a fondo. Ma e an¬ 
che chiaro l’interesse socialista, grande interesse, 
ad una messa in parallelo della loro politica in¬ 
ternazionale con la linea laburista attuale, che 
soddisfa egregiamente una delle esigenze on 
damentali del programma del PSI, pur non con¬ 
trastando in principio con l’ortodossia democri¬ 
stiana. Le stesse divergenze in materia di MtA, 
e Comunità economica europea possono tioyaie 
successive conciliazioni. I socialisti in questi u - 
timi anni si sono venuti meglio attrezzando t 
preparando a livello dirigente alle responsabi¬ 
lità internazionali. Il problema e quello degli 
uomini che la DC riuscirà a scegliere per que 
posto. E quello degli uomini è in generale il 
problema della vitalità del centro-sinistra. 

Il congresso e le prospettive di governo labu¬ 
riste possono del resto servire e di specchio e 
di monito ai socialisti per la prova sulla qua e 
tra breve devono decidere anche su un piano piu 
generale . Due ordini di difficoltà affini se non 
comuni dovrebbero fronteggiare gli uni e gli 
altri. Il primo riguarda le condizioni economi¬ 
che. La Gran Bretagna ha appena superato un 
difficile momento monetario, spera di poitai 
presto al pareggio la sua bilancia internazionale, 
è sollecitata da stimoli e pressioni inflazioniste, 
alla cui radice vi è pure in Inghilterra un eccesso 
di domande di consumo; ed ha anch essa un bi¬ 
sogno primario di una politica programmata di 
sviluppo e d’intensificati investimenti. Correg¬ 
gere squilibri vuol dire inevitabilmente per chi 
sta al governo un'azione bilanciata coerente e 
razionale di freno e di stimolo. 

La situazione italiana è per qualche lato più 
forte: disponibilità di una riserva aurea e valu¬ 


taria, stabile valore di cambio esterno della lira. 

E’ più debole, perchè è più debole in generale 
l'economia del paese. I punti dolenti sono noti 
e già più volte ricordati: bilancio dello Stato pe¬ 
sante. e preoccupante più domani che oggi; cassa 
dello Stato in difficoltà, che provocano drenaggi 
dannosi all’equilibrio economico; forte sbilancio 
mercantile ed infermità conseguente della bi¬ 
lancia dei pagamenti; difficile contenimento dei 
prezzi; mercato finanziario arenato e difficoltà 
per i finanziamenti d’interesse pubblico. 

E’ esatto che questi ostacoli servano di spau¬ 
racchio alla destra politica ed economica per 
scongiurare l’avvento apocalittico dei socialisti 
al governo. E’ una campagna frenetica, insidiosa 
e fraudolenta che avvicinandosi il momento 
della decisione si fa ossessiva. In un mercato 
manovrato e ristretto come l’italiano questa of¬ 
fensiva crea essa stessa difficoltà aggiuntive, 
assai maggiori di quanto avverrebbe in Inghil¬ 
terra. 

Chi va al governo e vuol regolarsi secondo 
un equilibrato ed obiettivo giudizio sa che la 
situazione generale del paese non è nò eccezio¬ 
nale nè drammatica, che non ha bisogno di 
rimedi drastici, che un paio d’anni di buon go¬ 
verno possono bastare a riassestarla, superando 
la stretta della finanza pubblica ed i pericolosi 
squilibri di una economia di consumo, resti¬ 
tuendo a tutta la macchina un ritmo normale di 
marcia e di avanzamento. Disfunzioni probabil¬ 
mente non passeggere, come quella del mercato 
dei capitali e della provvista dei mezzi per gli 
investimenti pubblici, possono essere avviate a 
soluzione da un governo non temporaneo e non 
incerto. 

I laburisti ritengono di aver preso la misura 
dei problemi economici del loro paese e di po¬ 
terli governare secondo l’interesse della grande 
maggioranza dei lavoratori e dei consumatori. 
I socialisti dispongono di un buon nucleo di di¬ 
rigenti preparati. Hanno ormai preso le misuie, 
spero con piena aderenza alla realtà. Il loro 
partito ponendo le condizioni di una associazione 
di governo deve rendersi chiaro conto di quale 
dura difficoltà possano rappresentare due anni 
di prudenza e relativa severità, sotto la pressione 


S 













erosiva dei comunisti, in un paese qualunquista 
ed anarcoide. 

^JN’ALTRA lezione mi sembra si debba rica¬ 
vare dall’esempio laburista. In primo piano, 
al centro delle loro preoccupazioni, essi pongono 
i problemi più vivi e tormentosi del vivere civile 
odierno, cioè, case ed affitti, costo della vita, 
circolazione. Non starò ad insistere su qualche 
lato negativo dell’esperimento di centro-sinistra 
del 1962. E’ di fronte a questi problemi che un 
governo rinnovato e rinnovatore deve saper 
dare la prima misura della sua capacità. Nes¬ 
suno ignora come la disordinata inflazione delle 
aree urbane e industriali abbia da noi aggravato 
le cose in questi ultimi anni, ed acutizzato la 
necessità e la richiesta di una energica, organica, 
continuativa azione direttiva centrale. Nessuna 
grande riforma di struttura istituzionale var¬ 
rebbe a compensare carenze o insufficienze di 
fronte a questi problemi primi. 

La cura di questi si può sperare valga a vin¬ 
cere il particolare handicap che l’antagonismo 
anticomunista diretto e dichiarato voluto dal- 
l’on. Moro crea ad un centro-sinistra con parte¬ 
cipazione socialista. E’ ben noto che anche in 
Inghilterra i sindacati non scherzano, e sono 
pronti a ribellarsi al partito laburista ed ai suoi 
capi se la politica loro contrasta con gli interessi 
sindacali. Ma di fronte ad un grande programma 
di piena occupazione, di progresso e di giustizia 
salariale essi s’impegnano a quella certa disci¬ 
plina che in sede di congresso nazionale hanno 
accettato. 

E inutile dire quali siano le difficoltà della 
situazione italiana. Vari indizi, segnalati da va¬ 
rie parti d’Italia, mostrerebbero che i sindacati, 
o parte di essi, si sono già posti sul « sentiero di 
guerra ». Considerando le cose nella loro so¬ 
stanza, fuor del piano della polemica di bassa 
corte, si dovrebbe dire che può scongelare si¬ 
tuazioni artificiose e opposizioni pregiudiziali 
quella forza politica, quella forza di governo 
che possa dimostrare con le opere, con la sicu¬ 
rezza dell’indirizzo di essersi saputa investire 
dei veri problemi prioritari, il benestare, il vi¬ 
vere civile, la scuola, i progressi nella organizza¬ 
zione sociale, la salvaguardia permanente di una 
politica economica democratica. 

E’ questa formidabile investitura che deve 
rendere seri, e rende evidentemente non facili 
accordi non a breve termine con una foi-za po¬ 
litica cosi composita e contraddittoria come la 
Democrazia cristiana. E rende il Partito sociali¬ 
sta ben consapevole che tutto è preferibile a 
soluzioni che per l’incertezza delle formulazioni, 
per la genericità degli impegni, per la scelta 
degli uomini preposti alle leve essenziali ridu¬ 
cessero la partecipazione socialista in pratica ad 
un semplice bordeggiamento governativo, al 
corrompimento finale della sua forza ed al tra¬ 
monto delle speranze di trasformazione e rin- 

S 


novamento della società italiana che in esso sono 
principalmente riposte. 

Su un piano storico il congresso laburista 
conduce ad altre riflessioni. Compiuta, disor¬ 
dinatamente, la ricostruzione economica, dopo 
la crisi coreana, approssimativamente verso il 
1952-53, apparve chiaro che forze democratiche 
su un piano di responsabilità di governo, do¬ 
vendo rompere con la politica a due settori, con¬ 
servatrice nell’uno e nell’altro, avrebbero dovuto 
adottare, adattandola alle possibilità italiane, 
una politica di tipo laburista. 

Cadute le illusioni sulla possibilità di una 
terza forza, riservatisi i partiti minori in una 
politica di stretta collaborazione governativa, era 
il partito socialista cui la evoluzione della stessa 
società italiana affidava sempre più chiaramen¬ 
te questo compito. Lunga la storia successiva, 
stagnante spesso e penosa, inceppata dal greve 
predominio democristiano, e dai rapporti di 
forza parlamentari, causa di tante crisi inutili 
e di tanti anni perduti. 

Ora tutto il mondo, ed il popolo italiano nella 
sua parte civilmente meno arretrata sente aria e 
bisogno di tempi nuovi. La lezione di Scarbo- 
rough non sta tanto nei programmi e nei par¬ 
ticolari dei programmi. Sta nella chiarezza, nel¬ 
la forza, nella sicurezza dell’impegno preso di 
fronte al paese da forze popolari legate ad un 
ideale di democrazia socialista. In Italia ne siamo 
ancora assai lontani; ma la prossima meta di 
una evoluzione su cui incidano la loro volontà 
i socialisti italiani non può esser altra che 
questa. 

Ai laburisti è la natura stessa della società 
inglese che consente efficacia durevole di azione. 
Nonostante ogni tara e limitazione sotto altri 
aspetti, essa è un aggregato organico, di alto li¬ 
vello di educazione civile, nel quale le leggi de¬ 
cise dalla collettività vengono rispettate (com¬ 
prese quelle fiscali). 

Occorre descrivere i caratteri della società 
italiana nelle sue manifestazioni di vita collet¬ 
tiva e civile? Leggiamo che cosa ne scrivono so¬ 
litamente su questo foglio Jemolo e Galante 
Garrone. E intendiamo allora quanto sia più 
particolarmente importante e decisiva la pro¬ 
messa circostanziata, definita, precisa che po¬ 
tremmo dire davvero di una -< nuova frontiera ». 
E come un partito, che si chiama socialista, se 
accetta di governare e rispondere del governo, 
deve giustificarsi solo con un impegno di questa 
portata. 

Il nostro paese, forse più di ogni altro, ha bi¬ 
sogno di guida. Ha bisogno dunque di un indi¬ 
rizzo, di una prospettiva. Ancor più urgente è 
forse la necessità di richiamare alla collabora¬ 
zione, che può essere fornita anche nel dissenso, 
su questo piano superiore tante energie ed intel¬ 
ligenze che si stanno dissociando, disperdendo e 
isolando. 

Solo le idee forti hanno forza unificatrice. 


FERRUCCIO PARRI 








Note e commenti 


ROMA 


Tornado sulla Borsa 


JJN NUOVO tornado si e abbat¬ 
tuto sulla borsa Italiana Le quo¬ 
tazioni sono precipitate al livello più 
basso da quando, nell’autunno 1962, 

I ha investita l’ondata ribassista. Pa- 
nico tra i piccoli operatori, col solito 
effetto valanga. Tumulti alla Borsa 
di Milano. 

Ultimo colpo al centro-sinistra? 
Può darsi che qualche vendita riflet¬ 
tesse questo disegno o qualche man¬ 
ata difesa. Il ribasso ha toccato 
anche i titoli più solidi ed accre¬ 
ditati; solo i titoli di stato sono stati 
sostenuti, e non c’è voluto molto a 
tenerli a galla. Se mai, possono es¬ 
sere indicativi di un sottofondo po¬ 
litico i movimenti in questo settore. 

Ma all’origine c’è sempre una in- 
'ersione psicologica nel mercato 
azionario non ancora del tutto scon¬ 
tata. E’ una realtà di cui bisogna 
tendersi conto, e che la sua indica¬ 
zione forse più tipica nelle quota¬ 
zioni dei nostri titoli all’estero. Il 
momento del boom aveva portato i 
nostri titoli molto in alto- da vario 
tempo sono cominciate le vendite. 
E’ vero che il mercato finanziario 
di Milano ha il suo prolungamento 
■n Svizzera ed i maggiori venditori 
sono detentori italiani. Ma non sono 
mancati i venditori stranieri. 

Il mercato di questi titoli all este¬ 
ro è ristretto: basta la vendita di 
Pochi pacchetti a deprimere le quo¬ 
tazioni. Sono andati giù titoli assai 
accreditati fuori dei confini come la 
PlAT, ed ora la SNIA-Viscosa, e la 
Olivetti, che pur ha avviato a siste¬ 
mazione la ponderosa acquisizione 
della Underwood. E’ ristretto il mer¬ 
cato italiano, e quindi facilmente 
manovrabile. Se la speculazione ri¬ 
bassista s’inserisce su una situazio¬ 
ne incerta e fiacca, resa più vulne¬ 
rabile — come è successo a Milano 
— da alcune faticose liquidazioni 
che minacciano dissesto, riesce fa¬ 
cilmente a determinare un crollo. 
Non c’è ambiente più stupidamente 
eccitabile di quello della borsa; non 
ce ambiente più acritico cd angu¬ 
stamente palancalo di quello — si 


dice in generale — degli operatori 
professionali di borsa. Le voci eu i 
timori più insensati trovano tacila 
credito, e sono l’arma abituale dei 
ribassisti. Si tira fuori Lombardi, 
La Malfa e Fanfani, ed è fatto an¬ 
che il gioco politico. 

Ed allora, che cosa si fa di que¬ 
sto pseudo-mercato dei valori mo 
biliari? Si possono prender per buo 
ne le stereotipe, e noiose, giustifica¬ 
zioni dei liberisti? Dobbiamo conti¬ 
nuare a difendere la libertà della im¬ 
boscata e della depredazione? 

I pessimisti credono necessaria la 
soppressione legale di questo organo 
così come ora è strutturato. Si può 
pensare ad un sistema più sano cd 
obicttivo di quotazioni, c le banche 
possono bastare alle transazioni cor- 
retiti. 

Non è servita la riforma Ttemei- 


ALGERIA 


Algeri e 

POL PASSARE dei giorni la ri- 
volta Cabila va precisandosi nei 
suoi contorni e mostra i suoi limiti 
effettivi. 

Anzitutto territoriali. La rivolta 
per ora resta circoscritta ad una sola 
regione, la Cabilia; cabili sono i suoi 
capi; cabili infine sono quasi tutti i 
soldati che hanno risposto all ap¬ 
pello del colonnello Mohand Ou cl 
Hadj. 

Lo sfondo di questa rivolta è un 
paese di antiche tradizioni e di anti¬ 
ca miseria. La Cabilia, chiusa tra le 
nude montagne, ha preservato i suoi 
costumi e la propria unità etnica, 
ma è la regione economicamente più 
depressa e arretrata della non ricca 
Algeria. Tra le sue montagne vivono 
più di due milioni di uomini, con 
una densità che raggiunge in certe 
zone i 620 abitanti per ettaro di 
terra coltivabile. Completamente 
priva d’industrie c dovendo fondare 


Ioni; è saltato il blocco alla specu¬ 
lazione a termine; non è servita la 
restituzione legale della libertà di 
questa speculazione. Si riesce a met¬ 
tere il sale sulla coda ai passerotti, 
ma non a colpire i guadagni diffe¬ 
renziali. Se arriva la cedolare d’ac- 
conto con la pretesa di accertare il 
possesso azionario (modesta parte 
della proprietà mobiliare) succede 
il finimondo. E se salta il centro- 
sinistra, la Borsa di Milano decre¬ 
terà un monumento equestre a Ma 
lagodi. 

Che fare? Qualche cosa da fare 
pur restava. Il governatore Carli 
aveva delle misure da proporre, le 
aveva probabilmente proposte, e for¬ 
se la proposta ha rinnovato, per 
frenare la speculazione a termine e 
le sue possibilità di gioco, cioè in 
primo luogo il deposito di una forte 
— dovrebbe essere fortissima — ali¬ 
quota dei titoli trattati. Il Governo 
Fanfani non se l’è sentita. Il mini¬ 
stro Colombo è un colombo pas¬ 
seggero, dice lui. E « accusi el mon¬ 
do mal va ». 


Tzi-Ouzou 

tutto sulle avare risorse della terra, 
si comprende come l’emigrazione 
abbia costituito l’unica sua valvola 
di sicurezza. Più della metà dei cin- 
quecentomila emigrati algerini re¬ 
sidenti in Francia sono infatti ca¬ 
bili; e le loro rimesse di denaro co¬ 
stituiscono il principale sostegno 
economico della Cabilia. Ma le stes¬ 
se condizioni naturali che fanno della 
Cabilia una regione in certo senso 
chiusa ne fanno per altri versi una 
legione proiettata verso l’esterno. La 
miseria spinge i cabili fuori dalle 
loro aride terre, ed è cabila più 
della metà della popolazione di Al¬ 
geri, cabili sono anche molti diri¬ 
genti algerini. Una forza, dunque, da 
non sottovalutare. 

Ben Bella infatti non la sottova¬ 
luta e sta bene attento che attorno 
ai ribelli non si formi una generale 
solidarietà cabila. E’ questo il moti¬ 
vo della sua riluttanza ad impiegare 









Pesercito contro i dissidenti, la cui 
influenza non sembra spingersi at¬ 
tualmente oltre i confini della re¬ 
gione. Un passo falso del governo 
potrebbe dare agli amici di Ait Ah- 
med una forza decisiva, attorno alla 
quale finirebbe per polarizzarsi tutta 
l’opposizione. 

In queste condizioni, la linea del 
gruppo ribelle è evidente. Arroccati 
attorno a Tzi-Ouzou, lasciano che 
sia il governo a subire l’usura della 
rivolta, ripetendo la tattica che portò 
Ben Bella, nel luglio del 1962, da 
Tlemcen ad Algeri. 

Ma la situazione oggi è molto 
diversa. Davanti a Ben Bella c’era 
allora un governo appena insediato 
e già logorato dalle lunghe tratta¬ 
tive di Evian che ne avevano reso 
possibile l’esistenza; oltre al com¬ 
promesso con Parigi, Ben Kedda 
era stato costretto a venire a patti 
anche con i terroristi dell’OAS. Lo 
imponeva la gravità estrema della 
situazione, e sarebbe ingiusto oggi 
fargliene torto. Ma il sentimento 
popolare e la giustizia non sempre 
s'accompagnano, e Ben Bella ebbe 
buon gioco contrapponendo il pro¬ 
prio mito ai meriti meno luminosi, 
anche se concreti, dei politici del 
GPRA, e fu anche buon politico 
nel cogliere la marea al suo flusso 
volgendo a suo favore l’euforia della 
vittoria da poco conseguita e la stan¬ 
chezza della guerra civile. 

Ben Bella da Tlemcen poteva par¬ 
lare a tutta l’Algeria ed offriva un 
mito ed un’alternativa politica. I 
suoi oppositori di Tzi-Ouzou devono 
invece affrontare il mito ancora vi¬ 
tale di Ben Bella e non sono ancora 
in grado di costituire un’alternativa. 

Inoltre essi non parlano a tutta 
l’Algeria. Ben Bella non colpiva a 
vuoto quando accusava di separati¬ 
smo berbero i capi della sedizione. 
C’è in questa accusa un’ingiusta sem¬ 
plificazione polemica, ma riesce a 
sollevare ugualmente ricordi e ti¬ 
mori d’indubbia efficacia. Certo, 
non è al berberismo che hanno fatto 
appello Ait Ahmed, uno dei capi 
storici della rivoluzione algerina, ed 
i suoi amici; essi si sono richiamati 
ai grandi principi della libertà e del¬ 
la democrazia denunciando « il fa¬ 
scismo di Ben Bella » Ma quale eco 
possono avere gli appelli ai grandi 
principi di libertà, in un paese come 
l’Algeria, dove la libertà resta una 
dea straniera, sconosciuta per la 
grande maggioranza della popolazio¬ 


ne, che conosce soltanto la miseria, 
l’oppressione e il fanatismo? Certo, 
la rivoluzione algerina fu combattu¬ 
ta sotto l’insegna della libertà e della 
democrazia, ma si trattava di senti¬ 
menti ancora elementari, fatta ecce¬ 
zione per ristretti gruppi di intellet¬ 
tuali, e che nei più si confondevano 
con una generica aspirazione all’in¬ 
dipendenza nazionale. Quale mera¬ 
viglia se oggi le accuse alla ditta¬ 
tura, ancorché giustificate, cadono 
nel vuoto? 

E dove non cadono nel vuoto, 
cioè in Cabilia, non è la libertà ne 1 
senso moderno della parola che toc¬ 
ca gli animi, ma quelle particolari 
libertà cabile che un governo pro¬ 
fondamente innovatore, quale quel¬ 
lo di Ben Bella, non può alla lunga 
non minacciare. Ed ecco che il pun¬ 
to di forza degli oppositori di Ben 
Bella diventa il principale elemento 
di debolezza della loro politica. Il 
cabilismo rischia di ridimensionare 
in un tentativo di secessione etnica 
quello che invece vorrebbe essere 
un’alternativa di regime. 

Su questo piano Ben Bella ha ri¬ 
sposto bruciando i tempi della na¬ 
zionalizzazione agricola, una mossa 
che in questo momento aggrava for- 

AMERICA LATINA 


Castrismo e 

J COLPI di stato, o colpi di mano, 

dei militari a San Domingo e nel- 
l’Honduras, dopo quello del Gua¬ 
temala, hanno impressionato forte¬ 
mente l’opinione pubblica america¬ 
na, e devono dar seriamente a pen¬ 
sare non per l’entità in sè dei fatti 
ma come sintomo di una condizione 
preoccupante per tutta l’America 
Latina. 

Il volgere dei tempi, le rivolu¬ 
zioni, l’attrazione comunista, il pro¬ 
gresso tecnico hanno mosso in que¬ 
sto dopoguerra le società arretrate 
del Sud e Centro America, rimesco¬ 
late le carte, introdotto lieviti e fer¬ 
menti nuovi. Queste repubblichette 
del Centro America offrono il mag 
gior grado d’instabilità: miseria sta¬ 
bile, mancanza di classi dirigenti, 
basta un minimo di forza organiz¬ 
zata a voltar la frittata. Ma anche 
nel Sud America le prospettive non 
sono allegre. Se la sinistra castrista 
avesse ragione di Betancourt, non 


se, invece di risolverli, i problemi 
economici del paese, ma che serve 
a riportare nelle sue mani l’inizia¬ 
tiva politica. Ed è probabilmente da 
questa condizione di rinnovato pre¬ 
stigio che egli tenterà di avviare 
trattative con gli avversari. Altri¬ 
menti un inasprimento della situa¬ 
zione interna lo costringerà nella spi¬ 
rale delle « fughe in avanti » alla 
maniera del Nasser di Suez e di 
Fidel Castro, una spirale pericolosis¬ 
sima per l’Algeria, che è legata al¬ 
l’aiuto economico internazionale ed 
in modo particolare alla cooperazio¬ 
ne con la Francia. Il governo alge¬ 
rino, malgrado le apparenze, s e 
mosso finora su questo terreno ab¬ 
bastanza cautamente. Parigi infatti 
ha capito che il bersaglio delle re¬ 
centi nazionalizzazioni non era la 
Francia ma l’opposizione interna, e 
ha riconfermato la cooperazione eco¬ 
nomica. Quello che imporla a De 
Gaulle non sono né le proprietà edi¬ 
toriali francesi né le terre dei coloni, 
ma il petrolio del Sahara. Soltanto 
una gravissima crisi interna potreb¬ 
be spingere Ben Bella a decisioni 
così radicali; per questo a Parici si 
tiene a riconfermare la solidarietà 
al governo di Algeri. 


anticastrismo 

mancherebbe il contro-colpo dei mi¬ 
litari. 

Brasile, Argentina e Cile fanno in 
un certo grado storia a sè, e meri 
terebbero discorsi particolari. Ma 
nel resto dell’America meridionale 
le dittature restano la soluzione nor¬ 
male delle difficoltà dietro appa¬ 
renze generalmente inconsistenti di 
democrazie. Sono andate giù dopo 
la guerra le vecchie dittature anacro¬ 
nistiche; il richiamo ed il pericolo ca¬ 
strista ne generano una seconda on¬ 
data. 

Si deve riconoscere che in questi 
paesi, generalmente di scarsa indu¬ 
strializzazione, e ben s’intende in 
diversa misura nell’uno e nell’altro, 
la lotta per la terra è alla base della 
agitazione e della instabilità sociale 
e statale. Sono i grandi estancieros 
che controllano normalmente i go¬ 
verni, e sono di solito essi che muo¬ 
vono i militari. E’ inutile dire come 
lavora facilmente in una situazione 


8 









di questo genere la propaganda ca¬ 
strista. 

La quale ha un forte richiamo 
anche sulle iniziali classi operaie, 
su gruppi di borghesia democratica 
perché si rivolge insieme contro il 
capitale americano, che è l’unico 
che questi paesi conoscono attra¬ 
verso i suoi grandi sfruttamenti di 
•ipo coloniale o semicoloniale. Il 
Governo americano sostiene, come 
ha sempre sostenuto, i suoi trusts e 
diventa per interposte masse il ber¬ 
saglio della grande offensiva comu¬ 
nista. 


che dia prima di tutto una ammi¬ 
nistrazione ordinata ed una econo¬ 
mia equilibrata, e quindi decisi passi 
avanti rispetto alla miseria attuale 
del popolo. È il progresso economico 
che può dare la forza per la lotta, 
certo lunga e difficile, contro la 
grande proprietà terriera. L’altra 
strada è quella della piena e inte¬ 
grale rivoluzione sociale, non quella 
di vaghe velleità castriste. 


SPAGNA 


Ed è un discorso che può avere 
anche qualche applicazione per l’Ar¬ 
gentina, che potrebbe essere un pae¬ 
se di borghesi benestanti e di classe 
operaia di tipo nord-americano, se 
il maggior potere di decisione non 
restasse nelle mani dei grandi pro¬ 
prietari delle estancias, che muovono 
normalmente la casta parassitarla 
dei militari, professionisti dei colpi 
di stato: 31 golpes in quattro anni! 


Il governo Eisenhower è stato de¬ 
leterio per la politica internazionale 
americana, per quanto non sia facile 
dir meglio della presidenza 1 ruman. 

Un intervento tempestivo, largo, 
aperto avrebbe forse dato corso di¬ 
verso agli avvenimenti, come del re¬ 
sto avrebbe impedito le forme acute 
ed ostili della insurrezione castrista 
L Amministrazione Kennedy, meno 
Insensibile, ha messo in piedi la 
Alianza para el progreso, quasi come 
u n piano Marshall per questi paesi 
m a 1 Alianza è venuta tardi, si muo¬ 
ve lentamente, trova subito gruppi 
dirigenti pronti al saccheggio, non 
trova un minimo di strutture statali 
di una certa solidità e classi politi¬ 
che di qualche efficienza. L inter¬ 
vento americano punta essenzial¬ 
mente sulla riforma agraria, sperato 
'eicolo di una evoluzione democra¬ 
tica; è una impostazione insuffi¬ 
ciente. D’altra parte la tutela degli 
interessi industriali americani am¬ 
puta in certo modo la libertà d azio¬ 
ne dei riformatori. E se il Governo 
Kennedy deplora sinceramente i col¬ 
pi di stato, non è detto che li deplo- 
rino finanzieri e trusts, soprattutto 
nei paesi di maggior interesse. Si sa 
anche'qual peso abbiano pure sulla 
Politica di questo governo demo¬ 
cratico il capitale finanziario e le 
grandi concentrazioni industriali. 

Non si possono tacere le crescenti 
preoccupazioni fornite dal Brasile e 
dall’indirizzo, ma soprattutto dalla 
politica economica, del Presidente 
Goulart, il quale sembra voler ri¬ 
prendere i piani nazional-socialisti- 
corporativi del famoso Vargas, che 
in un paese che ha largo bisogno di 
capitale e appoggio straniero pren¬ 
dono apparenze dissennate, come 
dimostra la precipitosa svalutazione 
del cruzeiro ed il crescente disagio 
delle masse umili. Il Brasile ha biso¬ 
gno non di grandi e fumose ideo¬ 
logie, ma di buon senso riformatore, 


Stabilizzazione del regime 


T O SCIOPERO nelle miniere del- 

le Asturie e i mezzi spietati ado¬ 
perati dal governo franchista nella 
repressione pongono di nuovo alla 
opinione pubblica internazionale 
tutta la gravità delia questione spa¬ 
gnola. I motivi dello sciopero che 
dura da più di due mesi sono gli 
stessi che causarono le grandi agi 
tazioni del principio del ’62: miglio¬ 
ramenti salariali e libertà sindacale. 

Il governo franchista tende a spez¬ 
zare la resistenza dei minatori pri¬ 
ma dell’inverno, per impedire che 
con l’inasprirsi del disagio delle po 
polazioni le agitazioni si estendano 
nei Paesi Baschi c alla Catalogna. 
Questo può spiegare la ferocia della 
repressione, affidata al capitano del 
la Guardia Civil Fernando Caro. 

Questi metodi di repressione non 
devono sorprendere. Franco ha sem¬ 
pre spezzato, con violenza più o me¬ 
no sfrenata, le agitazioni operaie, 
che potrebbero forzarlo a delle con¬ 
cessioni pericolose, strappandogli il 
controllo della situazione interna. 

Non è un caso che l’Alleanza sin¬ 
dacale — formata dalla U.G.T. so¬ 
cialista e dalla C.N.T. anarchica —— 
vada ampliando la sua case proprio 
tra la maggioranza dei lavoratori non 
politicizzati. La formula de!! allean¬ 
za sindacale, che stempera je carat¬ 
teristiche politico-ideologiche delle 
due organizzazioni, risponde perfet¬ 
tamente alle aspirazioni degli ope¬ 
rai verso una organizzazione sinda¬ 
cale con fini puramente economici. 
Ma il governo ha ber. capito che 
solo in quest’area può formarsi una 
opposizione temibile. 

E’ significativa la diversità di 
« trattamento » a cui Franco sotto¬ 
pone le diverse correnti di opposi¬ 
zione. Usa una mano più leggera per 


le velleità di fronda della piccola 
borghesia d’indirizzo più o meno 
liberale, o genericamente democrati¬ 
co; tiene buoni i fautori della mo¬ 
narchia con la promessa della suc¬ 
cessione; ma colpisce inesorabilmen¬ 
te i comunisti e, soprattutto, gli 
anarchici, i quali operano tra le 
masse. 

Di quest’opera di repressione è 
reso complice anche quel vasto set¬ 
tore di fronda moderati che da pa¬ 
recchio tempo vegeta in Spagna. La 
diffidenza della piccoia borghesia 
verso la propaganda comunista e 
anarchica è ancora fortissima: ne 
teme gli obiettivi sociali e non rie¬ 
sce a scacciare il ricordo della guerra 
civile. Ma il fatto che Franco non 
tema di adoperare i mezzi più sei 
vaggi nella repressione operaia in¬ 
dica chiaramente che gli oppositori 
moderati temono quanto lui le in¬ 
cognite di un cambio d> guardia ne! 
regime. Per cui la repressione potrà 
ferire le coscienze mo'ali, ma non 
provocare delle reazioni preoccu¬ 
panti. Lo spettro del proletariato 
rivoluzionario farebbe ingoiare ben 
altro alla piccola borghesia. 

Ciò dice la portata elettiva della 
cosiddetta « liberalizzazione » del 
regime. Sono innegabili in Spagna i 
sintomi di una incipiente espansione 
economica, anche in seguito a! netto 
miglioramento della situazione in 
ternazionale. Ma Franco sta facendo 
di questo progresso incipiente lo 
strumento migliore di stabilizza¬ 
zione del regime; e il pugno di ferro 
contro gli operai ne è in condizione 
necessaria, non il prezzo pagato ai 
« duri » — secondo certa opi¬ 
nione — per portare avanti la « li¬ 
beralizzazione ». 

Le probabilità di stabilizzazione 


» 









del regime sono rafforzate dali'evol¬ 
versi della posizione internazionale 
della Spagna. E’ una posizione favo¬ 
revole che non ha riscontro nel pas¬ 
sato; i motivi sono vari e complessi. 
La funzione di centro di irradia¬ 
zione autoritario e fascista esercitata 
oggi da Parigi ha spostato in senso 
conservatore l’equilibrio politico eu¬ 
ropeo. A ciò si aggiunge la stretta 
collaborazione che si è di recente 
instaurata tra la polizia franchista 
e quella francese. In seguito a un 
accordo che ci riporta di coipo ai 
tempi della Santa Alleanza, si son-- 
avute delle retate tra gli anarchici 
spagnoli rifugiati in Francia, con 
perquisizioni di circoli e persino dei 
locali della Federazione anarchica 
francese. La polizia non ha agito a 
caso, arrestando alcuni degii ele¬ 
menti più attivi nelle organizzazioni 
spagnole dell’esilio, colpendo parti 
colarmente la CNT, die svolge un 
ruolo decisivo, insieme con la UGT 
socialista, nella lotta clandestina in 
Spagna. 

Il diritto d’asilo in Francia 
— punto fermo di tutte le emigra 
zioni antifasciste — ha subito un 
colpo decisivo. La polizia gollista 
ha rispolverato una legge delia fine 
del secolo scorso contro le « asso¬ 
ciazioni di malfattori », in base alla 
quale sono stati formalmente incri¬ 
minati, fino ad oggi, nove anarchici. 
Non può trattarsi di una contropar¬ 
tita per l’aiuto fornito dalle autorità 
franchiste nella caccia agli elementi 
dell ’ OAS rifugiatisi in Spagna. 
De Gaulle non aveva certo motivo 
di preoccuparsi eccessivamente di 
questi residui di oppositori. In 
realtà — come rileva anche France 
Observateur — è più probabile che 
questo scambio di gentilezze tra 
i due dittatori preluda ad una col¬ 
laborazione più ampia, di cui si sa 
rebbe discusso nel marzo - aprile 
scorso durante la visita in Spagna 
del generale Ailleret, di M. Frey e 
di M. Giscard d’Estaing. E non si 
esclude un incontro a breve sca 
denza tra Franco e De Gaulle. 

Notizie altrettanto preoccupanti 
sono apparse su Welt der Arbeit, 
organo della confederazione dei sin¬ 
dacati della Germania occidentale. 
Si è parlato di accordi segreti tra 
la polizia spagnola e quella tedesca. 
Lo stesso giornale ha denunciato casi 
di licenziamento, di controlli inde¬ 
biti, di fermi, a danno di operai spa 
gnoli antifranchisti residenti in Ger¬ 


mania. Si tratta di sintomi partico¬ 
larmente gravi che, dopo il ritiro di 
Adenauer, potranno soio aggravarsi; 
Erhard infatti, fedele [lottatore, an¬ 
che in questo caso, degli interessi 
espansionisti dei maggiori gruppi 
industriali e finanziari tedeschi, è 
favorevole ad un miglioramento dei 
rapporti con la Spagna 

Tuttavia, molto più di questo rav¬ 
vicinamento a Bonn e Parigi, conta 
per Franco il rinnovo per cinque 
anni dell’accordo militare con gli 
Stati Uniti, ultimo grosso successo 
della diplomazia spagnola. L’ac 
cordo — che è in realià un vero e 
proprio trattato di cooperazione e 
difesa reciproca — è stato firmato 
la prima volta nel 1953, pei dieci 
anni. Un tipico prodotto della guerra 
fredda. Adesso, i fastidi che De 
Gaulle procura agli Stati Uniti hanno 
permesso a Franco di alzare il prezzo 
del negoziato e convinto Kennedy 
ad accettare in pieno le sue richie¬ 
ste. « I due governi — dice la di¬ 
chiarazione comune — ritengono 
che la sicurezza e l’integrità della 
Spagna e degli Stati Uniti siano ne¬ 
cessarie alla sicurezza comune. Una 
minaccia a uno dei due paesi e alle 
installazioni congiunte che ciascuno 
fornisce alla difesa comune sarebbe 
motivo di inquietudine comune per 
i due Paesi, e ognuno di essi pren¬ 
derebbe i provvedimenti ritenuti ne¬ 
cessari in conformità aile proprie 
procedure costituzionali ». In cara 
bio delle basi aeree e navali, il go¬ 
verno americano s’impegna a soste 
nere gli sforzi difensivi deila Spagna 
con un adeguato programma di assi¬ 
stenza militare; esso prevede anche 
la continuazione della collaborazione 
tecnica e scientifica tra i due paesi 
per un rapido ed efficace ammoder¬ 
namento delle forze atmate e del¬ 
l’industria militare della Spagna. Gli 
aiuti economici, concessi attraverso 
la Export Import Bank, raggiun¬ 
gono i 100 milioni di dollari. 

Le fortune internazionali di Fran¬ 
co, che sembravano legate al persi¬ 
stere della tensione est-ovest, si sono 
dunque consolidate proprio nel pe¬ 
riodo della distensione. L’adesione 
all’accordo nucleare di Mosca — che 
non ha sollevato proteste di sorta — 
è quanto mai significativa. La para¬ 
bola di Franco — iniziata nel ’52-’55 
con l’ammissione all'UNESCO, il 
concordato col Vaticano e l’ammis¬ 
sione all’ONU — ha ormai toccato 
il vertice. La stabilizzazione del re¬ 


gime sembra perfetta. Gli unici fa¬ 
stidi potrebbero venire da un muta¬ 
mento dell’atteggiamerto del Vati¬ 
cano! 

Di fronte al machiavellismo dei 
governi, appare più grave la man¬ 
canza di una posizione unitaria delia 
sinistra europea nei confronti del re¬ 
gime spagnolo. Le reazioni aila vio¬ 
lazione del diritto d'asilo sono state, 
in Francia, quanto mai inadeguate 
In Italia ci si esaurisce nelle pro¬ 
teste episodiche che lasciano il tempo 
che trovano. Molto chiasso per og» 1 
nuova vittima del franchismo. M® 
nessuno sforzo per elaborare una li¬ 
nea politica unitaria. 

A noi sembra che un’iniziativa 
unitaria dovrebbe venire proprio dai 
comunisti, i più forti e i meglio 
organizzati. Ma è difficile che essi 
vogliano andare oltre le denuncie e 
le proteste episodiche contro il Cau¬ 
dillo. A questo punto, non possiamo 
passare sotto silenzio, per il I° r0 
grave significato e anche perché spie¬ 
gherebbero molte cose, alcuni sin 

tomi di un probabile ravvicinamento 

tra Madrid e Mosca: la visita in Spa¬ 
gna, annunciata ufficialmente e po' 
differita, di una commissione di sin¬ 
dacalisti russi che dovrebbero stu¬ 
diare il sistema sindacale franchista; 
la prossima apertura di due uffici 
commerciali sovietici a Madrid e a 
Barcellona; infine la voce, raccolta 
dal Combat Syndacalist di Paria 1 ' 
che il governo sovietico intenda re; 
stituire a Franco, sotto forma di 
esportazioni di petrolio, le riserve 
auree trasferite in Russia durante 1® 
guerra civile dal governo repubbli¬ 
cano; si tratterebbe di circa 400 mi¬ 
liardi di franchi vecchi. Sono solo 
indizi, voci che, anche se poco cre¬ 
dibili, andrebbero subito e catego¬ 
ricamente smentite. 

E’ augurabile che la sinistra euro¬ 
pea non si limiti a una solidarietà 
teorica con i compagni spagnoli. Gli 
operai, che stanno conducendo nelle 
Asturie una lotta così difficile e ini 
portante, non potranno resistere * 
lungo senza aiuti finanziari dal¬ 
l’esterno. Durante lo sciopero del 
’62 i sindacati stranieri appoggi®; 
rono efficacemente l’azione degli 
scioperanti; ma quest’anno questi 
aiuti finanziari non si sono ancora 
avuti. Come rileva France Observ-i 
teur, il successo o il fallimento di 
questo sciopero è, perciò, nelle mani 
dei dirigenti e dei militanti sinda¬ 
cali dell’Europa occidentale. 


10 









NEL SUO STUDIO 


*A SCOMPARSA DI GINO FRONTALI 

Un umanista laico 


Roma - gino frontali 


^nche Gino ci ha lasciato. 

Gino aveva fatto parte di quel 
gruppetto di amici che a Firenze 
n d 1920, costituì un « circolo di 
cultura », per riunirsi ad esamina- 
re e discutere assieme i problemi 
della vita italiana (Gaetano Salve¬ 
mini, Carlo e Nello Rosselli. Piero 
Calamandrei, Piero Jahier, Gino 
frontali, Carlo Celasco, Alfredo 
e Nello Niccoli, Nello Traquan¬ 
di) e continuò a tenere riunioni 
8e ttimanali fino a quando, alla 
dne del 1924, la sede, in Borgo 
Apostoli, venne devastata da* 
« squadristi » e le Superiori 
Autorità provvidero al suo forma- 
le scioglimento, perchè « divenuto 
centro — come si legge nel de- 
creto prefettizio — di accanita 
propaganda antinazionale, provo¬ 
cando giuste rimostranze del par¬ 


tito dominante, che potevano dar 
luogo a gravi perturbamenti del¬ 
l’ordine pubblico ». 

Di questo gruppetto scrisse a 
lungo Piero Calamandrei in un 
saggio compreso nel libro ISon 
mollare (Firenze 1955), ricordan¬ 
do che il Frontali fu tra i più 
assidui frequentatori delle nostre 
riunioni, e che, subito dopo la 
devastazione del circolo, inspie¬ 
gabilmente la magistratura si ri¬ 
svegliò contro il direttore del set¬ 
timanale Battaglie fasciste, per¬ 
chè aveva scritto un articolo, « col 
quale si minacciavano gravi ed 
ingiusti danni al prof. Calaman¬ 
drei Piero, al prof. Frontali Gino, 
al dr. Nello Rosselli, all’avv. Car¬ 
lo Celasco ». 

Come tutti i procedimenti giu¬ 
diziari contro i criminali fascisti. 


anche quella denuncia fini in una 
bolla di sapone. 

Ma nei primi mesi del 1925 
Frontali venne chiamato a reg¬ 
gere la cattedra di pediatria nel¬ 
la Università di Cagliari. Questa 
coincidenza gli risparmiò, credo, 
le persecuzioni che gli avrebbero 
reso ben difficile continuare la 
carriera accademica se fosse ri¬ 
masto nell'ambiente fiorentino, in 
cui, per la polizia e per il Fascio, 
era ormai una pecora segnata. 

INA allora lo persi di vista e 
^ non seppi più niente di lui 
fino a dopo la Liberazione, quan¬ 
do lo ritrovai ordinario di pedia¬ 
tria nell’università di Roma: or¬ 
mai era uno scienziato conosciuto 
dai pediatri di tutto il mondo per 
i suoi studi e le sue ricerche; 
un maestro amato dagli allievi 
che lo consideravano un capo¬ 
scuola; un medico in cui tutti i 
genitori avevano piena fiducia 
e che sapeva conquistarsi subito 
l’amicizia dei malatini. 

Ricordo che gli feci visitare 
una mia nipotina di sei anni. Al¬ 
la fine della visita, la Dindina 
confidò alPinfermiera: « Quan¬ 
do avrò un bambino lo porterò 
anch’io a farlo visitare dal pro¬ 
fessore ». 

Gino ne fu molto soddisfatto. 

Nell’ottobre del 1959 — in oc¬ 
casione del trentacinquesimo an¬ 
no di insegnamento universitario 
— gli venne consegnato, con una 
solenne cerimonia, un volume di 
scritti in suo onore. Ricordando 
la sua lunga carriera, Gino allo¬ 
ra disse: 

” Dapprima mi interessava 
l’esperimento che la malattia fa¬ 
ceva negli organi e nelle funzioni 
del paziente: presto, però, la sof¬ 
ferenza umana e 1 urgenza di pre¬ 
stare soccorso divennero un as¬ 
sillo preminente del mio studio. 
Non è vero che questa sensibilità 
si attenui con gli anni. La capa¬ 
cità di soffrire e di comprendere 
le sofferenze altrui si approfon¬ 
disce e fa del dolore del paziente 
e dei suoi cari il nostro dolore ”. 

Disse anche: 

” Questi trentacinque anni non 
mi sono pesati. Se dovessi rico¬ 
minciare credo che sceglierei la 
stessa strada. E’ una fortuna che 


11 















non tocca a tutti: (are con gioia 
il lavoro che ci siamo scelti. Pen¬ 
sate airiminensa maggioranza de¬ 
gli uomini che faticano per un la- 
roro che non hanno scelto e che 
non amano! Il mio lavoro è sta¬ 
to sereno. Ma il segreto di questa 
serenità sta nella compagna del- 
la mia vita. E non dico altro, 
perchè non saprei dirlo adegua¬ 
tamente 

^ ELL’ULTI M0 ventennio — no¬ 
nostante tutti gli impegni che 

10 assillavano per l’insegnamento, 
la clinica, l'ambulatorio, le pub¬ 
blicazioni, i congressi internazio¬ 
nali — Gino non si è mai sot¬ 
tratto ai suoi doveri di cittadino: 
anzi ha partecipato con tale at¬ 
tività e tale passione alla difesa 
delle nostre istituzioni democra¬ 
tiche e della scuola pubblica che 
sembrava quasi volesse farsi per¬ 
donare gli anni in cui, durante 

11 ” regime ”, si era estraniato 
dalla lotta politica, per dedicarsi 
esclusivamente alla scienza, ai 
malati e alla famiglia; accettò 
perfino, per due volte, di presen¬ 
tarsi candidato nelle elezioni am¬ 
ministrative, e, per un brevissimo 
periodo, fu consigliere comunale 
di Roma. 

Non aveva ambizioni politi¬ 
che: lo dimostrò iscrivendosi ai 
piccoli gruppi non conformisti che 
lavorano piuttosto per l’avvenire 
che per il presente. Nel 1953 fu 
in « Unità Popolare ». Dalla sua 
costituzione, fino alla crisi del 
marzo 1962, fu membro del Con¬ 
siglio Nazionale del Partito ra¬ 
dicale e, nell’ottobre del 1962 — 
con Parri, Piccardi, Villa bruna — 
sottoscrisse fra i primi il manife¬ 
sto del Movimento Gaetano Sai- 
vernini. 

Non si capisce come facesse, ma 
sempre era disponibile quando 
c’era da fare qualcosa di serio a 
vantaggio della collettività. Riu¬ 
sciva a trovare il tempo per par- 
tecipare a tutte le nostre riunioni 
e seguiva attentamente le discus¬ 
sioni, intervenendo spesso, con la 
sua lucida intelligenza chiarifica¬ 
trice, anche fino alle ore piccine 
della notte, che avrebbe dovuto 
dedicare al riposo per essere pron¬ 
to, la mattina presto, al suo in¬ 
tenso lavoro. 


JpRA le mie vecchie carte con¬ 
servo il testo di un suo di¬ 
scorso al Ridotto dell’Eliseo, del 
20 maggio 1956, per le elezioni 
amministrative. Il seguente brano 
può dare, a me sembra, un'idea, 
oltre di quello che pensava sul- 
lassistenza sanitaria, anche del 
suo modo realistico di impostare 
i problemi e di ragionare. 

« Questa rapida rassegna dei 
problemi che presenta l’assistenza 
sanitaria all’infanzia nella città e 
nella provincia di Roma — così 
Gino concluse il suo discorso — 
ci ha messi a contatto con molte 
miserie che toccano il bambino, 
cioè il punto più sensibile di ogni 
famiglia — quello che ci collega 
con l’avvenire. Si potrebbe pensa¬ 
re perciò che noi volessimo fare 
appello soltanto a sentimenti di 
umanità per giustificare ingenti 
spese. Ma in realtà, anche da un 
punto di vista strettamente eco¬ 
nomico, questi problemi — la¬ 
sciati per tanti anni insoluti dalla 
precedente amministrazione — 
possono esser risolti senza eccezio¬ 
nale aggravio ed anzi con vantag¬ 
gio del pubblico erario. Infatti 
ogni spesa fatta per prevenire un 
male rappresenta il risparmio di 
una maggiore spesa che viene fat¬ 
ta inevitabilmente per curarlo, con 
l’aggravante dell’incertezza della 
riuscita: prevenire i disturbi della 
nutrizione del lattante, la denu¬ 
trizione dello scolaro, l’infezione 
tubercolare, i danni di case e scuo. 
le malsane, permettere alle madri 
di lasciare ben custoditi i bam¬ 
bini mentre esse si recano al la¬ 
voro, significa risparmiare spese 
di medico e medicine, spese di 
spedalità, ecc. 

« Prevenire la tubercolosi in un 
solo individuo significa rispar¬ 
miare mezzo milione l’anno per 
degenza in ospedale o in sanato¬ 
rio. Creare convalescenziari vuol 
dire ridurre le spese di degenza 
in ospedale al solo periodo di acu¬ 
tezza della malattia e si tratta 
ancora di spese che in buona par¬ 
te gravano già sul bilancio comu¬ 
nale. Finalmente aumentare il 
compenso di allattamento alla ma¬ 
dre nubile significa ridurre il nu¬ 
mero degli esposti interamente a 
carico deirAmininistrazione Pro¬ 
vinciale ». 



Anche i programmi umanitari 
dovevano trovare, per Gino, la 
loro giustificazione nella quadra¬ 
tura dei conti 

QINO Frontali era un illumini¬ 
sta laico: aveva una vastissi¬ 
ma cultura scientifica, e umani¬ 
stica; la conoscenza perfetta delle 
lingue straniere gli aveva consen¬ 
tito di ampliare il suo orizzonte 
intellettuale prendendo contatto 
diretto con persone dei più di¬ 
versi paesi; amava tutte le cose 
belle e credeva soltanto nella ra¬ 
gione e in quel che si vede e si 
tocca; considerava fine ultimo del¬ 
la nostra esistenza « mettere 
diceva — un filo di bene nella 
trama della vita ». E fino aH’ulti- 
ino è rimasto fedele a sè stesso, 
non cercando un sollievo alle sof¬ 
ferenze in alcun mito religioso, 
ma solo nella musica e nella 
poesia. 

La sera avanti di morire — e 
ben sapeva di avere ormai le ore 
contate — ha chiesto alla dolce 
compagna della sua vita di fargli 
ascoltare un poco di musica. La 
signora Elisa ha acceso la radio¬ 
lina. Richter suonava l'Appassio¬ 
nata di Beethoven. 

— Siamo stati a sentirla — nii 
ha raccontato la signora Elisa — 
la mano nella mano; poi gli ho 
detto: 

— Quante cose belle abbiamo 
viste e sentite insieme, vero? 

E lui: 

— Sì... e così dovrà essere fino 
alla fine. 

La signora Elisa gli ha poi letto 
il « Canto notturno di un pastore 
errante dell’Asia », del Leopardi. 
Quando ha finito, con un soffio di 
voce, Gino, ha detto ancora: 

— Com’è bello... 

Ora ci ha lasciati, come ci han¬ 
no lasciati Salvemini, Carlo e Nel¬ 
lo Rosselli, Calamandrei, Bracci 
e tanti altri che gli erano cari, e 
che rappresentavano, anche per 
lui, il sale della terra; ma il filo 
di bene che Gino e questi suoi e 
nostri amici hanno intessuto resta 
nella trama della vita ed avrà va¬ 
lore, per gli uomini che verranno, 
anche quando nessuno ricorderà 
più il loro nome. E’ questa la no¬ 
stra fede. 

ERNESTO ROSSI 


12 








LA FINESTRA 


Perplessità 

DI ARTURO CARLO JEMOLO 


jyjl ACCORGO di appartenere ad un’altra ep»<ca, 

in cui gli spunti ideali valevano assai più che 
oggi non valgono e per conseguenza la privazione del 
Patere non indeboliva i partiti; questi potevano 
mantenere la loro compagine per decenni, anche 
^nza alcuna prospettiva di avere mai una particella 
di potere. 

Riconosco che in quella grossa corrente del par¬ 
tito socialista che appare disposta a partecipare al 
governo c’è una fondamentale serietà ed onestà t! in¬ 
tenti. Ho sempre considerato sintomo di scarso im¬ 
pegno l’atteggiamento di chi rinvia ad una genera¬ 
zione successiva la realizzazione delle sue méte, di 
chi preferisce la critica ai governi che reggono il 
Paese ed affrontano e risolvono, bene o male, ma 
risolvono i singoli problemi, piuttosto che assumer¬ 
si la responsabilità dell’azione. 

E tuttavia resto perplesso. 

Nelle ultime elezioni la perdita di voti della De¬ 
mocrazia cristiana mi sembrava indizio di un desi* 
derio di chiarezza da parte del Paese, che andasse 
coltivato. Mi sembrava cioè che la parola da ótre 
agl’italiani da parte di quanti né sono iscritti a quel 
Partito, né sono sulle ali estreme dello schieramento 
Politico avesse ad essere: — se pure pensiamo che 
1 unità dei cattolici dovrebbe palesarsi ,n politica 
solo quando sono in gioco problemi di libertà reli- 
8 osa o morali, tuttavia nessuna preconcetta ostilità 
aa un partito a sfondo confessionale; ma purché ol¬ 
tre questo sfondo ci sia una omogeneità di vedute. 
Ora non c’è proprio nulla di comune tra le ali destra 
e sinistra del partito, tra il giornale ” Il centro ” e 
L politica di Fanfani e di Sullo; allora non siamo 
P‘ù al partito tradizionale, ma ad una coalizione di 
uomini dalle vedute diversissime, uniti solo dall in¬ 
tento di tenere in mano il potere; conseguenza una so¬ 
stanziale immobilità, una serie di strappate ora a 
destra ora a sinistra. Nell’interesse del Paese occorre 
giungere ad una chiarificazione, ad una scissione del 
partito, che oggi non troverà più le autorità eccle¬ 
siastiche cosi ostili come le avrebbe trovate dieci 
anni or sono; ci sia un partito cattolico conservatore 
che sarà il naturale alleato del partito liberale, ed un 
partito cattolico di sinistra. Occorre insistere sulla 
massa degli elettori perché esprimano questa neces¬ 
sità di chiarificazione, in tutti i modi, se proprio 
necessario, anche con un’astensione dalle urne nelle 
prossime elezioni. (Va da sé che è un discorso che 
f'peterei in altre direzioni; come si può votare per 
La Malfa sapendo di votare anche per Pacciardi, e 
viceversa? j. 

Questa nella mia ingenuità mi sembrava la pa¬ 
rola da diffondere. 


Vedo meno bene una partecipazione ad un go¬ 
verno in cui l’elemento predominante sia sempre la 
democrazia cristiana, con tutti i suoi elementi, di 
destra e di sinistra, nessuno sacrificato, e con le inibi¬ 
zioni che non possono non conseguirne. 

Forse perché continuo a dare un valore che i più 
non danno a certi elementi ideologici, che ricono¬ 
sco scarsamente sentiti dalle masse, non vedo com¬ 
pensate da ciò che una coalizione potrà effettuare 
sul terreno economico o sociale (e qui pure vorrei 
piogrammi chiari, non espressioni generiche) le ne¬ 
cessarie rinuncie. 

Quella ad ogni modifica laicista dei codici, l’ac¬ 
cettazione del sussidio statale alla scuola privata ( a 
mio avviso in palese violazione della Costituzione), 
un atlantismo che nella maggioranza parlamentare 
è incondizionato, accettazione una volta per sempre, 
che non può scuotere né la partecipazione giuridica 
o di fatto all’alleanza delle dittature di destrà, né 
il pagamento delle basi in Spagna con i prestiti 
americani che sostengono il governo franchista;^ un 
atlantismo che dovrebbe restare inalterato se a Ken¬ 
nedy succedesse il senatore Barry Goldwater, 1 uo¬ 
mo della destra estrema. 

Il dissenso che provavo sedici anni or sono leg¬ 
gendo i verbali dell’Assemblea costituente, e veden¬ 
do lo scarso peso che anche Nenni dava all art. 7 
(contro cui tuttavia votava) — quando mi sentivo 
più vicino a Calamandrei, ed altresì a Croce che di¬ 
ciotto anni prima nella discussione degli Accordi la- 
teranensi aveva ricordato esserci uomini per cui 
l'ascoltare od il non ascoltare una messa vale assai 
più di conquistare Parigi — si rinnova oggi in me. 

Ma riconosco che è questo un sentire di tenui 
minoranze, di ” culturame 

Ed allora formulo l’augurio che se il partito so¬ 
cialista deve entrare in una coalizione ministeriale, 
porti un soffio rinnovatore non tanto nelle mete da 
indicare — che non possono essere arcane, mentre i 
dissensi sorgono poi soprattutto sugli strumenti — 
quanto nei metodi, nella tonalità. 

Un tempo quella forma di demagogia ch’è la 
faciloneria, il pressapochismo, il non comparare mai 
lo scopo ed i mezzi, il dimenticare i sacrifici neces¬ 
sari,era imputata soprattutto ai partiti di sinistra. 
Molte cose sono da allora cambiate (constato che 
la virulenza di linguaggio, gli attacchi personali, un 
tempo retaggio proprio delle Sinistre, del Gazzet¬ 
tino rosa, è invece passata ai settimanali di estrema 
destra), e quel rimprovero mi sembra possa muo¬ 
versi oggi a tutti i partiti, a chiunque detiene il po¬ 
tere ed ha la suprema preoccupazione di non dive¬ 
nire impopolare e di non perdere voti: paiono per- 


13 








sonaggi di favola quelli del Risorgimento e post-Ri- 
sorgimento, un Sella che difende la più impopolare 
delle imposte, quella sul macinato, ed accetta il tra¬ 
volgimento delle proprie fortune politiche, con la 
mente sempre fissa al pareggio del bilancio statale. 

TVII AUGURO dunque che se il partito socialista 
entri in una colazione governativa, si assuma 
il compito di dare attraverso i suoi uomini — ne ha 
di degnissimi — una impronta di serietà, direi an¬ 
che di austerità, all’azione governativa; non solo di 
aver sempre presente, ma di dire al popolo che go¬ 
vernare significa necessariaménte scontentare qual¬ 
cuno, che la programmazione equivale a postergare, 
accantonare, esigenze anche le più legittime, ad al¬ 
tre, più impellenti ancora: pure sapendosi che la 
scelta del governo non sarà condivisa da tutti, che 
non si può sperare che i sacrificati abbiano la virtù 
di riconoscere che il loro sacrificio era necessario. 
E raccomanderei soprattutto quella dote che non è 
facile per gli uomini politici, la coerenza; conoscere 
il prezzo di ogni cosa (una via è negare la proprietà 


privata dei mezzi di produzione, ed altra è appel¬ 
larsi al risparmio dei singoli; ma se si prende la prima, 
occorre foggiare strumenti adeguati per una gestione 
pubblica di quei mezzi, ed imporre una severa di¬ 
sciplina a chi la gestisce; se si prende la seconda, 
occorre che il risparmio abbia investimenti produt¬ 
tivi), fare sì che i conti tornino, chiudere risoluta- 
mente la porta ai preventivi compiacenti, non di¬ 
sperdere le tutt’altro che infinite risorse pubbliche 
in infiniti rivoletti, che non danno acqua sufficiente 
ad alcuna zolla. 

Se ci sarà questo ingresso del partito socialista 
in una coalizione governativa, mi auguro che il pri¬ 
mo compito che si assuma sia quello d’imprimere 
tale nota di serietà; e la disciplina di partito si fac¬ 
cia sentire anzitutto vietando ai parlamentari ap¬ 
partenenti quelli iniziative, di cui gli atti del Par¬ 
lamento sono - pieni, che 99 volte su cento sono 
sicuramente dannose allo Stato, aH’amministrazione 
come all’economia, e valgono solo a dare entro una 
certa cerchia popolarità al proponente. 

ARTURO CARLO JEMOl.O 


IL CONGRESSO DEI MAGISTRATI 

Anche i giudici sono uomini 

DI LEOPOLDO PICCARCI 


Q UESTE parole, che formavano il titolo dato 
dal traduttore tedesco al libro di Piero Ca¬ 
lamandrei « Elogio dei giudici scritto da un av¬ 
vocato », mi tornarono spesso alla mente nei 
giorni che ho avuto il piacere di trascorrere sulla 
nave «Ville d’Oran», in mezzo a una numerosa 
rappresentanza della nostra magistratura, par¬ 
tecipando quale invitato all’XI Congresso della 
Associazione Nazionale Magistrati. Affermare 
che anche i giudici sono uomini non significa sol¬ 
tanto ricordare che anch’essi hanno le loro 
umane debolezze; ma vuol dire anche che i giu¬ 
dici partecipano, non possono non partecipare, 
alla vita del loro tempo, condividerne le gioie e 
i dolori, le speranze e le delusioni. 

L’immagine del magistrato chiuso in una tur- 
ris eburnea non va esente da riserve e da peri¬ 
coli: la torre d’avorio può essere soltanto di 
gesso. Chi ha la grave responsabilità di giudi¬ 
care deve naturalmente sapersi spogliare di 
quelle passioni umane che possono turbare l’eser¬ 
cizio della sua funzione. Ma egli non può e non 
deve essere estraneo alla cultura del suo tempo, 
non può e non deve essere insensibile alle cor¬ 
renti che la agitano, non può e non deve igno¬ 
rare le concezioni della convivenza umana e 
della sua organizzazione che alimentano la vita 
politica del suo paese. Il giudice dovrà spesso, di 
fronte alla legge, fare un atto di umiltà, sacrifi¬ 


care le proprie opinioni e le proprie credenze al 
rispetto di quella volontà legislativa alla quale 
è sottoposto; ma sarebbe un errore credere che, 
per prepararsi a questo compito talvolta pesante, 
egli debba tenere la sua mente e il suo animo 
sgombri dai pensieri e dai sentimenti che sca¬ 
turiscono dallo svolgimento delle cose umane. 
Il giudice neutrale non è il miglior giudice; e 
spesso la sua neutralità maschera inclinazioni 
che tanto più possono pericolosamente influire 
sul suo giudizio in quanto non si rivelano aper¬ 
tamente e talvolta non sono neppure del tutto 
presenti alla coscienza di chi vi è soggetto. 

In questo periodo, succeduto alla caduta del 
fascismo e alla Liberazione, si sono avuti spesso 
segni di una tendenza della magistratura a pren¬ 
dere parte attiva agli sviluppi della nostra vita 
pubblica e a trarre conclusioni in ordine ai pro¬ 
blemi della giustizia e di coloro che la ammini¬ 
strano. Non sono mancati episodi che hanno scan¬ 
dalizzato i benpensanti, quale uno sciopero dei 
magistrati: e non si può non riconoscere che, in 
uno stato ben ordinato, i magistrati non dovreb¬ 
bero trovarsi nella condizione di dover ricorrere 
a questi mezzi di lotta e di protesta. Ma di fronte 
alla sensazione di abbandono che la nostra ma¬ 
gistratura ha dovuto talvolta provare per la ca¬ 
renza del parlamento e del governo, una rea¬ 
zione, anche non del tutto ortodossa, può essere 








preferita a un atteggiamento di composta rasse¬ 
gnazione. 

Il fatto più importante e più significativo che 
si è verificato, in questo periodo, nella vita della 
magistratura italiana, è stato però la sua ten¬ 
denza associativa, che ha trovato la sua prima 
espressione precisamente nell’Associazione Na¬ 
zionale Magistrati. Il nome dell’Associazione è 
ormai legato al ricordo di lunghe e tenaci bat¬ 
taglie e a quello di coloro che in esse impegna¬ 
rono le loro forze e la loro personalità. Fra gli 
scomparsi mi piace ricordare Ernesto Battaglini, 
al quale fui legato da affettuosa amicizia e che, 
per la sua vita interamente dedicata alla giusti¬ 
zia, merita di serbare un posto nella memoria 
di quanti sentono la nobiltà di questa funzione. 

La vita dell’Associazione Nazionale Magi¬ 
strati non è stata immune da contrasti interni, 
che sono purtroppo arrivati fino alla secessione 
di una parte dei suoi aderenti e alla formazione 
di un’organizzazione concorrente, 1 Unione Ma¬ 
gistrati Italiani. La vivacità dei dibattiti, la foi- 
mulazione di richieste spesso audaci e profonda¬ 
mente innovatrici e soprattutto la tendenza con¬ 
traria a ogni differenziazione di grado e di ran¬ 
go, che si era rivelata fin dall’inizio in seno alla 
Associazione, indussero i magistrati dei gradi 
più elevati a costituire la nuova organizzazione, 
prima riservata ai magistrati delle corti, poi 
aperta a tutti i membri della magistratura. Scis¬ 
sione in parte giustificata da gravi divergenze 
su problemi suscettibili di varia soluzione; in 
parte forse determinata da intemperanze e da 
impazienze che si sarebbero potute evitare. Sa¬ 
rebbe inutile e indiscreto, per chi è estraneo alla 
magistratura, voler fare un bilancio di ragioni e 
di torti; ma è lecito esprimere un senso di ram¬ 
marico per una divisione che comunque non ha 
giovato alla causa della magistratura. E’ stato 
perciò accolto con sincero comoiacimento il sa¬ 
luto portato all’XI Congresso dell’Associazione 
dal rappresentante dell’Unione dott. Siguram, 
il quale, nel dare assicurazione della solidarietà 
che lega tutti i magistrati italiani, ha lasciato 
intravedere la possibilità di un superamento del¬ 
l’attuale divisione. 

Nel corso del Congresso sono stati trattati i 
problemi fondamentali della giustizia: i due 
codici di procedura, civile e penale, e l’ordina¬ 
mento giudiziario. Quello dei codici è un grosso 
argomento, che richiederebbe un discorso lungo 
e in gran parte tecnico. Non è questa perciò la 
sede per parlarne. Si può dire soltanto che la 
Associazione, con gli studi svoltisi sotto i suoi 
auspici e con le pregevoli relazioni presentate 
al Congresso (Torrente e Pascalino, per la pro¬ 
cedura civile; Realp e Tartaglini, per la proce¬ 
dura penale), ha portato un notevole contributo 
alla soluzione di due difficili e importanti pro¬ 
blemi di politica legislativa. Ma non è fuor di 
luogo ricordare che da più parti si è levata una 
voce, in seguito risuonata anche nel Congresso 
forense di Bari, per segnalare la necessità pre¬ 


giudiziale a ogni riforma di codici e di ordina¬ 
menti, di assicurare alla funzione giudiziaria 
quei mezzi tecnici e quelle attrezzature che sono 
oggi gli strumenti indispensabili di qualsiasi at¬ 
tività, e che potrebbero concorrere validamente 
ad agevolare la soluzione dei problemi della giu¬ 
stizia. Il giudizio che oggi siamo chiamati a dare 
sull’esperienza fatta da codici e da ordinamenti 
è viziato dalle condizioni in cui tale esperienza 
si è svolta, precisamente per la mancanza di 
quegli strumenti. L’esigenza di dare alla nostra 
organizzazione giudiziaria le condizioni elemen¬ 
tari e imprescindibili del suo funzionamento è 
quindi pregiudiziale a ogni altro problema. E non 
dovrebbero esservi difficoltà per soddisfarla: 
trovare poche decine di miliardi dovrebbe essere 
più facile che compiere complesse riforme legi¬ 
slative, le quali sarebbero d’altronde destinate 
a rimanere sterili se ancora una volta vi si po¬ 
nesse mano senza aver creato i presupposti ne¬ 
cessari della loro attuazione. 

Più significativi per chi voglia rendersi conto 
dello stato d’animo della nostra magistratura e 
del concetto che essa ha della propria funzione 
sono i lavori dedicati dal Congresso all’ordina¬ 
mento giudiziario. Le due relazioni del dottor 
Berutti e del dott. Franceschelli sono apparse, 
salvi i naturali dissensi su particolari questioni, 
perfettamente in armonia con le tendenze 
espresse dalla grande maggioranza dei conve¬ 
nuti. Ancora una volta si è potuto constatare, e 
se ne deve dar atto con piacere, che la preoccu¬ 
pazione dominante dei magistrati è quella della 
indipendenza, sia verso l’esterno che verso l’in¬ 
terno. Sotto il primo aspetto è venuta ancora 
una volta in discussione la vigente legge sul 
Consiglio superiore della magistratura, che, at¬ 
tribuendo poteri di iniziativa e di intervento al 
Ministro della giustizia, tradisce il precetto co¬ 
stituzionale che qualifica la magistratura come 
un ordine autonomo e indipendente da ogni altro 
potere. Sotto il secondo aspetto, il Congresso ha 
visto uno schieramento quasi unanime dei con¬ 
venuti a favore di un ordinamento che sopprima 
la carriera e attui rigorosamente, anche a questo 
proposito, la norma della Costituzione secondo 
la quale i magistrati si distinguono fra loro sol¬ 
tanto per diversità di funzioni. 

La questione della legittimità costituzionale 
della legge sul Consiglio superiore della magi¬ 
stratura sarà esaminata dalla Corte costituzio¬ 
nale il 23 ottobre; e mi sia lecito, benché io mi 
trovi a essere impegnato in questo giudizio come 
difensore, formulare l’augurio che il responso 
del supremo organo di garanzia costituzionale 
valga a restaurare il rispetto della Costituzione, 
soddisfacendo le giuste aspirazioni dei magi¬ 
strati italiani. 

Sulla tendenza, che si rivela in ampi strati 
della magistratura, alla soppressione di ogni 
carriera, il discorso è più complesso. Le obie¬ 
zioni che, a questo proposito, sono state spesso 
sollevate anche da uomini ispirati da un sincero 


15 









«more di libertà e di democrazia non possono 
essere sottovalutate: e devo dire che io stesso ho 
seri dubbi sulla conciliabilità con certe insop¬ 
primibili disposizioni della natura umana di un 
sistema nel quadro del quale la vita lavorativa 
del magistrato segua, dall’inizio alla fine, un 
percorso prestabilito, senza quelle possibilità di 
mutamento e di sviluppo che, anche per l’uomo 
meno sensibile a grette considerazioni di car¬ 
riera, costituiscono una difesa contro la routine 
e un incentivo al lavoro. Tuttavia la sincerità 
con la quale mi è accaduto di sentir patrocinare 
l’esigenza della soppressione, fra magistrati, di 
ogni diversità di rango e di grado mi ha colpito. 
Se anche questa istanza non dovesse trovare in 
definitiva un integrale accoglimento, non mi 
pare dubbio che essa sia da considerare come 
espressione di un alto modo di sentire la fun¬ 
zione del magistrato e la sua posizione nella 
società. 

E su queste disposizioni si può, a mio avviso, 
far leva per sopprimere, nella nostra magistra¬ 
tura, i residui, che tuttora sono largamente pre¬ 
senti, di spirito gerarchico e burocratico; per 
attuare tutte quelle misure che valgano a sotto- 
'lineare, nell’opera del giudice, il suo significato 
più specifico e caratteristico di attività perso¬ 
nale, affidata esclusivamente alla coscienza di 
chi è chiamato a svolgerla. Così, ad esempio, sono 
convinto che il principio dell’assoluta egua¬ 
glianza dovrebbe essere osservato in seno ai 
collegi giudicanti; che a presiedere i loro lavori 
dovrebbero essere chiamati, per elezione, quali 
primi inter pares, membri dei collegi stessi; che 
la personalità di ogni singolo giudice dovrebbe 
trovare una salvaguardia nella facoltà ricono¬ 
sciuta, cosi come accade in molti ordinamenti, 
ai membri di collegi rimasti in minoranza di 
esprimere pubblicamente il loro avviso. E su 
questa linea direttiva, altre analoghe riforme 
potrebbero forse essere utilmente introdotte nei 
nostri ordinamenti. 

I magistrati si rendono conto che le loro ri¬ 
chieste di soppressione della carriera presup¬ 
pongono, in tutti i componenti di quell’ordine 
egualitario che dovrebbe diventare la magistra¬ 
tura, eccezionali doti di intelligenza e di carat¬ 
tere; e che si impone quindi la necessità di non 
allargare e, se possibile, restringere il già troppo 
elevato numero dei magistrati. Per far fronte al 
carico di lavoro che rende sempre più pesante 
la vita dei giudici e più faticosa per i litiganti 
la via della giustizia, sono state formulate varie 
proposte. Fra queste, ritorna la vecchia idea del 
giudice unico; ritorna la tendenza, già spesso 
profilatasi in passato, a una riduzione del nu¬ 
mero di magistrati facenti parte dei collegi. 
Punti sui quali si può discutere e si è discusso, 
ma che interessano prevalentemente i tecnici. 

Di più generale interesse è la proposta di isti¬ 
tuire, in luogo degli attuali conciliatori, magi¬ 
strati onorari, con una competenza, in materia 
civile e penale, di una certa ampiezza. Il Con¬ 


gresso si è mostrato favorevole a questa idea, 
pur non condividendo l’opportunità di dare ai 
magistrati onorari di nuova istituzione carattere 
elettivo. Anche con questa correzione, ho per 
parte mia seri dubbi sulla prova che magistrati 
onorari muniti di poteri non irrilevanti potreb¬ 
bero fare in un paese come il nostro, dove non 
esiste una tradizione di cariche pubbliche ono¬ 
rarie e dove la scelta degli uomini destinati al¬ 
l’esercizio di pubbliche funzioni è soggetta a 
forti influenze di partiti. Direi però che la pro¬ 
posta dimostra larghezza di concezioni e lo spi¬ 
rito non conformista con cui i magistrati guar¬ 
dano ai loro problemi e a quelli della giustizia. 

Per concludere, non mi resta che tornare al 
punto dal quale questo discorso aveva preso le 
mosse. L’impressione di chi ha partecipato al- 
l’XI Congresso dell’Associazione Nazionale Ma¬ 
gistrati è quello che mi è parso di poter riassu¬ 
mere nel titolo del libro di Calamandrei: i nostri 
magistrati si mostrano consapevoli dell'impor¬ 
tanza della loro funzione e si battono per otte¬ 
nere condizioni di vita e strumenti di lavoro che 
consentano ad essi di esercitarla nel modo più 
proficuo per la società. Ma, nello studio dei loro 
problemi, che sono i problemi della giustizia, 
portano quelle preoccupazioni, quelle tendenze, 
quelle aspirazioni che sono comuni a tutti i cit¬ 
tadini del loro paese. Sono insomma partecipi 
della cultura del loro tempo: cosa in larga mi¬ 
sura nuova in Italia. 

LEOPOLDO PICCAKDI 


IL PONTE 

RIVISTA MENSILI DI POLITICA £ LETTERATURA 
roftout o. PIERO CALAMANDREI 

Piero Calamandrei: Pagine ili diario. 

Umberto Segre: Pulitini estera e neutra¬ 
li sino. 

Gildo Fossati: Viet-nam meridionale. 

Carlo Francovich: Filologia e Resistenza. 

Furio Diaz: Filosofìa, storia e t'ita sociale. 

Giorgio Calli Mie: La figura e l'opera di 
Francesco Flora. 

Enrico Terracini: La casa sulla collina. 
Racconto. 


Direttori: E. E Agnoletti e Corrado Turnisti 
Piazza Indipendenza. 29 . Firenze 


















NIKITA KRUSCIOV 



JOHN KENNEDY 

LE TRATTATIVE SUL DISARMO 


1 passi possibili 

IH ALDO G10BBI0 


JL 28 SETTEMBRE scorso il se¬ 
gretario di Stato americano Rusk, 
il ministro degli Esteri russo Gro- 
miko e il ministro degli Esteri bri* 
tannico Home hanno avuto a New 
York un colloquio sul tema del ” se¬ 
condo passo ” da compiere sulla via 
del disarmo, dopo l’accordo del 25 
luglio sulla sospensione degli espe¬ 
rimenti nucleari. Nel momento in 
cui scriviamo queste note, altri in¬ 
contri interlocutori sono previsti per 
i prossimi giorni e, per quanto sia 
difficile che questi contatti conduca¬ 
no a delle realizzazioni immediate, 
in considerazioni del fatto che la 
precaria posizione del governo in¬ 
glese non fa di Lord Home l’inter¬ 
locutore più autorevole per il suo 
paese ( come pure è sub iudice la po¬ 
sizione dell’interlocutore invisibile 
Schroder, in questi ultimi giorni 
dell 'amministrazione Adenauer), è 
indubbio che essi stanno a testimo¬ 
niare una volontà di distensione non 
solo altamente positiva in sé e per 
sé, ma anche tanto più suscettibile 
di trovare sviluppi favorevoli quan¬ 
to più l’imminente mutamento di 
direzione politica in Germania e 


quello assai probabile in Inghilterra 
significheranno un aumento di ela¬ 
sticità degli occidentali su una que¬ 
stione capitale per il futuro della 
pace come l’avvenire della Germa¬ 
nia. In sostanza, si tratta per i tede¬ 
schi di decidere se la riunificazione 
(de iure o de facto) della Germania 
valga la sua neutralizzazione, e per 
americani e inglesi se l’eliminazione 
del focolaio d’infezione di Berlino 
sia un compenso sufficiente alla ri¬ 
nuncia all’apporto (del resto proble¬ 
matico) che la Bundeswehr può da¬ 
re alla cosiddetta difesa dell’Occi¬ 
dente. 

A questo proposito non va sotto- 
valutato il latente conflitto, già in 
atto da tempo e ora abbastanza pros¬ 
simo alla fase acuta, fra lo Stato 
Maggiore tedesco e il Pentagono, 
conflitto imperniato sulla tendenza 
americana a fare dell’esercito tedesco 
una forza convenzionale di prima 
schiera, in contrapposizione alla dot¬ 
trina tedesca che prevede l’armamen¬ 
to atomico come punta di diamante 
della Bundeswehr. Se la posizione 
tedesca in questo senso dovesse con¬ 
tinuare a irrigidirsi (il che non è 


detto, una volta che Erhard avrà so¬ 
stituito Adenauer), ciò potrebbe an¬ 
che indurre gli americani a conside¬ 
rare con maggior senso di realismo 
quale sia il reale apporto militare 
della Germania all’Alleanza atlan¬ 
tica, in rapporto al prezzo politico 
che l’Alleanza paga per esso. 

Il problema, in realtà, è anche 
più complesso. Il negoziato per il 
disarmo si deve svolgere necessaria¬ 
mente su due binari: 1 ) le condi¬ 
zioni preliminari di elaborazione di 
una procedura che eviti la "guerra 
per errore ” e permetta, in qualsia¬ 
si momento di tensione, la messa in 
opera di un meccanismo di emer¬ 
genza grazie al quale sia possibile 
negoziare fino all’ultimo istante (ap¬ 
partiene a questo genere di precau¬ 
zioni, per esempio, l’installazione 
della linea diretta tra il Cremlino 
e la Casa Bianca, avvenuta con l’ac¬ 
cordo firmato il 20 giugno di que¬ 
st’anno); 2) l’eliminazione progres¬ 
siva dei motivi concreti di divergen¬ 
za. Va da sé che i due momenti, pur 
distinti sul piano logico, non lo so¬ 
no necessariamente su quello tem¬ 
porale: anzi, con le sue ripercussioni 


17 















psicologiche, ogni successo od ogni 
scacco in uno dei due campi si ri¬ 
flette sugli sviluppi dell’altro. Il ca¬ 
so della Germania è particolarmente 
esemplificativo perché vale per am¬ 
bedue i settori: infatti, la sua riu¬ 
nificazione e neutralizzazione o, sia 
pure in misura minore, il riconosci¬ 
mento di fatto delle due Germanie 
in cambio di un controllo occiden¬ 
tale sulla parte est e di uno orien¬ 
tale sulla parte ovest (tale sembra 
essere stato, in particolare, il tema 
del colloquio del 28 settembre), 
conseguirebbe al tempo stesso il ri¬ 
sultato di allentare la tensione inter¬ 
nazionale in un punto nevralgico e 
quello di mostrare concretamente al¬ 
l'interlocutore la propria volontà di 
intendersi fin dove è possibile. La 
neutralizzazione del Vietnam e l’in¬ 
staurazione di un governo democrati¬ 
co nel Vietnam del Sud, l’ammis¬ 
sione della Cina all’ONU costitui¬ 
rebbero altri passi positivi sia per 
l’eliminazione di focolai di conflitto, 
sia come mosse genericamente di¬ 
stensive. 

Ma, oltre a queste, che sono ma¬ 
terie di negoziato e che dipendono 
anche dalla buona disposizione del¬ 
l’interlocutore, gli occidentali avreb¬ 
bero a loro disposizione una serie 
di mosse unilaterali che, senza modi¬ 
ficare realmente l’equilibrio mon¬ 
diale delle forze e senza intervenire 
direttamente sui focolai immediati 
di conflitto, potrebbero favorire in 
misura ancor più grande la disten¬ 
sione internazionale, perché tali da 
agire direttamente sulla psicosi di 
guerra. Una di queste mosse, e certo 
la più significativa, dovrebbe essere 
il ritiro di tutte le basi missilistiche 
e di tutti gli stocks atomici esisten¬ 
ti in Europa: abbiamo già avuto oc¬ 
casione di sostenere in questa sede 
come ciò non diminuirebbe affatto 
la capacità di ritorsione americana, 
mentre il suo significato distensivo 
sarebbe di immediata intellegibilità. 
Purtroppo, se con il ritiro delle basi 
italiane e turche il governo ameri¬ 
cano aveva dimostrato di cominciare 
a capire il valore di un gesto del 
genere, il rinnovo per cinque anni 
dell’accordo con la Spagna per la 
cessione di basi militari in cambio 
di aiuti economici, sottoscritto il 26 
settembre, è stato una doccia fred¬ 
da che ha rammentato come il pre¬ 
giudizio della vecchia ” strategia pe¬ 
riferica ” sia ancora duro a morire. 

Un’altra mossa suscettibile di ri¬ 
voluzionare il negoziato per il di¬ 


sarmo, in quanto darebbe di colpo 
alPOccidente una superiorità d’ini¬ 
ziativa in sede di trattative, sarebbe 
che gli Stati Uniti rinunciassero alle 
basi missilistiche installate sul loro 
territorio nazionale, accontentandosi 
del deterrente rappresentato dai 
sommergibili Polaris. E’ da notare 
che una mossa del genere, più che 
indebolire, rafforzerebbe la posi¬ 
zione, arche sul piano strettamente 
militare, degli Stati Uniti, in quan¬ 
to, essendo i Polaris praticamente 
non raggiungibili da missili avver¬ 
sari, a differenza delle basi di terra, 
ciò toglierebbe ad un tempo allo 



avversario l’illusione pericolosa (se 
mài l’avesse) di annullare la forza 
di ritorsione americana colpendo 
per primo, e il timore che gli ame¬ 
ricani, vivendo nella psicosi di non 
poter replicare, siano tentati di col¬ 
pire a loro volta per primi. Si 
aggiunga che un missile Polaris 
(comprendendovi anche il costo del 
sommergibile diviso per sedici, os¬ 
sia il numero dei missili che esso 
trasporta) costa circa un quarto di 
un missile intercontinentale con ba¬ 
se a terra (comprendendo anche il 
costo della base di lancio sotterra¬ 
nea). Una rivoluzione strategica di 


questo genere sarebbe inoltre un so¬ 
stanziale passo avanti sulla via del 
disarmo controllato in quanto un 
eventuale raggruppamento dei som¬ 
mergibili in un tratto di mare sotto¬ 
posto a controllo non presenterebbe 
le stesse difficoltà tecniche del con¬ 
trollo di centinaia di basi dissemina¬ 
te sul territorio degli Stati Uniti. 

Un terzo e sostanziale provvedi¬ 
mento, la cui urgenza sta ormai di¬ 
ventando drammatica, è la cessazio¬ 
ne della fabbricazione di altri ordi¬ 
gni atomici. Si calcola che gli Stati 
Uniti possiedano oggi un potenziale 
atomico pari a 30 mila megaton, 
stando ad una dichiarazione fatta da 
Rusk il 16 giugno 1962, tale po¬ 
tenziale dovrebbe essere raddoppiato 
entro il 1966. Poiché esso è già suf¬ 
ficiente ad uccidere 25 volte la popo¬ 
lazione dell’Unione Sovietica, ci si 
domanda che senso abbia una corsa 
agli armamenti condotta in questi 
termini. Finché i dirigenti americani 
hanno potuto coltivare l’illusione di 
poter distruggere al primo urto il 
dispositivo missilistico sovietico 
(ciò era teoricamente prospettabde 
in quanto le dimensioni dei missili 
sovietici ne rendevano impossibile 
l’installazione in basi sotterranee e 
il segreto col quale i russi ne proteg¬ 
gevano l’ubicazione era stato violato 
dai voli degli U-2 ) una strategia del 
genere poteva avere una sua logica. 
Ma sono ormai tre anni che gli U-2 
non sorvolano più il territorio del- 
l’URSS. e se anche pare che i sa¬ 
telliti Samos li abbiano egregiamem 
te sostituiti nel loro compito di 
informatori, i progressi tecnologici 
compiuti dalla missilistica sovietica 
dal 1960 ad oggi lasciano scarse il¬ 
lusioni che la cosiddetta « splendi¬ 
da capacità di primo urto » sia an¬ 
cora realizzabile. E allora, se la 
« spada » americana deve limitarsi 
ad essere deterrente, cioè una forza 
capace di infliggere al nemico una 
« punizione » tale da non invogliar¬ 
lo a colpire per primo, e non una 
« force de frappe », cioè una forza 
capace di mettere al tappeto l’av¬ 
versario privandolo di colpo del 
proprio dispositivo d’offesa, la pos¬ 
sibilità di distruggere l’Unione So¬ 
vietica 50 volte vale esattamente 
quanto quella di distruggerla una 
volta sola, o anche di uccidere la 
metà o un terzo della sua popola¬ 
zione. Al di sopra di una certa cifra 
certi calcoli hanno un valore mera¬ 
mente teorico. 

I motivi che si oppongono alla 


18 










interruzione della corsa agli arma¬ 
menti (non usiamo ancora il termi¬ 
ne disarmo, che comporterebbe la 
distruzione di una parte almeno delle 
scorte esistenti ) non sono certo, og¬ 
gi, di natura prevalentemente stra¬ 
tegica, nè di politica estera, quanto 
di natura economica e di politica 
interna. E’ opportuno ricordare che 
un missile Alias nel suo rifugio an- 
ti-atomico costa 40 milioni di dol¬ 
lari; che gli Stati Uniti hanno speso 
in ricerche militari tra il 1950 e il 
I960 (solo in ricerche, esclusa cioè 
la produzione successiva agli espe¬ 
rimenti riusciti) 80 miliardi di dol¬ 
lari; che il bilancio americano della 
Difesa 1963-64 (55 miliardi di 
dollari ) è più della metà del bilan¬ 
cio americano complessivo (quasi 
99 miliardi); che l’espansione eco¬ 
nomica prodotta dalle spese militari 
costituisce circa un quinto del red¬ 
dito americano; che i lavori inizia¬ 
li del Nike-Zeus ( il missile anti¬ 
missile, che dovrebbe centrare in 
volo gli ICBM del nemico) hanno 
procurato contratti a 80 società in 
17 Stati dell’Unione; che nella sola 
California 750 mila operai vivono 
sulle spese militari. In un’intervista 
concessa alla fine dell’anno scorso, il 
presidente Kennedy dichiarò: « Non 


ci sono dubbi che, se non costruia¬ 
mo i B-70 o lo Skybolt, ciò mette 
in pericolo migliaia di posti di la¬ 
voro e la prosperità economica della 
collettività ». Fortunatamente, egli 
aggiungeva: « D’altra parte, non 
possiamo permettere al bilancio del¬ 
la Difesa di gonfiarsi oltre misura ». 
Ma è un precedente poco rassicu¬ 
rante che, fino a questo momento, 
tutti i congressmen che hanno avu¬ 
to il coraggio di pronunciarsi per la 
riduzione delle spese militari siano 
stati regolarmente bocciati dai loro 
elettori alle elezioni successive. E’ 
noto del resto che l’abbandono del 
progetto Skybolt, nel dicembre scor¬ 
so, mise la Douglas sull’orlo della 
crisi, e che il motivo fondamentale 
per il quale il governo inglese por¬ 
ta avanti, malgrado tutte le contro- 
indicazioni tecniche, i bombardieri 
V, è la preoccupazione di non li¬ 
quidare l’industria aeronautica bri¬ 
tannica. 

Non si tratta solo, come ai bei 
tempi di Anatole France, degli in¬ 
teressi dei baroni dell’acciaio, che 
facevano fare la guerra ai poveri 
diavoli per poter produrre i canno¬ 
ni: la triste realtà è che in una so¬ 
cietà dominata dalla legge della red¬ 
ditività a breve o medio termine 


solo lo Stato si è dimostrato in gra¬ 
do di finanziare la ricerca ad alto li¬ 
vello, e che, purtroppo, il motivo 
del patriottismo, della « difesa del¬ 
l’Occidente », del « pericolo asiati¬ 
co » si è dimostrato il solo modulo 
discorsivo capace di convincere il 
contribuente a sborsare sotto forma 
di tasse una parte sostanziosa del 
proprio reddito per finanziare tale 
ricerca. Quando la fine della corsa 
agli armamenti inducesse finalmen¬ 
te i governi a dedicare a più nobili 
fini il denaro oggi speso per le armi, 
non sarà certo difficile individuare 
i settori bisognosi di investimenti 
altrettanto massicci: il difficile sarà 
convincere il contribuente america¬ 
no che lo sviluppo dei paesi sotto- 
sviluppati, la tutela del paesaggio e 
il progresso della cultura sono, al¬ 
meno, altrettanto importanti. O, 
perlomeno, visto che le tasse le deb¬ 
bono comunque pagare, che è me¬ 
glio pagarle per vivere che pagarle 
per morire. E’ questo uno dei più 
gravi problemi dell’Occidente, dei 
più difficili da risolvere: ma è un 
problema che deve essere risolto, 
se l’Occidente non vuole restare pa¬ 
ralizzato nel momento decisivo del¬ 
le trattative sul disarmo. 

ALDO GIOBBIO 


LE CONSEGUENZE IDEOLOGICHE DELLA DISTENSIONE 

Revisione del neutralismo? 

DI FEDERICO ARTUSIO 


L’AVVICINAMENTO e la trattativa diretta tra 
USA e URSS, la firma della moratoria nucleare 
di Mosca, e i nuovi passi non improbabili verso altre 
formule di disarmo, non costituiscono oggi la messa 
in mora della funzione del neutralismo come atteg¬ 
giamento di partiti europei, nei confronti di un dua¬ 
lismo dei blocchi, che si viene palesemente atte¬ 
nuando? 

La questione non può essere evasivamente accan¬ 
tonata, soprattutto da coloro che assunsero un at¬ 
teggiamento neutralistico nel colmo della guerra fred¬ 
da, gli anni della Corea, del maccartismo, dell’ultima 
più violenta fase dello stalinismo. Essi si rendono 
conto infatti che continuare a battersi oggi per un 
indirizzo di giudizio e di proposta politica inteso a 
” scaricare ” la dogmatica validità di ciascuna delle 
due parti non è più sufficiente. Nello stesso tempo, 
il neutralismo è davvero spacciato, esaurito, e da ac¬ 
cantonarsi come una politica senza residui? 


E’ subito da avvertire che il neutralismo del 
terzo mondo non ha identiche giustificazioni né 
ragioni di esaurimento, di quello di partiti o gruppi 
europei, per la politica europea. Per il « terzo mondo », 
il neutralismo è una imprescindibile ed energica cau¬ 
tela contro la coincidenza di interessi inconfessati e 
volontà d’influenza da un lato — e « protezione » 
anticoloniale dall’altra — delle due superpotenze, 
Unione Sovietica e Stati Uniti. Indubbiamente queste 
hanno una vocazione anticolonialistica intrinseca alla 
loro origine politica e ideologica; ma il solo fatto di 
non poter abdicare, anzi di dover logicamente inten¬ 
sificare, a fini di reciproca concorrenza, le loro esi¬ 
genze di potenze mondiali, le porta a travestire, sotto 
specie di sostegno alla autonomia del terzo mondo, 
le loro aspirazioni di leadership. Come l’Algeria sareb¬ 
be ancora in guerra con la Francia, se avesse atteso 
l’aiuto concreto degli Stati Uniti o dell’Unione Sovie¬ 
tica, così il Congo non ha mai potuto contare seria- 



19 













mente su Mosca per scuotersi di dosso il padronato 
belga. Nello stesso tempo, gli Stati Uniti hanno dovuto 
attendere la morte, o almeno l’estrema senescenza di 
Foster Dulles, per riconoscere che dopo tutto la neu¬ 
tralità ideologica dell’India, o le qualità mediatrici di 
Suvanna Phuma, potevano costituire « soluzioni », in 
Asia, concorrenziali nei confronti della preminente in¬ 
fluenza comunista. 

Non è da identificare con il neutralismo la ricerca 
di « zone » disatomizzate o di « metodi neutra¬ 
lizzanti » fra i due blocchi concorrenti. Una precisa¬ 
zione di questo genere, che è preziosa, fu fornita, ri¬ 
cordiamo, proprio da Aneurin Bevan, a Venezia, in 
occasione del congresso socialista del 1957. Bevan mise 
bene in chiaro che per il Labour Party si trattava solo 
di circoscrivere zone, in cui concordemente i due 
blocchi rinunziassero ad estendere la presenza dei loro 
armamenti: sin da allora egli riteneva assai arduo 
delineare una zona di questo tipo al centro Europa, e 
invece particolarmente consigliabile tentar di definirne 
una nel Medio Oriente, soprattutto dopo Suez. Si può 
dire che una procedura neutralizzante è presente anche 
nel trattato di stato dell’Austria. Ma questo non signi¬ 
fica che il tipo di autolimitazione di reciproche richie¬ 
ste, o di determinate forme di competizione tra i due 
blocchi siano, esse stesse, il portato di un indirizzo o 
di una mentalità neutralistica. 

Per neutralismo abbiamo inteso a lungo, in Euro¬ 
pa, un’altra cosa. Abbiamo inteso in primo luogo 
il rifiuto di identificare con una « verità » pratica, cioè 
con « valori » convenzionalmente da dichiararsi positi¬ 
vi, le giustificazioni ideologiche della politica di poten¬ 
za dei due blocchi: il rifiuto, ad esempio, di identifi¬ 
care la politica atlantica con la « civiltà occidentale », 
o quella sovietica con la « liberazione dell’uomo ». 
Non ignoravamo certo che la credenza in questi pre¬ 
sunti valori era immanente alla carica volontarista di 
quelle politiche. Ma se avessimo davvero identificato 
i due aspetti (il contenuto di quelle credenze, e l’azio¬ 
ne ) della prassi, in ciascuno dei due blocchi, avremmo 
anche sanzionato l’identità senza residui dei valori 
etico-storici con il parzialissimo punto di vista e l’azio¬ 
ne episodica di determinati gruppi di potere. Così, pur 
non cedendo in alcun modo alla analoga tentazione di 
identificare il nostro atteggiamento coi valori cristiani 
o con la liberazione dell’uomo, rifiutammo risoluta- 
mente di consentirlo alle loro propagande; e denun¬ 
ziammo come intollerabile la procedura che, instau¬ 
rando inquisizioni di tipo ideologico, effettuava una 
illimitata discriminazione politica e fisica nei riguardi 
dell’opposizione, con metodi diretti a far confessare 
agli stessi inquisiti che già il loro proposito era, per 
se stesso, un’azione compiuta, e imputabile persino nei 
suoi più lontani effetti (fu il metodo tipico del 
maccartismo ). 

In quella fase di lotta internazionale, il neutra¬ 
lismo ebbe una funzione, e spesso una figura di « te¬ 
stimonianza »: ciò non ne annullava tuttavia l’effica¬ 
cia anche pratica, in quanto costituiva una previsione, 
e una preparazione, dello svelenamento ideologico 
possibile; e questo non ha mai, nei fatti, tardato 


a prodursi. Tradotto poi nelle politiche interne, il 
neutralismo era il principio che lottava contro una 
destra che intendesse legittimarsi con la necessità di 
fronteggiare un nemico avanzante da sinistra « per 
vie interne ». Fu neutralismo la lotta contro la legge 
truffa in Italia, nel 1953. E il fatto che vi partecipasse 
anche il PCI, non significa che esso davvero fosse 
neutralista, ma solo che le ragioni del « no », siano 
esse la negazione di una delle due parti, o il rifiuto 
della conformità ad ambedue, non possono, in qualche 
caso, che sovrapporsi. 

Bisogna però constatare, oggi, che lo svelenamen¬ 
to ideologico della competizione russo-americana 
è in corso, dal momento in cui le due parti ricono¬ 
scono che esistono aree « tecniche » che ambedue 
hanno interesse a disinnescare. Gli Stati Uniti non 
cessano di essere il maggior paese capitalista, e l’URSS 
quello di più avanzata esperienza collettivistica: ma 
il depotenziamento degli strumenti aggressivi che 
ambedue sono disposti a lentamente intraprendere, 
certamente altera la tensione ideologica del tempo 
della guerra fredda. Quando essi dicono di mantenere 
attiva e inalterata la reciproca sfida ma di volerne 
attenuare — per un riconosciuto comune interesse 
— l’aggressività, immediatamente la giustificazione 
ideologica della competizione sembra essere di tanto 
rettificata, di quanto si riduce la menzogna della 
identificazione dei valori invocati con una mera poli¬ 
tica di potenza. Al limite, allora, l’obbiezione di fon¬ 
do del neutralismo deve cadere, e il neutralista essere 
restituito, senza pregiudiziali, alla scelta per l una o 
l’altra parte; oppure persiste una giustificazione del 
neutralismo ma si impone anche una sua revisione di 
fondamento e di contenuto? 

A me sembra che sia questo il caso. Il ragiona¬ 
mento dovrebbe correre attraverso questi due 
passaggi: a) è pienamente giustificata l’immanenza di 
principi ideologici antitetici a fondamento di politi¬ 
che competitive. Ma se è esatto che la guerra è il 
proseguimento, con certi mezzi, di certe politiche, è 
vero anche il contrario: che la pace e la diplomazia 
sono lo sviluppo, con diversi mezzi, di confronti che 
si è tentato (o si è minacciato) di eseguire con la 
guerra. Il neutralismo resta dunque legittimato anzi¬ 
tutto come critica delle residue immistioni di pura 
potenza in una politica di progressiva competizione 
pacifica: ne restano certo molte volontarie, e ne 
permarranno altre involontarie e non controllabili. 
Perciò, quanto si attenua la virulenza della guerra 
fredda, altrettanto la forza di negazione del neutra¬ 
lismo si tramuta in una funzione critica, e di continuo 
rilancio della fiducia internazionale, b) Il neutralismo 
ha però anche un’altra funzione, che nasce dalla logi¬ 
ca stessa del passaggio da guerra fredda a coesi¬ 
stenza competitiva. Questo passaggio infatti, non è 
solo un graduale depotenziamento di virulenza e 
una progressiva riduzione dei mezzi di assoluto terro¬ 
re; ma è il rovesciamento, l’opposto della probabilità 
che era insita nella guerra fredda, quella di poter di¬ 
venire conflitto attivo. C’è dunque, nella liquidazione 
della guerra fredda, sia un processo di « graduale » 









attenuazione nel mantenimento del contrasto, sia 
di « totale » negazione della tecnica assoluta della po¬ 
tenza. L’intreccio di queste due logiche è che si 
tenderà a « sospendere » le premesse ideologiche del- 
l’agire, ad accantonarle quando si debbano prendete 
certe decisioni: al limite, a rendere la diplomazia 
dell’età nucleare indifferente alle ideologie. Ebbene, 
il neutralismo (che è rifiuto ad aderire, ma anche di 
condannare a priori le ideologie in presenza) assume 
in questo caso un compito di rivalutazione ideologica 
dell’azione politica, di lotta contro l’indifferentismo 
di una pura realpolitica della pace. C è una ragione 
molto seria di questo compito, ed è che quella realpo¬ 
litica, ad un certo segno, come squalifica di ogni im 
Pegno ideologico, può rendersi disposta a reciproc e 
concessioni, che in realtà si riversano sui propri e 
su altri popoli, o sulla rilevanza di idee, che, per re¬ 
ciproco interesse, si preferirà, in condizioni mutate, 
alterare o sottacere nelle rispettive propagande. Noi 
non abbiamo ad esempio motivo di essere procinesi, 
m a è chiaro il comune interesse di sovietici e ameri¬ 
cani di sminuire il maoismo (oppure di rivalutarlo 
episodicamente, ma alterandolo), per buttare o 
sottrarne il peso sulla bilancia delle trattative. Non 
è che uno dei casi che possono pronunziarsi. 


fi'ì Per quanto riguarda le politiche estere « neutra- 
* listiche » di singoli gruppi o partiti nell area 
occidentale, sembra chiaro che esse non possano piu 
limitarsi a una professione soggettiva: « nec tecum nec 
sine te » — « nè con l’uno nè con l’altro » — « ohne 
uns », e simili. Questo rifiuto di conformità, che aveva 
un certo valore di « contenuto » già per la sua stessa 
« forma » nel momento della guerra fredda, non può 
che dar luogo oggi alla ricerca e all’iniziativa di spe¬ 
cifici contenuti, nel punto in cui è mutata la torma 
cd è evoluta l’occasione storica del neutralismo. 

Quando un partito neutralista dice, ad esempio, 
oggi, che esso accetta « di fatto » il quadro del patto 
Atlantico, dice un truismo, perchè questa accettazio¬ 
ne « di fatto » esisteva anche prima ( solo col maggior 
rischio di subirne, come pena, una tal quale discri¬ 
minazione). La realtà è invece che, proprio per lo 
sviluppo diplomatico in corso, il riconoscimento che 
oggi si dà è «di diritto»; ma, nello stesso atto, si 
conferisce la stessa adesione alla legittimità del patto 
di Varsavia; e si assume, dentro al quadro atlantico, 
una ideale rappresentanza della controparte, per avan¬ 
zare proposte prevedibilmente costruttive per am¬ 
bedue le parti. Nella costruttività si deve includere 
anche quell’elemento di salvaguardia della positività 
ideologica della parte avversa, che abbiamo sopra 
definito , al punto (5 b). 

Supponiamo, per dare un esempio molto sempli¬ 
ce, che il Partito socialista italiano ponga come con¬ 
dizione di una partecipazione al governo il rifiuto 
di una formula « multilaterale » che comporti un ben 
determinato « regime » dei porti o delle basi tedesche. 
Ebbene, questo modo di agire darebbe al PSI la forza 
di condizionare la politica estera italiana, e perciò 
stesso, di interferire con una reale iniziativa in favore 
del punto di vista di Harold Wilson, anziché di 
Gerard Schroeder. 

FEDERICO ARTCSIO 


LETTERA DA PARIGI 


Il doppio senso 

DI LUCIANO BOLIS 

pER CINQUE giorni, il generale de Gaulle ha 
* percorso in lungo e in largo la valle del Rodano. 

Si tratta del suo ventesimo giro d’ispezione attra¬ 
verso la Francia. Come per i precedenti, anche questa 
volta scopo del viaggio era di stabilire un contatto 
personale e diretto con le popolazioni del posto; non 
tanto quelle dei grandi centri, quanto delle località 
di provincia e delle campagne, dove prevale l’ele¬ 
mento ” vecchia Francia ”, qualunquistico e politica- 
mente sprovveduto, cui il generale intende di pre¬ 
ferenza rivolgersi. 

Il suo stile oratorio, infatti, non ha nulla d iste¬ 
rico e volgare, com’era quello di Hitler, il quale 
se ne serviva per soggiogare le folle oceaniche che 
gli si prosternavano davanti. De Gaulle — che in 
questo discende direttamente da un altro grande fran¬ 
cese di stile e mentalità borghese, ancorché di san¬ 
gue reale: Luigi Filippo — ha invece 1 estrema ma¬ 
lizia di presentarsi in pubblico, almeno a questo ge¬ 
nere di pubblico, en petit bonhomme, così da ispi¬ 
rare fiducia all’uomo della strada, che in Francia è 
troppo smaliziato (e, diciamo pure, anche troppo 
profondamente democratico) per lasciarsi prendere da 
parate gallonate e cipigli fieri, che invece hanno 
avuto tanto successo in Italia durante il ” venten¬ 
nio ”... Ma non dimentichiamo che, in Francia, tutto 
è profondamente borghese, dalla grande Rivoluzione 
(che i francesi scrivono con l’R maiuscola, per di¬ 
stinguerla dalle altre), fino alla stessa condizione 
del proletario moderno, che cova in fondo all’animo 
aspirazioni e gusti anch’essi sostanzialmente borghesi. 

Dicevamo quindi di de Gaulle e della sua mania 
di mostrarsi in pubblico come un buon nonnino, non 
preoccupato d’altro che di compiacere ai suoi nume¬ 
rosi figli e nipoti. Ma il gusto di queste bonarie pas¬ 
seggiate in provincia, così impregnate di atmosfera, 
non diminuisce però in lui la superiore vocazione 
paesana dell’uomo politico, che gli permette di rivol¬ 
gersi, al di là dei volti paonazzi e rugosi dei suoi 
agresti ascoltatori, ad un’opinione pubblica francese 
e mondiale, ch’egli sa sempre pronta a cogliere, dietro 
l’ondata apparentemente spontanea delle parole, il fi¬ 
lo d’Arianna capace di condurre a meno peregrine in¬ 
terpretazioni, su cui si baseranno poi le diplomazie 
per elaborare i loro piani di contrattacco. 

Se è vero che de Gaulle parla contemporaneamen¬ 
te a due pubblici, è anche vero che le sue espres¬ 
sioni — come i poemi allegorici medievali .J^9 no 
sempre perlomeno due sensi, non incompatibili e 
neanche complementari tra loro, ma semplicemente 
veri e giustificabili ciascuno sul diverso piano su 
cui debbono essere posti e interpretati. 

Ma torniamo al viaggio in provincia dei giorni 

scorsi. . . 

Anche questa volta, dopo le solite aftermazioni 

21 











nazionalistiche sul posto che non può non competere 
alla Francia nel mondo e sulla necessaria compatezza 
dei francesi dietro la loro guida carismatica, non po¬ 
teva mancare la solita frecciata all’opposizione, da 
lui appunto presentata, con malcelata irriverenza, sot¬ 
to forma di ” Comitato Gustavo, Comitato Teodulo 
e Comitato Ippolito 

Certo il generale non ignora quanto il veleno 
qualunquistico e antiparlamentare rischi di fare for¬ 
tuna in un paese, come la Francia del 1963, lacerata 
per anni da una profonda crisi istituzionale. E ben 
si addice alla sua figura di vecchio solitario ed altero 
questa contrapposizione con i partiti, che gli per¬ 
metterebbe di stabilire infallibili ed esoterici contatti 
con la Francia, mentre a quelli andrebbe soltanto la 
taccia d’interpreti abusivi e falsi profeti. 

Perché precisamente questo egli sembra intendere 
quando riconosce a sé stesso, e solo a sé stesso, la 
facoltà, anzi la missione storica, su cui fonda quasi 
una nuova legittimità, di comprendere i francesi, cioè 
quello che è utile o inutile, bene o male per i fran¬ 
cesi. A sé stesso, abbiamo detto, e non ai partiti, 
ch’egli considera evidentemente come una inutile, an¬ 
zi pericolosa sopravvivenza di un regime ormai su¬ 
perato, di cui non si lascia sfuggire occasione per 
mettere in rilievo le colpe, col gusto veramente sa¬ 
dico di un Maramaldo che si ostina a uccidire il 
suo uomo morto. 

E che de Gaulle non ami il sistema dei partiti 
è testimoniato anche dal fatto che non accetta d’iden¬ 
tificarsi con nessuno di essi, neppure con quello che 
si rifà al suo nome e che effettivamente non avrebbe, 
fuori di questa referenza, alcuna sostanziale ragione 
di esistere. Per sé stesso, de Gaulle accetta invece 
quel ruolo di rassembleur che lo pone per definizione 
al di sopra degli altri. 

Eppure, quale forza politica, se non proprio il 
partito gollista, potrebbe assicurare la continuità del 
regime, una volta scomparso l’uomo che oggi lo in¬ 
carna? Ma evidentemente de Gaulle è il primo a 
non credere a un gollismo senza de Gaulle, né si 


può in fondo dargli torto! Altrimenti, come si spie; 
gherebbe il disprezzo ch’egli affetta per i suoi stessi 
più vicini collaboratori, sui quali ha sempre l’aria 
di fare cadere la responsabilità delle cose che non 
vanno — dalla militarizzazione dei minatori in scio¬ 
pero, al relativo fallimento della politica economica 
da lui condotta sin dal ’58 — riservando invece per 
sé tutto quanto possa presentarsi come un successo, 
dall’indipendenza algerina alla liquidazione dell’OAS? 

jQICEVAMO che de Gaulle sa quello che vuole e 

lo presenta come l’espressione di una volontà col¬ 
lettiva che lui solo ha il diritto d’interpretare. 

Così lui sa ora che la Francia, nel 1964, vuole 
spendere 20 miliardi di franchi (cioè circa 2500 mi¬ 
liardi di lire! ) per avere quella bomba atomica che, 
perfettamente inservibile sul terreno militare, dovrà 
però permettere a lui di sedere, in condizioni di pa¬ 
rità, tra i ” grandi ” di questo mondo, soddisfacendo 
così un’aspirazione repressa da quando quest’onore 
gli era stato negato dai grandi del tempo, che non 
si chiamavano allora Kennedy, Krusciov e Mac Mil- 
lan, ma Roosevelt, Stalin e Churchill. E lui sa anche 
che i francesi, pur di raggiungere questo scopo, sono 
disposti a rinunciare ai già promessi aumenti di sti¬ 
pendio, corrispondenti all’aumento dei prezzi già in 
corso. 

Intanto, nel bilancio dello Stato, la voce delle 
spese militari continua a crescere, benché la guerra 
in Algeria sia terminata da un pezzo, e recentemente 
sia stata anche decisa una notevole riduzione della 
ferma militare, per fare fronte alle diminuite dispo¬ 
nibilità di manodopera soprattutto nel settore agricolo. 

E l’opposizione, che fa? Sotto il fuoco concen¬ 
trato di quelle punture di spillo, essa ha subito ti¬ 
rato fuori, come legittima ritorsione, ” il Comitato 
Carlo, il Comitato Giorgio e il Comitato Valerio ”, 
e ha intitolato a ” chez Mazim’s ” ( il ristorante della 
haute parigina) la repubblica di Pompidou, il quale 
aveva accusato i commensali del ” banquet des mille ’’ 
— manifestazione conviviale, promossa dagli antigol¬ 
listi sullo stile della Terza Repubblica — di essere 
mossi unicamente dall’odore della soupe. 

Ma speriamo che la volontà di riscossa non si 
fermerà qui... 

LUCIANO BOI.IS 



(da Témoignage Chrétien) 




















LETTERA DALL'AMERICA 


Kennedy controluce 


pOCHI libri hanno suscitato que¬ 
st’anno negli Stati Uniti l’inte- 
teresse con il quale è stato accolto, 
letto, ammirato e criticato quello 
del noto pubblicista Victor Lasky su 
Kennedy, J.F.K., L’uomo ed il mito 
Si tratta di un’opera considerevole 
(quasi settecento pagine), proforr 
damente e francamente partigiana, in 
chiave antikennedyana. Tre anni fa, 
quando ferveva la campagna eletto¬ 
rale, l’A. aveva pubblicato un opu¬ 
scolo in cui criticava l’allora candi¬ 
dato Democratico alla Presidenza: 
era la risposta all’opuscolo, non me¬ 
no partigiano, contro Nixon, dello 
storico ed uomo politico Schlesinger, 
il quale è annoverato oggi fra i con¬ 
siglieri intimi del Presidente. 

Sono stati discussi il tono del li¬ 
bro e gli apprezzamenti che esso con¬ 
tiene; non sono stati messi in discus¬ 
sione i fatti. Il volume non contiene 
novità ma ricordando cose passate 
ed in gran parte dimenticate, 1 A. 
cerca di ricostruire la personalità 
del protagonista — presentandola 
sotto l’aspetto il meno favorevole 
possibile. Nel 1937, a venti anni, in 
una lettera al padre il giovane Ken¬ 
nedy affermava che gli piaceva il 
programma di riforme sociali ed eco¬ 
nomiche dei repubblicani spagnoli, il 
quale gli ricordava il New Deal, ma 
che politicamente sarebbe stata pre¬ 
feribile, per la Spagna, la vittoria di 
Franco. Nella sua tesi di laurea, pub¬ 
blicata alcuni anni più tardi, Ken¬ 
nedy aveva trattato della Gran Bre" 
tagna degli anni trenta: come il pa¬ 
dre, allora ambasciatore a Londra, 
aveva approvato l’accordo di Mo¬ 
naco ed aveva espresso sulla nazio¬ 
ne britannica l’opinione negativa che 
conserva ancora. Lasky ricorda che 
nel 1950 Kennedy aveva contribuito 
finanziariamente alla campagna elet¬ 
torale del Repubblicano Nixon con¬ 
tro il deputato Democratico della 
California, signora Elena Douglas, 
ammiratrice fervente del New Deal 
e del Fair Deal ( l’affare Douglas co¬ 
stituì uno dei motivi principali che 
indussero la signora Roosevelt, amica 
della Douglas, a negare nel 1960 fi- 


DI MAX SALVADORI 


no all’ultimo momento l’appoggio a 
Kennedy e a fare il possibile per ri¬ 
lanciare la candidatura di Steven¬ 
son). Prima come deputato, poi co¬ 
me senatore, Kennedy era stato, an¬ 
che se con prudenza, dalla parte dei 
maccarthysti; il fratello Roberto, 
l'attuale ministro della giustizia, la¬ 
vorava nell’ufficio di MacCarthy. 

Tutto questo, ed altro, è esatto: 
l’errore che compie il Lasky è di non 
comprendere che una profonda tra¬ 
sformazione si sta verificando nella 
nazione americana; si illude creden¬ 
do di poter danneggiare il Presi¬ 
dente ricordando cose che o non in¬ 
teressano più o addirittura riscuoto¬ 
no l’approvazione della maggioranza 
che nel novembre del ’64 rinnoverà 
per altri quattro anni il mandato 
Presidenziale a Kennedy. 

Nei suoi discorsi Kennedy si ser¬ 
ve della fraseologia americana tradi¬ 
zionale, quasi che lo spirito del 
1776 pervada ancora gli Stati Uniti. 
Si tratta però di frasi soltanto. In 
pratica libertà, repubblica, diritti ci¬ 
vili, autonomia e responsabilità indi¬ 
viduale, democrazia ed il resto del 
patrimonio ideologico del 1776 in¬ 
teressano ben poco sia il Presidente, 
che il gruppo che lo circonda alla Ca¬ 
sa Bianca, che la maggioranza del 
pubblico. Quello che interessa è al¬ 
tro: stabilità, sopra tutto economica, 
all’interno, sicurezza nel campo dei 
rapporti internazionali. Alla Casa 
Bianca manca lo spirito missionario 
sia di Roosevelt l’antifascista che di 
Dulles l’anticomunista; e la mag¬ 
gioranza degli americani adulti di 
oggi ne ha abbastanza di spirito mis¬ 
sionario, vuol vivere tranquilla. Ei- 
senhower inviò truppe federali a 
Little Rock dove gli incidenti razzia¬ 
li erano stati meno gravi che a Bir¬ 
mingham; quando sono state uccise 
quattro bambine negre a Birmin¬ 
gham, i fratelli Kennedy hanno 
espresso il loro rincrescimento ma 
malgrado la richiesta fattane da as¬ 
sociazioni di persone di colore, non 
vi fu intervento di truppe federali. 
Quando i parlamentari vengono 
mandati a spasso a San Domingo 
o a Seul dai militari usciti dalle ac¬ 


cademie americane, da Washington 
vengono proteste ma i militari san¬ 
no che il loro successo è stato ac¬ 
colto con un sospiro di sollievo. Lo 
atteggiamento di Washington nei 
confronti della signora Nhu, del ma¬ 
rito e del cognato è simile a quello 
delle autorità ecclesiastiche italiane 
nei confronti del fascismo quaran¬ 
tanni fa: viene raccomandata un 
po’ di moderazione — accompa¬ 
gnata da molta simpatia. 

Il governo Kennedy è per una eco¬ 
nomia controllata anche se ancora 
in parte programmata; è per un au¬ 
mento delle assicurazioni sociali e 
per sussidi generosi ai gruppi che 
non riescono ad adattarsi ai rapidi 
cambiamenti della struttura econo¬ 
mica — agricoltori, minatori, operai 
non specializzati; è per la responsa¬ 
bilità del governo federale nel cam¬ 
po dell’istruzione, della ricerca 
scientifica, della sanità; è disposto 
a venire ad un accordo con l’Unio¬ 
ne Sovietica e forse anche ad accet¬ 
tare quello che Stalin offriva fin 
dal 1944, la divisione del globo in 
sfere di influenze. Ma tutto questo 
non ha niente a che fare con il mar 
carthysmo di dieci anni e con le 
forze che oggi mirano a ridurre en¬ 
tro limiti ristretti e ben definiti li¬ 
bertà di stampa, di coscienza e di 
istruzione; non ha niente a che fare 
con la simpatia per Franco, per la 
dittatura della minoranza cattolica 
nel Vietnam, per i regimi militari. 
Quando negli Stati Uniti si parla di 
conservatorismo, di liberalismo, di 
radicalismo ed anche di democrazia, 
occorre distinguere se se ne parla 
nell’ambito delle idee e dei valori 
del 1776, o fuori di quell’ambito. 
Lasky si riferisce al 1776 e non tie¬ 
ne conto del fatto che per la mag¬ 
gioranza che appoggia il Presidente 
il 1776 è defunto — come per la 
maggioranza francese che appoggia 
De Gaulle è defunto il 1789. La 
nazione americana differisce meno di 
quello che molti si immaginano, dal¬ 
le maggiori nazioni del continente 
europeo 

MAX SALVADORI 


23 











LA RIDUZIONE DEL PREZZO DEL GRANO 


La battaglia continua 

DI ERNESTO ROSSI 

In questo articolo vengono prese in esame le principali corbellerie, 
scritte in difesa della « battaglia del grano » dal prof. Franco Ange¬ 
lini, in ima lettera aperta indirizzata al prof. Manlio Rossi Doria 


II 

JL GIORNALE di agricoltura, settimanale della Fc- 

derconsorzi, nel numero del 7 luglio scorso, ha ri¬ 
portato da L’agricoltore ( organo della Confederazione 
Generale dei Tecnici Agricoli) una lettera aperta del 
prof. Franco Angelini al prof. Rossi Doria, sotto un 
titolo a quattro colonne: « La politica granaria nel suo 
significato integrale », riassumendone il contenuto in 
questo sommario: 

« Il costo economico sopportato per lo sviluppo 
della cerealicoltura è di gran lunga inferiore ai van¬ 
taggi che quella difesa ha procurato al progresso agri¬ 
colo, alla tranquillità del popolo italiano ed alla ri¬ 
duzione del deficit valutario ». 

Ho atteso fino ad oggi nella speranza di leggere 
una risposta; ma, non avendola trovata in alcun pe¬ 
riodico, penso che Rossi Doria abbia preferito tacere, 
perché il prof. Angelini si è rivolto a lui « da tec¬ 
nico a tecnico e da collega a collega nella stessa glo¬ 
riosa facoltà di agraria di Napoli ». 

Per carità di patria è meglio non entrare in pole¬ 
mica — avrà pensato Rossi Doria —. La università 
di Napoli non avrebbe avuto proprio niente da gua¬ 
dagnare a far conoscere ad un più vasto pubblico che 
un rovinacervelli del calibro del prof. Angelini ripete 
ancora dalla cattedra di agronomia tutte le stupidag¬ 
gini con le quali, durante il regime fascista, ha im¬ 
bottito i crani come propagandista della « battaglia 
del grano ». 

Io non ho la fortuna di conoscere il prof. Ange¬ 
lini; e, dopo aver letto la sua lunga epistola, mi guar¬ 
derò bene dal cercare di farne la conoscenza; ma la 
sua collezione di corbellerie sulla politica granaria 
italiana è importante perché ha l’avallo della Feder- 
consorzi: può essere assunta come rappresentativa del 
pensiero « bonomiano » sull’argomento, e, in conse¬ 
guenza, anche del pensiero che domina nel ministero 
dell’Agricoltura alla Direzione generale della tutela 
economica dei prodotti agricoli (prof. Paolo Al- 
bertario). 

Non avendo le preoccupazioni che possono aver 
consigliato il destinatario della lettera a non rispon¬ 
dere, mi permetto, perciò, di prendere il suo posto. 
Non chiedo, per questo, alcuna autorizzazione: riten¬ 
go di averne il diritto per l’interesse che sempre ho 
portato al problema e per la mia qualifica di rom¬ 
piscatole patentato. 


Nell’ultimo numero de L'astrolabio — accennando 
alle difficoltà che, per mancanza di informazioni uffi¬ 
ciali, incontra chi voglia stabilire di quanto è aumen¬ 
tato, a partire dal luglio del 1962, il costo della nostra 
politica granaria, per effetto della nuova disciplina 
che abbiamo accettato col regolamento n. 19 del MEC 
— ho detto che nessuna persona di buon senso può 
esprimere un giudizio sulla convenienza di un qual¬ 
siasi obiettivo di politica economica se non è in grado 
di prevederne il costo. 

Ma il prof. Angelini se ne frega del buon senso. 

« Pure ammesso che la politica granaria — dice 
a Rossi Doria — fosse costata quella somma che tu, 
con molta inesattezza (sic), hai portato a conoscenza 
del pubblico, troppo spesso profano dei problemi agri¬ 
coli, a mio giudizio, qualunque spesa trova la sua giu¬ 
stificazione in quanto è andata a favore della nostra 
agricoltura e per la difesa dei nostri produttori ». 

Così ragionano, o meglio, sragionano i generali 
quando sostengono la necessità di accrescere le spese 
militari; così sragionano le Lollobrigide quando chie¬ 
dono maggiori sovvenzioni al cinema nazionale; ma 
così non può permettersi di sragionare un professore 
universitario. 

La politica del « quel che ci va ci vuole » an¬ 
drebbe bene nel paese di Bengodi; non è neppur con¬ 
cepibile nei paesi del mondo in cui viviamo, dove i 
beni economici sono disponibili in quantità limitata 
rispetto ai bisogni, sicché, a tirar la coperta da una 
parte, rimane sempre scoperto il letto dall’altra parte. 

Il prof. Angelini si fa un merito di essere stato 
« uno dei corresponsabili della politica agraria nel pe¬ 
riodo prebellico ». Di questa corresponsabilità affer¬ 
ma di « non essersi mai pentito ». Anzi... 

« Non vorrai negare, almeno mi auguro, — ha 
scritto a Rossi Doria — che dal punto di vista tecnico¬ 
economico, la cosiddetta "battaglia del grano”, con 
la susseguente difesa del prodotto attraverso l’ammas¬ 
so, fu lievito fecondo e mirabile incentivo per acce¬ 
lerare e facilitare il rinnovamento evolutivo della col¬ 
tura del frumento e, conseguentemente, di tutta la 
nostra agricoltura, rimasta, fino al 1922, statica, arre¬ 
trata e di scarso rendimento su posizioni tradizionali, 
che, malgrado ogni lodevole tentativo pionieristico, 
non si erano sapute superare ». 

Nella relazione della Banca d'Italia per l’esercizio 
1946, Luigi Einaudi parlò della « politica di alti prez¬ 
zi del recente passato », mettendo a raffronto, in due 


*4 






tabelle, j prezzi medii del grano in Italia con quelli 
degli Stati Uniti dal 1920 al 1938 (aumentati dei noli 
fino ai porti italiani ) per dimostrare che « la politica 
italiana presentava, a questo riguardo, delle contrad¬ 
dizioni sconcertanti »: 

« Da una situazione di equilibrio tra prezzo del 
grano in Dalia e prezzo nell’America del nord, nel 
dopoguerra 1920-’23, si passò, in seguilo al ripristino 
del dazio del grano, nel secondo semestre 1925, ad 
una fase di ascesa di prezzi in Dalia a cui fece riscon¬ 
tro una discesa negli Stati Uniti: il resultato fu di 
produrre in Dalia a costi elevati, quel grano che nor¬ 
malmente importavamo, e che proprio in quegli anni 
era disponibile all'estero a prezzi eccezionalmente 
bassi ». 


I n lievito fecondo 

Fu questo il principale resultato diretto della 
* battaglia del grano ». A partire dal secondo seme¬ 
stre del 1925 il dazio venne ripetutamente aumentato 
« furono introdotte le licenze ministeriali di impor¬ 
tazione, sicché il prezzo si elevò fin quasi al tiiplo de 
prezzo internazionale. Il costo della politica granaria 
raggiunse il massimo nel 1931-’32: in quella annata, 
mentre avremmo potuto avere il grano degli Stati 
Uniti in Italia a L. 41,50 il q.le, i mulini lo pagarono 
119 lire. Dei 75 milioni di q.li circa, che costituivano 
allora il fabbisogno nazionale, un terzo era destinato 
ai consumi familiari dei produttori ed alle semine, 
gli altri consumatori acquistavano circa 50 milioni di 
q.li, pagando 75,5 lire in più di quanto lo avrebbero 
pagato in regime di libero scambio: nel 1931- 32 lo 
onere complessivo per i consumatori fu, dunque, di 
circa 3 miliardi e 850 milioni, corrispondenti press’a 
poco, a 350 miliardi di lire attuali (1). 

Quanto al « lievito fecondo » ed al « mirabile 
incentivo », non mi pare necessario essere un esperto 

agronomia per capire che la « battaglia del grano », 
rendendo più redditizia la cerealicoltura rispetto alle 
produzioni ad essa concorrenti nelle combinazioni col¬ 
turali, ha distorto profondamente lo sviluppo della 
nostra agricoltura, a scapito di quelle produzioni che 
— nelle esistenti condizioni del clima e: dei terreni —- 
sarebbero risultate economicamente più convenienti. 

« L'obiettivo a cui si mirava era chiaro e lumino- 
noso come il sole — scrive il prof. Angelini —. Ren¬ 
dere l’Italia il più possibile autonoma dalle impressio¬ 
nanti e cospicue importazioni di grano e di altri pro¬ 
dotti agricoli. Che tale politica sia stata approvata o 
meno da taluni economisti posso anche ammetterlo, 
Per quanto il coro delle approvazioni entusiastiche 
fosse allora unanime: certo è, però, che essa costituì 
una formidabile spinta al progresso tecnico produttivo 
di tutte le zone agricole italiane e portò un sollievo 
economico nelle nostre campagne ». 

Lasciamo perdere la luminosità dell'obiettivo di li¬ 
berare il popolo italiano — come diceva lo slogan del¬ 
la propaganda fascista — dalla « schiavitù del pane 
straniero ». Non credo sia neppure il caso di consi¬ 
gliare al prof. Angelini di andare a leggersi, in un 
qualsiasi trattato elementare di economia, il capitolo 


in cui viene spiegato che, nel commercio internazio¬ 
nale, le merci si scambiano con le merci. Anche se 
insegna nella gloriosa facoltà di agraria di Napoli, chi 
sostiene ancora che l’obiettivo autarchico era « lumi¬ 
noso come il sole », dimostra di essere costituzional¬ 
mente negato a qualsiasi forma di ragionamento: per 
mio conto confesso che non saprei da quale parte co¬ 
minciare anche se dovessi spiegargli che conviene 
mettersi le calze prima delle scarpe, piuttosto che vi¬ 
ceversa. 

E lasciamo perdere la «unanimità» del consenso. 
Durante il Fatidico Ventennio furono approvate con 
manifestazioni di unanime, entusiastico consenso non 
soltanto le « battaglie del grano », ma anche tutte le 
altre bestialità del duce (comprese quelle con le quali 
legò l’Italia alla Germania nazista e la gettò nel ba¬ 
ratro della disfatta). Sono i miracoli che sanno fare 
i regimi totalitari, togliendo i dissenzienti dalla circo¬ 
lazione, o rispendendoli per direttissima al Creatore... 

Nel 1946 — quando fu finalmente possibile dire 
liberamente e stampare tutto quello che si pensava 
anche sulla « battaglia del grano » — in un rapporto 
all’Assemblea Costituente, il prof. Mario Bandini con¬ 
ciuse un quadro generale dell’agricoltura italiana, dal 
1920 al 1940, scrivendo che — se si tenevano nel 
debito conto le maggiori esigenze della popolazione 
aumentata ed il netto progresso che aveva avuto nello 
stesso periodo la produzione agricola mondiale per 
l’Italia « si poteva parlare, in complesso, di un rista¬ 
gno della situazione e di difficoltà di progresso » (2). 

« Specie negli ultimi anni la politica agraria fa¬ 
scista è apparsa — osservò — come un affannoso ed 
illogico insieme di interventi, che ponevano rapida¬ 
mente toppe dove sembrava stesse per aprirsi una 
falla, senza una chiara linea direttiva generale » (pa¬ 
gina 404). 


<( Mirabile incentivo » 

La « battaglia del grano », invece di costituire 
« una formidabile spinta », fu un grave ostacolo al 
progresso tecnico. 

Incoraggiare la produzione del grano — scrisse 
anche il prof. Bandini — voleva dire scoraggiare le 
altre produzioni che risultavano economicamente meno 
convenienti, e, in particolare, l’allevamento del be¬ 
stiame, di cui è tanto deficiente l’agricoltura meri- 
dionale. _ , 

Mentre gli agronomi e gli economisti agrari piu 
seri avevano sempre suggerito di ridurre i terreni 

(1) Questa somma non credo sia molto lontana 
dall’onere che grava oggi sui consumatori e sui con¬ 
tribuenti per la politica di sostegno del grano, quando 
alla maggiore spesa per l’acquisto del prodotto si 
aggiunga la spesa per il funzionamento della mac¬ 
china degli ammassi, gestita dalla Federconsorzi. 
Trent'anrti fa la stessa somma era. però, sentita come 
un peso molto più grave, perché nel frattempo la 
popolazione è aumentata di una diecina di milioni 
di individui ed il reddito prò capite è quasi rad¬ 
doppiato. 

(2) Ministero per la Costituente - Rapporto della 
Commissione Economica. I - Agricoltura - Mono¬ 
grafie (Roma. 1946). 












coltivati a grano in Italia, l’aumento della produ¬ 
zione — che arrivò a coprire quasi completamente il 
fabbisogno soltanto per tre annate ( 1935-1937) — 
non venne conseguito con la intensificazione della 
coltura ma con la estensione delle semine. La super¬ 
ficie seminata a grano passò dalla media di 4.653.875 
ettari del quadriennio 1922-25 a 5.116.177 ettari nel 
quinquennio 1933-38 (aumento di 485.644 ettari). 
Dagli Annuari dell’Istituto Internazionale di Agri¬ 
coltura si ricava che durante i quattordici anni che 
vanno dal 1925-26 al 1938-39 la produzione media 
per ettaro fu di 13,8 q.li in Italia (minimo 10,8 nel. 
1927-8 e massimo 16,3 nel 1938-39); di 15 q.li in 
Francia (minimo di 12 nel 1926-27 e massimo di 
18,6 nel 1938-39); di 21,4 q.li in Germania (minimo 
di 16,2 nel 1926-27 e massimo di 27,4 nel 1938-39). 
Ancora nel 1936-37 la produzione media scese in 
Italia a 11,9 q.li per ettaro. Se facciamo la somma¬ 
toria delle differenze fra le produzioni per ettaro in 
ogni annata, rispetto all’annata precedente, si ottiene 
un risultato positivo per tutto il quattordicennio (cioè 
un incremento medio di produttività per ettaro) di 
2,4 q.li in Italia, contro 2,6 in Francia e 6,7 in Ger¬ 
mania. 

Anche a guardare solo ai risultati tecnici, limi¬ 
tando arbitrariamente l’esame al settore del grano, non 
si può, dunque, concludere che la battaglia fu un 
« mirabile incentivo » al progresso della granicoltura. 

Né il prof. Angelini si è contentato di questa af¬ 
fermazione, completamente campata per aria: il pro¬ 
gresso, della granicoltura, dice, spinse al rinnova¬ 
mento di tutta la nostra agricoltura. 

Di fatto avvenne, invece, proprio il contrario. 

La coltivazione granaria — spiegò il prof. Ban¬ 
dini nella sopra citata memoria — si estese, a de¬ 
trimento del pascolo, dei foraggi, della zootecnia, ed 
impedì indirettamente lo sviluppo delle produzioni 
che avrebbero consentito di meglio risolvere il pro¬ 
blema della fissazione dei lavoratori al suolo. 


La battaglia del grano 

« L'alto prezzo del grano ha indubbiamente agito 
nel senso di favorire la persistenza delle forme tradi¬ 
zionali, anziché favorire nuove organizzazioni produt¬ 
tive, che lasciassero posto maggiore al bestiame e alle 
piantagioni arboree. La mancanza di lavoratori fissi 
al suolo, d’altra parte, impediva tutte quelle forme 
di miglioramento agrario — sovrattutto le sistema¬ 
zioni così importanti e decisive — che solo la con¬ 
tinua presenza del lavoratore sul suolo può assicurare » 
(pag. 411). 

Né la « battaglia del grano » portò alcun sollievo 
nelle campagne: i braccianti, dovettero pagare molto 
più caro il pane c la pasta; i coltivatori diretti, pic¬ 
coli proprietari e mezzadri consumavano, in generale, 
più grano di quanto ne producessero; gli affittuari 
dei terreni a cereali pagavano canoni di affitto tanto 
più elevati quanto più alto era il prezzo del grano. 
La « battaglia » portò, invece, più che un sollievo in 
città, nei palazzi dei grandi e dei medi proprietari 
fondiari — anche dei proprietari completamente as- 

26 


senteisti — che, senza fare alcuna fatica e senza pre¬ 
stare alcun servizio utile alla collettività, si videro 
corrispondentemente aumentare le loro rendite. 

Questi grandi e medi proprietari furono, ben &| 
intende, i più entusiasti sostenitori del duce e dei 
suoi « corresponsabili » nella politica granaria. 


/ nostalgici delVautarchia 

Nella « lettera aperta » il prof. Angelini ricono¬ 
sce che la nostra politica agraria, durante l’ultimo 
decennio « ha seguito più o meno bene le direttive 
di quella prebellica », che ha « come punto di par* 
tenza » la famosa battaglia. Questo riconoscimento 
è, purtroppo, esatto. Ma il prof. Angelini scrive an¬ 
che che, in conseguenza di tale politica, « il livello 
tecnico e scientifico della nostra agricoltura si è note¬ 
volmente elevato, ponendoci in grado di competere 
con le agricolture più progredite del mondo, ed in 
alcuni settori di essere all’avanguardia ». E questa 
affermazione è completamente sballata. Dopo la im¬ 
matura scomparsa del duce, l’on. Bonomi, il profes¬ 
sor Albertario ed il comm. Miraglia hanno fatto tutto 
quello che potevano per rispettare la volontà del 
defunto, almeno per quanto riguardava la politica 
agraria; ma — voglio credere perché è mancato l’oc¬ 
chio del padrone — i resultati non sono stati molto 
soddisfacenti. 

Se fossimo in grado di competere con le agri¬ 
colture più progredite del mondo perché manter¬ 
remmo gli elevatissimi dazi doganali e tanti altri vin¬ 
coli alle importazioni dei prodotti agricoli? Perché 
la Federconsorzi e la « Coltivatori Diretti » chiede¬ 
rebbero al governo continui aumenti della protezione 
doganale, nuovi prezzi di sostegno e nuovi sussidi? 
Perché, nel 1962 e nel 1963, il governo italiano 
avrebbe mancato agli impegni assunti in sede inter¬ 
nazionale, rifiutandosi di apportare la riduzione al 
prezzo del grano nazionale, richiesta dal MEC per 
cominciare ad avvicinare tale prezzo a quello fran¬ 
cese (che, si noti bene, è ancora superiore di un mi¬ 
gliaio di lire al quintale al prezzo del grano canadese ) ? 

La verità è che — nonostante i vincoli alle im¬ 
portazioni, i prezzi di sostegno, gli ammassi, gli stoc¬ 
caggi, le svendite all’estero — la produzione media 
del grano per ettaro in Italia è ancora molto più 
bassa che negli altri paesi europei. Secondo le stati¬ 
stiche della FAO, durante il quattordicennio che va 
dal 1948-49 al 1961-62, essa è stata di 17 q.li contro 
i 21,4 q.li in Francia ed i 28,6 in Germania. Nel 
nostro paese la produzione ha oscillato fra 13,2 ( 1948- 
1949) ed i 20,3 q.li (1958-59); mentre in Francia 
ha oscillato fra 18 (1948-49) e 26 q.li ( 1959-60), e 
in Germania fra 21,5 ( 1948-49) e 35,6 q.li ( 1960-61 ). 
Se, per lo stesso periodo, facciamo la sommatoria 
degli incrementi e dei decrementi della produzione 
per ettaro da un’annata all’altra (come abbiamo fatto 
sopra per il periodo dal 1925-26 al 1938-39) si ot¬ 
tiene una differenza positiva di 5,9 per l’Italia, la 
stessa cifra per la Francia, e 8,4 per la Germania. 

Anche nel settore della granicoltura — dove è 
stato compiuto il massimo sforzo (caricando sui con- 


_ 





sumatori e sui contribuenti una spesa che non credo 
possa risultare inferiore ai 300 miliardi lanno) — 
l’Italia è rimasta, dunque, indietro, dal punto di 
vista del progresso tecnico, ai due paesi europei con 
i quali i confronti sono più significativi. 

Il prof. Angelini afferma: 

« Si è stabilizzato il prezzo del grano ad un li¬ 
vello sufficientemente remunerativo per i produttori 
agricoli; da ciò la nostra resistenza alle notevoli de¬ 
curtazioni che si pretenderebbero in sede di Che ». 

E più avanti, prendendosela con Rossi Doria per¬ 
ché anche lui consiglia di indirizzare la nostra poli¬ 
tica granaria a ribassare gradualmente il prezzo del 
grano per portarlo ad « un livello leggermente supe- 
riore a quello del mercato internazionale e tale da 
scoraggiare una troppo estesa coltura e la iorma- 
zione di eccedenze », l’emerito professore di agrono¬ 
mia scrive: 

«Un livellamento leggermente superiore al prez¬ 
zo di mercato internazionale; quindi, in parole po¬ 
vere, quello da te scritto su qualche quotidiano, equi¬ 
varrebbe ad un prezzo di circa 4500 lire al quintale. 
Perché non vai a dirlo in qualche adunata di rio alt , 
specie di contadini? Sentirai che accoglienza... L 
provato che attualmente il prezzo del grano, in rap¬ 
porto al costo effettivo, non può scendere al di sotto 
delle 6700 lire al quintale ». 

Non credo sia il caso di soffermarmi sull’accenno 
demagogico a quella che sarebbe la reazione dei con¬ 
tadini ad ogni ribasso del prezzo del grano: se, in 
passato, fossero state impedite tutte le riduzioni del 
prezzi che ledevano gli interessi costituiti dei pro¬ 
duttori, avremmo rinunciato al progresso tecnico in 
quasi tutti i settori della produzione: non avremmo 
la stampa e le macchine da scrivere, che hanno dan¬ 
neggiato gli scritturali; non avremmo i treni e le 
automobili che hanno danneggiato i barrocciai e i 
vetturini; non avremmo neppure le trebbiatrici e le 
altre macchine agricole che hanno danneggiato i brac¬ 
cianti. Provi il prof. Angelini a sostenere, in una 
piccola riunione di barbieri, la convenienza di non 
porre più alcun ostacolo doganale alla diffusione dei 
rasoi elettrici... 


L'insulso conretto (lei prezzo 

Né, dopo tutto quello che è stato detto e scritto 
suH’argomento, ritengo necessario spendere molte pa¬ 
role per confutare il vecchio sofisma che ij governo 
deve intervenire per mantenere i prezzi dei prodotti 
agricoli a livelli abbastanza alti per coprire i costi 
ed assicurare un « ragionevole guadagno » ai colti¬ 
vatori. 

Il concetto stesso di costo di produzione, se rife¬ 
rito a tutto un settore dell’attività economica, ha 
spiegato molto bene Luigi Einaudi, è un concetto 
« insulso ». 

«Tutti sappiamo — scrive a pag. 123 di «Lo 
scrittoio del Presidente » — che quella tal merce 
si vende in quel momento e in quel luogo a cento 
lire l'unità; e tutti vediamo che quello è il prezzo 
di mercato, esso è valido in quel luogo e in quel 


momento. Ma nessuno ha mai visto ” il " costo per 
tutti di quella merce. Non esiste un costo; esistono, 
tanti costi quante sono le imprese; e sono tutti costi 
veri, sebbene diversissimi l’uno dall’altro ». 

Sulla base di quale « costo effettivo » sarebbe 
stata fornita la prova che il prezzo del grano non 
può scendere in Italia al disotto di 6700 lire al quin¬ 
tale (per cui andrebbe non diminuito, ma aumentato 
di 500 lire il prezzo attuale)? Dovrebbero conse¬ 
guire un « ragionevole guadagno » anche gli agricol¬ 
tori più poltroni e incapaci, che continuano a pro¬ 
durre grano sui terreni meno adatti, e si dovrebbe, in 
conseguenza, dare una corrispondente rendita diffe¬ 
renziale a tutti gli altri granicoltori? E’ mai frullato 
per la testa del prof. Angelini il pensiero che il grano 
deve essere coltivato per far mangiare, alle migliori 
condizioni possibili, il pane e la pasta, agli italiani, 
non per consentire la dolce vita ai grandi proprietari 
fondiari? 


Ridimensionamento necessario 

« Inoltre tu vuoi scoraggiare la troppa estesa col¬ 
tura — replica il prof. Angelini a Rossi Doria —. 
Orbene, indicami che cosa vuoi coltivare sui 4 mi¬ 
lioni e 500 mila ettari destinati a grano ». 

Prima di tutto nessuno, credo, ha mai proposto 
di far cessare completamente la coltivazione del gra¬ 
no nel nostro paese. Anche se il prezzo dovesse 
scendere a 4.500 lire al q.le la granicoltura risulte¬ 
rebbe conveniente sui terreni in cui la produzione 
media per ettaro è più elevata. Se questa media è 
stata di soli 21,7 q.li per ettaro negli ultimi tre 
anni per i quali sono pubblicate le statistiche ( 1960, 
1961, 1962) è perché il prezzo del grano, mante¬ 
nuto artificiosamente ad un livello quasi doppio del 
livello internazionale, fa seminare grano anche sui 
terreni meno adatti a tale coltura. Mentre il Piemon¬ 
te ha avuto una media di 29,7 q.li (e poco meno 
la Lombardia, il Veneto, l’Emilia e le Marche), la 
media per la Sicilia è stata di 7,8 q.li ( e poco più 
alta per la Basilicata, la Calabria e la Sardegna). 

Sul Corriere della Sera del 28 agosto 1962, il 
prof. Albertario ha scritto che, negli Stati Uniti, la 
meccanizzazione ha ridotto a poco più di un’ora 
(1,15) il lavoro impiegato per ottenere un quintale 
di prodotto; ma « anche da noi, nelle zone a mec¬ 
canizzazione spinta, e con rese alte per ettaro, si 
è attorno a quei limiti; nel cremonese, nel ferrarese, 
a 0.90, a 1,10 rispettivamente». 

Per la cerealicoltura non siamo, dunque, in con¬ 
dizioni di naturale inferiorità, in confronto ai paesi 
più favoriti, su tutto il territorio nazionale. 

E’ anche vero che — come ha osservato nel 
medesimo articolo il prof. Albertario — 1 utile netto 
aziendale non è desumibile semplicemente dal ren¬ 
dimento tecnico: 15 q.li per ettaro in un azienda 
possono essere meno redditizi dei 30 q.li in un altra 
azienda. Ma, facendo questa osservazione, il prof. 
Albertario ha dimenticato di mettere in luce che una 
buona parte del costo di produzione del grano è ren¬ 
dita attribuita al proprietario, in rapporto al valore 


27 










dei terreni; e questo valore non è un dato originario; 
è un dato che varia in funzione dei prezzi dei pro¬ 
dotti agricoli. Se il prezzo del grano ribassa, dopo 
un periodo più o meno lungo di raggiustamento la 
rendita dei proprietari fondiari diminuisce, e tale 
diminuzione può rendere economica la granicoltura 
anche in aziende in cui dovrebbe essere abbandonata 
se rimanessero invariati i valori dei terreni ed i ca¬ 
noni di affitto. 

Anche il Giornale di agricoltura, nel numero del 
21 giugno 1959, pubblicò un articolo sulla politica 
granaria (l’unico articolo comparso in tal senso su 
questo periodico), in cui Mario Rosi, partendo dal 
presupposto, per me completamente errato, che la 
politica granaria debba essere indirizzata a far co- 
rire con la produzione nazionale tutto il nostro fab- 
isogno (prevedibile, per i prossimi anni, in una 
quantità costante di circa 95 milioni di q.li) scrisse 
che avremmo potuto raggiungere tale obiettivo in¬ 
nalzando la media generale a 25 q.li per ettaro — 
« livello che potrà essere superato, come in altri pae¬ 
si è avvenuto » — e ridurre, in conseguenza, di quasi 
un milione di ettari i terreni coltivati a grano. 

Ed il prof. Albertario afferma, nell’articolo so¬ 
pra citato, che « nessun dubbio può esservi sulla 
non economicità di produzioni sui 6, sugli 8 q.li, che 
pur costituiscono medie provinciali, il che lascia tra 
l’altro intendere che, nell’ambito provinciale, la pro¬ 
duzione possa scendere a livelli ancora inferiori ai 4, 
ai 5 q.li, pari, grossa misura, a 2-3 volte la sementa 
impiegata » ( 3 ). 

Come è possibile, dopo questi riconoscimenti, 
sostenere che il prezzo del grano non può essere 
ribassato? 

In secondo luogo nessuno, nei paesi non comu¬ 
nisti, può sensatamente rispondere a quesiti del ge¬ 
nere di quello posto a Rossi Doria dal prof. An¬ 
gelini. 


Lo strologo di Brozzi 

Cosa verrà coltivato sui terreni che non sareb¬ 
bero più coltivati a grano se diminuisse la prote¬ 
zione? Come saranno occupati i lavoratori che ver¬ 
ranno licenziati se lo Stato non pagherà più la dif¬ 
ferenza fra il costo e il prezzo al quale possono es¬ 
sere vendute le navi costruite nei cantieri navali ita¬ 
liani? Come saranno investiti i miliardi che verran¬ 
no dati dallo Stato agli azionisti per indennizzarli 
della nazionalizzazione dell’industria elettrica? Nel¬ 
l’economia di mercato la soluzione di questo e di 
analoghi problemi viene come automatica conseguen¬ 
za di innumerevoli scelte fatte da persone indipen¬ 
denti l’una dall’altra, ognuna delle quali si regola 
secondo quello che, nelle particolari circostanze in 
cui si trova, ritiene essere il proprio interesse. Ma 
il fatto che nessun economista può prevedere queste 
scelte, e quindi non può rispondere a tali quesiti, 
non costituisce un alibi per rinunciare alla lotta con¬ 
tro gli esistenti privilegi; non giustifica un prezzo 
del grano tanto alto da renderne conveniente la pro¬ 
duzione anche sui terreni che rendono tre o quattro 
volte il seme; lo sperpero al pubblico denaro nei 


nostri cantieri navali; la conservazione dell’industria 
elettrica in mano ai privati, anche se i privati la ge¬ 
stiscono contro l’interesse generale. 

L’economista ha assolto — a me sembra — a j 
suo compito quando abbia messo in chiaro che 1 
privilegi causano, non solo una ingiustificata ridistri¬ 
buzione, ma anche una distruzione della ricchezza 
collettiva; quando abbia accertato, con la maggiore 
approssimazione possibile, la entità dei costi sociali, 
diretti e indiretti, palesi e nascosti, del mantenimen¬ 
to dei privilegi e su quali categoria ne ricade l’onere; 
quando abbia suggerito le provvidenze più opportune 
per passare, senza scosse troppo forti, e riducendo 
al minimo le sofferenze, dalla situazione di equili¬ 
brio con l’esistenza dei privilegi ad un nuovo equi¬ 
librio, in cui i privilegi siano aboliti. 

Il di più gli economisti, che meritano veramente 
di essere chiamati con questo nome, lo lasciano ai 
professori Angelini e allo « strologo di Brozzi ». 


Saggia previdenza 

Dopo i fuochi d’artificio di tutte le sopradette 
corbellerie, quale razzo finale, il prof. Angelini ma¬ 
nifesta il proprio disaccordo dal parere espresso da 
Rossi Doria sulla convenienza di ridurre le scorte 
di grano, con queste parole: 

« Mi permetto di domandarti che cosa daresti 
al popolo italiano, grande consumatore dì pane, se per 
una qualsiasi complicazione internazionale, politica 
od economica, il grano dall’estero non arrivasse. Per 
me è saggia e necessaria previdenza contare su un 
contingente di scorte di almeno venti milioni di quin¬ 
tali annui, scorte che oltre tutto servono a regolare 
il prezzo interno e ad assicurare, in caso di bisogno, 
tutto il pane al nostro paese ». 

Per intendere la enormità della cifra di 20 mi¬ 
lioni si deve tener presente: 

— che, per garantire la saldatura fra un’annata 
agricola e l’altra, gli esperti ritengono sufficiente una 
scorta di 6 milioni di quintali di grano; 

— che il riporto a nuovo nella gestione alla cam¬ 
pagna successiva di un quintale di grano corrisponde 
ad un costo supplementare, per interessi ed altre 
spese, di oltre 1000 lire; 

che a questo onere devono essere aggiunte le 
perdite derivanti da cali, deperimenti, vendite sot¬ 
tocosto e cessioni gratuite delle eccedenze quando è 


(3) Secondo l’ultimo Annuario di statistica agra¬ 
ria dell'Istituto Centrale di Statistica (edito nel 1962 
porta i dati del I960!), le provincie che nel 1960 
hanno prodotto più di 100 mila quintali di grano te¬ 
nero, con una produzione media per ettaro di 10 
quintali sono state (porto fra parentesi i quintali per 
ettaro): Fresinone 472.800 (9.2); Benevento 244 200 
(6.9): Avellino 355.300 (9.9): Campobasso 477.000 
(8,5); Foggia 889.200 (8.4): Bari 417.400 (7.2): Ta¬ 
ranto 109.000 (6.2); Brindisi 104.500 (6.4); Potenza 
347.900 (5,6); Matera 144.900 (7.8); Cosenza 435.600 
(7,0); Messina 129.200 ( 6.4). 

Nel 1960 il 7.5% della produzione complessiva 
(di 57.097.000 quintali) fu ottenuta da provincie che 
avevano una media inferiore ai 10 quintali per et¬ 
taro, e rappresentavano il 17.8% dell'intero territorio 
nazionale coltivato a grano tenero (3.167.667 ettari). 


28 







necessario far posto, nei magazzini, ai maggiori rac¬ 
colti (4) - . ... . , 

Conservare scorte superiori di 14 milioni di quin¬ 
tali alla quantità necessaria per garantire il saldo, 
significherebbe un’investimento di un centinaio di 
miliardi in più di quello che si deve fare, e soppor¬ 
tare un onere, per maggiori spese di esercizio, di 
qualche decina di miliardi. 

Come abbiamo visto in principio —- quando si 
tratta dei quattrini dei contribuenti — il prof. An¬ 
gelini non bada a spese... 

Se ci dovessimo preparare a una nuova guerra 
mondiale non so a che cosa potrebbero servire le scor¬ 
te di grano: una nuova guerra non ci lascerebbe nep¬ 
pure il tempo di accorgerci (come ce 1 ha lasciato 
l’ultima guerra) che difettiamo, oltre che di cereali, 
anche di grassi, di ferro, di petrolio e di molti altri 
prodotti essenziali per combattere e resistere. Che 
cosa daremmo da respirare al popolo italiano, gran 
consumatore di aria, se tutta l’aria venisse inquinata 
dalle radiazioni delle bombe atomiche? Consiglia for¬ 
se il prof. Angelini di mettere nei magazzini anche 
qualche milione di quintali di aria pura dei monti? 

Davanti alla prospettiva di una guerra combat¬ 
tuta con le armi moderne, la « saggia previdenza » 
di tenere una costosissima scorta di grano appare 
ancor più ridicola della previdenza che fece asse¬ 
gnare, durante l’ultima guerra, una maschera antigas 
ad ogni « capo-fabbricato ». E — se escludiamo la 
prospettiva di una nuova guerra — la ipotesi di una 
diversa complicazione internazionale che impedisca di 
importare grano da tutti i paesi produttori è anche 
meno probabile dell’ipotesi che il prof. Angelini, no¬ 
nostante la sua cattedra di agronomia nella « glo¬ 
riosa » facoltà di agraria di Napoli, riesca^ a convin¬ 
cersi di essere quello che effettivamente è. 

( continua) EttNESTO rossi 


(4) In un solo anno di eccezionale raccolto (1959) 
abbiamo esportato 6.839.000 quintali di grano teneio 
con una perdita che non ritengo possa essere stata 
inferiore ai 25 miliardi. 

In un’intervista pubblicata sull’Unità del 7 marzo 
scorso, Vincenzo Cavallaro, ex funzionario della 


Federconsorzi, ha affermato che. per far guadagnare 
alcuni grossi commercianti, il direttore generale del- 
l’alimentuzione, comm. Miraglia, fa acquistare grano 
all’estero anche quando non ce n'è bisogno, e che il 
ministero dell'Agricoltura, per rendere necessaria la 
importazione del grano duro, ne tiene relativamente 
basso il prezzo rispetto a quello del grano tenero. 

« Nella commissione di acquisti del gì ano — ha 
detto Cavallaro — chi fa la parte principale è i 
presidente della Confederazione dei Cavalieri del 
Lavoro, Enrico Pozzani (che ha sposato il nipote 
con la figlia di Albertario ed ha dato al nipote, 
secondo quanto si dice, un miliardo di dote). Poz¬ 
zani è il più grande importatore di grano e guadagna 
800 milioni l’anno come niente fosse. Per lasciare 
aperta la importazione è sempre stata fatta una 
politica depressiva del grano duro». ... 

Io non so quale fondamento abbiano tali after- 
mazioni (che nessuno ha smentito e che non sono 
state seguite da alcuna querela), ma è certo che non 
sono mai riuscito a capire perché lo scarto fra il 
prezzo del grano duro (che serve per la pasta) ed il 
prezzo del grano tenero (che serve per il pane) non 
sia stato di molto accresciuto dopo che si è visto 
che la produzione del grano duro era permanente- 
mente deficitaria anche nelle annate in cui la pro¬ 
duzione del grano tenero risultava sovrabbondante 
rispetto al fabbisogno; e perché sono stati importati 
grandi quantitativi di grano tenero nelle annate in 
cui. per alleggerire i magazzini dall'eccedenza delle 
scorte, venivano svendute centinaia di migliaia di 
quintali di grano tenero, anche a paesi che ben sape¬ 
vamo non avrebbero mai pagato il loro debito. Così, 
ad esempio, nel 1960 abbiamo svenduto all’estero 
1 460 000 quintali di grano tenero per un valore di 
5 miliardi e 364 milioni, mentre importavamo 2.993.000 
quintali dello stesso prodotto per un valore di 12 
miliardi e 460 milioni. Nessun parlamentare ha mai 
chiesto spiegazioni su questi stranissimi affari con¬ 
clusi attraverso la Federconsorzi. 

E nessun parlamentare — che io mi sappia — ha 
neppure chiesto informazioni sugli accordi commer¬ 
ciali che ci hanno costretto ad acquistare il grano a 
prezzi molto superiori ai prezzi internazionali più 
favorevoli, da paesi che. come contropartita, si sono 
impegnati ad acquistare i nostri prodotti industriali 
a prezzi superiori a quelli internazionali. A chi vanito, 
ed in quale misura vanno, questi premi di esporta¬ 
zione mascherati, che non lasciano alcuna traccia nel 
bilancio dello Stato, ma costituiscono delle vere im¬ 
poste indirette a vantaggio della FIAT, della Monte- 
catini, della Pirelli, della Snia e di altre nostre grandi 
industrie parassitane? 


Mondo Operaio 

, <*«*_ 

Direttore: Francesco De Martino 
Condirettori: Gaetano Arfé e Antonio Giolitti 

Una copia lire 150 — Abbonamento annuo lire 1500 

Direzione, Redazione e amministrazione: Via del Corso 476 — Roma 


Rassegna mensile 
di politica economia cultura 


29 

















ANTONIO SEGNI 



GIOVANNI GRONCHI 



LUIGI EINAUDI 


IL MESSAGGIO DI SEGNI 


Gli aspetti politici 

DI GUIDO FUBINI 


J QUOTIDIANI italiani hanno messo nel giusto 
rilievo i caratteri giuridici del messaggio inviato 
dal Capo dello Stato al Parlamento il 17 settembre 
1963. Tali caratteri sono stati ritenuti prevalenti su 
quelli politici sia per la particolare sensibilità giu¬ 
ridica del Presidente Segni, sia per la veste nella 
quale egli ha sottoposto al Parlamento importanti 
modifiche costituzionali, sia ancora per i motivi pre¬ 
cisati nello stesso messaggio presidenziale. 

L’esame dei caratteri giuridici ed il peso delle 
argomentazioni tecniche non possono però preclu¬ 
dere una più approfondita disamina intesa alla ricer¬ 
ca degli obiettivi politici del messaggio presidenziale. 
Tale disamina, oggi più facile che l’indomani stesso 
della pubblicazione del messaggio per il diminuito 
interesse dell’opinione pubblica, è imposta dall’ov¬ 
via considerazione che ogni innovazione giuridica 
(specie quelle costituzionali, ma non solo quelle) 
importa sempre delle conseguenze politiche, che i 
giuristi lo vogliano o no. 

Diciamo « che i giuristi lo vogliano o no » per 
sottolineare che è ben lungi da chi scrive l’intendi¬ 
mento di fare un processo alle intenzioni del Presi¬ 
dente della Repubblica, e che quello che importa è 
solo la ricerca delle conseguenze politiche — volute 
o non volute dal Presidente Segni — che potrebbero 
derivare dalle modifiche tecniche proposte. 

£JOM’E’ noto, il messaggio presidenziale consta di 

due parti. Nella prima vi si tratta della nomina 
e della durata in carica dei giudici costituzionali. 
Nella seconda vi si tratta della durata e dei poteri 
del Presidente della Repubblica. 


Il quarto comma dell’art. 135 della Costituzione 
stabilisce che i giudici della Corte costituzionale (no¬ 
minati per un terzo del Presidente della Repubblica, 
per un terzo dal Parlamento in seduta comune, e 
per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria 
ed amministrativa) « sono nominati per dodici anni, 
si rinnovano parzialmente secondo le norme stabilite 
dalla legge e non sono immediatamente rieleggibili ». 

Il progetto di Costituzione redatto dalla Com¬ 
missione dei 75, per contro, mentre attribuiva all’As¬ 
semblea Nazionale la nomina di tutti i giudici della 
Corte (da scegliersi per metà su una lista tripla di 
magistrati designati dalle stesse magistrature ordi¬ 
naria ed amministrativa, per un quarto su una lista 
tripla di avvocati e docenti di diritto designati dal 
Consiglio superiore forense e dai professori di disci¬ 
pline giuridiche nelle Università, e per un quarto 
liberamente fra i cittadini eleggibili aventi almeno 
40 anni) fissava in nove anni la durata in carica 
dei giudici e ne consentiva la rieleggibilità (art. 127). 

Come si vede, il testo del progetto ed il testo 
definitivo differiscono profondamente. E’ stato soste¬ 
nuto che il primo appare inteso ad accentuare la 
politicità della Corte ed il secondo ad accentuarne la 
giuridicità. Forse più giustamente può dirsi che il 
primo appare inteso ad accentuarne la rappresentati¬ 
vità, il secondo l’ indipendenza. 

In particolare il prolungamento della durata in 
carica dei giudici (portata da 9 a 12 anni), l’introdu¬ 
zione del principio del rinnovo parziale, l’introdu¬ 
zione del principio della non immediata rieleggibilità, 
appaiono intese ad evitare che le fluttuazioni poli¬ 
tiche della pubblica opinione si ripercuotano attra- 


30 












verso gli organi incaricati della designazione dei 
giudici sulla stessa Corte costituzionale, ed a svin¬ 
colare gli stessi giudici dalla preoccupazione di te¬ 
nere conto di tali fluttuazioni politiche al fine della 
riconferma in carica. 

Cosi si spiega come, in una discussione che può 
apparire meramente tecnica, l’Assemblea costituente 
si dividesse secondo una linea politica schierandosi 
in difesa del progetto gli onorevoli Fausto Gullo, 
Lami Starnuti, Laconi, Togliatti e Targetti, ed in 
difesa delle modifiche che poi prevalsero gli ono¬ 
revoli Mortati, Conti, Monticelli, Leone, Bettiol, 
Paolo Rossi, Avanzini, Gaetano Martino e Ambro¬ 
sini. 

Certo non può dirsi che il criterio della rappre¬ 
sentatività fosse completamente obliterato dalla mag¬ 
gioranza dell’Assemblea, poiché è in omaggio a tale 
criterio che l’Assemblea costituente attribuì al Par¬ 
lamento in seduta comune l’elezione di cinque dei 
quindici giudici della Corte, con la preoccupazione — 
non scritta, ma certo presente ai costituenti, e tale 
preoccupazione si ritrova nell’art. 3 della legge 11 
marzo 1953, n. 87 — che in tale elezione la minoranza 
parlamentare fosse degnamente rappresentata. E’ in¬ 
dubbio però che, quando si fosse fatto luogo ad un 
rinnovo parziale, tale preoccupazione avrebbe potuto 
venire meno, mentre non avrebbe potuto non essere 
presente in occasione di un rinnovo integrale dei 
cinque giudici designati dal Parlamento. E’ per tale 
motivo che appare particolarmente difficile una qua¬ 
lificazione politica dell’ultimo comma della settima 
disposizione transitoria della Costituzione, dovuto ad 
una proposta dell’on. Ambrosini, del seguente teno¬ 
re: « I giudici della Corte costituzionale nominati 
nella prima composizione della Corte stessa non sono 
soggetti alla parziale rinnovazione e durano in carica 
dodici anni »; da un lato può ravvedersi in tale 
proposta un’intenzione conservatrice (ed infatti l’on. 
Ambrosini sottolineò «• la necessità che la Corte co¬ 
stituzionale abbia un funzionamento continuativo per 
un certo periodo, in modo da stabilire una giurispru¬ 
denza costante », cfr. Ass. Cosi. pag. 2899 ) intesa 
ad impedire per almeno dodici anni che le fluttuazioni 
politiche della pubblica opinione si ripercotessero 
sugli orientamenti della Corte, d’altro lato può rite¬ 
nersi tuttavia che tale proposta salvava la possibilità 
di una rappresentanza della minoranza parlamentare 
sia in occasione della prima elezione sia in occasione 
del primo rinnovo dei giudici della Corte costitu¬ 
zionale. 

L’art. 4 della legge costituzionale 11 marzo 1953 
n. 1 modificò parzialmente il disposto dell’art. 135 
della Costituzione. Esso dice: « I giudici della Corte 
restano in carica dodici anni. I giudici che sono no¬ 
minati alla scadenza dei dodici anni dalla prima for¬ 
mazione della Corte si rinnovano, decorsi nove anni, 
mediante sorteggio di due giudici tra quelli nominati 
dal Presidente della Repubblica, di due tra quelli 
nominati dal Parlamento e di due tra quelli nomi¬ 
nati dalle supreme magistrature ordinaria ed ammi¬ 
nistrativa... Decorsi gli altri tre anni, si rinnovano i 
giudici che non sono stati rinnovati. Successivamente 
si rinnovano ogni nove anni i giudici rimasti in 


carica dodici anni. In caso di vacanza dovuta alla 
scadenza del termine di dodici anni o ad altra causa 
la sostituzione avviene entro un mese dalla vacanza ! 
stessa ». 

Il testo, di non facile comprensione, è stato giu- ! 
statuente criticato nel messaggio del Presidente della 
Repubblica, il quale ha rilevato che il metodo intro- [ 
dotto « può produrre gravi inconvenienti ». Il mes- ' 
saggio soggiunge: « Col sistema così introdotto è 
chiaro che tra cinque anni scadranno tutti i giudici 
costituzionali in carica, anche se siano stati nominati 
pochi mesi innanzi. Lo stesso inconveniente si mani- ! 
festa nel rinnovo dei due quinti dopo nove anni e dei 
tre quinti dopo dodici, perpetuandosi l’inconvenien¬ 
te della durata variabile ed incerta della nomina, con 
i dannosi effetti connessi ». 

Pur concordandosi con l’opportunità di rivedere 
il testo dell’art. 4 della legge costituzionale n. 1 del 
1953, possono tuttavia non condividersi le osserva¬ 
zioni del messaggio presidenziale quando si osservi 
che seppur di durata variabile può parlarsi, non 
sembra per contro potersi parlare di durata incerta 
(così come non può parlarsi di durata incerta del 
mandato per quel parlamentare che, chiamato a so¬ 
stituirne un altro deceduto o dimissionario, sa tutta¬ 
via fin dal primo giorno del suo mandato che questo 
cesserà con la scadenza della legislatura); così come 
possono non condividersi tali osservazioni quando 
non si ravveda un inconveniente nella durata varia¬ 
bile (poiché variabile è sempre la vita umana, ed 
anche il termine prefisso dei dodici anni può non 
essere raggiunto per l’intervento di fattori naturali, 
che, come bene osserva il messaggio presidenziale, 
possono imporre un più rapido avvicendamento), o 
ancora quando si ritengano prevalenti gli effetti 
utili su quelli dannosi. 

Non può tuttavia disconoscersi che il metodo in¬ 
trodotto con l’art. 4 della legge costituzionale del 
1953 importa il rinnovo di tutti i giudici della Corte 
costituzionale nel dodicesimo anno dalla sua costi¬ 
tuzione, di due quinti dei giudici nel 21. anno, di 
tre quinti nel 24., e poi, ogni nove anni e così nel 33., 
nel 42., nel 51., nel 60., dei giudici rimasti in carica 
dodici anni. Ne consegue che, se nessuna vacanza 
dovesse prodursi per eventi naturali, due quinti dei 
giudici dovrebbero rinnovarsi nel 12. anno, poi nel 
2L> nel 33., nel 45., nel 57. e così di seguito senza 
più coincidenza alcuna con il termine di nove anni 
stabilito dalla legge; mentre invece tre quinti dei 
giudici dovrebbero rinnovarsi nel 12. anno, poi nel 
24., nel 36., nel 48., nel 60. e così di seguito senza 
che il termine di nove anni stabilito dalla legge abbia 
più pratica rilevanza. Ed in effetti v’è un’indubbia 
contraddizione fra il penultimo comma dell’articolo 
in esame per il quale « si rinnovano ogni nove anni 
i giudici rimasti in carica 12 anni» (che lascierebbe 
intendere che il giudice rimasto in carica 12 anni non 
decade dalla carica, ma resta fino al compimento del 
nono anno) e l’ultimo comma dell’articolo stesso 
per il quale la scadenza del termine di 12 anni con¬ 
creta un caso di vacanza. Giustamente pertanto il 
messaggio presidenziale rileva la durata variabile della 
nomina quando non si tenga conto dell’ultimo comma 
dell’articolo 4 e quando si dia al penultimo comma 














l’interpretazione accennata, ma si tratterebbe (dopo 
i primi dodici anni previsti dalla settima disposi¬ 
zione transitoria della Costituzione) comunque di 
una durata maggiore e non minore di dodici anni, 
contrariamente a quanto sembra ritenere il messaggio 
presidenziale. 

Il messaggio presidenziale sembra per contro in¬ 
terpretare l’art. 4 della legge costituzionale del 1953 
nel senso che ogni nove anni debbano scadere alter¬ 
nativamente due quinti e tre quinti dei giudici indi- 
pendentemente dalla durata della nomina, ma tale 
interpretazione non sembra facilmente sostenibile. 

E’ sul presupposto di questa interpretazione che il 
Presidente della Repubblica suggerisce l’abrogazione 
dell'art. 4 della legge del 1953, dell’ultimo comma 
della settima disposizione transitoria e la modifica 
del quarto comma dell’art. 135 della Costituzione 
« con lo stabilire che i giudici sono nominati per 
dodici anni e non sono immediatamente rieleggibili; 
che per ciascun giudice il dodicennio decorre dal gior¬ 
no del giuramento; ed altresì che i giudici nominati 
dal Presidente della Repubblica non possono essere 
immediatamente confermati ». La modifica proposta 
(salvo per quanto riguarda l’ultimo comma della set¬ 
tima disposizione transitoria e la precisazione della 
non immediata conferma dei giudici nominati dal 
Presidente della Repubblica, che potrebbe anche enu¬ 
clearsi in via di interpretazione estensiva dalla stessa 
non immediata rieleggibilità disposta dall art. 135) 
sembra essere più che un rovesciamento dei principi 
posti dall’art. 4 della legge, una più chiara esposi¬ 
zione del sistema dalla stessa introdotto. 

Ciò non toglie che essa si presenti, nello spirito 
generale del messaggio presidenziale ed in conside¬ 
razione delle « manchevolezze » che lo stesso ritiene 
di potere rilevare nella Costituzione, in considera¬ 
zione pure della simpatia che il messaggio esprime 
per il sistema americano dell’elezione a vita dei giu¬ 
dici, ed ancora per la chiara avversione che incon¬ 
trerebbe nel Presidente Segni un sistema che preve¬ 
desse ogni dodici anni il rinnovo integrale dei giudici 
della Corte e che ne consentisse la immediata ricon¬ 
ferma, come un’espressione, anzi — per la persona 
da cui promana — come la più alta espressione della 
linea politica intesa ad accentuare Vindipendenza dei 
giudici a detrimento della rappresentatività della 
Corte. 

Tale carattere dovrà naturalmente essere tenuto 
presente dal Parlamento quando dovrà prendere in 
esame le modifiche proposte dal Presidente della Re¬ 
pubblica, anche in considerazione del fatto che il 
metodo proposto dal messaggio presidenziale rende 
difficile l’elezione, fra i cinque giudici eletti dal 
Parlamento, dei candidati delle minoranze parla¬ 
mentari. 

Per tale motivo, quando il Parlamento convenga 
sull’opportunità di seguire i suggerimenti del Pre¬ 
sidente della Repubblica, potrebbe rendersi oppor¬ 
tuno accentuare per altro verso la rappresentatività 
della Corte. Forse, in tal senso, potrebbe prevedersi 
l’integrazione dei quindici giudici attuali con altri 
cinque giudici (o sei se si ritiene opportuno con¬ 
servare il numero dispari) eletti dalle Regioni, ri¬ 


prendendosi così una proposta già fatta all’Assemblea 
costituente dall’on. Targetti; potrebbe prevedersi la 
pubblicità delle deliberazioni della Corte sull’esempio 
statunitense o messicano, così come sembra suggerire 
il Calamandrei (Processo e Democrazia, Padova, 
1954, pag. 86-92); potrebbe ancora prevedersi una 
modifica del modo di elezione dei cinque giudici 
designati dalla magistratura. 

A PROPOSITO dell’elezione dei cinque giudici de¬ 
signati dalla magistratura, il messaggio presiden¬ 
ziale osserva: «L’art. 135 della Costituzione dispone 
che cinque dei giudici della Corte sono eletti ” dalle 
supreme magistrature "; ma nessuna disposizione è 
stata dettata per l’elezione dei giudici di estrazione 
giurisdizionale. Nella prassi è stato finora conside¬ 
rato sufficiente per l’elezione aver riportato il mag¬ 
gior numero dei voti, anche se questo sia inferiore alla 
metà dei votanti, senza procedere ad alcun ballot- 
taggio. Questo sistema contrasta con quelli general¬ 
mente adottati per l’elezione a cariche pubbliche da 
parte di corpi collegiali ristretti, nei quali per l’ele¬ 
zione è adottato normalmente il principio della mag¬ 
gioranza dei votanti ». 

Il messaggio mette chiaramente il dito su una 
piaga già in altre circostanze rilevata. Ed infatti, che 
nelle supreme magistrature italiane siasi potuta in¬ 
staurare, in mancanza di una precisa disposizione 
legislativa o costituzionale, una prassi non solo in 
contrasto con quella generalmente adottata per l’ele¬ 
zione a cariche pubbliche da parte di corpi collegiali 
ristretti, ma evidentemente in contrasto con la co¬ 
mune sensibilità democratica, può suscitare giuste 
preoccupazioni in chi crede che tale sensibilità non 
debba mancare in un organo che ha, oltreché la fun¬ 
zione di amministrare la giustizia, anche quella di 
eleggere un terzo dei membri della Corte costitu¬ 
zionale. 

La soluzione dei problemi sollevati, suggerita dal 
messaggio presidenziale, appare tuttavia meramente 
formale: « Sembra perciò opportuno disporre che nel 
caso di mancato raggiungimento, al primo scrutinio, 
di un certo numero di voti pari alla maggioranza 
assoluta dei componenti del collegio, si proceda a 
votazione di ballottaggio tra i due candidati che 
abbiano riportato il maggior numero di voti ». 

Per contro, potrebbe prendersi in considerazione 
(insieme con la soluzione suggerita, poiché l’una 
non esclude l’altra) una revisione dello stesso colle¬ 
gio elettorale intesa ad una maggiore rappresenta¬ 
tività e così ad una maggiore democraticità, con la 
estensione del collegio stesso, oggi limitato alle sole 
« supreme magistrature », a tutta la magistratura 
italiana. Tale riforma non diminuirebbe certo Vindi- 
pendenza dei giudici della Corte, ma favorirebbe l’in¬ 
dirizzo più progressista della giurisprudenza costi¬ 
tuzionale. 

/^OME già si è rilevato, la seconda parte del mes¬ 
saggio presidenziale tratta della durata e dei poteri 
del Presidente della Repubblica. 

Anche su questo punto la stampa ha messo in 
rilievo i caratteri tecnici delle proposte contenute 
nel messaggio, senza tuttavia approfondirne i carat- 


32 






teri politici oltre il limite delle motivazioni ufficiose. 
Una più approfondita disamina non appare superflua. 

« La nostra Costituzione, dice il messaggio, non 
ha creduto di stabilire il principio della non imme¬ 
diata rieleggibilità del Presidente della Repubblica, 
ma mi sembra opportuno che tale principio sia intro¬ 
dotto nella Costituzione... Una volta disposta la non 
rieleggibilità del Presidente, si potrà anche abrogare 
la disposizione dell’art. 88, 2' comma, della Costi¬ 
tuzione, la quale toglie al Presidente il potere di 
sciogliere il Parlamento negli ultimi mesi del suo 
mandato ». 

Per valutare l’indirizzo politico della proposta 
contenuta nel messaggio, occorre fare riferimento 
ancora una volta ai due principi che abbiamo richia¬ 
mato parlando dei giudici della Corte costituzionale: 
il principio di indipendenza ed il principio di rap¬ 
presentatività; il primo inteso ad evitare, il secondo 
inteso a garantire che l’organo subisca la pressione 
della pubblica opinione. 

E’ chiaro che stabilire la non immediata rieleg¬ 
gibilità del Presidente della Repubblica significa ten¬ 
dere obiettivamente ad impedire che il Presidente 
della Repubblica possa comunque essere influenzato 
dalle correnti politiche del Paese. Che tale, per altro, 
sia il preciso intento del Presidente Segni, si legge 
chiaramente nel messaggio: « La proposta modifi¬ 
cazione vale anche ad eliminare qualunque sia pure 
ingiusto sospetto che qualche atto del Capo dello 
Stato sia compiuto al fine di favorirne l’elezione », 
ove il termine spregiativo di « sospetto » è usato per 
un fatto che in una diversa visuale politica potrebbe 
per contro apparire la regola in un sistema democra¬ 
tico, o, più ancora, la molla voluta dal sistema rap¬ 
presentativo al fine del bene collettivo. 

Ma il problema è proprio qui: se si considera la 
funzione del Presidente della Repubblica sotto la 
specie della democrazia e della rappresentatività, met¬ 
tendone in evidenza quei caratteri che sono legati 
necessariamente ad un organo democratico e rappre¬ 
sentativo, si deve optare per la rieleggibilità; se per 
contro si considera preminente nella funzione pre¬ 
sidenziale l’esigenza dell’indipendenza, si deve optare 
per la non rieleggibilità. Ma quali sono i poteri del 
Presidente della Repubblica legati al suo carattere di 
organo democratico c rappresentativo? 

E’ insegnamento costante che il Presidente della 
Repubblica è irresponsabile, poiché nessun atto da 
lui sottoscritto è valido « se non è controfirmato dai 
ministri proponenti, che ne assumono la responsa¬ 
bilità » (art. 88 Cost.); si soggiunge che la respon¬ 
sabilità del Presidente è limitata alle ipotesi di alto 
tradimento e di attentato alla Costituzione (art. 90 
Cost.), ma che si tratta di una responsabilità penale 
e non di una responsabilità politica. L’irresponsabilità 
politica è l’appannaggio necessario e sufficiente del¬ 
l’organo indipendente, la responsabilità politica è 
quello dell’organo rappresentativo. Se il discorso do¬ 
vesse finire qui, si dovrebbe trarre dalla irresponsa¬ 
bilità politica del Presidente della Repubblica il ca¬ 
rattere di organo indipendente, e dal carattere di 
organo indipendente la opportunità della non rie¬ 
leggibilità. 


Ma il discorso non finisce qui. In effetti, se li 
guarda al di là della lettera degli articoli 88 e 90 
della Costituzione, non si può ignorare che almeno 
in tre atti del Presidente della Repubblica la contro¬ 
firma del ministro non può importare la responsabi¬ 
lità dello stesso ma ha soltanto carattere formale, 
riconoscendosi al Presidente della Repubblica la più 
lata discrezionalità: l’atto di nomina del Presidente 
del Consiglio dei Ministri, quello con il quale viene 
disposto lo scioglimento anticipato delle Camere o 
di una di esse (poiché se non fosse un atto discre¬ 
zionale del Presidente della Repubblica, non si capi¬ 
rebbe il divieto di esercitare tale facoltà negli ultimi 
sei mesi dal suo mandato, contenuto nel secondo 
comma dell’art. 88 della Costituzione), quello di 
nomina di cinque giudici della Corte costituzionale 
(sul quale si è a lungo discusso, ma sembra effetti¬ 
vamente che sia prevalsa la tesi del potere discre¬ 
zionale del Presidente della Repubblica). 

Proprio la discrezionalità di tali poteri del Pre¬ 
sidente della Repubblica, pei quali non può parlarsi 
della responsabilità del ministro proponente, impone 
di fare risalire la responsabilità politica degli atti stessi 
allo stesso Presidente della Repubblica. Per tali atti 
non vale la limitazione dell’art. 90 della Costituzione, 
anche al di fuori delle ipotesi (di rilevanza penale) 
di alto tradimento e di attentato alla Costituzione. 

E poiché, come già si è detto, la responsabilità 
politica è l’appannaggio dell’organo rappresentativo, 
non è possibile dissociare i poteri anzidetti dalla pos¬ 
sibilità di un controllo parlamentare: tale controllo 
si esercita, in un organo senza prefissione di durata, 
quale il governo, attraverso il voto di fiducia; quando 
invece la durata è prefissata come nel caso della 
Presidenza della Repubblica, il controllo si esercita 
attraverso la possibilità della rielezione. 

La conclusione del discorso s’impone da sé: o il 
Parlamento riterrà prevalente il principio di indi- 
pendenza, e allora dovrà seguire i suggerimenti del 
messaggio presidenziale per quanto attiene alla non 
rieleggibilità, ma nel contempo dovrà limitare i 
poteri discrezionali del Presidente della Repubblica 
sia vincolandolo nella scelta del Presidente del Con¬ 
siglio dei Ministri (gli esempi non mancano, si veda 
l'alt. 76 del progetto di costituzione francese 19 
aprile 1946, si vedano altresì il 3. e 4. comma 
dell’art. 63 della legge fondamentale 23 maggio 1949 
della Repubblica Federale Tedesca), sia togliendogli 
la facoltà di scioglimento delle Camere, sia facendo 
risalire a! governo ed ai ministri la responsabilità 
della nomina dei cinque giudici della Corte costitu¬ 
zionale. Oppure il Parlamento riterrà prevalente il 
principio di rappresentatività e allora dovrà respin¬ 
gere i suggerimenti contenuti nel messaggio presi¬ 
denziale. Si tratta di una scelta politica e non mera¬ 
mente tecnica, nella quale il Parlamento dovrà avere 
ben presente che non sempre indipendenza significa 
forza, e rappresentatività debolezza. 

Al contrario, in un sistema democratico il con¬ 
senso della pubblica opinione è garanzia di forza: ma 
tale consenso non può disgiungersi, sul piano tecnico, 
dalla responsabilità politica. 

GllDO FUBINI 


It 











IL MESSAGGIO DI SEGNI 


I poteri del Presidente 


T E annotazioni ili Guido F uhi ni 

sulla parte del messaggio Se¬ 
gni die riguarda particolarmente 
la non rieù'ggibilità del Presiden¬ 
te aprono la via ad un più am¬ 
pio dibattilo, sul quale saremmo 
lieti di ospitare pareri di esperti. 
Xon è materia die si presti a 
definizioni giuridiche rigorose: 
anche nel caso dei modi di no¬ 
mina dei giudici costituzionali 
prevalgono, e devono giustamen¬ 
te prevalere, considerazioni di op¬ 
portunità politica. Rebus sic 
slantibùs, le proposte Segni, an¬ 
che per il « semestre bianco ». 
trovano negli ambienti politici 
generale, o prevalente, consenso. 
Sono ragioni elementari di pru¬ 
denza che in una democrazia di 
tipo latino sconsigliano un dop¬ 
pio settennato. D'altra parte nelle 
generiche e piuttosto idilliache 
previsioni dei costituenti non tro¬ 
vavano posto i difficili equilibri 
parlamentari ed i conseguenti 
contrasti politici che ci affliggono 
da molti anni e possono rendere 
pericolosa la limitazione dei po¬ 
teri del Presidente neU’ultimo 
semestre. Ma la soppressione del¬ 
la limitazione chiede come con¬ 
tropartita la non rieleggibilità, 
come argomentava a suo tempo 
l’on. Malagodi in odio al Presi¬ 
dente Gronchi. 

Il discorso potrebbe esser di¬ 
verso se si riducesse la durata 
della carica. Non diciamo a quat¬ 
tro anni, come è per il Presidente 
americano, die è peraltro il capo 
del potere esecutivo, ma quando 
si uniformò la durata del Senato 
a quella della Camera, cioè u 
cinque anni, il settennato presi¬ 
denziale apparve a molti anacro¬ 
nistico. L’on. Lusso sostenne che 
la riduzione del mandato presi¬ 
denziale avrebbe dovuto essere 
la condizione della omologa ri¬ 
forma del Senato. 

I costituenti stabilendo una 
scala di diverse durate — sette 
anni il Presidente, sei il Senato, 
cinque la Camera — erano par¬ 
titi dal criterio di evitar rotture 


nella suprema direzione del pae¬ 
se e di assicurare la continuità 
della presenza del controllo par¬ 
lamentare. Essendo apparsi in 
parte inconsistenti questi timori 
e comunque prevalenti i lati ne- 
gativi dello sfasamento, la ridu¬ 
zione alla misura unica quin¬ 
quennale delle supreme autorità 
ilello Stato ha una sua chiara 
logica. , 

Ma questi sono aspetti formali 
del problema più complesso dei 
« poteri del Presidente ». Fubini 
ricorda quelli che sono secondo 
la interpretazione corrente i suoi 
poteri discrezionali indicati dal¬ 
la Costituzione. Non sono forse i 
soli, ed a lungo si è scritto e di¬ 
scusso sulla interpretazione della 
« discrezionalità » e sui limiti 
d'intervento del Presidente. Con. 
Gronchi rivendicava apertamente 
il diritto e il dovere dell'inter¬ 
vento risolutivo presidenziale nel¬ 
le situazioni di crisi politica: si 
ricorderà come questa tesi o ten¬ 
denza sia stata fortemente con¬ 
trastata, anche da democristiani. 
In generale si può dire che chiun¬ 
que si trovi al Quirinale — sia 
Einaudi sia Segni — non rinun¬ 
zia alla possibilità d’intervento 
non semplicemente mediatore nei 
momenti di crisi politica. Solo 
De Nicola si sforzò di osservare 
una neutralità derivata da una 
rigorosa applicazione parlamen¬ 
tare. 

Di fronte a questo ch’c uno 
dei problemi più spinosi di un 
sistema rappresentativo, la nostra 
Costituzione è piuttosto reticente. 
Si sforza di dir poco. In realtà 
non si vede come fissare formule 
giuridiche aderenti ad una realtà 
che non è schematica né immo¬ 
bile. Disse allora, e ripetè di 
poi, l’on. Ruini che materie di 
questo genere possono essere re¬ 
golate solo ila una prassi che 
l’esperienza sedimenta e consoli¬ 
da. Ciò clic è giusto in principio; 
anzi c giusto senz’altro e prefe¬ 
ribile per società di tipo britan¬ 


nico, può essere pericoloso da 
noi. 

E poi oltre ai poteri che si 
traducono in adempimenti giuri¬ 
dici vi è indubbiamente una più 
ampia sfera di responsabilità po¬ 
litica e morale che incombe in¬ 
dubbiamente a colui che la Co¬ 
stituzione definisce con la frase 
più impegnativa in questa mate¬ 
ria « Capo dello Stato ». E’ una 
responsabilità rimessa alla per¬ 
sonalità del Presidente, che può 
trovar limiti oggettivi solo nel- 
l’equilibrio dei poteri e nel con¬ 
trollo della opinione pubblica. 
Ed è bene li trovi, data 1 influen¬ 
za che questa attività, costituzio¬ 
nalmente irresponsabile, può 
esercitare ad esempio sui rap¬ 
porti internazionali. 

Sono giustificati i richiami, già 
rivolti al Parlamento in alcuni 
casi celebri dal Presidente Einau¬ 
di, ed ora ancor più frequente¬ 
mente dal Presidente Segni, per 
la puntuale osservanza dell’arti¬ 
colo 81. Giustificati non in senso 
assoluto, dato il valore approssi¬ 
mativo che questa famosa coper¬ 
tura ba frequentemente, ma co¬ 
me freno alla facilità nello spen¬ 
dere. Ma l’attenzione del Capo 
dello Stato non si può esaurire 
evidentemente in questo limitato 
guardianaggio. 

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_ 


34 













S- CONTROLUCE - 

All’inglese e all’italiana 


J<RA i fenomeni più cu¬ 
riosi di questi tempi, ci 
ha colpito una singolare 
forma di sciovinismo pro¬ 
cessuale, che vorrebbe esal¬ 
tare il nostro codice di pro¬ 
cedura penale come qual¬ 
cosa di mirabilmente per¬ 
fetto, a petto del quale il 
tanto decantato sistema in¬ 
glese diventa un ammasso 
di arbitri e di soprusi. Solo 
un masochistico autolesio¬ 
nismo potrebbe indurci a 
invidiare la giustizia all’in¬ 
glese, dopo quel che si è 
visto nei processi del dot¬ 
tor Ward e del giamaicano 
Gordon. Viva dunque la 
giustizia all’italiana! E di¬ 
ciamo pure forte — come 
ha detto Panfilo Gentile sul 
Corriere della Sera — che 
il cod. di proc. penale del 
1930, figlio del codice del 
1913 e del grande profes¬ 
sor Stoppato, è un «codice 
modello », anche se qua e 
là deturpato da alcune 
macchioline di colore fa¬ 
scista, che d’altronde so¬ 
no state cancellate quasi 
tutte... 

Che il codice di proc. 
pen. del 1930 avesse qual¬ 
cosa di buono, nessuno po¬ 
trebbe negarlo. Gli anni 
non erano passati invano, 
e non si poteva non tener 
conto di certi progressi 
della scienza giuridica e 
della sensibilità sociale: co¬ 
sì come il codice penale 
di quello stesso anno po¬ 
teva legittimamente van¬ 
tare non pochi punti di 
vantaggio rispetto al vec¬ 
chio codice Zanardelli, so¬ 
prattutto per avere accol¬ 
to alcuni postulati della 
« scuola positiva ». Ma nei 
due codici del 1930 l’im¬ 
pronta autoritaria e poli¬ 


ziesca c’era, e come; e il 
guaio è che non è affatto 
scomparsa. E poi, si veda¬ 
no i miserevoli risultati: 
processi che si trascinano 
per molti anni, fino alla 
estinzione dei reati, o alla 
necessità di eliminare una 
parte del lavoro arretrato 
con le famigerate amnistie, 
o a sentenze che, lontane 
come sono dai fatti, non 
possono dar più l’impres¬ 
sione di avere comunque 
« fatto giustizia ». Alla lar¬ 
ga dai codici modello! 

Non si negano certo talu¬ 
ni inconvenienti del siste¬ 
ma inglese; e anche a noi 
è accaduto di segnalarli 
più di una volta. Così ha 
giustamente sconcertato la 
sentenza d’appello nel ca¬ 
so Gordon, per l’assoluta 
mancanza di motivazione. 
Da noi. invece, la motiva¬ 
zione delle sentenze è ad¬ 
dirittura un obbligo costi¬ 
tuzionale; ed è innegabile 
che essa costituisca, per 
tutti, una salvaguardia di 
giustizia. 

Può anche darsi che i 
giudici inglesi — come pa¬ 
re abbia fatto il giudice 
Marshall nel processo 
Ward — nel riassumere i 
termini della causa di fron¬ 
te ai giurati, lascino tra¬ 
sparire il loro pensiero, o 
pregiudizio, sulla responsa¬ 
bilità dell’imputato, e co¬ 
sì finiscano con l’influen¬ 
zare i giurati medesimi. Ma 
anche a questo proposito, 
non bisogna esagerare. Non 
è affatto vero, come ha det¬ 
to Panfilo Gentile, che la 
giuria popolare inglese fac¬ 
cia da semplice comparsa, 
sia insomma un’accolta di 
burattini nelle mani del 


bui'attinaio che tira i fili, 
cioè del giudice. 

Più che il sistema pro¬ 
cessuale inglese (tutto ispi¬ 
rato a una meravigliosa 
speditezza e a un assoluto 
rispetto dei diritti della di¬ 
fesa), può essere critica¬ 
bile il rapporto fra magi¬ 
stratura e potere esecutivo, 
diciamo meglio una conso¬ 
nanza — che può sembra¬ 
re conformismo — tra l’at¬ 
teggiamento dei giudici e 
l’indirizzo del governo con¬ 
servatore. La parrucca dei 
magisti’ati inglesi sembra 
quasi servire da scudo a 
Macmillan e soci. Vivacis¬ 
sime sono state, in propo¬ 
sito, le critiche degli ingle¬ 
si alla magistratura d’oggi: 
e Michele Tito le ha ana¬ 
lizzate molto bene, sulla 
Stampa. Ma anche queste 
critiche sono un segno di 
vitalità, di attaccamento, 
serio e non bigotto, alle 
istituzioni, di spregiudica¬ 
ta volontà di migliorare le 
cose. Se uno oggi dicesse 
qui dei nostri giudici qual¬ 
cosa di quel che si è detto 
in Inghilterra, andrebbe 
difilato in gattabuia. 

Conclusione. Nel mo¬ 
mento in cui si parla di 
una generale riforma dei 
codici non sarebbe male 
cominciare a mettere un 
po’ il naso fuor di casa 
nostra, e sforzarsi di capi¬ 
re gli altri. E soprattutto, 
deporre ogni nazionalisti¬ 
ca albagia, e non fare un 
intoccabile feticcio del no¬ 
stro codice del 1930. Per 
le riforme essenziali, ri¬ 
mandiamo alla bella lette¬ 
ra al Corriere che, in ri¬ 
sposta a Panfilo Gentile, ha 
scritto il prof. Giandome¬ 
nico Pisapia. 

A. GALANTE GARRONE 














Perchè no al battesimo 

DI SERGIO TURONE 


TTN BATTEZZATO non cattolico 
^ ha il dovere di sottrarre i propri 
figli al battesimo? Io credo di sì 
(salvo, beninteso, il diritto del figlio 
di farsi battezzare per scelta propria 
all’età della ragione). E penso che 
questa sia l’opinione anche dei cat¬ 
tolici autentici, di quelli che nella 
religione vedono una forza spirituale 
e non uno strumento di potenza e 
di preponderanza politica. 

Ma spesso i problemi che paiono 
semplici in astratto si fanno com¬ 
plessi in concreto. Gli amici del- 
1’ ” Astrolabio ” vorranno perdonar¬ 
mi se traggo lo spunto da una vicen¬ 
da personale per sottoporre loro un 
argomento generale degno di medi¬ 
tazione, mi pare, e forse di un dibar 
tito approfondito. Fra qualche giorno 
nascerà il mio primo figlio. Mia mo¬ 
glie ed io, che siamo cattolici solo 
all’anagrafe parrocchiale, — dopo 
aver superato esitazioni c timori — 
abbiamo deciso di non farlo battez¬ 
zare. Pare cosa ovvia, ma è stato 
difficile vincere la tentazione del 
« chi ce lo fa fare » e il richiamo del 
conformismo. Fra l’altro, mi rendo 
conto che all’atto pratico il mezzo 
più facile per far sì che mio figlio 
cresca con le mie stesse opinioni in 
fatto di religione, di politica, di tut¬ 
to, sarebbe seguire il corso delle con¬ 
suetudini italiane: farlo battezzare e 
lasciare che riceva la tradizionale 
educazione cattolica, così esteriore da 
non resistere poi al primo serio esa¬ 
me razionale. 

Invece, non battezzandolo, e sot¬ 
traendolo — quando sarà il momen¬ 
to — a un’incondizionata influenza 
della scuola cattolica, rischio di pro¬ 
vocare nel bambino una sorta di 
scossa psicologica che potrebbe an" 
che condurlo — per reazione e per 
quel fenomeno mimetico in base al 
quale i bambini amano sentirsi 
” uguali agli altri bambini ” — a 
posizioni opposte a quelle dei geni¬ 
tori. Eppure, per un desiderio di 
coerenza e linearità, mia moglie ed 
ed io abbiamo preferito la via più 
insicura e più scomoda. Riteniamo 
con ciò di salvaguardare la libertà 
del figlio che sta per nascere, anche 
se gli prepariamo forse una vita 


spirituale più disagevole, priva del¬ 
le comodità offerte dal conformismo. 

Lungi dal pretendere di imporgli, 
rifiutando il battesimo, le mie con¬ 
cezioni, in questo modo gli lascio 
anzi aperte tutte le vie. Battezzalo, 
avrebbe davanti a sé solo tre solu¬ 
zioni possibili: un cattolicesimo coat¬ 
to e perciò stesso fragile, oppure un 
anticattolicesimo che rischierebbe di 
essere a volte fazioso (è il pericolo 
con cui so di dover lottare io stes¬ 
so), o, infine, l’agnosticismo scialbo 
di chi per pigrizia rifiuta ogni scelta 
e trascina una vita gretta, non illu' 
minata da alcun ideale. ( Inutile sot¬ 
tolineare che delle tre soluzioni que¬ 
sta è la peggiore : è il nulla ideolo¬ 
gico da cui scaturisce nei giovani la 
tendenza alla violenza e al fascismo, 
e negli anziani l’egoismo utilitari¬ 
stico). 

Non battezzato, il ragazzo avrà in¬ 
vece il privilegio -— e nel contempo 
il faticoso dovere — di scegliere sen¬ 
za vincoli. Se vorrà essere cattolico, 
lo sarà per libera scelta cosciente, e 
perciò lo sarà senza riserve, senza 
ipocrisie: lo sarà dopo aver superato 
quei mille dubbi che troppi cattoli¬ 
ci preferiscono scacciare in fretta 
dalla mente senza affrontarli. Insom- 
ma, se vorrà essere cattolico, sarà 
un buon cattolico. 

Se invece non vorrà esserlo, e se 
le sue osservazioni e meditazioni lo 
condurranno a una scelta ideologica 
diversa nella quale ovviamente io 
mi propongo di aiutarlo, senza im 
porgli slealmente opinioni mie, cioè 
senza tacergli quelli che sono anche 
i miei dubbi, senza presentargli in¬ 
somma una mia verità belle confe¬ 
zionata,ma educandolo alla discus¬ 
sione), il fatto di non appartenere 
per imposizione alla Chiesa gli con¬ 
sentirà di osservare il cattolicesimo 
con sereno distacco; non sarà vin¬ 
colato come tutti noi che non ci 
sentiamo cattolici, e ne dobbiamo 
per nascita portare l’etichetta, e di¬ 
ventiamo insofferenti e astiosi verso 
una qualifica chè ci è imposta (e che, 
al limite, permette a certo clero 
abusi morali sul tipo di quello com¬ 
messo dal vescovo di Prato contro 
due "battezzati non cattolici”). E 


poiché nella dottrina cattolica vi so¬ 
no indubbiamente elementi che pos 
sono essere positivi anche per chi 
abbia un credo filosofico diverso od 
opposto, è chiaro il vantaggio di chi 
può studiare il cattolicesimo dal¬ 
l'esterno, senza preconcetti polemici. 

Non è ch’io sia certo di essere 
nella verità. E se mi sono indotto a 
scriverne sull’ ” Astrolabio ” vincen¬ 
do il ritegno di parlare in prima 
persona, è anche per chiarire meglio 
a me stessp gli aspetti generali del 
problema che mi tocca personalmen¬ 
te. Mi rendo conto che il figlio do¬ 
vrà pagarlo — prima di poterne go 
dcre gli enormi benefici spirituali — 
con un’infanzia certamente più tor¬ 
mentata ( nonostante ogni affettuoso 
aiuto che potrà venirgli dai genitori ) 
di quella dei bambini allevati nej- 
l’ovatta facile delle verità dogmati¬ 
che. Mancherà a nostro figlio il fol¬ 
clore che è in tanti aspetti dell’edu¬ 
cazione cattolica: forse non riuscire¬ 
mo a evitare che soffra nel vedersi 
escluso da feste mistico-mondane 
come la prima comunione e la cre¬ 
sima. E qui si apre un’altra questio¬ 
ne: quella complessa della scuola 
pubblica, che in Italia è purtroppo 
tale da far sentire a disagio un bam¬ 
bino di educazione non cattolica. 

Abbiamo soppesato questi incon 
venienti, ma abbiamo ugualmente 
concluso per il no al battesimo. Sba¬ 
gliamo? In ogni caso c preferibile 
sbagliare per voler essere coerenti e 
onesti che sbagliare per viltà: c sa¬ 
rebbe vile adagiarsi senza convinzio¬ 
ne nella comodità di una fede che 
non si condivide e aprire in tale 
equivoco la vita di un nuovo essere. 
Ci capirà il figlio? 

A parte i casi irritanti di certi 
massimalisti esasperati — che ma¬ 
gari fanno la ” fronda di sinistra 
in partiti di sinistra e strillano con¬ 
tro tutti i compromessi politici per 
poi cedere quando avrebbero la pri¬ 
ma occasione personale di mostrare 
in concreto la propria intransigen¬ 
za — non pretendo certo di condan" 
nare tutti quei socialisti, comunisti, 
radicali, republicani, che si sposano 
in chiesa e magari mandano i figli 
nelle scuole confessionali. Le ragioni 


_ 


36 









possono essere molte. Certo, sareb¬ 
be più facile agire verso i tìgli in 
coerenza ai propri principi se tutti 
i non cattolici rispettassero anche 
nella forma le loro concezioni. 

Alcuni elementi oggettivi, anche 
se di non facile valutazione ( come i 
risultati elettorali e la presumibile 
frequenza delle chiese) dimostrano 
che i non cattolici in Italia sono as¬ 
sai più numerosi di quanto risulti, 
per esempio, dalle statistiche dei ma¬ 
trimoni civili. Come possiamo la¬ 
mentarci della cosiddetta invadenza 
cattolica, se siamo noi ad autoriz¬ 


zarla con la nostra tiepida pigrizia? 

L’argomento si presta anche ad 
alcune considerazioni di natura poli¬ 
tica contingente. Proprio perché cre¬ 
do nella necessità di un’organica col¬ 
laborazione politica fra le sinistre e 
i cattolici, ritengo che tale coalizione 
possa essere profìcua solo a patto 
che ciascuno dei due contraenti con¬ 
servi integro il proprio patrimonio 
ideologico, a evitare contaminazioni 
che ridurrebbero anche il centnrsini- 
stra al livello di un espediente tatti¬ 
co senza nerbo né costrutto. 

Perché il centro-sinistra mantenga 


le promesse di una spinta effettiva 
verso una società migliore, occorre 
che i cattolici siano veri cattolici e i 
socialisti veri socialisti. E’ d’altron¬ 
de un ragionamento ovvio. Ho te¬ 
nuto a precisare la mia piena ade- 
sone alla politica di centro-sinistra, 
per chiarire che il mio ” no ” al 
battesimo è dettato non da astio o 
diffidenza verso i cattolici, ma dal 
rifiuto a entrare nella babele spiri¬ 
tuale che nell’Italia d’oggi sbiadisce 
troppo spesso i confini fra le diverse 
posizioni ideologiche. 

8ERGIO TERONE 


Diario politico 


Bilancio laburisia 

S E . E’ vero che andiamo verso il pubblico finan¬ 
ziamento dei partiti, secondo il modo tedesco, bi¬ 
sognerà ovviamente pretenderne la pubblicità dei bi¬ 
lanci, secondo l’esempio inglese del Partito Laburista. 

Esponendo il bilancio del L.P. per l’annata 1962, 
' EcoHowist ha scritto che la chiarezza e correttezza 
di questa amministrazione di partito desterebbe l’in¬ 
vidia di molti risparmiatori e detentori di azioni, cui 
piacerebbe vedere con altrettanta trasparenza nella 
gestione di molte società anonime. La caratteristica 
del bilancio laborista è infatti duplice, e anzitutto, 
c be i conti sono ormai controllati da pubblici uffi¬ 
ciali , quei ” professional auditors ”, che ne attestano 
l’esattezza con la loro sigla, apposta per la prima vol¬ 
ta nel 1962 sotto il bilancio di un partito, con la 
formula di rito: ” audit fees 

La seconda caratteristica è che il Labour rende 
conto ai suoi iscritti e al pubblico dell’impiego che 
fà del proprio denaro. Questo va, in parte, a costi¬ 
tuire un ” fondo elezioni ”, che è alimentato per lo 
P>ù dai contributi delle Trade Unions; in parte, a 
spese di gestione ordinaria; in parte infine ad acquisto 
di titoli di attendibile stabilità, buoni del tesoro a bre¬ 
ve scadenza, od obbligazioni di aziende nazionaliz¬ 
zate. C’è stato un solo caso di impiego arrischiato, 
lungo la storia del Labour, e YEconomist lo ram¬ 
menta con indulgente ironia: fu quando il Tesoriere 
si attentò ad acquistare obbligazioni delle Tranvie 
comunali di Buenos Ayres. L’investimento fu una 
sciagura: si comprarono per 350 sterline titoli che 
ne valgono adesso 35. Questa storditezza non si ri¬ 
peterà mai più. Si vorrebbe anche sapere a quale de¬ 
stinazione sono propriamente riservate le 500 ster¬ 
line del capitolo ” incerti ” dell’uscita. 

Sarà bene ricordare che nessuno è amministratore 
del partito per mestiere: il tesoriere è — come il 
segretario dell’Esecutivo — una figura politica, no¬ 


minata dal Congresso. Però il tesoriere non può can¬ 
didarsi deputato. Dal suo esempio deriva poi che i 
funzionari di partito, nel Labour, devono egualmente 
rinunziare alla carriera politica. Questo li mette al 
coperto dalla pressione che amici o nemici del La¬ 
bour, con i quali sono messi in contatto per il loro 
ufficio, possano voler esercitare su di loro; e d’altra 
parte, consente loro di restare nell’amministrazione 
del partito, e nella sua organizzazione, qualunque 
sia la frazione o corrente che prevale in congresso. 
Non sono ” creature ”, ma dignitosi impiegati del 
partito. 

Buddismo liberale 

ci sarebbe bisogno di dirlo: quello che si batte 
mortalmente dinanzi alle furie della famiglia Diem, 
non è un qualunque buddismo. Ma per intenderne la 
forza « liberale » è bene scorrere il libro, di Ernst 
Bcnz, sulla « Rinascita del buddismo e l’avvenire del¬ 
l’Asia ». Il Benz ha preparato il suo lavoro durante 
un periodo di insegnamento a Tokio, e poi viaggiando 
in più paesi dell’Asia, dallq Birmania all’India, e 
raccogliendo l’impressione che il buddismo, niente 
af fatto come filosofia ma come religione popolare, stia 
riassumendo un’importanza politica diretta, che non 
aveva forse mai avuto in precedenza. 

Il buddismo, per il suo intrinseco pacifismo, offre 
alla propaganda comunista un facile adito. Ma questo 
non significa affatto che i buddisti siano compagni 
di strada, anche se, rammenta il Benz, la Cina di Mao 
ha ritenuto opportuno patteggiare con essi. Ma è bud¬ 
distica l’ispirazione di U Nu ( Birmania), che ha fonda¬ 
to ad esempio sui principi della dottrina religiosa la sua 
riforma agraria. « Realtà di questo tipo e il modo come 
l'indipendenza di popoli come quelli del Laos e del 
Vietnam, di Ceylon, coincida con la rinascita del bud¬ 
dismo, non sono tenuti nel debito conto dall’Occi¬ 
dente, che ignora tutto della funzione del buddismo 
nel suscitare l’esigenza di uno sviluppo sociale mo¬ 
derno nel continente asiatico ». 

C’è dunque anche nei sudditi di Diem qualche 
cosa di diverso dal fanatismo di qualche stilita. I cat¬ 
tolici, come si usa dire, non ci possono niente: sarà. 
Non è detto, però, che abbiano capito, o ci abbiano 
aiutato a capire. 

SERGIO ANGEI.I 


37 


















Libri 


Documenti sulla Sicilia 


Libro bianco sulla Sicilia 
a cura di Antonio Signorino 
Ed. Famiglia Siciliana di Milano, 
/>/>. %>3, L. 4000 

CCO del materiale di prima ma¬ 
no, capace di ridimensionare 
l'entusiasmo del più ottimista Ira 
i riformatori. Consigliamo di salta¬ 
re elegantemente la prefazione del 
presidente della Famiglia siciliana, 
avv. Perroni, con la sua retorica 
grottesca, da Circolo dei civili, sul¬ 
la * bella Isola ». Si passi subito al¬ 
le cifre. Case, scuole, comunicazio¬ 
ni, condizioni igieniche e sanitarie, 
posti di lavoro, emigrazione, buro¬ 
crazia inetta. La prima parte e de¬ 
dicata agli interventi dei sindaci 
durante il convegno tenuto a Ca¬ 
stroreale Terme nel febbraio-mar¬ 
zo 1962; la seconda parte — 600 
pagine fitte — contiene le risposte 
dei sindaci a un ottimo questiona¬ 
rio sulle condizioni dei loro comuni. 

Vien fuori una radiografia scon¬ 
certante della Sicilia; una regione 
in cui la realtà nuova stenta a cre¬ 
scere tra le crepe di una struttura 
economica sociale ed etica ancora 
dominata dalla miseria e dalla fra¬ 
gilità delle istituzioni statali. Le 
zone di sviluppo appaiono isolate 
dentro sacche di depressione va¬ 
stissime. « In definitiva — osser¬ 
va uno degli amministratori locali 
— si è creato un nuovo conflitto 
tra zone di benessere e zone de¬ 
presse nella stessa Sicilia Questo 
conflitto, invece di fermare il flus¬ 
so emigratorio lo ha aggravato ». 
Aumenta il costo della vita, si ge¬ 
neralizzano le esigenze nuove, sen¬ 
za che vi corrisponda un aumento 
adeguato dei posti di lavoro. La 
frattura tra l’« osso » e la « pol¬ 
pa ». tra le zone dell’interno e quel¬ 
le costiere diventa sempre più pro¬ 
fonda. « Il miracolo economico nei 
nostri paesi — afferma il sindaco 
di Realmonte, in provincia di Agri¬ 
gento — consiste in questo: lei ve¬ 
de coabitare l'asino e la capra col 
padrone. Vediamo passeggiare an¬ 
cora per le strade il maiale, e non 
possiamo dire niente, anzi lo dob¬ 
biamo ossequiare perchè il maiale, 
una volta venduto, dà anche pos¬ 
sibilità di avere un po’ di vita ». 

I sindaci sono dei testimoni senza 
speranza, che vivono la miseria dei 
loro Comuni e la denunziano, ma 
mancano di qualsiasi strumento per 
intervenire. L'impotenza dei Co¬ 
muni. anche se scontata, è sem¬ 
pre il dato più preoccupante, per¬ 
chè impedisce il sorgere delle ini¬ 
ziative locali, la formazione di una 


classe amministrativa efficiente e 
corretta e aggrava la sfiducia tra¬ 
dizionale nelle istituzioni dello Sta¬ 
to. « L'assessore alle finanze e 1 am¬ 
ministratore dei debiti del Comu¬ 
ne ». La Regione è rimasta una so¬ 
vrastruttura burocratica, incapace 
di mettere radici nel tessuto ammi¬ 
nistrativo preesistente. Appiccichia¬ 
mo a questo carrozzone, come vo¬ 
leva Salvemini, il cartello piran¬ 
delliano « ma non è una cosa seria ». 
Una Regione fondata sull’impoten¬ 
za dei Comuni è un non senso, in 
altre parole è l’opposto di una 
seria iniziativa federalista che trag¬ 
ga vigore dal potenziamento degli 
istituti e delle energie locali- 
I sindaci vengono ricevuti negli 
uffici assessoriali soltanto in deter¬ 
minate ore, alle U del mattino; a 
Roma, nei ministeri, il limite è in¬ 
vece l'orario normale d’ufficio. E 
un dato minimo, ma significativo 
della scarsa considerazione della 
burocrazia regionale per i proble¬ 
mi dei centri minori. Le denunzie, 
ovviamente, fioccano. A S. Marina 
Salina, nelle isole Eolie, dovrebbe 
essere ampliato l'edificio scolasti¬ 
co costruito in seguito alla legge 
Tupini; il finanziamento c'è dal 55, 
ma è necessaria l’autorizzazione di 
una commissione che dovrebbe sce¬ 
gliere l’area (l’area è quella che 
è, bisogna solo aggiungere delle au- 
le a un edificio esistente). Comun- 
que. « dal 1955 — afferma il sin¬ 
daco — la Commissione non può 
ancora venire a S. Marina Sali¬ 
na. Va bene che ci separa il mare, 
però è noto quale incremento tu¬ 
ristico hanno avuto le isole Eolie e 
quanta gente ci va per distendersi 
e ricrearsi un pochino Una signo¬ 
ra si è offerta di ospitare durante 
l’estate, come se dovesse essere una 
gita, i rappresentanti della Commis¬ 
sione. Neanche così è stato possi¬ 
bile, perchè i rappresentanti com¬ 
ponenti la commissione sono cin¬ 
que e bisogna metterli d'accordo ». 

L’impotenza dei Comuni — che 
dovrebbero essere gli strumenti 
operativi della Regione nelle varie 
situazioni locali — può spiegare il 
persistere di disagi assurdi e 1 as¬ 
senza delle decisioni delle autori¬ 
tà competenti. Citiamo alla buona, 
dagli interventi dei sindaci, alcu¬ 
ni casi tipici che. pur nel loro estre¬ 
mismo. sottolineano una situazione 
ancora diffusa. Ad Augusta, che e 
chiusa da una cinta ferroviaria, non 
si è potuto costruire finora un ca¬ 
valcavia. Le conseguenze: « Quan¬ 
do ci sono gli operai dentro la raf¬ 
fineria o dentro la cementeria o 
dentro qualche altro stabilimento 


che si infortunano e li portano col¬ 
l'ambulanza all'ospedale, arrivano 
dietro a questa cintura dove ce 
il passaggio a livello e muoiono m 
macchina. Questi sono episodi av¬ 
venuti. non è che sono episodi che 
si dicono possano avvenire; sono 
avvenuti, questi episodi. Arriva la 
macchina dietro il passaggio a li¬ 
vello, l'operaio muore, e quando u 
passaggio a livello si apre lui e 
morto e non se ne parla più »• 

« Al mio paese — dice il sinda¬ 
co di Casalvecchio Siculo, in pro- 
vincia di Messina — ci sono posti 
in cui non si può andare nemme¬ 
no con l’asino, e quando capitano 
casi e il medico, che arriva sul 

posto dove c’è la partoriente dopo 
aver percorso 5 ore di mulattiera, 
dice che occorre ricoverare la ge¬ 
stante in ospedale a Messina, allo¬ 
ra corrono tutti gli uomini della 
zona, si strilla, si suona la trom¬ 
ba, prendono due assi di legno, una 
coperta per coprire la povera don¬ 
na e la trasportano cosi per lz cm- 
lometri fino ad arrivare al punto 
in cui è possibile trovare un mez¬ 
zo di trasporto ed una strada che 
può essere percorsa da un mezzo 
di trasporto: insomma, prima d* 
arrivare a Messina uno ha il tempo 
di morire quando gli pare e piace »• 
Ma le partorienti di Casalvecchio 
possono ritenersi fortunate. Fonda- 
chelli-Fantina. sempre in provincia 
di Messina, è un paese di 2000 abi¬ 
tanti completamente isolato dal re¬ 
sto del mondo. « Per farsi un'idea 
della tragica situazione in cui si 
trova quella popolazione, basti pen¬ 
sare che recentemente, dovendo 
una povera donna dare alla luce 
una creatura, e non potendo avere 
aiuto sul luogo da parte dei sanitari 
assistenti, ha partorito in mezzo al 
torrente all’addiaccio senza alcu¬ 
na assistenza adeguata e nella com¬ 
pleta oscurità »- 

A questo punto, sembra irrile¬ 
vante che in una frazione di Ca¬ 
salvecchio vivano 125 pensionati, 
i quali per riscuotere la pensione 
devono fare ogni volta 12 chilo¬ 
metri di mulattiera, scavalcare la 
catena de; monti, da quota 400 sa¬ 
lire a 800 e poi rifare il cammi¬ 
no di ritcrno: con acqua, neve, ven¬ 
to d’inverno. Il progetto di una 


anni: nel frattempo, abbiamo fatto 
una mezzo dozzina di guerre e con¬ 
quistalo un impero; ma quei pensio¬ 
nati continuano a fare gli atleti. 
Si parla sempre di infrastrutture. 
Gli operai — più di trecento — che 
si recano ogni giorno a Mazzarà 
dai paesi limitrofi, devono attra¬ 
versare un torrente e d'inverno so¬ 
no costretti a buttarsi nell'acqua 
e passarlo a guado come i guerrieri 


38 











di Nube Rossa. Rischiano di pren¬ 
der-; la polmonite, di non tornare 
Più, per 1500 lire. 

Sorvoliamo sul panorama gene¬ 
rale: mancanza di scuole, di case. 
Paesi di 15.000 abitanti con elen¬ 
chi di poveri di 5000-6000 persone 
(invidiati«simi i posti di bidello, 
pagati dalle 12 alle 18 mila lire 
al mese/. Vogliamo rilevare un'al¬ 
tra critica di fondo che i sindaci 
Muovono al governo regionale: tra 
le difficoltà e gli squilibri di un 
processo di sviluppo che interessa 
certe zone dell'isola, solo il governo 
regionale pot’/ebbe limitarne lo 
svolgersi incontrollato e casuale, 
fornendo quell'apporto di studi e 
di volontà necessario per inqua¬ 
drare l e iniziative pubbliche e pri¬ 
mate in un piano unitario di svi¬ 
luppo. Proprio qui, invece, esso ri¬ 
vela le sue carenze più gravi. 

Questa realtà dovrebbe essere te¬ 
nuta sempre presente dagli studio¬ 
si della questione meridionale. E’ 


Demografia e controllo «Ielle 
nascite 

di Vittoria Olivetti Berla 
Editori Riuniti, pp. 207, L. 900 

CE IL ritmo di incremento del- 

^ l’umanità dovesse protrarsi 
indefinitamente, tra qualche secolo 
non ci sarebbe posto nemmeno in 
Piedi per gli uomini sulla terra e 
R loro peso complessivo supere¬ 
rebbe quello stesso del pianeta ”, 
Questa frase terribile fu pronun¬ 
ciata da Sir Charles Darwin, del¬ 
l'università di Cambridge, al con¬ 
vegno intemazionale di Vevey del 
I960, cui parteciparono centinaia 
di studiosi di tutto il mondo, fra i 
Quali il premio Nobel Daniel Bo- 
vet. Charles Darwin, nipote del 
grande naturalista e autore del li¬ 
bro Fra un milione di anni, in¬ 
tendeva biasimare l’ottimismo di 
coloro che negano i pericoli della 
sovrapopolazione. e indicare nel 
controllo delle nascite una urgente, 
legittima difesa dell'umanità. 

Gli uomini politici italiani, a dir 
la verità, qualche cosa avevano fat¬ 
to per limitare il flagello della su- 
Pernatalità nel loro paese. Dieci an¬ 
ni fa — e precisamente il 27 no¬ 
vembre del '53 — trenta di essi 
avevano presentato una proposta 
di legge su iniziativa dei deputati 
Luigi Preti. Giancarlo Matteotti e 
altri, perchè fosse abrogato l'arti¬ 
colo 553 del codice penale che vieta 
la propaganda anticoncezionale, 
relitto del codice fascista Rocco e 
malinconico ricordo del tempo in 
cui ” il numero era potenza ” e ” la 
maternità stava alla donna come la 
guerra all’uomo E' chiaro che 
Questo articolo contrasta con quei 
diritti della persona umana (la pro¬ 


facile tracciare un piano di svi¬ 
luppo che nella teoria è perfetto e 
funzionale; ma bisogna chiedersi 
poi di quali strumenti si può di¬ 
sporre per la sua realizzazione. 
Va bene l’intervento pubblico pro¬ 
grammato, ma come potrebbe svol¬ 
gersi con una burocrazia periferica 
— oltre che centrale — cosi inade¬ 
guata e irresponsabile? Eppure 
queste deficienze tradizionali della 
situazione del Mezzogiorno sono 
anch’esse dei dati reali del pro¬ 
blema. dovrebbero perciò influen¬ 
zare l’elaborazione stessa di un di¬ 
segno di riforma, non essere consi¬ 
derate solo come difficoltà di rea¬ 
lizzazione di esso. E’ sperabile che 
l’ottimismo proprio di ogni rifor¬ 
matore si riduca fortemente negli 
studiosi meridionalisti, e lasci più 
margine ai fattori umani e sociali 
che condizionano negativamente le 
possibilità di progresso del Mezzo¬ 
giorno. 

Si*. 


creazione volontaria è uno di que¬ 
sti diritti) che la Costituzione ri¬ 
conosce in tutti i suoi articoli. 

Malgrado il largo schieramento 
politico espresso dalle firme dei pre¬ 
sentatori (tutti i partiti vi erano 
rappresentati, meno i democristiani 
e i fascisti) la proposta di legge 
per l’abrogazione dell'articolo 553 
non fu nemmeno portata in aula 
per la discussione e solo se ne trat¬ 
tò in sede di commissione di Sa¬ 
nità, dove ebbe 20 voti favorevoli 
e 20 contrari. Malgrado questo il¬ 
liberale atteggiamento della mag¬ 
gioranza, il problema del controllo 
delle nascite e di tutti i problemi 
relativi continuò ad essere agitato 
nel paese da un ristretto ma ag¬ 
guerrito manipolo di esperti e di 
pubblicisti e furono anche creati 
alcuni centri per l’educazione de¬ 
mografica allo scopo di istruire gli 
strati più incolti della popolazione 
(specie del Sud) sul pericolo di 
mettere al mondo troppi figli e sui 
mezzi per evitarli. 

Il libro recente di Vittoria Oli¬ 
vetti Berla (con prefazione di Ce¬ 
sare Musatti) offre una documen¬ 
tazione quanto mai ricca e precisa 
suH’argomento e fa il punto della 
situazione, così come essa si pre¬ 
senta proprio a dieci anni di di¬ 
stanza da quando si cominciò ad 
agitare il problema di fronte al¬ 
l'opinione pubblica italiana. 

Vittoria Olivetti Berla, pioniera 
espertissima, parte da molto lonta¬ 
no e si rifa ai costumi dei popoli 
antichi, racconta le vicende trava¬ 
gliate di tutti coloro che intuirono 
i pericoli dell’eccesso di popolazione 
e tentarono di mettervi riparo, gli 
aspetti psicologici e fisiologici del 
problema, il parere dei demografi 
e degli economisti e soprattutto il 


punto di vista della chiesa catto¬ 
lica ostile, per principio, ad ogni, 
pratica anticoncezionale. Sotto que¬ 
st’ultimo aspetto, però, qualche cosa 
si muove, qualche cosa cambia e 
anche il concilio ecumenico non 
potè fare a meno di occuparsi e 
preoccuparsi della esplosione demo¬ 
grafica di cui soffre la terra, e pei 
la quale su tre miliardi di abitanti 
due sono affamati. Parlare di so¬ 
vrapopolazione significa necessaria¬ 
mente parlare di controllo delle na¬ 
scite e in questa seconda fase del 
Concilio è augurabile che ”si faccia 
entrare nella chiesa un po’ di aria 
fresca ”, secondo il consiglio di Gio¬ 
vanni XXIII. 

Chi segue la stampa straniera sa 
che sempre più si diffonde, anche 
fra esponenti cattolici, il concetto 
che quello del controllo delle na¬ 
scite è un problema di coscienza, 
sul quale è opportuno non interve¬ 
nire e che va lasciato alla libera 
decisione dei coniugi i quali sono 
i migliori giudici di quanto riguar¬ 
da l’accrescimento della famiglia, in 
base ai loro mezzi finanziari, alle 
loro condizioni di salute, all'allog¬ 
gio, al lavoro. Molto peso esercita 
anche la emancipazione della don¬ 
na, perchè oggi essa è diversa co¬ 
me temperamento, istruzione, abi¬ 
tudini, aspirazioni dalla supina 
” madre prolifica ” che doveva for¬ 
nire la ” carne da cannone ”, Oggi 
la donna, cosi come sceglie la sua 
strada e il suo avvenire, decide sul¬ 
la sua maternità, che vuole deside¬ 
rata e volontaria, perchè i figli van¬ 
no accolti festosamente e non ac¬ 
cettati rassegnatamente perchè sot¬ 
traggono agli altri il poco spazio, 
il poco cibo, la poca pazienza dei 
genitori. 

Gli scienziati di tutto il mondo 
sono oggi allo studio per trovare 
mezzi contracettivi di sicuro effet¬ 
to e di facile impiego e sopratutto 
non nocivi alla salute. Il «netodo 
Ogino Knaus che. nel 1950, fu in¬ 
dicato da Papa Pacelli nel suo di¬ 
scorso alle ostetriche come il solo 
lecito per i cattolici, perchè basa¬ 
to sulla ” continenza periodica ” si 
è rivelato di esito incerto e di dif¬ 
ficile applicazione, specie in quel¬ 
le zone depresse ove la disciplina 
degli istinti e l’istruzione difettano. 

Il libro della Olivetti tratta an¬ 
che questo aspetto diremmo tecnico 
sulle diverse pratiche anticonce¬ 
zionali oggi in uso nel mondo, sul¬ 
la loro sicurezza e sui loro riflessi 
fisici e psichici e spiega assai bene 
ed esaurientemente che il controllo 
delle nascite non ha niente a che 
fare con l’aborto, che va respinto 
come pericoloso e moralmente con¬ 
dannabile, mentre purtroppo vi si 
ricorre con deplorevole leggerezza. 
E’ chiaro che esiste un abisso fra 
una misura igienica preventiva 
e un’operazione chirurgica che spe- 
gne, comunque, una scintilla di 
vita. 

Anna Garofalo 


Due miliardi di affamali 


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QUESTO E' ACCADUTO IN SPAGNA