Uastrdabio
proliemi deliavita italiana
Anno II — N. 5
10 marzo 1964
Una copia lire 100
LE RIFORME
E LA
CONGIUNTURA
UN INEDITO DI SAIVEMN
LA SINISTRA NELL'UNIVERSITÀ
ERNESTO ROSSI: QUATTRO DITA DI GIUNTA
L'ASTROLABIO Via XXIV Maggio, 43 • Roma • Spedizione in abb. post. • Gr. II
Lettere
Liiiìinacci e Vantifascismo
Illustre Senatore,
non sarà certo rivolgendomi a Lei
che invocherò disposizioni di legge
per rispondere all’attacco di Erne¬
sto Rossi sul numero 4 di Astrolabio;
so che mi basta rivolgermi alla Sua
correttezza e alla Sua lealtà, alle
quali faccio appello con tanto mag¬
gior calore, in quanto se l’attacco
di Ernesto Rossi mi colpisce è so¬
prattutto, e forse soltanto perché
apparso sulla rivista che porta il
Suo nome, e quindi dal Suo nome
trae autorità.
Ernesto Rossi, all’articolo in po¬
lemica con il mio del Corriere della
sera a proposito del * Vicario », ha
creduto utile aggiungere una nota
del tutto estranea alla discussione,
nella quale mi accusa di essere sta¬
to « dalla parte dei manganellatori »
per esser apparso fra i principali
collaboratori del settimanale Oggi,
che < esaltò le teorie fasciste, il Du¬
ce, il Fuehrer... e mise In burletta
le teorie liberali e democratiche, la
civiltà occidentale, gli americani,
gli inglesi, gii ebrei ». Su questo set¬
timanale io ho scritto articoli fa¬
scisti, che il Rossi definisce « vere
calze di seta piene di sterco ».
Lo stile villano dello scritto del
Rossi non mi scalfisce, nemmeno se
copiato da Napoleone, che definì ap¬
punto: c de la m... dans un bas de
soie » il principe di Talleyrand; mi
accontento di rispondere alla tradu¬
zione dal napoleonico del Rossi con
la traduzione del commento di Tal¬
leyrand: < che peccato che un cosi
grand'uomo sia tanto maleducato »,
dove lascio volentieri anche il gran¬
d’uomo; ma quello che non posso
ammettere è il tentativo non one¬
sto, e probabilmente al servizio di
altra polemica che non mi riguarda,
di falsare un aspetto dell’antifasci¬
smo che pure ha avuto la sua fun¬
zione e il suo coraggio.
Così dunque noi che dopo la sop¬
pressione di Omnibus ci raccogliem¬
mo nella redazione di Oggi per con¬
tinuare, e raffinare, e portare mag¬
giormente nel campo minato della
politica la formula del settimanale
soppresso, non saremmo stati che
corifei del Regime; non saremmo
stati che un’edizione più elegante
della prosa degli Appelius e degli
Interlandi. E va bene: ma allora
perché i sequestri? Perché gli at¬
tacchi ringhiosi o maligni della
stampa ligia? Perché a me e ad
altri venne finalmente proibito di
scrivere? Perché pure Oggi venne
soppresso? E d’altra parte; perché 1
consensi, l’attenzione, la trepida at¬
tesa dell’apparizione del giornale
nelle edicole, e tanta fiducia di quan¬
ti sapevano pur leggere?
Ho avuto con i comunisti tanti
scontri; ma nemmeno da loro mi è
venuta un’accusa come quella del
Rossi, e nei contrasti politici, come
nei contatti personali al consiglio
comunale di Roma ho sempre av¬
vertito verso di me, e ne sono loro
riconoscente, il rispetto almeno di
quel passato di scrittore; di quella
mia attività che parve loro abba¬
stanza chiara, quando non erano
che un pugno di cospiratori sempre
stretti fra 11 buio e la galera, per
inviare a me Antonio Giolitti pri¬
ma, il prof. Geymonat dopo, a sta¬
bilire attraverso me 1 contatti con
Tantifascismo liberale e con la corte.
Anch'essi, allora, seppero leggere e
capire; e deve venire Ernesto Ros¬
si, adesso, a parlare così! Che lo
facciano i missini; i giovani, che
nemmeno possono immaginare le
angustie che ci soffocavano, passi;
ma Ernesto Rossi?
L’amarezza che ne provo Le dica,
illustre Senatore, che ancora oggi,
in tanta trasformazione di sentimen¬
ti e atteggiamenti, vi è anche fra i
conservatori quale io mi onoro di
essere, chi si ribella e si sdegna se
vogliono togliergli il titolo e il van¬
to dell'antifascismo, e il diritto di
stare accanto a persone come Lei,
sia pure con umiltà di minorità.
Mi creda devotissimo
Manlio LupInaccI
Roma
Nessun bisogno di ricorrere alla
legge, ma un semplice impegno di
correttezza giornalistica ci avrebbe
indotto a pubblicare la lettera di
Manlio Lupinacci. Mi lascino dire
i lettori che solo il dovere della
riproduzione integrale m’impedisce
di sopprimere qualche passaggio
elogiativo che mi riguarda. Ma
poiché Lupinacci mi chiama per¬
sonalmente in causa, e nella sua
lettera rilevo due aspetti, uno per¬
sonale ed uno generale, devo dirgli
che solo il secondo può dar mate¬
ria di risposta e di discussione. Se
egli rivendica la sincerità ed il
fervore del suo sentimento di anti¬
fascista, non ha bisogno di ricor¬
rere ad altre testimonianze perchè
10 senz'altro ne debba prev*°r affo
Diverso pud essere il giudizio sul¬
le forme di cripto-antifascismo del
tempo e degli organi di stampa
cui si richiama Lupinacci. Nessu¬
no più alieno di me da intransi¬
genze moralistiche, facili soprat¬
tutto se postume. Nessuno più con¬
sapevole di me che il tempo * si¬
mili a sè pii uomini produce »; ed
11 tempo fascista ha dato un pro¬
dotto che ci vorranno ancora ven-
t’anni a liquidarlo. Ciò che non
conduce a indulgenze plenarie;
deve condurre, a mio parere, ad
t
equità, e più ancora a serenità di.
giudizio. Non mi sembra che la
rivendicazione di carattere gene¬
rale qui espressa possa essere ac¬
colta semplicisticamente come vor¬
rebbe la lettera qui riportata.
t. p.
Il brevetto dei medicinali
Egregio Sig. Direttore,
in merito all’inchiesta « Monopo¬
lio della Salute » vorrei fare qual¬
che considerazione su alcuni punti
trattati dal sig. La Cava non tanto
per polemizzare quanto per far co¬
noscere l’opinione di chi ha una
decennale esperienza nel mercato
farmaceutico italiano. Per evidenti
ragioni di spazio e per non abusare
della Vostra pazienza limiterò il mio
intervento ai due punti principali
trattati neU’inchiesta: La ricetta¬
zione INAM ed il Brevetto sui me¬
dicinali. Per sgomberare il campo
da qualsiasi malinteso faccio pre¬
sente di non essere alle dipendenze
di una Industria italiana od ameri¬
cana oggetto di analisi nella Vostra
indagine.
Al fine di mettere in evidenza la
proliferazione italiana delle ricette
mediche presso l’INAM, massimo
ente assistenziale italiano, il sig.
La Cava fa il raffronto con la si¬
tuazione inglese, e fa notare che
una parte della popolazione italia¬
na consuma almeno dieci volte più
medicinali di quanto non consumi
la popolazione inglese. Dimostra co¬
sì di aver centrato il massimo pro¬
blema del bilancio INAM, e, facen¬
do osservare che nessuna ragione
giustifica questa differenza nel con¬
sumo di medicinali, mette in evi¬
denza che nel sistema assistenziale
italiano qualche cosa non funziona.
A mio giudizio però il sig. La Ca¬
va sbaglia quando, per contenere la
proliferazione di ricette, tira in bal¬
lo il brevetto sui medicinali; è evi¬
dente che il brevetto non serve a
questo scopo. Perchè non pone in¬
vece la domanda, che è la più lo¬
gica: non sarà questo fenomeno do¬
vuto al fatto che in Italia 1 medici¬
nali sono completamente (salvo po¬
che eccezioni) gratuiti? In Inghil¬
terra si è arrivati a far pagare lire
170 per ricetta non tanto per ri¬
sparmiare i 37 miliardi calcolati dal
sig. La Cava, quanto per contenere
il numero delle ricette: quindi se
si è arrivati a pensare che il citta¬
dino inglese, che pur viene lodato
per 11 suo alto senso di civismo,
possa consumare meno medicine se
ogni volta che entra in farmacia
deve pagare una piccola quota, per-
(segue a pag. 4)
Anno n — N. 5
10 marzo 1964
L’astrolabio
problemi della vita italiana
DIREnORE: FERRUCCIO FARRI COMITATO DI REDAZIONE
Lamberto Borghi - Luigi Fossati - Anna Garofalo
Alessandro Galante Garrone - Gino Luzzatto
Leopoldo Riccardi - Ernesto Rossi - Paolo Sylos
Labtni - Nino Valeri - Aldo Visalberghi.
Redattore responsabile; Luigi Ghersi.
Sommario
Ferruccio Farri
Le riforme e la congiuntura ....
5
NOTE E COMMENTI
Roma - L'Europa delle buone intenzioni
7
Roma - L'eccezione e la regola ....
8
AHUALITA'
Roma - Il prezzo dei medicinali
9
Lorenzo Accardi
Cronache del centro-sinistra: Moro e i sin-
dacati ..
10
Federico Artusio
Il PSI alla prima prova . . . • .
12
Luciano Bolis
Lettera da Parigi: L'alternativa del buonsenso
14
G. Calchi Novati
Il conflitto somalo-etiopico: Il confine con-
testato ..
16
Max Salvadori
Commento a cose del Messico ....
18
Anna Garofalo
1 processi agli ex nazisti: Non perdonare nè
dimenticare.
20
L J.
Il Congresso dell'UGI: La sinistra nell'Uni-
versità .
26
INCHIESTE
Dibattito sul divorzio: Fantasmi e statistiche
31
Ernesto Rossi
Pio XII, Paolo VI e gli ebrei: Quattro dita di
DOCUMENTI
giunta.
21
Gaetano Salvemini
Cristianesimo e clericalismo ....
34
RUBRICHE Sergio Angeli
Diario politico - Cuba: di nuovo al roll-back;
1 nazi, uno per uno; Aperto rimpianto;
La legge dell'ortogenesi ....
28
Libri - Il socialismo dei non impegnati .
39
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Tipografia GATE, Via dei Taurini 19, Roma •
(sCEue da paE- 2)
ché la stessa cosa non viene attuata
anche in Italia?
Apparentemente questa soluzione
può sembrare impopolare e nessu¬
no osa proporla anche se è la più
semplice e la sola capace di elimi¬
nare il progressivo aumento della
spesa di medicinali, vero tallone di
Achille dell’attuale sistema assisten¬
ziale italiano. Però continuando a
voler ignorare l’evidenza solamente
per tema deU’impopolarità si rischia
di scivolare verso la demagogia. Se
si provasse a spiegare in modo chia¬
ro quali vantaggi deriverebbero ai
mutuati se l’INAM potesse ridurre
le spese di medicinali a favore di
una migliore e completa assistenza
ospedaliera io penso che tutti capi¬
rebbero l’utilità della piccola quota
a carico del mutuato. L’attuale go¬
verno volendo potrebbe avere l’au¬
torità e la forza di attuare questa
riforma nell’interesse dei mutuati e
per un miglior funzionamento del
sistema assistenziale.
L’istituzione del Brevetto sui me¬
dicinali oltre ad allineare l’Italia
con gli altri paesi del MEC, a sal¬
vaguardare gli interessi delle indu¬
strie che impegnano ingenti capitali
nella ricerca scientifica, avrebbe il
grande merito di risanare il merca¬
to farmaceutico italiano e di mora¬
lizzarlo stroncando la proliferazione
delle specialità. Il brevetto sul pro¬
cedimento è da preferirsi perché
lascierebbe la possibilità di arrivare
allo' stesso preparato con una sin¬
tesi diversa, quindi attraverso la
ricerca dei minori costi di produ¬
zione si arriverebbe al minor prezzo
dei medicinali: questa è la vera con¬
correnza più che la cessione auto¬
matica (la sintesi dei cortisonici in¬
segni). Il brevetto sul procedimento
implica una esauriente documenta¬
zione di tutto il processo di sintesi,
attraverso la quale è facile calco¬
lare il reale costo di produzione.
Il proporre che il Ministero della
Sanità acquisti il laboratorio d’ana¬
lisi delle farmacie comunali di Reg¬
gio, quale strumento per tagliare i
favolosi guadagni degli industriali
farmaceutici attraverso l’analisi dei
costi, oltre ad essere semplicistico
dimostra scarsa conoscenza delle
possibilità dei laboratori d’analisi.
Per calcolare il costo di una specia¬
lità medicinale bisogna conoscere il
procedimento di sintesi qualora si
tratti di un prodotto di sintesi (qui
si rivela utile il brevetto perché
descrive il procedimento di sintesi),
oppure sommare il costo dei sin¬
goli componenti tenendo come base
il prezzo internazionale della ma¬
teria prima. In questo secondo caso
si può analizzare se i componenti
corrispondono per numero e percen¬
tuale alla formula dichiarata, ma
per fare queste analisi meglio sa¬
rebbe se il Ministero si rivolgesse
all’Istituto Superiore di Sanità.
L’istituzione del brevetto porterà
sicuramente un profondo sconvol¬
gimento nel mercato farmaceutico
italiano, ma non bisogna credere che
esso porti vantaggi unicamente alla
grande industria: nei paesi dove esi¬
ste il brevetto la media industria
non è sparita, perché se esso verrà
ben applicato agirà nell’interesse
pubblico come difesa dal furto sen¬
za concedere niente alla specula¬
zione.
Una specialità coperta da brevet¬
to potrebbe essere presentata alla
classe medica in modo serio da col-
laboratori altamente qualificati. La
spinta corruttrice o massicciamente
pubblicitaria sui medici (per usare
le parole stesse del slg. La Cava)
si verifica quando più ditte devono
spingere il medesimo identico pro¬
dotto; in questo caso le ditte serie
si basano sul loro nome, sostenuto
da una lunga tradizione di serietà
e forti della propria attrezzatura
tecnico-scientifica, mentre le pseudo¬
ditte non potendo vantare gli stessi
requisiti agiscono sul medico cor¬
rompendolo con quel sistema chia¬
mato comparaggio. Quindi il bre¬
vetto impedendo la proliferazione
delle specialità e la sopravvivenza
di pseudo-ditte toglierebbe la ragio¬
ne d’essere al comparaggio, e si ri¬
velerebbe il più importante stru¬
mento di moralizzazione.
Dott. Luigi Ramello
chimico industriale
S. Damiano
La proposta di far concorrere il
mutuato alla spesa d'acquisto dei
farmaci, come misura atta a fre¬
nare acquisti non necessarf, mi
pare si possa avanzare solo quan¬
do tutti i cittadini abbiano diritto
gratuito alle medicine e quando
queste, soprattutto, non presentino
gli scandalosi prezzi odierni.
Precisato che, nel MEC, solo la
Francia ha doppio brevetto e che
negli altri Paesi esiste il solo bre¬
vetto di procedimento, e contestato
che in Italia l’industria impieghi
« ingenti capitali » in ricerche che
non siano puramente metodologi¬
che, convengo sulla proposta ael
lettore. Essa però va effettivamen¬
te verificata, e ciò potrebbe esser
fatto solo da una qualificata com¬
missione alla quale si demandasse
finalmente il compito di esaminare
il < problema brevetto » da un
punto di vista economico e non
soltanto giuridico,' come sin qui si
è fatto. Quanto al resto debbo dire
che, per controllare effettivamente
i prezzi, occorre, come che sia, che
il Minuterò della Sanità abbia ef¬
fettivamente dei propri tecnici del
ramo, e non vedo quale altra solu¬
zione esso possa adottare all’infuo-
ri di una partecipazione alla pro¬
duzione.
Rispetto al fatto che le < grandi
case » non ricorrano a sistemi ille¬
citi di concorrenza (comparaggio),
si potrebbero citare al contrario
tutti i clamorosi esempi registrati
anche recentemente dalla stampa,
e i 28 esempi fatti nel n. 12 del¬
l'Astrolabio.
E. 1. c.
La Repubblica €li Bonomi
Caro Direttore,
avrà conservato memoria di una
mia lettera sulla Federconsorzi in
Parlamento, ospitata sull’Asfrola-
lobio del 25 dicembre 1963.
Fra l’altro scrivevo che ad una
mia interrogazione del 24 otto¬
bre ’63 al Ministro dell’agricoltura
e delle foreste, per conoscere se
non avesse ritenuto opportuna la
pubblicazione dei tre fascicoli re¬
lativi alle gestioni ammassi, im¬
portazione olio e importazione gra¬
no della Federconsorzi. l'interro¬
gato alla data del 4 dicembre non
aveva ancora risposto.
Dopo quattro mesi, la caduta di
un governo e il cambio di un mi¬
nistro, in data 25 febbraio, la ri¬
sposta m'è venuta. A firma del-
l’on. Ferrari Aggradi, nuovo mi¬
nistro, ma vecchio lupo, come ci si
è accorti nel corso dello svolgi¬
mento dell’interpellanza e delle iti-
terrogazioni degli on. Avolio, Mi¬
celi e Renato Colombo sulla Fe¬
derconsorzi, nella seduta della Ca¬
mera di venerdì 21 febbraio 1964.
Trascrivo la risposta dell’on. Fer¬
rari Aggradi:
< La situazione economico-finan-
ziaria delle gestioni di ammasso,
affidate dallo Stato all’Organizza¬
zione Federconsortile nel periodo
1944 45-1961;62, è stata compilata
e messa a disposizione del Parla¬
mento in ottemperanza a quanto
chiesto con l’ordine del giorno pre¬
sentato al Senato della Repubblica
dal Sen. Bonacina ed altri, il 18
settembre 1963, nel corso della di¬
scussione dello stato dì previsione
della spesa di questo Ministero per
l’esercizio finanziario 1963-1964.
Non si ravvisa, pertanto, nè l’op¬
portunità nè la necessità che la
predetta situazione formi oggetto
di pubblicazione da parte di que¬
sto Ministero medesimo ».
Non conosco la dattilografa o
l’archivista cui è stato affidato
l’incarico di compilare il testo del¬
la risposta.
Certamente deve trattarsi di per¬
sona totalmente priva di humour.
Io avrei premesso aH’ultimo perio¬
do (...non si ravvisa ecc.) l’inciso:
data la irrilevanza dell'argomento
con quel che segue.
La repubblica bonomiana con¬
tinua.
Oh. Beniamino Flnocchlaro
Molfetta
4
U astrolabio
Le riforme e la congiuntura
DI FERRUCCIO FARRI
CI FA PRESTO a dir « politica dei redditi ». Ma
^ chi ha la forza e l’autorità per realizzarla? E’ la
formula ora corrente per indicare una politica che
nel processo di distribuzione del reddito tra i vari
gruppi sociali riesca ad evitare scosse disordinatnci
dell’equilibrio economico. L’ha invocata qualche eco¬
nomista allarmato tra il 1962 e 1963 dalle grandi
agitazioni sindacali e salariali e dal contemporaneo
salire dei prezzi.
Invero se si vuol ridurre la pressione che una
domanda surriscaldata esercita sul mercato dei wni
e dei servizi sollecitandone all’insù i prezzi, e quindi
i costi, parrebbe più razionale ed efficace agire alla
origine del ciclo che non alla fine, rincarando con ine¬
vitabile arbitrio ed imprevedibili ripercussioni 1 uno
o l’altro consumo. E’ meglio che la scelta sia operata
dallo stesso consumatore, al quale nei momenti di
stretta congiunturale una saggia politica equilibratrice
riduca la capacità di spesa.
C’è stato un economista che di fronte agli im¬
picci della realtà ha idoleggiato la figura del « buon
dittatore ». Fuori di questo mitico demiurgo chi sa¬
prebbe, chi potrebbe fare una politica saggia e ra¬
zionale? La politica la fanno i gruppi, le clasM, i
partiti secondo la linea dei loro interessi. L equilibrio
di una politica economica è il risultato di un rapporto
di forze, forze, beninteso, non solo numeriche.
Una politica nazionale dei redditi degna di questo
nome dovrebbe incidere su tutte le forme di reddito.
E se fosse costretta a rivolgersi alle retribuzioni dei
lavoratori e degli impiegati per poter toccare i con¬
sumi di massa, dovrebbe colpire insieme con peso
economicamente proporzionato il profitto deirimpren-
ditore e il reddito del capitalista. Come è possibile
farlo seriamente in Italia dove forse due terzi, almeno
del reddito mobiliare, sfuggono all’accertamento fi¬
scale?
Nessuno in Italia osa chiedere il blocco dei salari.
Almeno per ora. Tanto meno lo potrebbe fare un go¬
verno a partecipazione socialista; a parte la presenza
degli altri sindacati e la riflessiva prudenza dell’on.
Moro. Nemmeno il doti. Cicogna nutre pravi pensieri
— così egli assicura — in questa materia. Ognuno
misura le reazioni decise che ogni tentativo in questa
direzione provocherebbe. A buon conto agli squilli di
tromba di destra, hanno risposto, come nella Battaglia
di Maclodio, vigorosi squilli di tromba di sinistra.
La richiesta ai sindacati quindi si sfuma in un
appello alla comprensione ed alla collaborazione. La
CISL propone la sua ricetta del « risparmio contrat¬
tuale » che la CGIL non ama, e potrebbe tuttavia esser
impiegata se ed in quanto potrebbe contribuire a
risolvere il problema della casa. La CGIL contrap¬
pone la sua diagnosi di questa crisi congiunturale ed
il suo piano, noto nelle linee generali, non ancora
nelle argomentazioni e nei termini concreti che possono
permettere una più precisa valutazione.
Ma anche il Ministro Pastore, rifiutando decisamen¬
te ogni intervento dall’esterno, afferma che spetta ai
sindacati inserire nella vicenda economica le grandi ri¬
vendicazioni che possono giustificare una autonoma e
organica posizione di corresponsabilità nella politica
economica. Trasportiamo questo discorso ai sindacati
dei quali sono parte prevalente i comunisti, ed avremo
ancora una volta la conferma della infelicità di po¬
sizione di un governo costretto a chieder collabora¬
zione a forze esterne alla delimitazione della sua arca
polìtica, alle quali è quindi difficile pagare il prezzo
della collaborazione.
Forse l’appello televisivo dell’on. Moro seguito
al suo primo intervento può essere spiegato come un
tentativo di sbloccare su un piano psicologico e quasi
etico i limiti angusti ed angustiosi che l’anticomuni¬
smo istituzionale della Democrazia cristiana pone alla
libertà di azione di cui un governo ha bisogno tanto
più quanto si fanno stringenti le difficoltà; queste in¬
vero sono effettive, ma non di tal natura da giusti¬
ficare un grido d’allarme che come tale a molti è
parso inopportuno.
Quali siano tuttavia le difficoltà oggettive e dure
lo dicono certe risposte all’invito alla bilaterale fidu¬
cia rivolto ai cosiddetti operatori economici ed ai
lavoratori. Si inasprisce nei settori di destra, e più
fortemente dentro lo schieramento governativo che
fuori, la reazione virulenta contro ogni atto che abbia
apparenza di cedimento verso la parte comunista. Si
intensifica a sinistra il tiro di sbarramento contro ogni
concessione alla parte capitalista, contro ogni presun¬
to cedimento nel programma riformatore.
pUO’ DARSI che il nostro giudizio sia troppo
severo. Può darsi ch’esso non sappia rendersi
conto della ricettività di certe zone della opinione
pubblica. Certo questo incessante appellarsi all’auste-
5
rità ed alla fidiKÌa sembrano fatti per generare più
incredulità che tranquillità. E’ la coerenza, la conti¬
nuità dcH’azione di governo, la sicurezza di guida che
danno credito. Maschi sono i fatti, e possono esserlo
i discorsi quando hanno la concretezza del fatto e
del da farsi.
Ma lasciano perplessi le invocazioni all’unione na¬
zionale, giustificabili solo in casi di emergenza davvero
straordinaria, fuori dei quali ha ragione Riccardo Lom¬
bardi quando obietta all’on. Moro che non esiste una
interpretazione astratta dell’interesse generale della col¬
lettività, sempre da ricondurre, anche nei problemi
di apparenza tecnica, ad una azione, ad una scelta
politica.
Quando il Governo propone di frenare certe
direzioni delia spesa privata ed i suoi dirottamenti su
certi consumi, o di migliorare i circuiti di distribuzione
commerciale — a parte la valutazione della efficacia
specifica del provvedimento e dei sui effetti — sono
antiche distorsioni prodotte da un laisser faire pseudo¬
liberale cui si cerca di rimediare. Quando indirizza e
incoraggia gli investimenti pubblici e privati in dire¬
zioni conformi ad una politica di bassi costi di trasfor¬
mazione industriale e del basso costo della vita è un
programma democratico che si persegue.
Anche un’azione di stabilizzazione monetaria è
tecnica, è politicamente neutrale solo all’apparenza.
Essa ha come suo strumento principale il governo
del credito. L’alimentazione di credito a medio e
lungo termine dipende da criteri e scelte approvabili
se guardano a sinistra, disapprovabili se di apparte¬
nenza agnostica: il Governo ha obbedito ad una dura
necessità proporzionando alle ridotte possibilità at¬
tuali gli impegni di interesse pubblico e fa bene a
lasciar spazio agli investimenti necessari alla impresa
privata, fa male se non fornisce mezzi e non sblocca
di urgenza gli ostacoli all’applicazione della Legge 167.
E degli effetti delle restrizioni di credito a breve
termine è sempre il Governo che deve esser giudice
poiché ne è responsabile. L’inflazione ha un costo; la
disoccupazione un altro. Chi deve fare il bilancio?
Chi deve valutare la sopportabilità delle conseguenze
del difetto di credito di esercizio, soprattutto in atti¬
vità a particolari esigenze di turnover? Oggi è il
caso dell’attività edilizia. Ed un certo allarme oggi è
giustificato dal sommarsi di un rallentamento con¬
giunturale a lungo periodo con contrazioni particolari
e contingenti. E’ una somma che può dare una vera
depressione. La fisica delle vibrazioni insegna che il
pericolo del crollo nasce dal sommarsi delle armoni¬
che. E’ un giudizio politico che deve intervenire. Ma
è urgente che intervenga. Un mese di ritardo sarebbe
esiziale.
Una buona ragione può avere il Presidente del
Consiglio quando, ponendosi come interprete dello
interesse generale, intende forse avvalorare l’appello
che egli vuol rivolgere agli imprenditori ed ai rispar¬
miatori. Ed è una buona ragione alla quale sono meno
sensibili i socialisti fuori del governo, più facilmente
trascinati al nominalismo quando dimentichino che
operano in una società binomia, e che il capitale neces¬
sario alla sua vita è prevalentemente nelle mani del
cosiddetto « avversario di classe *. Molte manovre
della speculazione possono essere frustrate, se è pre¬
sente una volontà politica, come giustamente teda-'
mano i socialisti. Ma non vedo purtroppo manovre ef¬
ficaci contro lo sciopero bianco degli imprenditori e
dei capitalisti.
^lUNTI ad un nodo ormai critico della situazione,
prima politica che economica, è bene esser chiari
e sinceri. E’ ben fondato il bisogno di stabilità c di
tranquillità che riapra la possibilità delle previsioni e
delle prospettive. Non si tratta di rianimare le borse,
che nelle condizioni attuali di mercato così pericolo¬
samente manovrato sarebbe meglio chiudere, affidan¬
done forse ad altri organi le funzioni istituzionali. Non
si tratta di abbandonare in nessun punto una seria po¬
litica tributaria. Si può trattare di eliminare pastoie
burocratiche, di facilitare il rinnovo e l’ammoderna-
mento degli impianti, di non infierire contro l’autofi¬
nanziamento della impresa non monopolistica, di pro¬
porzionare il credito alle necessità dell’esercizio. La
fiducia seguirà. Nessuna contraddizione sin qui con una
impostazione di centro-sinistra, nulla del resto che i
sindacati non potrebbero accettare. Il dissenso nasce
quando si stabilisce una sorta di contrasto tra la po¬
litica di congiuntura e le cosiddette riforme di struttu¬
ra. E’ un dissenso oscurato anche dall’uso generico
ed improprio delle formule. Queste possono conte¬
nere una serie concatenata di obiettivi che conducano
ad una trasformazione socialista dell’assetto del paese,
fuori peraltro delle prospettive contrattuali, oltre che
temporali, del centro-sinistra.
E’ giusto, è doveroso che i socialisti non ripongano
in soffitta queste mete e queste speranze. Ma sin
quando possono restare nei confini degli impegni pro¬
grammatici assunti da questo governo non vi è nulla,
neppure la battaglia tributaria contro il cosiddetto
« profitto non guadagnato », che non appartenga ad
una impostazione soltanto democratica della politica
economica. Questa riposa su canoni precisi di politica
di prezzi, di controllo del credito, d’impiego della im¬
presa pubblica, ch’è premessa di una programmazione
selettiva.
Ha torto il Presidente del Consiglio quando non
riconosce che tra un’alternativa centrista ed una
cosiddetta, e mal detta, marxista è questa alternativa
democratica ch’egli ha sostanzialmente scelto, con
tutte le sue implicazioni, anche se non organicamente
dichiarate dal suo programma. Ha torto se non vede
che solo essa, nelle condizioni attuali della società
italiana, permette una interpretazione degli interessi
generali della collettività che non sia un equivoco
ripiegamento su posizioni centriste. Delle quali pur¬
troppo il discorso non è più ipotetico. Quanto accade
all’interno della Democrazia Cristiana non può non
richiamare una preoccupata attenzione. Rilanci massic¬
ci, già in preparazione — si direbbe — dal prossimo
Congresso nazionale alla fine dell’anno la prova, per
ora temuta, delle elezioni amministrative. Disgrega¬
zione, scarsa efficienza politica dei gruppi di sinistra;
rafforzamento corrispondente delle posizioni dorotee.
Il diminuito peso socialista seguito alla scissione,
l’incrinatura di alcune posizioni repubblicane, influi¬
scono sulle preoccupazioni di potere democristiane.
Se il controllo del partito regredisse verso il centro
difficilmente sarebbe evitabile una crisi al prossimo
I
Una politica economica seria, controllata, che eviti
regressioni di livello di attività economica e di occu¬
pazione, basta a reggere, a superare i momenti più
critici, a riportare alla normalità. Ma la fiducia dell’al¬
tra parte alla vita ed al successo di questo governo è
ancora più necessaria. Esso può averla, e la paga al
giusto prezzo, se impegna se stesso alla collaborazio¬
ne che chiede ai sindacati, CGIL compresa. L’aggra¬
varsi della condizione dell’economia ha creato una
situazione nuova, di maggior rischio, di maggior fra¬
gilità, nella quale la opposizione dei lavoratori sa¬
rebbe fatale alla sorte del Governo.
FEBBUCCIO PABBI
autunno. Ma chi può dire che ci si fermerebbe al
centro? E si aprirebbe un brutto periodo politico
d’incognite e di angustie che non potrebbe neppure
condurre allo scioglimento delle elezioni politiche,
inaccettabili dalla Democrazia Cristiana sin quando
fosse sotto il peso di congiunture politiche ed econo¬
miche sfavorevoli.
Anche sul piano politico questo Governo se vuol
salvarsi deve considerare la politica di congiuntura una
cosa sola, condotta con lo stesso spirito, secondo lo
stesso indirizzo, della politica di riforma. Non sul
mascheramento e sulla obliterazione del centro-sinistra
l’on. Moro può vincere la sua difiicile battaglia, ma
sulla sua più viva ed operante riaffermazione.
Note e commenti
ROMA
L’Europa delle buone intenzioni
TL MINISTRO Saragat ha conclu-
so alla Camera il dibattito sulla
politica estera ribadendo la posizio¬
ne e le prospettive del governo sui
più importanti e attuali problemi
internazionali. Per quanto concerne
la politica europea, Saragat ha ri¬
cordato che la maggioranza di cen¬
tro-sinistra tende alla realizzazione
di un’Europa unita, aperta alla Gran
Bretagna e a tutti i paesi del con¬
tinente disposti ad accettare i Trat¬
tati di Roma, associata agli Stati
Uniti d’America « in condizioni di
parità ».
Altrettanto esplicito, purtroppo,
il Ministro degli Esteri non è stato
sugli strumenti che il governo in¬
tende adoperare nell’ambito della
Comunità Europea per il raggiun¬
gimento degli obiettivi illustrati, in
una situazione che si fa di giorno
in giorno più chiusa a causa del¬
l’ostinata e coerente opposizione
della Francia ad ogni iniziativa eu¬
ropeista. Nè, sembra, possano in¬
fluire in modo determinante su que¬
sta situazione le uniche due pro¬
poste avanzate in febbraio al Con¬
siglio dei Ministri della CEE, l’una
dalla Commissione Esecutiva per
la fusione degli Esecutivi delle tre
Comunità Europee, l’altra dal mi¬
nistro Saragat per le elezioni dirette
e a suffragio universale del Parla¬
mento Europeo. La prima è, in de¬
finitiva, una proposta di natura tec¬
nica diretta a razionalizzare e a ren¬
dere più funzionali le istituzioni
della Comunità mediante la creazio¬
ne di un Esecutivo unico che avo¬
chi a sè le attuali competenze delle
Commissioni della CEE e dell’Eu-
ratom e dell’Alta Autorità della
CECA. Al nuovo Esecutivo non
sarà però attribuito alcun ‘ nuovo
potere e ogni sua decisione — ad
eccezione di alcune di natura eco¬
nomica che potranno essere adotta¬
te a maggioranza, in attuazione del¬
le norme del Trattato di Roma —
continuerà ad essere sottoposta al¬
l’esame del Consiglio dei Ministri
della Comunità, emanazione diretta
dei sci governi. La Francia, come
previsto, ha accolto favorevolmen¬
te la proposta della Commissione,
che non ostacola la visione golli¬
sta dell’Europa delle Patrie, ma
si è decisamente opposta alla pro¬
posta di Saragat per le elezioni del
Parlamento Europeo.
Il progetto che il Ministro degli
Esteri ha illustrato a Bruxelles pre¬
vede che il numero dei membri del
Parlamento (attualmente 142) ven¬
ga raddoppiato a partire dal 1. gen¬
naio 1966. La metà verrebbe desi¬
gnata, come adesso, dai Parlamenti
nazionali dei « Sci » e l’altra metà
eletta direttamente e a suffragio
universale dagli elettori europei,
secondo modalità e tempi da defi¬
nire. Non si tratta, in effetti, di
una proposta nuova, anche se è la
prima volta che il rappresentante
di uno dei sei paesi membri la
presenta ufficialmente al Consiglio
dei Ministri. Già nel 1960, il Par¬
lamento Europeo aveva approvato
e successivamente trasmesso al Con¬
siglio un’analoga proposta, elabora¬
ta dal socialista belga Fernand
Dehoussc. Il progetto — che pre¬
vedeva l’elezione diretta di 426
deputati, un terzo dei quali desi¬
gnati per un breve periodo transi¬
torio dai Parlamenti nazionali — è
rimasto giacente negli archivi del
Consiglio che non lo ha mai esa¬
minato. Di tanto in tanto il rap¬
presentante di uno dei cinque paesi
più aperti ad esigenze europeiste
ne faceva oggetto parziale di un
intervento, ricordando l’opportuni¬
tà di procedere — prima o poi —
all’elezione diretta del Parlamento
dei « Sci ».
Belgio, Olanda, Lussemburgo e
Repubblica Federale Tedesca han¬
no accolto con favore il progetto
italiano, che è stato rinviato per
un ulteriore approfondimento al¬
l’esame dei rappresentanti perma¬
nenti dei sei governi in seno alla
CEE. Tutto lascia però supporre
che anche le proposte del Ministro
Saragat facciano la fine poco glo¬
riosa del progetto Dehoussc. L’op¬
posizione di Couve de Murville,
perfettamente in linea con la po¬
litica europea seguita dalla Fran¬
cia fin dall’avvento al potere del
Presidente De Gaulle, non permet¬
te infatti di sperare che si crei in
breve tempo un Parlamento comu¬
ne espresso direttamente dai po¬
poli europei. Non essendo concepi¬
bile che i cinque paesi della Comu-
1
nfft più favorevoli all’integrazione
europea procedano unilateralmente
all’elezione diretta di una parte dei
rappresentanti al Parlamento di
Strasburgo, il progetto Saragat ri¬
schia* di restare un’affermazione di
principio senza alcuna conseguenza
pratica sul terreno politico europeo.
Quanto più i « no » di De Gaul-
le riportano alla memoria i « niet »
di Molotov che paralizzavano ogni
iniziativa del Consiglio di Sicurez¬
za dell’ONU, tanto più è indispen¬
sabile che i cinque partners europei
della Francia effettuino una scelta
di fondo che non può essere rin¬
viata alla scomparsa di De Gaulle
e all’ipotetica vittoria elettorale dei
laburisti inglesi e dei socialdemo¬
cratici tedeschi. O rassegnarsi, in
sostanza, ad operare in un’Europa
chiusa, dalle dimensioni esclusiva-
mente economiche e dal profilo sem¬
pre più chiaramente protezionistico,
che non ostacola — anzi apre la
strada — a più intensi contatti po¬
litici intergovernativi tra i paesi
membri, o fare onestamente e co¬
raggiosamente il punto della situa¬
zione e concludere che la Francia
di oggi non può più essere consi¬
derata un interlocutore valido nel
dialogo europeo apertosi poco pri¬
ma della fine della seconda guerra
mondiale c concretizzato nel 1952
e 1957 con l’istituzione della CECA
e della CEE. Ogni compromesso
con la Francia e ogni generica affer¬
mazione di europeismo che non si
traduce poi in concreta iniziativa
politica fanno a questo punto il
gioco di De Gaulle e si risolvono
— come la conclusione dei nego¬
ziati agricoli, determinata in par¬
tenza dalla scadenza ultimativa po¬
sta dalla Francia — in altrettante
vittorie della diplomazia francese,
la cui abilità è indiscussa. Afferma¬
re oggi che l’Europa deve essere
aperta alia Gran Bretagna e asso¬
ciata agli Stati Uniti è come non
affermare assolutamente nulla quan¬
do si sa in partenza di non avere
gli strumenti politici adeguati ad
imporre alla Francia un’Europa del
genere
Che il nuovo governo italiano si
differenzi — almeno nella politica
europea — dai precedenti è co¬
munque fuor di dubbio. Afferma¬
re a chiare lettere che l’Europa dei
popoli dei sei paesi non ha nulla
a che spartire con l’Europa sognata
•
dal Presidente francese è sempre
meglio che dire e non dire e ten¬
tare di volta in volta una sterile
mediazione tra Pai^'gi e Amsterdam
o, come è avvenuto più di recente,
tra Parigi e Bonn. Soltanto, non è
sufficiente.
Non mancheranno comunque
banchi di prova di prossima sca¬
denza — a cominciare dai nego¬
ziati tariffari con gli Stati Uniti,
il cui inizio è previsto per il pros¬
simo maggio — per saggiare le
effettive intenzioni del nostro go-
ROMA
L’eccezione
LEGGERE certa stampa, sem¬
brerebbe che l’opera di mora¬
lizzazione della nostra vita pubblica
— miraggio lontanissimo per tanti
anni — sia ormai felicemente av¬
viata. Mandando in galera il pro¬
fessor Ippolito, la coscienza civile
dei cittadini è stata soddisfatta. Un
episodio normalissimo, leggiamo nel¬
l’editoriale del Messaggero del 5
scorso intitolato « Lo Stato si di¬
fende *: la legge è uguale per tutti,
colpisce in alto come in basso, sen¬
za remore politiche, senza riguardi
di prestigio, nè discriminazioni di
grado o di autorità; nessuno può
avere dubbi, ormai, sulla serietà
della moralizzazione iniziata dallo
Stato. Sarà. Ma non riusciamo ad
essere così ottimisti. Premesso che
ci addolora profondamente la fine
così conturbante di un uomo di
alto valore, e stabilito che sono le
imputazioni che toccano l’interesse
personale ad offenderci seriamente,
dobbiamo dire che non crediamo che
l’arresto di Ippolito esaurisca la que¬
stione; né lo consideriamo un fatto
« normale ». Anzi: normale, pur¬
troppo, ci sembra la prassi ammini¬
strativa seguita da Ippolito: quan¬
ta gente è finita in galera per averla
adottata, favorita, tollerata?
Qui è il punto. In Italia, quando
non si può comprimere uno scan¬
dalo, lo si neutralizza personaliz¬
zandolo, scaricando tutti gli effetti
penali sulla groppa di una o più
persone. Restano fuori sempre gli
aspetti politici della questione: l’ala
della giustizia non è mai tanto gran¬
de da coprire anche questi. Ippo¬
lito avrebbe potuto neutralizzare per
verno nel settore europeo « per
differenziare definitivamente volon¬
tà politiche da velleità politiche.
Analogo discorso, purtroppo, è al¬
trettanto valido per gli altri part¬
ners della Francia, la cui opposi¬
zione formale alle inflative golliste
in Europa non ha mai impedito che
le conferenze-stampa a sorpresa del
Presidente francese divenissero la
effettiva fonte di produzione della
politica della Comunità Europea.
GIUSEPPE LOTETA
e la regola
tanto tempo ogni potere di controllo
se gli uomini preposti ad esso non
avessero dimostrato delle carenze
evidenti? A noi, più che il caso
personale del prof. Ippolito, inte¬
ressa questa prassi diffusissima, que¬
sta « norma » che è insieme politica
e di costume: finché le responsabi¬
lità connesse al mancato funziona¬
mento degli organi politici di con¬
trollo resteranno in secondo piano,
gli Ippolito continueranno a ger¬
mogliare come margheritine. Fiu¬
micino, Federconsorzi, Asbanane,
SFI... due pesi e due misure.
E’ necessario, comunque, distin¬
guere nettamente il caso Ippolito
dal CNEN: precisare le responsa¬
bilità dell’uomo, chiarire ogni pos¬
sibile implicazione politica, ma non
dimenticare che lo scandalo è dila¬
gato perchè faceva comodo colpire
attraverso Ippolito il CNEN e la
sua p>olitica nucleare, che tagliava
le gambe all’iniziativa privata nel
settore. Si ripresenta adesso l’oc¬
casione per la ripresa della cam¬
pagna, e non solo contro il CNEN,
ma anche contro lo spettro dello
« statalismo » c del centro-sinistra.
I discorsi moralistici di certa stampa
sanno un tantino di bruciato. In¬
sensibilmente il lettore viene por¬
tato a confondere Ippolito con il
CNEN, e il CNEN con gli enti pub¬
blici in genere. Si può temere che
finita relegata nell’ombra la neces¬
sità di affrontare seriamente e con¬
cretamente il problema della ricerca
scientifica in Italia. Confidiamo nel¬
l’energia del ministro Arnaudi per¬
chè ogni insidia sia vigorosamente
controbattuta.
ROMA
Il prezzo dei medicinali
Q uando diverrà operante la ri¬
duzione del prezzo dei medicinali
compresi nella prima lista (1.080
prodotti) inviata dal ministro per la
Sanità Mancini al CIP ? La premu¬
ra non caratterizza certo l’azione del
governo in rapporto ai vari problemi
dei farmaci, se si eccettuano le ripe¬
tute proposte di giungere subito al¬
la legge sul brevetto. Le riduzioni di
prezzo ( quelle stesse — tutt’altro
che totalmente accolte — presentate
un anno fa al CIP dal rappresentan¬
te delle Municipalizzate) sono tor¬
nate in discussione a metà febbraio,
e, il 5 marzo, sono state esaminate
dalla commissione plenaria, che de¬
ve sottoporle alla ratifica dei mini¬
stri membri della Commissione In¬
terministeriale Prezzi.
La convocazione dei ministri del
CIP non è stata ancora annunciata;
circola invece la notizia che la Com¬
missione plenaria intenda discutere
ancora a lungo le proposte della
Sanità accettate dalla propria Sotto¬
commissione. Questa dilazione può
avere conseguenze ben più gravi di
una semplice perdita di tempo: per
capirlo, basta rifare sinteticamente
la storia di quanto è avvenuto ne¬
gli ultimi tempi.
Formatosi il primo governo di
centro-sinistra, il rappresentante in
sede CIP delle Municipalizzate, dr.
Massimo Aleotti, venne convocato
dal segretario del Comitato, dr. Fo¬
glietti, che gli comunicò di essere
stato autorizzato a dare il via al¬
l’esame globale dei prezzi. Bisogna¬
va però programmare il lavoro: co¬
minciare dunque con il raggruppare
in altrettante liste le specialità omo¬
genee. Poiché il ministero della Sa¬
nità non fwssedeva, e non possiede,
un elenco completo dei medicinali
esistenti con le rispettive dettagliate
composizioni (soltanto neH’ultimo
Consiglio dei ministri di febbraio
Mancini ha ottenuto dal Tesoro i
250 milioni per dotare il proprio
Ministero dell’impianto meccanogra¬
fico necessario per tale lavoro), la
* programmazione » del CIP si svi¬
luppò lungo l’arco di quell’anno fino
al « disimpegno » del governo Fan-
fani che congelò ogni provvedi¬
mento.
In quel momento, esattamente un
anno fa, davanti alla sottocommis¬
sione farmaceutica del CIP c’era
solo quell’elenco di 1.080 specialità
che è stato ora rispolverato da Man¬
cini. Esso raggruppava tutti gli anti¬
biotici c i loro associati. Tali pro¬
dotti — registrati come ogni altro
soltanto sulla base del costo di pro¬
duzione-campione, e il cui prezzo
finale, come vuole la legge, era pan
a tale costo moltiplicato per 3 (e
per 3,5 nel caso che alla ditta fosse
riconosciuto di aver compiuto una
effettiva ricerca scientifica) — ave¬
vano visto frattanto diminuire no¬
tevolmente i propri costì di produ¬
zione, sia per le nuove tecniche c
i più perfezionati macchinari estrat¬
tivi che per la loro produzione su
vasta scala.
Il prezzo dei prodotti in esame
era salito l’anno scorso — secondo
i calcoli delle Municipalizzate fatti
propri già allora dal rappresentante
della Sanità — a 7-10 volte il loro
nuovo costo di produzione: dunque
da due a tre volte più di quanto
stabilisca la legge. Un guadagno più
che speculativo e senz’altro scanda¬
loso, ma che, ufficialmente accertato,
è stato ufficialmente consentito an¬
cora per un anno.
Nella penultima settimana di feb¬
braio giungevano ai ministri dell’In¬
dustria (Medici) e del Bilancio
(Giolitti) i telegrammi con cui il
loro collega, Mancini, chiedeva che
fosse ripreso l’esame per la ridu¬
zione del prezzo di quelle 1.080
specialità. Alla fine della stessa set¬
timana, il Consiglio dei Ministri de¬
dicato alle prime misure anticon¬
giunturali stabiliva di dar corso —
tra l’altro — alla riduzione di una
serie di prezzi farmaceutici nell’am¬
bito delle misure « anticongiuntu¬
rali »: la bella definizione consen¬
tiva a un togato quotidiano mila¬
nese di dire che su tali farmaci
« sarebbero state ridotte le impo¬
ste permettendo la diminuzione del
prezzo ».
Il 25 febbraio la sottocommis¬
sione si riuniva; il rappresentante
della Sanità, intervenendo, chiedeva
candidamente che il prezzo del «De-
Nol» fosse ritoccato... in aumento:
certo doveva aver letto la prosa mi¬
lanese sulla <t riduzione delle impo¬
ste » e non aveva alcuna diversa
disposizione. Il « De-Nol » è quel
medicinale importato dal Sud Africa
per il quale L’Espresso documento
nel 1957 che il suo costo era di
1.450 lire (tenuto conto dei coef¬
ficienti moltiplicatori), mentre v^
niva venduto ufficialmente a 15.000
lire. Per parte nostra, documentam¬
mo l’anno scorso come, dopo la de¬
cisione del CIP — attesa da sei
anni — di portarne il prezzo a 1.450
lire, la casa distributrice avesse im¬
mediatamente dimezzato le 15.000
lire.
La sottocommissione è tornata a
riunirsi tre giorni dopo. Con stu¬
pore dei rappresentanti deH’indu-
stria, il rappresentante della Sanità
— che affermò, per la prima volta
nella storia di queste riunioni, di
parlare a nome del Ministro —
chiese finalmente la riduzione per
almeno sei o settecento degli anti¬
biotici in esame. Le riduzioni chie¬
ste erano tali da allineare tutti i
prezzi superiori a quelli minimi pra¬
ticati per alcune centinaia di anti¬
biotici dalla media e piccola indu¬
stria. Tali livelli si aggirano comun¬
que attorno al coefficiente sei.^
Il criterio adottato tende eviden¬
temente a limitare la reazione del-
[’Assofarma, contro misure non cer¬
to drastiche. Ma così non è stato:
VAssofarma ha attaccato la decisio¬
ne ministeriale, e ha già trovato
evidentemente nuove armi per pro¬
crastinare la riduzione dei prezzi.
Il 3 marzo è avvenuta la nuova
riunione della sottocommissione che
doveva precedere la convocazione
dell’assemblea plenaria del CIP fis¬
sata per il 5. La riunione tecnica,
però, non si è conclusa: i ministri
membri del CIP attendono quindi
di essere riconvocati per la neces¬
saria ratifica della decisione esecu¬
tiva. Al livello di commissione ple¬
naria e di riunione interministeriale
non partecipa il rappresentante del
Ministero della Sanità (formato
molti anni dopo la legge istitutiva
del CIP). La data in cui le ridu¬
zioni diverranno operative dipende
perciò dal Ministero dell’Industria;
ogni dilazione dei lavori dell’assem-
blea plenaria costituisce un guada¬
gno di tempo per la manovra con
cui VAssofarma, ancora una volta,
tenta d’impedire la normalizzazione
dei prezzi imperanti nel settore.
O. M.
9
CRONACHE DEL CENTRO-SINJSTRA
Moro e i sindacati
DI LORENZO ACCARDI
MISURE anticongiunturali
del Governo hanno convinto
poco. Esse richiedono pregiudi¬
zialmente la cooperazione con¬
corde delle forze del capitale
e delle forze del lavoro, chiama¬
te a un’intesa che ha tutte
le caratteristiche dell’armistizio.
Ma la stessa logica del centro-
sinistra riporta la congiuntura
in un tempo politico più lungo
della contingenza del momento
e vincola la ricerca delle solu¬
zioni di emergenza alle scelte
di fondo. In definitiva la crisi
congiunturale ha contratto, e di
conseguenza drammatizzato, i
tempi di sviluppo del compro¬
messo quadripartito, alterando¬
ne sensibilmente le possibilità
strategiche, e anticipandone le
più lontane scadenze. Una ra¬
gionevole durata avrebbe dovu¬
to caratterizzare il centro-sini¬
stra in termini di volontà poli¬
tica e di potere, consentirgli di
definire e accreditare le sue più
autentiche prospettive, di colle¬
gare la sua interna dialettica con
la più vasta dialettica della real¬
tà sociale e della lotta politica,
di inserire la propria iniziativa
nella inquietudine di un Paese
che richiede nuove forme di li¬
bertà e ricerca un nuovo equi¬
librio.
Una mediazione difficile
La spinta della congiuntu¬
ra riporta in primissimo piano
i contrasti di classe e anticipa
l’ipotesi di una svolta prevista
al punto terminale dell’itinera¬
rio del centro-sinistra; il mar¬
gine di neutralità che era im¬
plicito nel compromesso quadri-
partito diventa margine di sco¬
pertura.
Il presidente del Consiglio,
con estrema onestà, ha confes¬
sato di fatto la debolezza del
suo Governo chiamando al ta¬
volo delle trattative i rappre¬
sentanti del capitale e del lavo¬
ro. Il tentativo non ha altro sen¬
so se non quello di tradurre il
compromesso dei partiti al go¬
verno in compromesso diretta-
mente stipulato dagli schiera-
menti sociali in lotta. Ma pos¬
sono queste forze, che ritrova¬
no tutte le ragioni del loro mo¬
do d’essere nella competizione
obiettiva che le fa diverse e con¬
trapposte, superare la loro stes¬
sa definizione, convergere im¬
provvisamente in via del tutto
autonoma in un discorso co¬
mune? E’ difficile rispondere af¬
fermativamente. Vi si oppone
l’urto reale degli interessi che
esse rappresentano e ai quali so¬
no tanto più rigorosamente le¬
gate quanto più le soluzioni pos¬
sibili della crisi economica met¬
tono in gioco le rispettive e di¬
vergenti scelte di fondo, politi¬
camente vive per la stessa pre¬
senza del centro-sinistra: che
non è il governo provvisorio del¬
la congiuntura ma il governo di
queste scelte. E in effetti, le
difficoltà che angustiano oggi
la coalizione di maggioranza de¬
rivano appunto dalla necessità
di dover chiarire le prospettive
programmatiche sulle quali mi¬
surare gli interventi anticon¬
giunturali e sulle quali far le¬
va per mobilitare le forze eco¬
nomiche e sociali. Se l’unità di
intenti alla quale si appella l’on.
Moro non è che la proiezione
della neutralità del governo, si
è facili profeti nel dare per
scontato il fallimento della pro¬
va. Il presidente del Consiglio
può certamente registrare la vo¬
lontà delle singole rappresentan¬
ze da lui convocate ma è impro¬
babile possa pervenire ad una
mediazione die escluda il tra¬
vaglio di una scelta politica.
Quali possibilità esistono per
conciliare i giudizi e i proposi¬
ti delle parti chiamate in causa?
La Confindustrìa si dice dispo¬
sta a trattare, anzi a collabora¬
re. Purché, precisa, non si vo¬
glia strozzare la libertà di mo¬
vimento degli imprenditori, pur¬
ché il costo delle misure anti¬
congiunturali sia equamente di-
strbuito fra tutte le categorie
sociali, purché i salari si concor¬
dino con le esigenze della pro¬
duzione, purché si accantonino
le riforme di struttura e si so¬
stituiscano con altre rispondenti
ai bisogni civili (pubblica ammi¬
nistrazione, previdenza) ; purché,
in definitiva, si faccia leva sul¬
l’ordinamento del sistema. E ov¬
viamente per far salve queste
condizioni, é necessario che il
governo rovesci la tendenza « a
subordinare sia la portata della
situazione attuale, sia i possibili
rimedi a concezioni e a conside¬
razioni di ordine puramente po¬
litico», in modo che non «urti
contro presupposti e presunzio¬
ni di natura politica ogni ten¬
tativo di riportare valutazioni e
scelte degli interventi su di un
piano tecnico ».
La CISL e TUII.
Non ancora esplicita la ri¬
sposta della CISL. C’é, comun¬
que, un commento dell’on. Stor¬
ti alle misure anticongiunturali;
«L’azione del governo non ha
ancora sufficientemente indivi¬
duato i settori e i fenomeni che
più richiedono interventi cor¬
rettivi». E c’é un articolo di
Donat-Cattin, uomo di governo
e di sindacato, che valorizza la
«sosta auspicata da Moro pur¬
ché sia sosta della pressione eco¬
nomica e non interruzione del¬
l’attacco strutturale al vecchio
Stato ».
Il recente congre.sso della UIL
ha dato modo a Viglianesi di
configurare nel dettaglio l’at¬
teggiamento della confederazio¬
ne sindacale da lui presieduta.
Il tono combattivo e polemico
di Viglianesi, l’esaltazione da lui
fatta della programmazione co¬
me obiettivo di fondo perfetta¬
mente congeniale all’impegno
sindacale, non aumentano tut¬
tavia la sostanza delle sue ri¬
chieste: riforma della pubblica
amministrazione, istituzione del¬
io
le regioni, riforma del sistema
tributario; e in riferimento alla
congiuntura: stabilità dei prez¬
zi e della produzione. Se il col¬
loquio con i sindacati invocato
da Moro porta verso queste con¬
clusioni, si tratta allora di «un
colloquio chiaro e responabile »;
in caso diverso l’appello del Pre¬
sidente del Consiglio «si ridu¬
ce a un fatto patetico e paterna¬
listico ».
11 peso della CGIL
Com’è facile rilevare la posi¬
zione della UIL è debole per
rappresentare nel colloquio an¬
che le posizioni della CGIL ed
è eccessiva per incontrare la
Confindustria. E del resto la
massima, e dichiarata, aspirazio¬
ne del segretario generale della
UIL è di essere condizionante
interlocutore degli imprenditori
e di escludere da ogni eventua¬
lità di contrattazione la CGIL.
Viglianesi misura la validità del
più grande sindacato italiano
adottando una decisa discrimi¬
nazione politica nei confronti
dei comunisti e negando alla
CGIL ogni autonomia che non
sia affidata alla sua componente
socialista. Della quale però in¬
valida la capacità di incidenza
riconoscendo ai comunisti un
peso determinante ed esclusivo
nel controllo politico della CGIL.
Ogni tentativo di indurre la par¬
te sindacale comunista ad una
collaborazione con il centro-sini¬
stra è per Viglianesi una colpe¬
vole illusione. Ma i fatti non lo
seguono; perchè in concreto l’ap¬
pello insistente che il centro-si¬
nistra rivolge alle forze del lavo¬
ro passa principalmente attra¬
verso la CGIL ed è la risposta
della CGIL che ne segnerà il
successo o l’insuccesso. Cosi è
nelle circostanze reali prima che
negli schemi; ed è certamente
contraddittorio negarsi ad ogni
riconoscimento di autonomia del¬
la più consistente organizzazio¬
ne sindacale del nostro Paese.
Contraddittorio sul piano tatti¬
co, perchè i lavoratori che si
vogliono incontrare sono in gran
parte lì. nella CGIL. Contraddit¬
torio in termini politici, perchè
ove non si postuli in atto un
travaglio di autonomia del mon¬
do sindacate, la vicenda del cen¬
tro-sinistra si riduce ad un in¬
contro di formule e si allontana
dalle prospettive della sinistra
italiana volendone evitare i ri¬
schi. Il centro-sinistra non avrà
forza reale se nel momento in cui
vuole mobilitare l’opinione e l’in¬
teresse dei lavoratori non riesce
a raggiungerli per non vedere
l’autenticità delle loro richieste
fra le maglie della organizzazio¬
ne della CGIL.
Di diverso parere, e lo hanno
scritto sull’Auanti, sono i so¬
cialisti, che intendono provare
la presenza comunista nella Con¬
federazione del lavoro sulla vo¬
lontà politica e programmatica
del centro-sinistra. E sta di fat¬
to che nel dibattito, apertosi a
proposito della congiuntura, sul¬
le scelte di governo in materia
di politica economica la CGIL
sinora appare unita. Rifiuta cioè
di ridurre i problemi del mo¬
mento entro una superficie con¬
tingente volendo invece cali¬
brarne le soluzioni alle aspetta¬
tive di una programmazione co¬
sì definita; «che abbia come
obiettivo — come ha scritto Lu¬
ciano Lama — uno spostamento
dei redditi reali a favore dei la¬
voratori, la piena occupazione,
profonde riforme delle struttu¬
re economiche, uno sviluppo del¬
la democrazia a tutti i livelli del
potere»; una programmazione
nella quale la cosiddetta variabi¬
le indipendente sia il salario
operaio e non il profitto del ca¬
pitale. «Ma dov’è oggi questa
programmazione? ».
L’interrogativo che si pone
Lama è lo stesso che si pone
Lombardi quando scrive di
« premesse » e non di « promes¬
se » della programmazione. I
socialisti non intendono richie¬
dere sacrifici ai lavoratori se
non nella misura in cui realiz¬
zano nel governo un programma
di profonde riforme della socie¬
tà italiana e delle sue strutture
economiche, e si ritrovino per
intanto impegnati nell’adempi¬
mento delle promesse relative
alle leggi per le regioni e l’agri¬
coltura, per l’urbanistica («una
autentica nazionalizzazione del
suolo») e le società per azioni
(« radicale trasformazione di
tutto l’istituto societario che lo
faccia strumento della program¬
mazione»). Non concedono cioè
il rinvio delle riforme che la
destra economica ritiene indi¬
spensabile per il superamento
corretto della congiuntura. Que¬
sto è almeno quanto è stato det¬
to in un pubblico comizio ad Asti
da Antonio Gioì itti, che si è
esplicitamente riferito al collo¬
quio fra governo e sindacati. Il
ministro del Bilancio ha polemiz¬
zato scopertamente con La Mal¬
fa disconoscendo alla enunciazio¬
ne di una « politica dei redditi »
la capacità di coinvolgere i sin¬
dacati nello sforzo anticongiun¬
turale. La Malfa ha replicato
che la programmazione comincia
da una politica dei redditi e a
nulla vale anticipare i tempi se
questo vuol dire la crisi di un
governo che è comunque di cen¬
tro-sinistra e non ha alternative
a sinistra.
La prospettiva socialista
Ed è doveroso riconoscere la
coerenza di La Malfa che difen¬
de una strategia che vuol evi¬
tare il peggio, salvaguardando
con la sopravvivenza di questo
governo le possibilità di ripresa
del centro-sinistra.
Tuttavia non si può dimentica¬
re che la responsabilità sociali¬
sta non è a senso unico e cioè
soltanto verso il governo, ma che
incombe al PSI una responsabi¬
lità preminente nei confronti d^
gli interessi dei lavoratori e, più
in generale, delle istanze di rin¬
novamento che esso deve conti¬
nuare a rappresentare di fatto e
non verbalmente anche come
partito di governo, pena la pro¬
pria decadenza politica e l’invo¬
luzione della formula di centro-
sinistra.
Non per evitare il peggio il
PSI è al governo né per assicu¬
rare una qualsiasi stabilità, ma
per condurre un’azione riforma¬
trice di ampio respiro alla qua¬
le non possono sottrarsi i prov¬
vedimenti per superare la con¬
giuntura.
LORENZO ACCARDI
11
Il PSI alla
prima prova
DI FEDERICO ARTUSIO
TL FATTO più importante che sia accaduto nel PSI
da quanto è entrato nel governo {e ha subito la
scissione a sinistra) è, a nostro avviso, che il giornale
del partito, cioè l’elaborazione di una critica e di una
giustificazione dell’azione di governo — dinanzi alla
base e dinanzi all’opinione pubblica — sia stato posto
nelle mani di Riccardo Lombardi. Prescindiamo di
proposito dalle qualità giornalistiche egli possa dimo¬
strare. Prima di tutto, perchè si tratta di un direttore
« politico »; in secondo luogo, perchè le famose qua¬
lità che si celebrano nel « giornalista » sono spesso
una qualifica sprezzantemente antipolitica delle sue
prerogative: un tipo di giudizio che, dopo tutto, è
molto discutibile, ma è poi assolutamente da respin¬
gere in chi è chiamato a dirigere un giornale di partito.
Dunque, è molto importante, a nostro avviso, che
Lombardi sia a quel posto; c staremmo per credere
che, se il PSI avesse sin dall’inizio, ancora al tempo
delle grandi dispute prescissione, dato questa garanzia
di incfipendenza critica del giornale dal governo, forse
le cose si sarebbero messe meno male. Ma allora il
partito pensava di impiegare Lombardi in compiti di
ministro: ed era anche questo un errore di prospet¬
tiva, perchè doveva essere ben chiaro che Lombardi,
se non dissentiva nel fine, non era affatto persuaso
che i mezzi (cioè quel patto di governo, in tutti i suoi
particolari) fossero i migliori, e avrebbe preferito re¬
stare sulla linea del rapporto teorico mezzi-fine, dove
si può esercitare una pressione rettificatrice, che non
imbarcarsi nella gestione diretta, dove si tratta troppo
spesso di seguire; in un governo di coalizione poi,
di seguire non solo il leader del proprio partito, ma
quelli degli altri partiti.
Ora, fino a questo momento, si può ben dire che
Lombardi, da quando ha preso la direzione del gior¬
nale, non ha mancato in nessuna occasione di osser¬
vare il compito che si è prefisso; e non è colpa sua
*e in qualche caso si è reso ingrato ai suoi compagni.
Soprattutto, ha tenuto la giusta posizione, quando,
discutendo l’appello di Moro, ha riproposto la que¬
stione che, a buon diritto, i cattolici hanno definito
« ideologica », nei riguardi dell’alleanza di govi^rno
con la DC. Quando Lombardi, infatti, ha rammen¬
tato alla DC che questa non può appagarsi di una
posizione di indifferenza interclassista, altrimenti non
si fa centro sinistra, il « Popolo » si è affrettato a
rispondere che !’« Avanti », se vuole, può discutere
singole misure di governo, ma non può avanzare
questioni di principio o di dottrina: si era infatti
stabilito, e consentito, di lavorare assieme ma in pie¬
na coordinazione (cioè indifferenza, e distanza) di
ideologie.
Ora questo rilievo del « Popolo », che in linea
di fatto non è sbagliato perchè rammenta una Con¬
dizione che è stata effettivamente enunciata dalle
parti interessate come pregiudiziale all’avvicinamento
tra cattolici e socialisti, se da un lato richiamava
Lombardi a un gentlemen’s agreement, dall’altra met¬
teva però l’indice su un problema, il rapporto tra
ideologia e partecipazione al governo, che in qualche
circostanza la DC può anche considerare trascurabile,
ma che il partito socialista non può scordare mai.
J'UTTO il ^aio, infatti, è incominciato di qui,
per i socialisti. Che aveva la sinistra da rim¬
proverare alla partecipazione governativa? In linea
di principio, sembrò in congresso, nulla: i principi
non vietano a un partito socialista di governare in¬
sieme a partiti borghesi. Ma quello che ci si riser¬
vava, e che pareva invece andar perduto con la
concezione autonomistica, era di condurre questa col¬
laborazione come una lotta, come una contestazione.
Un partito socialista può collaborare con la bor¬
ghesia al governo solo ad una condizione; di non
diventare borghese, dunque di continuare a rappre¬
sentare, dentro a una società che ha strutture giuri¬
diche improntate alla tutela dell’individualismo bor¬
ghese, la massima espansione, sino al limite e nello
stesso tempo già al di là del limite, della rottura
socialista. Allo stesso modo, è vero, il socialista non
pretende che il suo coalizzato borghese cessi di esse¬
re tale. Ma pensa che solo lottando nel collaborare,
ciascuno possa contare di far avanzare la sua parte,
e di caratterizzare così la coalizione.
Come allora rinunziare, nell’atto di andare al
governo, alla ideologia proletaria come ideologia di
lotta, come indicazione continua del traguardo sul
quale tenersi e insieme andar oltre? Un partito so¬
cialista si riconosce e si definisce da questa sua con¬
dizione: di non poter rinunziare all’ideologia come
indicazione e giustificazione di una collaborazione
nella lotta. Ebbene, ai socialisti di sinistra parve che,
accettando le condizioni contratte con Moro, i socia¬
listi avessero rinunziato a quel loro privilegio, che
costituisce l’essere socialisti: e uscirono. Ora si ritro¬
vano daccapo nella vecchia condizione, dell’ideologia
che determina e prospetta le ragioni e i metodi del¬
l’opposizione. Probabilmente già si domandano se
per caso non abbiano sbagliato: se non sia venuto
in evidenza che, nella difficoltà di afferrare l’avver¬
sario, che si trincera dietro la « necessità » dei prov¬
vedimenti anticongiunturali, l’istanza ideologica giri
più a vuoto, che non sarebbe stato restando, entro
il partito, a esercitare una pressione profonda^Però
12
anche i compagni del PSI non possono non chiedersi
se, per il momento almeno (e non si può prevedere
sino a quando) lo stato di necessità, la realtà dei fatti
nei quali si è stati immessi, il rispetto che essi susci¬
tano in chi li manovra con un certo potere di mu¬
tarli, ma anche con una certa imposizione di non
mutarli, non finiscano con il sospendere ogni attività
ideologica, visto che non vi sono propriamente tra¬
guardi socialisti da tenere in vista, ma appena quello
dell’efficienza, della funzionalità dei primi provve¬
dimenti.
La condizione amara del PSI, oggi, sembra infatti
essere questa. Il PSI coopera a restaurare il gioco,
il movimento, di una società ad ordinamento capi¬
talistico. Non si è arrestata una macchina socialista;
si è parzialmente inceppata una macchina capitalisti¬
ca. E viene fatto a molti di chiedersi se non sarebbe
stato più astuto, o almeno più prudente, lasciare che
fossero i partiti della borghesia a riparare meccanismi
che avevano troppo sfruttato, o troppo consumato.
La risp)osta che i socialisti hanno dato a questa do¬
manda, fu che astenersi sarebbe stato ingenuo e im¬
prudente. La borghesia, quando ha consumato i suoi
strumenti di potere, li sostituisce con altri, non più
ispirati all’idealità, ma alla pura sopravvivenza del
proprio predominio: si fa fascista. Bisognava andare
al governo, si disse, per evitare un nuovo’ ’22:^ una
rinascita, sia pure sotto nuove forme, del fascismo.
Ecco che così, per salvare un certo livello di governo
borghese da un rischio di dislivello totalitario, si corre
ora il rischio di lavorare comunque per la pura restau¬
razione del gioco naturale del capitalismo. E qui,
l’alternativa; o buttarsi senza riserve nella coalizio¬
ne, per far sì che la restaurazione non significhi inay-
vertitamente soffocamento di tutte le future possi¬
bilità di una ripresa socialista — oppure mantenere
sin d’ora vive le riserve, ma al rischio che non si
evitasse del tutto, allora, il nuovo ’22. (Il ragiona¬
mento degli autonomisti, infatti, è che prima di tutto
si tratta di rimettere in ordine la casa, e che poi si
potrà muovercisi dentro; ma volercisi muovere men¬
tre si fa ordine, è pericoloso. Fu così che, quando
venne fuori la questione della cedolare secca, Nenni
pare abbia detto ai compagni di direzione: se non ci
state, tanto vale che andiamo a dimetterci. L’argo¬
mento fu decisivo, perchè equivaleva a dire: così
viene il ’22, e non ci si pensa più).
ARA LA cosa più importante, a nostro avviso, è
che i socialisti, oggi, restino all’ingrato tiinone
dell’austerità e dell’impopolarità, ma che non si la¬
scino ulteriormente ricattare dal millenarismo a rove¬
scio del fascismo che si riavventa. Se ad ogni momento
essi rinfoderano l’obiezione socialista ai provvedimen¬
ti da coiKordare nel governo, verrà l’ora, in cui non
avranno più alcuna risorsa ideologica con la quale
partecipare ad un governo borghese; ma non avranno
neppure la forza, il peso di chi, avendo rinunziato o
non mai partecipato alla pretesa di un’ideologia so¬
cialista, ha almeno il beneficio che si ricava dall’aver
apologizzato, o risparmiato, o lusinghevolmente «com¬
preso », le esigenze imprenditoriali. Già oggi si ha
spesso l’impressione che conti Saragat piuttosto che
Nenni, il socialdemocratico dichiarato, non il socia¬
lista. E siccome il potere si perde in quanto non #
eserciu, il rischio è che alla fine non accada affatto
ciò che Saragat ha sempre rifiuuto — un’intesa DG
PSI sulla testa del PSDI — ma semplicemente che
neppure di ciò si abbia ormai più a parlare.
Torniamo alla direzione dell’« Avanti », come vie¬
ne ora esercitata, e rallegriamoci che almeno in questa
forma sia rinata, entro la posizione di governo, la
riserva ideologica nel senso dialettico che avevamo
indicato in principio.
Certo che se il PSI non si fosse riservato altro,
come potere sugli uomini, che quello di un giornale,
allora il potere sulle cose, che si esercita dalle pol¬
trone dei ministeri, lo soverchierebbe senza residui.
Nel PSI vi sono certo altre risorse e altre riserve
di dissenso. Tuttavia, per ora, questa è la più evi¬
dente. Fossimo socialisti, pregheremmo Lombardi e
i suoi amici di non stancarsi e di non recedere. Si
fa così presto a perdere tutto. Non temano neppure
di spingere la crìtica, a volte, sino alla tensione, sino
alla necessità di spiegazioni, da parte di compagni
di segreteria o di governo o di gruppo parlamentare.
Non raccomandiamo questo come suscitatori di di¬
scordie, è ovvio; come intriganti azionisti; ma come
riserva di quel sale della terra, che è il fattore ideo¬
logico della politica. Il « praticismo » da ministro è
cosa facile da acquistare, non è poi che tattica di
alto livello, più la normale dose di spocchia di chi
è arrivato. Ma a un socialista italiano questo non
può interessare, o almeno non può interessare come
lo scopo più importante del suo partito.
FEDERICO ARTUSIO
abbonatevi a
Uastrolabio
13
GASTON DEFFERRE
LETTERA DA PARIGI
L’alternativa del buonsenso
petitore di de GauUe, egli non può
non avere il « complesso » della
statura, in tutti i sensi; ma se ne
tira benissimo, ricorrendo alla sola
arma a disposizione, l’ironia; una
ironìa garbata, quasi anglosassone,
che non attacca frontalmente l’ay-
versario e soprattutto non ne di¬
sconosce i meriti, ma si limita a
metterne in luce certi aspetti un po’
paradossali e grotteschi. E i fran¬
cesi, che hanno spiccatissimo il gu¬
sto della battuta, ridono e simpa¬
tizzano naturalmente con lui (salvo
poi votare in maggioranza per l’al¬
tro, che incarna meglio l’ideale
eterno della grandeur).
Defferre naviga tra due scogli che
si chiamano « ritorno alla quarta
Repubblica » e « neo-gollismo senza
de Gaulle *. Infatti non può guar¬
darsi dall’uno senza rischiare con¬
tinuamente di naufragare sull’al¬
tro. E sono entrambi temibili, mo¬
bilitando intere squadre di amici
e avversari, tutti spietatamente col
fucile puntato, pronti a sparare alla
minima mossa falsa.
E’ quindi naturale che, in queste
condizioni, succeda al candidato
Defferre, come appunto con l’ulti¬
ma conferenza-stampa, di non ac¬
contentare pienamente nessuno.
DI LUCIANO BOUS
r ASTON DEFFERRE, il futuro
candidato antagonista di de
Gaulle alla presidenza della repub¬
blica francese, è stato ospite della
Associazione della stampa estera di
Parigi, che gli ha offerto una cola¬
zione, presenti alcune centinaia di
giornalisti di tutti i paesi.
Il sindaco di Marsiglia da qual¬
che tempo appare instancabile e non
si lascia sfuggire occasione per ri¬
badire i suoi punti di vista su que¬
sto o quell’aspetto della politica
francese: ciò che avrebbe fatto lui
se si fosse trovato al posto di de
Gaulle; ciò che farà un giorno se
la fiducia degli elettori lo chiamerà
a succedergli all’EIiseo.
Ieri a Marsiglia, Bordeaux e Car-
cassonne; oggi a Parigi: la sua è
una campagna che durerà probabil¬
mente due anni, ed egli la sta con¬
ducendo con l’ardore e l’ostinazione
propri di un neofita. In completo
grigio chiaro, sorrìdente e sempre
sbarbato di fresco, con la sua voce
persuasiva e quasi dimessa, egli rap¬
presenta, anche nel tono e nei gesti,
l’antitesi naturale di colui al quale
si contrappone.
In realtà, sotto un’apparente bo¬
nomia, quel progressista borghese
che si chiama Gaston Defferre na¬
sconde una volontà tenace e una
personalità complessa, temprata da
una lunga milizia parlamentare nel
partito di Guy Mollet e da una diu¬
turna pratica amministrativa quale
sindaco della seconda città di Fran¬
te traboccare il vaso. Per me, in¬
da (dove però, rammentano i ma¬
ligni, la sua maggioranza è sempre
sostenuta dai voti dell’UNR); ma
cela soprattutto una capacità mano¬
vriera e diplomatica non comune,
che gli consente di far fronte age¬
volmente anche a situazioni deli¬
cate e difficili, nelle quali i suoi av¬
versari hanno finora cercato invano
di farlo inciampare.
Riconosciamo che la posizione di
Defferre non è comoda. Qjme com¬
TL TEMA centrale di Defferre è
quello dell’indipendenza o ugua¬
glianza degli Stati. La sua dimo¬
strazione è di tipo classico, ma
estremamente elementare. « Chec¬
ché ne pensi de Gaulle, che ne fa
il perno della propria politica di
potenza, l’indipendenza degli Stati
non esiste — dice Defferre; — a
meno che non vogliamo rinunciare
a bere caffè, a calzare scarpe di
cuoio e a vestire abiti di lana, tutti
prodotti che importiamo necessaria¬
mente dall’estero ».
All’ideale àeWindipendenza, da
collocare quindi in soffitta tra i ci¬
meli di un passato morto per sem¬
pre, Defferre propone di sostituire
invece quello àei\' uguaglianza, « che
— egli precisa — ha il merito di
farci meglio comprendere il valore
della solidarietà internazionale ».
Ma come questa situazione possa
poi evolvere verso forme più con¬
sistenti di unione, per esempio fe¬
derale, Defferre non ce lo dice.
Da questo postulato dell’ugua¬
glianza degli Stati, Defferre prende
lo. spunto pei parlare dell’unità eu-
14
ropea;' un’Europa evidentementa
non troppo dissimile da quella
« delle patrie » tanto vantata dal
generale de GauUe, se presuppo¬
sto dovrebbe esserne appunto la
equivalenza degli clementi statuali
che la compongono. Non è certa¬
mente un caso se il riferimento
alla « soprannazdonalità » non ri¬
corre mai nei discorsi del neo¬
candidato, che in compenso parla
molto della politica che questa Eu¬
ropa dovrebbe fare: dall’aiuto al
Terzo Mondo all’apertura verso
l’Inghilterra, dalla forza d’urto con¬
tinentale alle riforme socialiste di
cui, con lui, si farebbero garanti,
a Londra e a Bonn, Harold Wil¬
son e Willy Brandt.
« Anni fa si parlava di Europa
vaticana — ha detto a un certo
punto Defferre — ma l’accusa, co¬
me protestante, mi faceva sorride¬
re! ». Ora però egli pensa davvero
ad una « santa alleanza europea
socialista », che, sotto lo schermo
abbagliante dell’affinità ideologica,
dovrebbe fare passare in seconda
linea le tradizionali rivalità degli.
Stati.
Ma come potrà arrivarci? Al di
là di ogni astratta concezione di
dottrina, anche i socialisti, quando
diventano maggioranza, non pos¬
sono in pratica che lasciarsi condi¬
zionare dagli avvenimenti, i quali
non si presentano mai nello stesso
modo in due paesi diversi.
Così non è detto che il leader
laburista, fattosi primo ministro,
manifesti per l’Europa un’apertu¬
ra maggiore del suo predecessore
tory; né che il sindaco di Berlino,
una volta cancelliere, abbia, per
esempio suH’America, una conce¬
zione diversa da quella di alcuni
suoi avversari attualmente al go¬
verno (dico alcuni, perché si sa
che tra Schroeder ed Erhard, an¬
che senza contare Adenauer, c‘è
davvero di mezzo il mare..,). Lo
stesso Defferre, in più di un punto
potrebbe sentirsi obbligato a se¬
gnare la politica di de GauUe. Del
resto, egli appare già oggi, in tante
cose, più vicino al cancelliere
Erhard che al candidato sociali¬
sta che gli dovrebbe succedere.
La « triplice » prospettata da
Defferre — e ch’egli metterà a
punto nei prossimi giorni con un
viaggio a Londra... e a New York
— non mi sembra quindi disporre
di un filo più resistente di queUo
che ha cucito, per esempio, il pat¬
to franco-tedesco.
A TUTTE queste cose pensavo
dentro di me mentre ascoltavo
Defferre parlare del « nuovo volto
socialista dell’Europa », che avreb¬
be anch’egli tenuto a battesimo.
E mi tornava aUa mente anche il
beU’articolo di Federico Artusio
che avevo letto sull’ultimo numero
AtW'Astrolabio, proprio su Defferre.
« Non è il nostro uomo », esso
concludeva; e stranamente mi tro¬
vavo ora d’accordo con lui. Ma
forse per ragioni opposte. Per Ar¬
tusio, infatti, era stata la risco¬
perta àtWeuropeista Defferre a fa-
vece, era proprio la conferma del
suo europeismo fasullo a lasciarmi
nell’incertezza, fornendomi indiret¬
tamente la prova che nessuna al¬
ternativa a de GauUe è oggi con¬
cepibile in Francia, fuori del qua¬
dro nazionale.
« Cambia il maestro, ma la mu¬
sica è sempre quella », dicevano i
nostri nonni. Per essere onesti, bi¬
sognerebbe aggiungere che, in que¬
sto caso, cambierebbe certo anche
il tono: dalla magniloquenza pa¬
triottarda al dialogo sulle cose con¬
crete, dalla visione mondiale di un
neo-colonialismo francese alla pras¬
si quotidiana del riformismo socia¬
lista, dalla politica dei puntigli a
quella della collaborazione.
Certo, sarebbe già un progres¬
so, come il ritorno a un metro co¬
mune per giudicare le cose, c la
liberazione da un incubo che, men¬
tre culla e solletica la maggioranza
dei francesi, tiene però col fiato
sospeso quella grossa minoranza
che non intende lasciarsi cullare...
e i numerosi amici della Francia
che, dal loro osservatorio d’oltre
frontiera, considerano impotenti la
progressiva involuzione deU’esa-
gono.
Non ultimo elemento di questo
progresso: il fatto ch’esso si com¬
pirebbe in nome di un uomo e non
più di un mito, attraverso una poli¬
tica che si vorrebbe fatta per gli
uomiiji e non per dei fantasmi,
col presupposto che tutti sono ugua¬
li e quindi nessuno può montare
sul piedistallo.
Ripetiamo, tutto ciò sarebbe già
un progresso; ma se la direzione
di marcia resta fondamentalmente
sbagliata, concludiamo anche noi
con l’Artusio: « ...c’interessa? ».
Avevo posto anch’io — per
L’Astrolabio — una domanda a
Defferre: come si poteva a ogni
momento parlare, come lui faceva,
di un’« Europa economicamente e
politicamente unita » (quasi che
essa dovesse davvero rappresen¬
tare l’impegno prioritario del suo
futuro settennato) e prospettarci
nello stesso tempo, per l’appunta¬
mento àeW'Orizzonte '80, una
Francia sempre sovrana e piena di
sé; certo non isolata come oggi e
in pace con tutti, ma non per que¬
sto meno arbitra dei propri destini
e gelosa dei suoi privilegi come na¬
zione?
Ma Defferre non mi ha spiegato
la contraddizione. Né l’avrebbe po¬
tuto. A meno di riconoscere che
le due strade sono effettivamente
divergenti e che non si possono
quindi percorrere insieme.
Perché la vera opposizione non
sta tra un nazionalismo megalo¬
mane e caparbio alla de GauUe e
un riformismo nazionale e sociali¬
sta alla Defferre o aUa Mendès,
ma tra queste politiche (che mi¬
rano entrambe al potenziamento
deUa nazione, comunque poi esso
venga inteso) e la sola capace di
sostituirvi un ideale diverso, cioè
una politica europea per un ideale
europeo. Politica e ideale che han¬
no per necessario presupposto il
superamento della realtà nazionale,
intesa come scopo e centro di ogni
attività, c la sua sostituzione con
una più grande realtà europea, di
cui si accetti la preminenza in tutti
i campi.
Ma avevo torto di sperare che
queste precisazioni mi potessero ve¬
nire da Defferre. Il capo dell’op¬
posizione francese è oggi impegnato
a portar via voti a de GauUe, e
per questo non può non fare i con¬
ti con una Francia che — piaccia
o non piaccia a chi legge e a chi
scrive — ha già mostrato in più
occasioni di essere a maggioranza
gollista.
Come lo era, del resto, lo stesso
Defferre, quando affermava, qual¬
che anno fa, che solo U generale
poteva ancora salvare U paese...
Che pretenderemo quindi da lui?
LUCIANO BOLIS
u
IL CONFLITTO SOMALO-ETIOPICO
Il confine contestato
DI GIAMPAOLO CALCHI NOVATI
T A BANDIERA della Somalia è
azzurra, con una stella a cinque
punte: due punte rappresentano i
territori dell’ex-Somalia italiana c
del Somaliland già protettorato bri¬
tannico, riuniti in un unico Stato
dal r luglio 1960; le altre tre raf¬
figurano le terre irredente, precisa-
mente la Costa francese dei somali,
la regione dell’Ogaden-Haud etio¬
pico e il distretto nord-orientale
del Kenya. Di fronte all’intransi¬
genza delle controparti, che non
hanno mai riconosciuto la legitti¬
mità di tali rivendicazioni, era ine¬
vitabile che la Somalia prendesse
in considerazione la possibilità di
un’azione per attuare i propri piani
e dare soddisfazione ai sentimenti
nazionali dei somali residenti nelle
terre ancora staccate dalla madre¬
patria: anche senza pronunciare una
parola definitiva, in mancanza di
dati sicuri, sulla responsabilità im¬
mediata d’aver dato origine ai
combattimenti che nei primi giorni
di febbraio hano impegnato le for¬
ze regolari di Somalia ed Etiopia
minacciando di degenerare in una
guerra aperta fra i due paesi, è
quindi al fermento dei somali in
terra straniera ed ai preparativi mi¬
litari del governo di Mogadiscio che
sembra doversi addebitare il ricorso
alla forza. Anche nel Kenya, del re¬
sto, dal dicembre scorso si segnalano
movimenti di irregolari, più o me¬
no esplicitamente appoggiati ed in¬
coraggiati dalla Somalia, che atten¬
tano aH’intewità territoriale di que¬
sto Stato amicano, da poco asceso
all’indipendenza.
Il problema sollevato dalle richie¬
ste del governo somalo ha un aspet¬
to generale ed un aspetto partico¬
lare. La questione delle frontiere è
invero fra i fattori di divisione e
di debolezza più rilevanti dell’attua¬
le assetto africano: in un primo
tempo si era creduto che la preca¬
rietà delle frontiere, la casualità
della spartizione territoriale, la fra¬
gilità di molti Stati avrebbero po¬
tuto costituire un impulso verso la
applicazione accelerata dei miti del¬
l’integrazione continentale, subordi¬
nando i particolarismi del microna¬
zionalismo alle prospettive del pa¬
nafricanismo; la realtà doveva rive¬
larsi diversa, perché per la sua stes¬
sa formazione anomala (la nazione
attraverso lo Stato anziché lo Stato
attraverso la nazione), il nazionali¬
smo nei singoli Stati africani ha fi¬
nito per assumere note esasperate,
spesso in funzione difensiva, esclu¬
dendo una pronta composizione del¬
la balcanizzazione operata dalla do¬
minazione coloniale jn entità allarga¬
te e, più vitali. A ciò si deve aggiun¬
gere la sovrapposizione di elementi
ideologici, per i contrasti di indi¬
rizzo fra governo e governo, che ha
reso definitiva la separazione (ba¬
sta jDensare alla scissione della Fe¬
derazione del Mali, determinata ap¬
punto dalla diversa concezione po¬
litica dei partiti al potere nel Sene¬
gai e nel Sudan, i due membri deUa
Federazione ).
Pur coscienti dell’eccessivo spez¬
zettamento territoriale e dell’artifi¬
ciosità della maggior parte dei nuo¬
vi Stati africani indipendenti, i lea-
ders africani hanno accettato come
male minore, in attesa della matu¬
razione di un nazionalismo di por¬
tata continentale che concretizzi gli
ideali astratti che si richiamano alla
personalità africana ed alla négritu-
de, la convalida dello status quo,
negando preventivamente ogni vali¬
dità alle rivendicazioni territoriali
interstatali. La Carta dell’unità afri¬
cana approvata dal vertice di Addis
Abeba del maggio 1963 statuisce in¬
direttamente ma fermamente — con
i molti accenni all’« integrità terri¬
toriale degli Stati africani » — la
inamovibilità delle frontiere eredi¬
tate dagli Stati nazionali, salvo na¬
turalmente accordo spontaneo fra
le parti interessate. Non era sfug¬
gito però che ad Addis Abeba la
Somalia aveva avanzato serie ri¬
serve su questo criterio, in polemica
con il discorso di Hailé Sélassié,
uno dei più risoluti nel sostenere la
necessità di accantonare ogni riven¬
dicazione per non sottoporre il con¬
tinente nero ad un pericoloso scon¬
volgimento generale.
E’ innegabile infatti che gli Stati
africani, specialmente quelli del¬
l’Africa nera, sono stati costituiti
dalle jxjtenze coloniali senza alcun
rispetto per i caratteri etnici delle
popolazioni residenti e per i prece¬
denti storici. Anche nel Maghreb,
come ha dimostrato il conflitto al¬
gerino-marocchino, esistono inter¬
pretazioni discordanti sulle rispettive
sfere di sovranità. In questo senso,
dunque, l’irredentismo dei somali
partecipa della medesima problema¬
tica conosciuta in altre parti del
continente, da altri gruppi etnici ri¬
masti divisi in più entità statali, ed
è destinato ad incontrare scarsi suf¬
fragi nelle capitali africane.
Il pansomalismo ha però un aspet¬
to più propriamente ” nazionale ”,
che manca ad analoghi progetti di
unificazione. Non si tratta in altre
parole né di secessionismo (come fu
per la pretesa di Tschombe di im¬
personare le istanze particolari del¬
le genti lunda in opposizione alle
tribù baluba ed alle tribù congolesi
'fautrici di uno Stato unitario) né
di puro e semplice appello ad una
situazione pre-coloniale (come ac¬
cade per il ” grande Marocco ” ). I
somali — che hanno già conseguito
un notevole successo pratico sal¬
dando in un’unica repubblica i due
tronconi amministrati da Italia c
Gran Bretagna, ovviando positiva-
mente alle difformità lasciate dalle
diverse amministrazioni coloniali —
hanno elaborato, insieme a costumi
e tradizioni affini, un inconfondi¬
bile coscienza nazionale, che rende
la loro causa assai simile ad una
campagna per l’affermazione del di¬
ritto d’auto-determinazione; nomadi
per natura, i somali non si sono mai
preoccupati di fissare le proprie fron¬
tiere, ma ciò nonostante sempre vi¬
vo è stato il loro senso unitario.
Per valutare, nel loro contenuto
giuridico, le argomentazioni dei so¬
mali — che sottolineano come sol¬
tanto la dominazione coloniale abbia
scompaginato la nazione somala, ri¬
masta fino allora omogenea — sa¬
rebbe necessario risalire molto in¬
dietro nel tempo, alle vertenze ita-
lo-etiopiche ed al modo con cui i
governi di Londra e di Roma risol¬
sero secondo i propri interessi di
potenza, le contestazioni relative al¬
l’esatta delimitazione delle frontiere
somale ed etiopiche, c del Kenya,
16
w
procedendo di fatto a scambi di ter¬
ritori. Il problema tuttavia è emi¬
nentemente politico. Certamente,
quelle sistemazioni furono il frutto
di un compromesso fra il coloniali¬
smo italiano ed il colonialismo bri¬
tannico senza alcuno scrupolo per
le sorti del popolo somalo e della
nazione somala, e non è neppure
escluso che le potenze coloniali si
siano fatte guidare da un calcolo di
dominazione più sicura, giuncando
sulle prevedibili rivalità che si sa¬
rebbero radicate. Fondato è il so¬
spetto soprattutto per l’equivoco
comportamento britannico in rela¬
zione al distretto nord-orientale del
Kenya, malgrado l’apposita com¬
missione incaricata di studiare la
questione avesse accertato il quasi
unanime consenso degli abitanti per
l’accessione alla Somalia; negoziati
fra una delegazione britannica ed
una delegazione somala si svolsero
a Roma nell’agosto 1963, ma senza
esito, rimandando Londra ogni de¬
cisione al governo indipendente
kenyano.
La controversia è complicata dal¬
le convenzioni intercorse fra Etiopia
e Gran Bretagna e denunciate da
Addis Abeba con la fine del protet¬
torato britannico sul Somaliland,
che consentivano ai pastori somali
di pascolare nelle regioni dell’Haud
(watering and grazing rights). In
Etiopia vivono circa 750.000 somali
e nel Kenya 100.000, per lo più
nomadi. Per meglio resistere alle
pressioni della Somalia, Etiopia e
Kenya hanno stipulato il 27 dicem¬
bre 1963 un accordo di mutua di¬
fesa.
Il principale ostacolo alla realiz¬
zazione della ’ grande Somalia ”, co¬
munque, è costituito dall’Etiopia
che si oppose già — per sabotare
il completamento nazionale dei so¬
mali — all’unificazione del Somali¬
land e della Somalia in amministra¬
zione fiduciaria all’Italia. Hailé Sé-
lassié non ha mai nascosto di non
accettare il principio di auto-deter¬
minazione su base etnica, giudican¬
do vincolanti i vecchi trattati del¬
l’epoca coloniale.
Se il Kenya è contrario a cedere
alla volontà dei somali per non da¬
re inizio ad un processo di disin¬
tegrazione nazionale, l’atteggiamen¬
to di intransigenza del governo di
Addis Abeba riflette anche l’inten¬
zione di affermare un diritto di pre
lazione sulla stessa Costa francese
dei somali, che è di fatto intima¬
mente legata (attraverso il porto
di Gibuti e la ferrovia che vi fa
capo) al sistema economico etiopi¬
co; in questo territorio — che ha la
qualifica costituzionale di territorio
d’oltremare — vive una forte ali¬
quota di africani di stirpe dankalica,
non affine ai somali, che sono meno
della metà dei 70.000 abitanti, neu¬
tralizzando perciò la spinta annes¬
sionistica verso la Somalia. Il caso
della Somalia francese è singolare,
perché né la Somalia né l’Etiopia,
che pure proclamano di difendere
con la loro azione una politica ” afri¬
cana ”, di consolidamento degli Sta¬
ti africani sorti dal ritiro dell’im¬
perialismo, hanno intrapreso passi
concreti per liquidare la domina¬
zione francese su questo lembo del
Corno dell’Africa, economicamente
senza valore ma di un’importanza
strategica eccezionale.
In queste condizioni era preve¬
dibile che la tensione accumulatasi
in tanti anni dovesse esplodere in
un conflitto.
I combattimenti sono stati parti¬
colarmente accesi nella zona del¬
l’Haud. L’Etiopia ha subito chiesto
l’intervento dell’Organizzazione del¬
l’unità africana (ODA) mentre la
Somalia si è rivolta al Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite.
La scelta dell’organo per i due ri¬
corsi è significativa; all’OUA, in¬
fatti, e non solo perché ha sede ad
Addis Abeba ed è ritenuta una crea¬
tura della diplomazia dell’impera¬
tore Hailé Sélassié, la Somalia ha
scarse speranze di imporre la pro¬
pria tesi revisionistica; all’ONU, in¬
vece, il giuoco delle alleanze e delle
influenze potrebbe riuscire più sot¬
tile e portare a risultati diversi (il
Ghana e l’Egitto mostrarono in pas¬
sato una solidarietà discreta per la
unificazione di tutti i somali e lo
stesso Chou En-Lai si è espresso
in termini benevoli per il naziona¬
lismo pansomalo).
II 12 febbraio si è riunito a Dar-
es-Salaam (capitale del Tanganyika)
un convegno di ministri degli Este¬
ri africani. La conferenza era stata
convocata dal presidente Nyerere per
esaminare la situazione venutasi a
creare nell’Africa orientale dopo
l’intervento — sollecitato dai gover¬
ni locali — di truppe britanniche
per far fronte alle insurrezioni mi¬
litari nel Tanganyika, nell’Uganda
e nel Kenya, ma, in considerazione
dei combattimenti sul confine so¬
malo-etiopico, ha discusso anche
questo problema. Unanimemente i
ministri africani hanno invitato le
parti a concordare una tregua ed a
tentare una soluzione negoziata del¬
la controversia; il cessate-il-fuoco è
stato però ripetutamente violato an¬
che in seguito; per la pacificazione
a lungo termine si stanno adope¬
rando molti governi africani, fra
cui il Sudan ed il Ghana.
Qualunque sarà lo sviluppo degli
avvenimenti presenti, è certo che
il problema somalo tornerà più vol¬
te d’attualità prima di trovare una
soluzione soddisfacente e definitiva.
La sola prospettiva durevole sem¬
bra coincidere con un progresso so¬
stanziale dei programmi panafrica-
nisti: fra le unioni regionali in pro¬
getto, una riguarda appunto l’Africa
orientale, che è però contrastata dal
presidente Nkrumah, il quale ri¬
tiene incompatibili tali raggruppa¬
menti regionali con il sogno pan¬
continentale. La Federazione del¬
l’Africa orientale è in fase di rista¬
gno anche limitatamente ai suoi
ideatori originali (Tanganyika, Ke¬
nya ed Uganda), ed è perciò poco
verosimile che essa possa offrirsi co¬
me via d’uscita della crisi somalo¬
etiopica, almeno in un tempo pros¬
simo. E’ d’altro canto evidente che
solamente mediante intese dirette
sui punti più acuti di dissidio fra
Stati vicini la solidarietà africana
potrà stabilizzarsi ed evolvere ver¬
so forme più mature, e non vice¬
versa, in quanto i governi non sem¬
brano disposti a fare concessioni
prima d’avere raggiunto un suffi¬
ciente grado di sicurezza sull’irre¬
versibilità del processo d’unifica¬
zione.
Le conseguenze delle vecchie di¬
spute fra imperialismi concorrenti,
che si riflettono in nuove rivendi¬
cazioni territoriali aggiungono altri
motivi di instabilità, oltre a quelli
provocati dalle ripercussioni più pro¬
priamente politiche della decoloniz¬
zazione. In questo diffuso malessere
che pesa sull’Africa orientale s’in¬
serisce il giuoco delle grandi poten¬
ze; ed è facile capire come la crisi
di sviluppo e di assestamento delle
nuove nazioni offrano occasioni non
indifferenti alle diplomazie interes¬
sate per coinvolgere questa zona
dell’Africa di tanto interesse stra¬
tegico nella contesa della guerra
fredda.
GIAMPAOLO CALCHI NOVATI
11
Commento a cose del Messico
CONO passati quasi quattro decen¬
ni da quando, nel 1927, scrivendo
sulla Rivista Pedagogica delle scuole
messicane (e criticando così indiret¬
tamente la p>olitica fascista nel campo
educativo), Giovanni Pioli riportava
l’affermazione di un noto scienziato
americano di allora: « L’influenza del
Messico sull’America Latina nei pros¬
simi 50 o 100 anni sarà probabil¬
mente simile a quella esercitata dalla
Francia sull’Europa dopo la Rivolu¬
zione Francese. Forse ad esso è ri¬
servato d’essere la guida spirituale e
morale dell’America Latina. Il Mes¬
sico è il solo stato dell’America Lati¬
no che si sia accinto a risolvere i pro¬
blemi fondamentali: agrario, dell’im¬
perialismo estero, delle razze, educa¬
tivo, c dei rapporti fra Chiesa e po¬
polazione ». L’affermazione non era
esagerata; non lo è neppure in rela¬
zione al 1964 anche se, nella stampa
europea di oggi, sembrano al primo
posto — per ragioni assai diverse
— Cuba, il Brasile e l’Argentina.
Di solito, poco si sa in Europa
del Messico e quel poco è in gran
parte errato: come sempre, il mito
oscura la realtà; formatasi, sulla
base d’informazioni frammentarie e
di interpretazioni superficiali, una
immagine, essa serve a valutare e a
giudicare. Contrariamente all’imma¬
gine, la nazione messicana (che rag¬
giungerà quest’anno i 40 milioni,
quasi tre volte più di quello che era
mezzo secolo fa) ha compiuto, in
quest’ultimi decenni, in ogni ramo di
attività, progressi invidiabili. Città
del Messico è un centro intellettuale
di prim’ordine, anche prescindendo
dali’apporto di migliaia di esuli re¬
pubblicani spagnoli; l’arte messicana
contemporanea è troppo nota perchè
occorra mettere in risalto le carat¬
teristiche che le sono proprie; per
quanto esista ancora, sopra tutto
presso i settori dell’intellighenzia che
pur affermandosi progressisti vivono
più nel passato che nel presente, una
ossessione come il problema agrario,
il Messico si è venuto industrializ¬
zando rapidamente grazie all’attività
e capacità di imprenditori e tecnici
aiutati, dal 1934 quando Cardenas
assunse il potere presidenziale, da
una politica governativa efficiente.
DI MAX SALVADORI
che come al solito è criticata da
quanti non hanno responsabilità di
governo. Durante gli anni cinquanta
l’espansione economica, malgrado le
difficoltà create dall’esplosione demo¬
grafica, è stata paragonabile a quella
dell’Europa dei Sei; fra le repubbli¬
che dell’America Latina, l’influenza
messicana è assai notevole, e per
gli Stati Uniti l’approvazione o la
disapprovazione del Messico contano
più di quelle di qualsiasi altra nazio¬
ne quando si tratta di problemi ri¬
guardanti le due Americhe (fu im¬
portante l’atteggiamento favorevole
del Messico all’epoca della crisi del¬
l’ottobre ’62, fu importante nel ’63
l’atteggiamento sfavorevole del Mes¬
sico quando il governo americano
proposte una serie di sanzioni dirette
all’isolamento di Cuba).
Dalla rivoluzione del 1911 (più
importante per l’emancipazione del¬
la nazione messicana dell’indipen¬
denza acquistata nel 1821) uno dei
problemi che hanno appassionato
maggiormente i settori politicamente
attivi del pubblico messicano, è sta¬
to quello dell’istruzione. A questo,
seguendo i luoghi comuni dell’illu¬
minismo, venivano collegati i proble¬
mi della libertà politica (intesa de¬
mocraticamente come autogoverno e
non patriottardamente come indipen¬
denza), dei prestigio sul piano in¬
ternazionale, e — sopratutto — del
progresso economico. Quando, nella
scìa della rivoluzione spagnola del
1820, il Messico divenne indipen¬
dente, come popolazione, estensione
(doppia di quella di oggi), risorse
naturali, capitale di cui il paese era
dotato, poteva essere paragonato
favorevolmente agli Stati Uniti
del 1783.
A quale fattore occorreva attri¬
buire il diverso sviluppo delle due
nazioni, statica Luna, dinamica l’al¬
tra? all’educazione che nella nuova
nazione di lingua spagnola differiva
profondamente da quella nella na¬
zione di lingua inglese, si rispondeva
— semplicisticamente — sia a sud
che a nord del Rio Grande. Mezzo
secolo fa il problema messicano del¬
l’istruzione sembrava avere due
aspetti principali: analfabetismo e
monopolio (o quasi monopolio) cle¬
ricale. Statisticamente, la quasi tota¬
lità dei messicani sono cattolici come
lo sono gli italiani, ed anche se si
tratta per i più — come già afferma¬
va in una sua lettera del 1864 l’ef¬
fimera imperatrice del Messico Car¬
lotta — di uno pseudocattolicesimo
fortemente impregnato di credenze
indie, l’influenza del clero è stata
uno degli elementi centrali della
vita messicana. Prima del 1911, la
istruzione era un privilegio gelosa¬
mente controllato e non un diritto
di tutti; aveva come scopo l’indot¬
trinamento, cioè l’asservimento delle
menti; era uno strumento di cen¬
sura; eliminava il più possibile dallo
insegnamento le discipline scientifi¬
che dalla cui diffusione dipende in
gran parte lo sviluppo economico.
Sappiamo bene che non si trattava
di problemi puramente messicani:
esistono e sono esistiti in quasi tutte
le collettività umane in cui si è af¬
fermato il dogmatismo sovrannatu¬
rale; li trovavamo ancora recente¬
mente nel Mezzogiorno borbonico
e post-borbonico. ( Occorre certo
diffidare dei paralleli, ma ricordo
che visitando anni fa le città del
Messico centrale quali Morelia —
sede universitaria — Puebla e To-
luca, mi sembrava di viaggiare nello
estremo sud della penisola italiana).
Era opinione concorde dei messicani
colti e riformisti di attribuire alla
mancanza di istruzione l’arretratezza
del paese, la difficoltà di smuovere
la nazione, la presenza di comunità
indie non assimilate, la debolezza
sul piano emisferico, l’indice elevato
di fenomeni patologici quali delitti
di sangue ed alcoolismo, la debolez¬
za in alcuni settori della popola¬
zione dei legami familiari e l’indice
elevato di illegittimità, la supersti¬
zione e via di seguito. In quest’ulti¬
mo cinquantennio vi sono nomi di
educatori messicani che si sono fatti
una reputazione anche in Europa, da
Vasconcelos, Caso, Saenz, Bassols,
Gamio, a Torres-Bodet, ex-direttore
generale dell’UNESCO a Parigi, mi¬
nistro dell’istruzione sia prima che
dopo la parentesi parigina, campio¬
ne indefesso dell’educazione di
massa.
Data l’importanza del Messico, la
18
serietà con la quale dal 1911 in poi
sono stati affrontati i problemi edu¬
cativi, la varietà di esperimenti riu¬
sciti e falliti, è da augurarsi che
venga tradotto il libro pubblicato
recentemente dalla Huntigton Li¬
brary (una delle tante case editrici
non commerciali che facilitano negli
Stati Uniti la pubblicazione di libri
degni di essere stampati anche se
il pubblico a cui si rivolgono è mol¬
to limitato) di cui è autore il pro¬
fessore americano R.E. Ruiz, sulla
sfida che analfabetismo e povertà
rappresentano per il Messico, fi ma¬
teriale raccolto è pieno di interesse,
sopra tutto per chi non è al corren¬
te di cose messicane.
L’A. esordisce riassumendo i dati
del problema educativo quale si pre¬
sentava in particolare durante gli
anni che precedettero e seguirono
immediatamente la promulgazione
della costituzione del 1917. Descrive
successi ed insuccessi di riforme adot¬
tate durante i quindici anni dominati
dalle figure di Obregòn e di Galles:
due nomi ben conosciuti in Europa
da quanti tre decenni fa cercavano
di arginare la marea fascista; anni
turbolenti che videro però raffermar¬
si della rivoluzione del 1911. Libe¬
ratosi nel 1935 Cardenas dalla tutela
del suo patrono Galles, vi fu il breve
periodo (un quinquennio circa) in
cui la politica governativa dell'istru¬
zione fu in mano a coloro che l’A.
presenta come esponenti della scuola
socialista, ed il cui socialismo, agra¬
rio, populista, fatto più di emozione
che di ragionamento, aveva (eccetto
per l’uso della violenza c per l'inte¬
gralismo) dei punti di contatto con
il castrismo di oggi; come il castri¬
smo, il programma negativo era più
chiaro di quello positivo ( nel campo
educativo erano avversari da distrug¬
gere, in particolare, il positivismo
comtiano, il darwinismo sociale e il
deweyismo, ai quali i populisti mes¬
sicani attribuivano una eccessiva
preoccupazione per l’individuo che
andava a detrimento della coesione
sociale); come i populisti russi erano
andati a cercare nel mir dell’epoca
pre-czarista l’ideale di cui volevano
l’applicazione, così i populisti messi¬
cani, ministri e consiglieri di Garde-
nas, i quali consideravano reazio¬
nario Dewey, campione dell’istru¬
zione progressista negli Stati Uniti,
volevano risuscitare il comunitari¬
smo che l’A. ritiene essere stato ca¬
ratteristico della vita degli indii
messicani, e che è la formula di tutte
le collettività in cui la rigida orga¬
nizzazione del gruppo impone il con¬
formismo integrale.
Gon la scelta a successore di Gar-
denas del generale Gamacho nel
1940, ebbe inizio il processo di al¬
lontanamento dal populismo degli
anni trenta, processo che si è venuto
man mano accentuando durante l’ul¬
timo decennio, caratterizzato ( anche
se l’A. appena vi accenna) da rapi¬
do sviluppo, dalla diffusione della
istruzione, dal miglioramento di scu-
le ed università, dalla creazione di
istituti più adatti di quelli tradizio¬
nali a formare dirigenti aziendali e
tecnici capaci di agire efficientemen¬
te nel campo economico; caratteriz¬
zato pure da squilibri più gravi di
quelli verificatisi in Italia, fonte per¬
ciò di tensioni ed antagonismi.
Strumentalizzazione
della storia
Gompletato il riassunto storico,
l’A. tratta nei capitoli che seguo¬
no di aspetti particolari del proble¬
ma educativo messicano: la forma¬
zione degli insegnanti, e lo sfor¬
zo che solo parzialmente ebbe suc¬
cesso di creare una classe di inse¬
gnanti entusiasti, il cui entusiasmo
avrebbe dovuto avere ( e non sembra
che abbia avuto) un effetto rigene¬
ratore sulle masse; l’educazione dei
contadini, la cui presenza nell’Ame¬
rica latina ed assenza nell’America di
lingua inglese costituisce uno degli
elementi di maggiore incomprensio¬
ne fra quella e questa; l’educazione
degli indii non assimilati (in realtà
una piccola minoranza che si sta n-
ducendo gradualmente, che anche
però occupa un largo posto nel¬
le preoccupazioni dell’intellighenzia
progressista messicana ) ; il posto che
lo spagnolo dovrebbe occupare nello
sviluppo di una coscienza nazionale;
e finalmente l’antagonismo fra cleri¬
calismo e laicismo, fra il dogmati¬
smo cattolico che ha una visione
netta e precisa di quello che dovreb¬
be essere l’educazione (ed in par¬
ticolare di quello che dovrebbero es¬
sere le scuole pubbliche) ed una va¬
rietà di dottrine laiche che spesso
distano fra di loro non meno di
quello che ognuna dista dalla posi¬
zione cattolica.
11 materiale del libro è interessan¬
te e vale certo la pena che venga
conosciuto all’estero. In quanto allo
schema storico del quale l’A. si ser¬
ve per collocare e interpretare gli av¬
venimenti, esso vale a seconda dei
giudizi e dei pregiudizi dei lettori.
L’A, non fa quello che storici appar¬
tenenti a scuole diverse dalla sua
ritengono compito fondamentale del¬
la storia: ricostruire il passato rivi¬
vendolo, esaminandolo e giudicando¬
lo sopra tutto in base ai concetti,
alle situazioni, ai valori di allora e
non in base ai concetti, alle situazio¬
ni, ai valori d’oggi. Applicando alla
situazione messicana le passioni ( e la
terminologia ) dei progressisti ameri¬
cani d'oggi, l’A, parla di Galles come
d’un conservatore, insiste — critican¬
dolo aspramente — su di un darwi¬
nismo sociale che appartiene più alla
realtà anglosassone che a quella la¬
tino-americana ( ricalcando una nota
pubblicazione del sociologo A. Gaso
che non è però elencata nella biblio¬
grafia), attribuisce ad educatori e a
presidenti della repubblica america¬
na finalità più comprensibili nel 1964
che nel 1924 o 1944. Per l’A. la
storia, cioè il passato, è interpre¬
tata in base ad emozioni e passioni
di oggi, diventa strumento di con¬
vinzione ideologica, e perde il ca¬
rattere (sempre di difficile applica¬
zione) di disciplina in cui la ricer¬
ca del vero trascende appunto tali
emozioni e passioni.
Di tutto questo il lettore si accor¬
ge facilmente, e lo può scontare. L’A.
appartiene alla schiera già numerosa
di intellettuali americani fra i quali,
con numerose gradazioni, ha fatto
presa la protesta contro il sistema
ideologico del quale furono espres¬
sione i principi) del 1776, Il quale
anche si sta indebolendo nella mi¬
sura in cui si indeboliscono le isti¬
tuzioni che in quei principi) trovano
la loro giustificazione; si tratta di
intellettuali tendenzialmente sociali¬
sti i quali però non sanno ancora
— i piu — se il loro socialismo è
democratico (nel senso americano
della parola) o autoritario (come
non lo sapevano i populisti messica¬
ni dell’epoca di Cardenas, come non
lo sanno molti dei castristi di oggi).
Leggendo il libro, il lettore appro¬
fondirà la sua conoscenza del Mes¬
sico; arriverà anche ad una migliore
comprensione della crisi che attra¬
versano settori importanti dell’in¬
tellighenzia americana.
MAX 8ALVADORI
It
I PROCESSI AGLI EX NAZISTI
Non perdonare nè dimenticare
DI ANNA GAROFALO
Meditate che questo è stalo
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi
Ripetetele ai vostri figli
Primo Levi
«Se questo è un uomo» (Einaudi
1963)
AGNI giorno, da molti mesi — ed
è bene che ciò avvenga — i
giornali danno ampi resoconti dei
processi che si svolgono nella Ger¬
mania dj Bonn contro i criminali
nazisti che finora l’avevano fatta
franca, rifugiandosi in qualche pae¬
se compiacente o mimetizzandosi
sotto falso nome e false spoglie in
patria, con migliaia di vittime sul¬
la coscienza.
Sono di scena in quelle aule uo¬
mini, donne e bambini ebrei depor¬
tati nei campi di sterminio e con¬
dannati a morire nelle camere a
gas o di fame, di torture, di epi¬
demie, di sadici esperimenti « scien¬
tifici » o della cosiddetta « euta¬
nasia ».
Gli interrogatori degli assassini
e le testimonianze di qualche scam¬
pato per miracolo, venuto a depor¬
re come ultimo omaggio alla me¬
moria dei compagni che non pos¬
sono più parlare, rivelano sempre
nuove efferatezze e ripropongono al
giudizio degli uomini liberi — e
anche di quelli che per fanatismo
di parte si ostinano a negare o a
minimizzare quelle pagine di igno¬
minia — la più grande carneficina
di questo secolo, di fronte a cui
ogni essere umano prova un senso
di sdegno e di vergogna.
Le aule del tribunale di Franco¬
forte dove si svolgono i processi
sembrano anguste per contenere il
senso di orrore che nasce da quelle
dichiarazioni, da quei racconti, che
forza le porte e le finestre come
se volesse spalancarle per far usci¬
re i miasmi, l’acre respiro della be¬
stialità, la degradazione di uomini
che erano insieme schiavi e tiranni.
proni davanti all’autorità e feroci
verso i loro simili.
Il silenzio del pubblico di fronte
alle domande e alle risposte cne si
incrociano come spade è totale, un
silenzio che è come sospensione del¬
la vita e paura di quella morte evo¬
cata ad ogni istante, nelle sue forme
più inique. Non la morte che tutti
ci aspetta, la morte che è scritta
nell’atto di nascita, ma la morte
proditoria, la morte - agguato, la
morte piena di « perchè ». Molti
interrogativi nascono dalla lettura
di quei processi, da quelle risteste
o deposizioni di imputati e di te¬
stimoni, ma uno è perentorio: « ci
sono giovani, nell’aula? Chi sono?
che cosa pensano della generazione
che si macchiò di quei delitti, dei
loro padri che, anche se non diret¬
tamente colpevoli, permisero quel¬
le stragi, lasciarono coprire di ver¬
gogna il volto di un’intera nazione?
Che cosa pensano i giovani delia
risposta che sempre ricorre in boc¬
ca alle belve: « obbedivamo agli
ordini ricevuti »? Come giudicano
questa mostruosa, iniqua obbe¬
dienza?
Forse, ora che la strage è com¬
piuta, il chiedersi che cosa essa ha
insegnato non agli adulti scettici,
non agli anziani ubbriacati dal boom
economico, ma ai loro figli e nipoti
incolpevoli è tutto quanto ci resta
per cercar di capire un popolo
per molti aspetti indecifrabile e il
cui spirito di rivalsa, il cui nazio¬
nalismo e militarismo rinascono
ogni volta dalle ceneri della di¬
sfatta.
Somigliano ai padri, questi gio¬
vani tedeschi o sono veramente di¬
versi, consapevoli di portare una
eredità pesante, decisi a far dimen¬
ticare, per quel che possono, le
colpe del nazismo, il martirio di
sei milioni di ebrei, i bambini get¬
tati vivi nelle fiamme, le donne rese
sterili e folli, gli uomini ridotti a
sognare la camera a gas?
Lo sanno o fingono di non sa¬
perlo, come l’autista tedesco che
nel *49 ci accompagnò al campo di
sterminio di Dachau e con noi vi¬
sitò le testùnonianze degli orrori
e dei massacri, lesse le scritte in
tutte le lingue, entrò nella stanza
dei forni e delle torture, dove il
sangue misto a capelli strappati
ancora macchiava i muri? Guar¬
davamo il suo viso e il suo sbi¬
gottimento ci sembrava sincero,
ma poi la ragione ci imponeva di
non credergli, troppo recenti ^ e
clamorose quelle sventure e lui
in età di sapere, di capire, di ini-
dovinare.
Ebbene, è meglio dirlo chiaro:
noi non possiamo dimenticare e
ncfipure perdonare. Se non l’odio,
il rancore è un lievito che tiene
in piedi, che tiene svegli. Addor¬
mentarci non ci è consentito.
Noi leggiamo quelle testimo¬
nianze, quelle risposte, con la fron¬
te che brucia, con la pelle che si
raggrinza, con il dolore di non
aver fatto abbastanza per impedire
10 scempio. E ci sembra che la
sola cosa che noi possiamo fare
stia in questo sdegno, in questa
vergogna, che coglie anche noi per
11 fatto di essere uomini, per quel
tanto di silenzio che ognuno di noi
ha conservato, di fronte ad altri
silenzi più colpevoli e più grandi.
Noi non concepiamo — l’ha detto
così bene Ernesto Rossi — « que¬
sto amore uguale per tutti gli uo¬
mini (tanto per i carnefici che per
le loro vittime) e per tutti i po¬
poli tanto per quelli aggressori che
per quelli aggrediti) ». Gli « em-
brassons nous » a tutti i costi non
sono per noi. Accettiamo di tene¬
re accesa in petto questa discordia
come una forma di espiazione, an¬
ziché adagiarci in un comodo oblio,
noi gli scampati, noi i vivi della
guerra perduta, di fronte a quei
sei milioni di ombre.
Certo, vogliamo la pace, voglia¬
mo la coesistenza fra i popoli, qua¬
lunque sia U loro regime politico
e vogliamo che ogni controversia
sia risolta attraverso mediazioni in¬
ternazionali e non attraverso la
guerra.
Ma volere la pace non significa
rinunziare a pensare e tanto meno
a giudicare, significa fare in modo
che quanto è successo non avvenga
più. Se dimenticassimo e perdo¬
nassimo, quei morti sarebbero mor¬
ti due volte.
ANNA GAROFALO
20
PIO XII, PAOLO VI E GLI EBREI
Quattro dita di giunta
DI ERNESTO ROSSI
La pubblicazione del primo articolo di Erne¬
sto Rossi su Pio XII e gli ebrei ha provocato la
reazione di molti lettori, che ci hanno espresso
il loro consenso e anche il loro dissenso. Ci sem¬
bra perciò necessario ricordare che gli scrittori
dell’Astrolabio, uniti da alcuni grandi principi
etici e politici comuni, non intendono jare di que¬
sto foglio l'organo di particolari dottrine e di
particolare propaganda, ma solo una sede di
discussioni ed un’invito alla riflessione critica.
Già in altre occasioni, questo criterio ci ha spinto
a preferire di dare ai lettori una gamma di opi¬
nioni divergenti. E anche su un terreno delicato,
come quello che comporta giudizi su uomini e
fatti della religione, L’Astrolabio tiene a presen¬
tarsi con una posizione aperta, in cui possano tro¬
var posto tanto i cattolici laici che gli agnostici
anticlericali. Di questa posizione aperta forni¬
scono una prova i due articoli di Ernesto Rossi,
a illustrazione di una vicenda storica che ha ac¬
ceso l’interesse vivissimo dell’opinione pubbli¬
ca internazionale.
PON TUTTO il putiferio che le gerarchie ecclesia¬
stiche hanno saputo scatenare contro la rappresen¬
tazione di II vicario, mi sembra che abbiano dato
prova di non aver meditato abbastanza sul saggio
pensierino che il Ferrari mette in bocca al marchese
Colombi:
<f II modo più bello, secondo il mio parere,
di serbare il silenzio, è quello di tacere ».
Invece di tacere hanno lanciato anatemi; hanno
riempito i giornali di articoli, lettere, testimonianze;
hanno organizzato cortei di protesta clerico-fascisti;
hanno fatto scomodare le forze dell’ordine imprendo
l’ingresso nei teatri... Resultato: dal dramma di Hoch-
huth si sta ricavando un film che probabilmente avrà
un successo anche più clamoroso del lavoro teatrale,
e, in tutti i paesi civili, « la venerata memoria di
Pio XII » è oggi chiamata a rispondere di quella che è
stata la politica della Santa Sede, durante la guerra,
nei confronti dello sterminio degli ebrei.
Dopo aver detto che Hochhuth ha scelto il tema
deh suo dramma « col solo scopo di procurarsi una
clamorosa pubblicità », L'Osservatore della Domenica,
del 12 febbraio, ha riconosciuto che « le cose gli sono
andate ancora meglio del previsto, grazie alle pole¬
miche accese dal suo lavoro, peraltro mediocre, privo
di problematica, senza slancio artistico, degno di finire
nel dimenticatoio come tendenzioso libello ».
Un bel modo, in verità, di farlo finire nel dimen¬
ticatoio! Gli amministratori di alcune delle maggiori
ca.se cinematografiche americane hanno già incaricato i
loro marketing offices di approfondire l’indagine su
questo episodio, per vedere se non convenga dare un
indirizzo completamente nuovo alle campagne pubbli¬
citarie; a saperli « toccare nel loro debole », i mon¬
signori del Vaticano possono divenire strumenti di
propaganda efficaci come le meglio tornite gambe e
le più prosperose poppe delle belle figliole, e più delle
indiscrezioni giornalistiche sugli accoppiamenti, i litigi,
le fughe, i divorzi, i processi scandalosi delle « dive »
e dei « divi ».
Gli (( sforzi » del papa
L’Osservatore Romano del 1“ marzo ha riportato
altre due colonne di testimonianze in difesa di Pio XII.
Riprendo, perciò, a vuotare il sacco là dove l’ho la¬
sciato nell’ultimo numero.
Alcune dichiarazioni pubblicate sul giornale della
Santa Sede riguardano la carità, la generosità, il cuore
paterno del papa; non hanno alcuna importanza per
stabilire la verità della tesi principale sostenuta dal
Vaticano, e cioè che Pio XII fece tutto queUo che
poteva e che doveva fare come « Pastor Angelicus »
contro le persecuzioni e lo sterminio degli ebrei. Alla
fine della guerra non c’era, credo, in Italia un gerarca
fascista che non si fosse tempestivamente precostituito,
come polizza di contrassicurazione, la prova di avere
salvato qualche ebreo.
La testimonianza che sembra, invece, avere una
maggiore importanza è quella che l’Osservatore ha
ripreso dalle « Lettere all’editore » di un mensile cat¬
tolico, la Herder Correspondence, a firma Robert M.
W. Kenpner, ex deputato americano. Questo signore,
già « capo del consiglio por i crimini di guerra di
Norimberga » ( 1 ), ha scritto che « il Papa stesso
aveva dovuto constatare gli scoraggianti risultati dei
suoi sforzi nell’intervenire a favore di molti ebrei ».
« A dispetto di questi sforzi 3.000 sacerdoti catto¬
lici, in Germania, Austria, Polonia, Francia e altri
Paesi, furono messi a morte dai nazisti, come è dimo¬
strato nello studio Cronache di sacerdoti martiri, di
B.M. Kampener, che sarà pubblicato prossimamente ».
L’ex deputato non ci spiega come mai la Santa
Sede — tanto sollecita sempre a fulminare scomu¬
niche e a mettere il mondo a rumore contro i libe¬
rali, i socialisti e i comunisti che ardiscono toccare i
suoi anacronistici privilegi, o torcere un capjello ad un
(1) Così il dr. Kempner viene qualificato dal-
VOsservatore; ma dagli atti dei processi di Norim¬
berga risulta che in quei processi egli fu vice-pro¬
curatore per gli Stati Uniti contro i criminali di
guerra.
21
lacerdote cattolico (2), non abbia mai protestato pub-
olicamente contro i governanti nazisti responsabili del¬
l’eccidio di 3.000 sacerdoti.
« Dopo la disfatta del Terzo Ketch — ha scritto
Habosch, nel saggio citato nel mio ultimo articolo —
la Chiesa si è ricordata dei preti imprigionati dai
tedeschi e dei resistenti cattolici tedeschi già da essa
vituperati e respinti come traditori della patria, e le
professioni di fede nazista dei cattolici sono state pre¬
sentate come espedienti che avevano consentito di
lottare in modo più efficace contro la dittatura hitle¬
riana » ( 3 ).
Le Fosse Ardealine
La tesi — sostenuta anche dal dr. Kempner —
che Pio XII non protestò mai pubblicamente contro
gli sterminatori degli ebrei perché i fascisti e i nazisti
gli impedivano di parlare è smentita dai fatti.
« Mai il Reich hitleriano — afierma Habosch —
ha cercato di attentare alla libertà del Vaticano; lo
ha considerato sempre come un socio di cui si doveva
diffidare, ma col quale conveniva conservare buoni
rapporti ».
La verità di questa affermazione è provata anche
dal telegramma, n. 184, del 24 gennaio 1943, con
le istruzioni di Ribbentrop al suo ambasciatore presso
la Santa Sede, von Weiszaecker, di cui il dr, Kemp¬
ner riporta il seguente brano;
« Jl Vaticano progetterebbe di fare una dichiara¬
zione politica o propagandistica contro la Germania,
fatta in materia che resulterebbe chiaro e senza equi¬
voco, che qualsiasi peggioramento nelle relazioni rica¬
drebbe in pratica a svantaggio esclusivo della Ger¬
mania. Sia chiaro che il governo del Reich non difet¬
terebbe di materiali di propaganda per prendere ade¬
guate misure atte a controbilanciare ogni azione inten¬
tata dal Vaticano contro la Germania ».
Il dr. Kempner ci ammannisce questo telegramma
per dimostrare quali gravi pressioni il governo nazista
esercitava sul Vaticano per « farlo tacere »; ma il
fatto che un sostituto del procuratore generale al pro¬
cesso di Norimberga non sia riuscito a trovare negli
incartamenti di Ribbentrop dei documenti più pro¬
banti di questo moderatissimo ammonimento prova il
contrario: convalida il giudizio di Habosch.
Habosch ricorda anche (a pag. 1289) che {'Osser¬
vatore Romano, nell’ottobre del 1943, si felicitò con
l’armata tedesca per il suo corretto comportamento
nei confronti della Città del Vaticano:
« Esso ha espresso — scrisse allora l’ambasciatore
Weiszacker — la sua ricqnoscenza alle nostre truppe
per aver rispettato la curia e il Vaticano. Da parte
nostra abbiamo promesso che anche in avvenire il
nostro comportamento rimarrà lo stesso ».
Habosch commenta; * Grazie a questa promessa,
che sigillava un'alleanza, le deportazioni, il terrore e
gli assassina degli ostaggi potevano continuare senza
sollevare alcuna protesta papale. Per contro il Santo
Padre indirizzò a Roosevelt una lettera personale per
protestare contro il bombardamento di Roma. Pro¬
testò anche contro un attentato organizzato dalla resi¬
stenza italiana che fece 33 vittime, ma conservò il
silenzio quando i tedeschi fucilarono, per rappresaglia,
335 ostaggi » ( 4 ).
Il dr. Kempner scrive anche:
^ ■« Ogni movimento propagandistico della Chiesa
contro il Reich di Hitler sarebbe stato non soltanto
” una provocazione suicida ", come Rosemberg ha di¬
chiarato, ma avrebbe provocato lo sterminio di molti
più ebrei e sacerdoti ».
Né Kempner, né {'Osservatore ci dicono dove e
quando Rosemberg fece quella dichiarazione; ma l’Or-
servatore aggiunge:
(2) Analogamente la Santa Sede parve non ac¬
corgersi delle stragi dei sacerdoti baschi, perpetrate
dai musulmani marocchini e dai mercenari di Franco
durante la guerra civile di Spagna,
Per quanto riguarda le scomuniche contro i li¬
berali, le piu belle sono ancora quelle « fulminate »
da Pio IX durante il nostro Risorgimento. Vedi la
recentissima antologia, curata da Alfonso Leonetti
e da Ottavio Pastore sotto il titolo; Chiesa e Risor¬
gimento (Ed. Avanti.' Milano, ottobre 1963). Ecco,
ad esempio, la scomunica contro tutti i patrioti
italiani, che si legge nella allocuzione di Pio IX
al Concistoro segreto del 20 giugno 1859:
« Dippiù ricordiamo a tutti la scomunica mag¬
giore e le altre pene e censure ecclesiastiche, ful¬
minate dai Sacri Canoni, dalle Costituzioni Apo¬
stoliche, e dai decreti dei Concilii generali, special¬
mente del Tridentino, da incorrersi senza bisogno di
altra dichiarazione da coloro che in qualsivoglia
modo ardiscono di scuotere il potere temporale del
romano Pontefice, e quindi dichiariamo esservi di
già miseramente incorsi tutti coloro i quali a Bolo¬
gna, a Ravenna, a Perugia, e altrove osarono col-
Topera, col consiglio, coll’assenso e per qualsiasi
altro modo, di violare, perturbare ed usurpare le
civili potestà e giurisdizioni nostre e di questa Santa
Sede, e il patrimonio di San Pietro >.
(3) Heint Habosch — < L'église catholique et le
nazisme », in Les temps modernes, gennaio 1964.
Il brano riportato nel testo (da pag. 1299) così con¬
tinua; «E’ soltanto cosi che si è resa possibile, dopo
la guerra, la straordinaria carriera di un Globke.
Di fatto egli era un cattolico fra innumerevoli altri
che faceva al suo posto (al ministero degli In¬
terni) quello che gli altri facevano al loro posto,
seguendo, alla lettera, le direttive dell'episcopato.
La Chiesa ha presentato Globke come un « resisten¬
te >, grazie al medesimo sotterfugio che le ha per¬
messo di presentare il suo stesso atteggiamento come
un atteggiamento di « resistenza ».
Hans Globke venne a Roma l’anno scorso ad
accompagnai'e Adenauer nella sua visita di congedo
in Vaticano. Già ministro degli Interni (cioè della
polizia) fin dal 1930, il dr. Globke è stato direttore
generale della cancelleria Federale nella repubblica
tedesca, dal 1949 al 1953, e poi segretario di Stato.
(4) Se il papa non parlò della strage delle fosse
Ardeatine, in cui un terzo delle vittime furono ebrei,
l'Osservatore Romano ne fece un breve cenno sul
numero del 24 marzo 1944, riportando il comunicato
ufficiale dell’Agenzia Stefani, che terminava: < Il
comando tedesco ha ordinato che, per ogni tedesco
ammazzato, dieci criminali comunisti badogliani sa¬
ranno fucilati. Quest'ordine è già stato eseguito ».
Nel suo commento il giornale della Santa Sede fece
« un appello alla serenità e alla calma > in cui in¬
vocava prima « dagli irresponsabili (cioè dai ” re¬
sistenti”) il rispetto per la vita umana, che non
hanno il diritto di sacrificare mai, il rispetto per
l’innocenza, che ne resta fatalmente vittima », e poi
c dai responsabili (cioè dai comandi tedeschi) la
coscienza di questa loro responsabilità verso se stes¬
si, verso le vite che vogliono salvaguardare, verso
la storia e la civiltà ».
22
• Da fonte attendibile, dunque, perché a diretta
conoscenza di documenti dell'istruttoria del processo
di Norimberga, si conferma ancora una volta che
pubblico intervento di condanna di Papa Pio Xii
avrebbe conseguito il resultato di sempre maggiori
dolori e strazi degli ebrei e cattolici perseguitati. Pre¬
feribile continuare instancabilmente, anche se nel silen¬
zio, l'opera di assistenza e di protezione svolta con
invitto fervore da Papa Pio XII, attraverso i canali
diplomatici e valendosi della rete gerarchica, per ten¬
tare di prevenire e limitare le orrende iniziative e
confortare e proteggere le vittime ».
E’ questa la tesi centrale, portata dai clericali a
giustificazione del silenzio di Pio XII: il Papa non
parlò per evitare il peggio. Anche i tre frati di
Mazzarino si sono difesi affermando che volevano
evitare il peggio. Ma se questa tesi fu accettata
per buona dai giudici di prima istanza (che il
22 giugno 1962 assolsero i tre frati con formula
piena), è stata poi respinta dai giudici di seconda
istanza, che il 5 luglio 1963 li hanno condannati a
13 anni di galera pier associazione a delinquere, estor¬
sione continuata e aggravata. Io sono tato corde coi
giudici di seconda istanza.
I documenti, che ho già riportato sull’ultimo nu¬
mero dtWAstrolabio, per provare quali rapporti di
amorosi sensi intercorrevano fra il Papa e il Fiihrer
immediatamente dopo la elevazione del cardinale Pa¬
celli al soglio pontifìcio (marzo 1939) e per mettere
in luce il significato del suo « non intervento »
dopo la emanazione delle prime leggi antisemite del
governo di Vichy (ottobre 1941) e del suo silenzio
dopo la grande razzia degli ebrei, sono, a me sembra,
sufficienti per darci un’idea dell’opera svolta da Pio
XII « attraverso i canali diplomatici ».
D’altra parte il telegramma del 17 ottobre 1943,
inviato dall’ambasciatore tedesco presso la Santa ^de
sulla razzia a Roma ( pubblicato pure nel mio articolo
precedente) ed il telegramma del 24 gennaio 1943,
di Ribbentrop, di cui ho dato sopra il testo, dim(>
strano quale preoccupazione i nazisti avevano che il
Papa prendesse pubblicamente posizione contro di
loro.
« l fatti dimostrano — osserva Habosch (pagina
1921) — che in Francia, e negli altri paesi occupati
dai tedeschi, sono state le azioni di resistenza quelle
che hanno salvato la vita ai perseguitati; non la
plicità diretta o indiretta dei collaboratori della Chiesa
o di altri collaboratori. La sola volta che la Chiesa
tedesca si oppose in maniera risoluta agli assassini!
di Stato ottenne pieno successo. L'eutanasia, prati¬
cata a cominciare dal 1940, cessò nell'agosto del 1941,
Hitler • avendo proibito a Rosemberg, in seguito a
un colloquio con Mussolini, qualsiasi atto di provo¬
cazione in confronto del Vaticano ».
Habosch ricorda anche un altro caso di intervento
positivo del Vaticano: il 24 giugno 1944, Pio XII
indirizzò al reggente Horty un messaggio per prote¬
stare contro le deportazioni degli ebrei ungheresi:
le deportazioni degli ebrei convertiti cessarono.
• Se si ricorda — scrive Habosch (pag. 1298) —
con quali precauzioni, con quali cure meticolose e
sotto quali mascherature la dittatura volle conservare
segreti gli stermina, non si può non attribuire gran
parte della responsabilità a questa congiura del silen¬
zio organizzata dallo Stato nazista. E' soltanto nella
misura in cui il silenzio venne rotto, nella misura in
cui si manifestò una resistenza, che la macchina dello
sterminio si inceppò e non riuscì a raggiungere tutti
i suoi obiettivi ».
Un articolo di « Esprit »
Anche quei cattolici che non vogliono rilevare
— come a me pare giusto rilevare — la responsabilità
diretta, positiva assunta da Pio XII con le sue mani¬
festazioni di consenso alla politica della « grande Ger¬
mania », anche quei cattolici che attribuiscono al papa
soltanto la colpa del silenzio, se sono sinceri, non
possono evitare il problema: debbono anche loro ri¬
conoscere « lo scandalo che deriva dal fatto — come
ha scritto, sulla rivista Esprit, Jean Marie Domenach
— che un uomo della parola abbia taciuto» (5).
« E' questo il problema — afferma l’autorevole
scrittore della sinistra cattolica francese. — Il resto,
tutto il resto, è politica. Il guaio è che il resto ha
contato di piti. Non facciamo gli ipocriti, chè cono¬
sciamo troppo bene il perchè ».
Alla domanda: « poteva il Papa tacere? », Do¬
menach risponde:
• No certamente. In momenti eccezionali è com¬
pito suo far udire, ad ogni costo, una parola chiara.
Sarebbe ancora il ” successore di Pietro " se non sa¬
pesse proclamare la fede malgrado le minacce dei per¬
secutori? Sarebbe ancora " il vicario di Cristo " se
non rendesse pubblicamente, quando ce ne sia biso¬
gno, ciò che la Chiesa deve a Dio, senza preoccuparsi
di Cesare? Lo sterminio degli ebrei era uno di questi
momenti. E certo si citano altri scandali: Hiroshima,
la dittatura franchista, il colonialismo sud-africano e
portoghese... Chi non si rende conto, tuttavia, di
quanto più ci impegnasse nel profondo il genocidio
hitleriano, in un mistero di iniquità in cui il dramma
di Hochhuth ci ricaccia, come poco fa il libro di
Schwartz-Bart? Ma la mancanza di Pio XII — una
volta tolti di mezzo tutti gli elementi individuali: la
germanofilia, un certo egocentrismo — non si com¬
prende che come il prolungarsi di una deficienza an¬
teriore, ben più ampia. La verità è che gli ebrei co¬
minciarono ad essere perseguitati, in ambiente cri¬
stiano e col consenso della maggioranza dei cattolici,
ben prima di Hitler, e che lo furono anche dopo di
lui, poiché si uccidevano ancora ebrei in Polonia nel
1946 e nel 1947. La verità è che la Chiesa, da secoli,
si è trovata più sovente dalla parte dei persecutori
che da quella dei perseguitati, si chiamassero essi ere¬
tici, ebrei, negri o proletari ».
Non bisogna dimenticare — aggiunge Domenach
— che « la Chiesa che aveva formato ed eletto a suo
capo Pio XII non era affatto preparata ad affrontare
quella testimonianza di profeta che l’esperienza fa¬
scista ed hitleriana volevano da lei ».
« Era una Chiesa ancora irretita nel gioco del po¬
tere, gravata da una massa contadina reazionaria, di¬
retta da Vescovi, di cui molti erano dei diplomatici
e dei signori e ben pochi uomini del Vangelo... Era
(5) Esprit, febbraio 1964.
ts
la Chiesa che cantava il Te Deum per celebrare la
disfatta delle insurrezioni operaie, che odiava il ca¬
pitano Dreyfus, che impartiva la benedizione a Mus¬
solini, Franco e Pavelitch ( 6 ).
L’amico dei nazisti
Habosch scrive che, dai suoi compatrioti, Pio XII
— per la sua infatuazione per la Germania e per i
suoi abitanti — era chiamato, in italiano, « il papa
tedesco »: « ai suoi occhi la Germania rappresentava
il pilastro centrale del cattolicesimo» (pag. 1291).
L’atteggiamento di più che benevola comprensione
di Pio XII nei confronti dei criminali nazisti fu una
conseguenza di quella simpatia e del suo odio verso
il comuniSmo « opera del Maligno ».
Ho già detto, nel precedente articolo, che il Con¬
cordato del luglio 1933 — col quale il nazismo, ap¬
pena instaurato al potere, venne canonizzato dalla
Santa Sede — fu opera del nunzio a Berlino, cardi¬
nale Pacelli, e di von Papen, leader del centro catto¬
lico nel parlamento tedesco.
Il 14 luglio 1933, in una riunione del suo gabi¬
netto, il Fùhrer dichiarò:
« Questo Concordato, il cui contenuto non mi
interessa affatto, crea una atmosfera di fiducia che
ci è molto propizia nella nostra lotta sistematica con¬
tro il giudaismo internazionale ».
Habosch, che riporta queste parole (a pag. 1292),
ricorda anche che il segretario di Stato, cardinale Pa¬
celli, nell’aprile del 1937, aveva scritto all’ambascia¬
tore tedesco presso la Santa Sede che non miscono¬
sceva « la grande importanza della formazione di
fronti di difesa politica interni, sani e vitali, contro
il pericolo del bolscevismo ateo ». Il Vaticano con-
duceva questa lotta con altri mezzi, ma « approvava
egualmente l’impiego di mezzi di potenza esterna,
contro il pericolo bolscevico» (pag. 1301).
Fra i « mezzi di potenza esterna » ovviamente
c’era anche quello della persecuzione del « popolo
deicida », che il Vaticano considerava il più perico¬
loso diffusore della « pestilenza del bolscevismo ».
Il giorno stesso della elezione di Pio XII, 2 marzo
1939, Ciano annotò nel suo Diario, che — secondo
quanto gli aveva riferito Pignatti, ambasciatore presso
la Santa Sede — « il Pacelli era il cardinale favorito
dai tedeschi ».
Tre giorni dopo, il 5 marzo, l’ambasciatore tede¬
sco presso la Santa Sede, Bergen, inviò al suo go¬
verno un telegramma (n. 261), per riferire i risultati
dell’udienza che gli aveva subito concesso il nuovo
papa:
* Nel corso della udienza, il papa, dopo che gli
ebbi rinnovato le mie felicitazioni, mi ha sottolineato
che ero il primo ambasciatore che riceveva: ci teneva
molto a incaricarmi personalmente di esprimere al
Fùhrer e Cancelliere del Reich la sua profonda gra¬
titudine; aggiungeva i suoi voti più sinceri per la
felicità del popolo tedesco che aveva imparato a sti¬
mare e ad amare ogni giorno di più nel corso della
sua lunga esperienza, durante la sua attività a Mo¬
naco e a Berlino. Il papa mi ha espresso poi il suo
" voto fervente in favore della pace fra lo Stato e la
Chiesa l’aveva già ripetuto spesso, quando era se¬
gretario di Stato, ma ci teneva oggi a confermarlo
espressamente nella sua qualità di papa.
« Per caratterizzare la sua posizione nei confronti
delle diverse forme di governo, nel corso del collo¬
quio, mi ha ricordato il discorso che l'anno scorso
fece, in lingua tedesca, al Congresso Eucaristico di
Budapest, in cui, nel punto principale, disse: " La
Chiesa non ha la missione di intervenire negli affari
e nelle contingenze puramente terrene per scegliere
tra i diversi sistemi e metodi che possono essere chia¬
mati a risolvere i problemi necessari del pre¬
sente ”» (7).
Quattro giorni dopo la elezione. Pio XII scrisse
a Hitler la lettera affettuosa, di cui ho riportato il
brano più significativo nel mio precedente articolo.
Il 13 marzo von Bergen commentò quella lettera
col telegramma n. 31, in cui osservava:
« Il tono generale della lettera del papa Pio XII
al Fùhrer e Cancelliere del Reich per annunciargli la
sua elezione, e inviata oggi per mezzo del segretario
di legazione Picot senza altre formalità, per mancanza
di tempo, è infinitamente più cordiale della lettera
che indirizzò papa Pio XI al presidente del Reich
allora in carica. Si deve specialmente rilevare il de¬
siderio di un’intesa che, in questa occasione, il papa
esprime nuovamente. Il testo tedesco della lettera
rivela la mano del papa, che, secondo informazioni
degne di fede, si è espressamente riservato di trat¬
tare, lui stesso, le questioni tedesche ».
Delitti non espiati
Nel libro II manganello e l’aspersorio ho già fatto
una abbondante raccolta di prove della continua col¬
laborazione che — nonostante tutte le pubbliche di-
(6) L’articolo continua asserendo che tutta la Chiesa
cattolica, tutta la cristianità sono chiamate in causa:
< In grande maggioranza avevano scelto il potere,
il realismo, il denaro. Secoli di compromesso con
l’ordine stabilito impedivano che al momento deci¬
sivo .il grido salutare venisse fuori. Con un atteggia¬
mento naturale il capo della Chiesa si comiiortò
come un capo di nazione, quasi che gli interessi
cattolici potessero essere scissi dalla libertà concul¬
cata, dall’Europa oppressa, dall’annientamento degli
Ebrei. Con un atteggiamento naturale, i più dei
Vescovi si comportarono da prefetti, anche se, non
avendo la responsabilità del Papa, essi sarebbero
stati più liberi di intervenire ».
Quale cattolico di sinistra italiano sarebbe oggi
capace di scrivere su una rivista sgradevoli verità
di questo genere?
(7) Les archives secrétes de la Wilhelmstrasse —
IV Les suites de Munich (Octobre 1938 - Mars 1939)
— Librerie Plon 1953, pagg. 546. Nella stessa pagina
di questo volume si legge il telegramma n. 28, da¬
tato 8 marzo 1939, in cui l’ambasciatore Bergen
informa il suo ministro che l’atteggiamento della
stampa tedesca verso il nuovo papa < è accolto con
soddisfazione negli ambienti non solo del Vaticano,
ma dell’Italia», ed aggiunge: c Dopo la morte del
papa, la visibile distenzione che si è prodotta fa
nascere la ferma speranza che le differenze fra la
Germania e il Vaticano potranno essere fra breve
eliminate ».
Il successivo telegramma, n. 31, che ho riportato
nel testo, è a pag. 547.
24
chiarazloni di neutralità e d’imparzialità — Pio XII
diede a Hitler, a Mussolini e a Franco, fino al mo¬
mento in cui lo sbarco degli anglo-americani in ^rica
e il successo della controffensiva russa non fwero
capire anche a lui che la partita dei nazi-fascisti era
ormai completamente perduta; da quel momento
Pio XII iniziò quella abilissima operazione di rove¬
sciamento di fronte, che — con l’aiuto dei governanti
americani — doveva riuscirgli cosi bene, c portarlo,
dopo la resa incondizionata della Germania, a espri¬
mere, il 2 giugno 1945, in una allocuzione al Sacro
Collegio, la sua fiducia che il pwpolo tedesco si sarebbe
risollevato a nuova vita dopo aver respinto « lo
tro satanico esibito dal nazionalsocialismo » e dopo
che i colpevoli avessero « espiato i delitti da loro
commessi ». i l i
Ma in testa alla lista dei « colpevoli » anche il
papa avrebbe dovuto segnare il nome del suo caris¬
simo amico, Franz von Papen, che aveva favorito in
tutti i modi l’ascesa del Fiihrer e il suo consolida¬
mento al potere; che il 30 gennaio del 1933 era dive¬
nuto vice cancelliere al fianco di Hitler; che aveva
preparato e firmato il Concordato della Santa Sede
con la Germania nazista; che — nella sua qualità di
ambasciatore a Vienna dal 1934 al 1938 si era
validamente adoperato a rafforzare il ^ partito nazista
in Austria favorendo in tutti i modi 1 Anschluss; che
— quale ambasciatore ad Ankara dal 1939 al 1944
— aveva diretto tutte le operazioni di spionaggio e
di sabotaggio contro gli anglo-americani nel Medio-
Oriente (8).
Nel febbraio del 1947 von Papen venrie chiamato
a rispondere dei suoi crimini davanti al tribunale mi¬
litare interalleato di Norimberga.
In un libro, pubblicato nel 1959 con l’imprimatur
delle autorità ecclesiastiche e con una presentazione
dell’arcivescovo di Torino, Leone Algisi ha scritto
di « aver sentito dire » che una documentazione, in
difesa di von Papen, che dimostrava quello che egli
aveva fatto, verso la fine della guerra, per far sentire
« una delle ultime voci libere in favore del suo p^
jX)lo », era pervenuta dalla Santa Sede al tribunale
di Norimberga e « aveva avuto peso al processo » ( 9 ).
Come era facilmente prevedibile, a Norimberga
von Papen fu assolto. (Fra i giudici americani pre¬
valevano i « benpensanti » tipo Kempner). Nuova¬
mente processato e condannato a otto anni di lavori
forzati da un tribunale tedesco di denazificazione, ai
primi del 1949 la sua pena venne condonata: l’ex
vice-cancelliere del III Reich aveva in Vaticario un
amico troppo potente ed a lui legato da troppi ricordi
di fecondo lavoro, svolto ai bei tempi del Fiihrer,
perchè potesse espiare sul serio i suoi delitti, come
gli altri criminali nazisti.
ERNESTO ROSSI
(8) Cfr. la voce a lui dedicata nel Dictionnaire dt-
plomatique, della Académie diplomatique Interna¬
tional (Paris 1933). Da questa voce risulta anche
che von Papen, mentre era attaché militare della
Germania a Washington, il 4 dicembre 1915 (quando
ancora gli Stati Uniti non erano entrati in guerra)
venne espulso dal governo americano come respon¬
sabile di operazioni dirette a impedire i rifornimeriti
agli alleati e l’entrata in guerra degli Stati Uniti
al loro fianco.
t9) Giovanni XXIII (ed. Marietti, 1959, pag. 160).
abbonatevi a
L’astrolabio
Un giornale libero e anticonfor¬
mista, che non può contare su fi¬
nanziamenti occulti, ha bisogno
di fondarsi sull'appoggio dei let¬
tori. L'abbonamento è la forma
più concreta di solidarietà politi¬
ca, è un contributo attivo alla dif¬
ficile! battaglia che l'Astrolabio
conduce senza tregua contro i pa¬
droni del vapore, in pantaloni o
in tonaca.
Abb. annuo 2.300
Sostenitore 5.000
25
IL CONGRESSO DELL' U6I
La sinistra nell’Università
E’ doveroso riconoscere esclusivamente ai giovani socialisti delle due
sponde il inerito del compromesso finale. Soprattutto su di essi, piut¬
tosto che sulle pur notevoli capacità tattiche dei giovani comunisti,
pesa l’incognita rappresentata daH’aggiiato delle prossime scadenze;
quasi una scommessa tra la forza dirompente delle scissioni socia¬
liste, lontane e recenti, e la capacità di maturare dialetticamente insie¬
me l’unità e l’alternativa della nuova sinistra.
TL COMPROMESSO con il qua-
le si è concluso il congresso
nazionale deH’Unione Goliardi¬
ca Italiana, svoltosi a Firenze
dal 21 al 24 febbraio, rispetta
fedelmente il rapporto di forze
attualmente esistente all’inter¬
no dell’associazone che racco¬
glie tutte le componenti della
sinistra universitaria. La nuo¬
va direzione nazionale dell’UGI
risulta composta da tre studen¬
ti del PSI (compreso il nuovo
presidente, il goliardo milane¬
se Roberto Spano), da due stu¬
denti del PSIUP e da due co¬
munisti; i settantacinque dele¬
gati presenti a Firenze in rap¬
presentanza di venticinque as¬
sociazioni d’Ateneo erano ap-
pvmto divisi in tre grossi rag¬
gruppamenti; venticinque di
essi erano socialisti aderenti al
PSI, veliti delegati gravitava¬
no verso il PSIUP, diciotto era¬
no controllati dal PCI. Soltan¬
to una decina di delegati, privi
di un peso congressuale auto¬
nomo, si definivano, ancora ge¬
nericamente, radicali, repubbli¬
cani, socialdemocatici o indi-
pendenti. Alla sua quattordice¬
sima edizione, a distanza di di¬
ciotto anni dalla nascita del¬
l’associazione, il congresso del-
rUGI ha sancito formalmente
una non più contestabile real¬
tà: tutte le forze ed ogni moti¬
vo della tradizione laica si risol¬
vono senza residui nelle nuove
generazioni volte ai partiti del
socialismo. L’assenza — per la
prima volta — di una presenza
«radicale» nella direzione del-
rUGI ne è una ovvia, anche se
per certi versi sensazionale,
controprova.
Il risvolto di codesta realtà sta
nella lievitazione, tortuosa e sot¬
terranea, che va provocando nel¬
le giovani componenti socialiste
dell’ UGI, quella tradizione, che
è stata da esse ereditata ormai
in esclusiva e che costituisce la
parte essenziale e duratura del¬
la storia della goliardia italiana;
quella tradizione che sarebbe
sempre più equivoco definire
«liberale» e che sarebbe scor¬
retto chiamare ancora «radica¬
le», e alla quale si negano an¬
cora gli studenti cattolici, tut¬
tora asserragliati nel ghetto cor¬
porativo e confessionale della
«Intesa universitaria». Si deve
all’avanzata maturazione di que¬
sta tradizione laica di cultura e
di politica nei giovani socialisti
e comunisti dell’UGI — cosi cre¬
diamo alla luce di quanto abbia¬
mo visto e ascoltato — se il con¬
gresso di Firenze è riuscito a
superare, al di là dello stesso
compromesso finale, i motivi po¬
lemici immediati e meccanici
della lacerazione tra i due par¬
titi socialisti (era il primo con¬
gresso dopo la scissione del PSI)
e l’imbarazzo dei giovani comu¬
nisti, infelicemente costretti a
misurare nel fuoco di un con¬
fronto incrociato e implacabile
l’ambiguità di una risposta tat¬
tica, che definisce contempora¬
neamente come una «jattura»
la scissione socialista e come un
«fatto positivo» la costituzione
del PSIUP.
Era inevitabile che i postumi
recenti della scissione socialista,
che tanta incidenza ha avuto nel
mondo giovanile e universitario,
portassero al limite di rottura la
tensione polemica di questo con¬
gresso deirUGI. Si è potuto in¬
vece constatare, oltre ogni pre¬
visione, quanto impotente sia in
un ambiente generosamente au¬
tonomo il tatticismo unitario dei
comunisti, che si è rivelato in¬
capace di mascherare qui con
formule aprioristiche e fittizie
una dolorosa lacerazione, ove
non avesse soccorso una ragio¬
ne di unità, superiore e antici¬
pata rispetto ai motivi di crisi
e di divisione dei partiti della si¬
nistra italiana.
E’ doveroso riconoscere esclu¬
sivamente ai giovani socialisti
delle due sponde il merito del
compromesso finale. Sopratutto
su di essi, piuttosto che sulle
pur notevoli capacità tattiche
dei giovani comunisti, pesa l’in¬
cognita rappresentata dall’ag¬
guato delle prossime scadenze:
quasi una scommessa tra la for¬
za dirompente delle scissioni so¬
cialiste, lontane e recenti, e la
capacità di maturare dialettica-
mente insieme l’unità e l’alter¬
nativa della nuova sinistra.
Per ora, l’unità e l’alternati¬
va sono stati offerti al dibat¬
tito congressuale dell’UGI come
termini divergenti, due comi di
un dilemma, formalmente dife¬
si l’un contro l’altro dai due set-
2 «
ir
tori socialisti. I giovani del PSI
si sono presentati a Firenze con
una impostazione corretta e sug¬
gestiva, che ha colto di sorpresa
anche i loro più tenaci avver¬
sari. «Noi — ha detto a nome
dei goliardi del PSI lo studente
romano Fabrizio Cicchitto —
non siamo qui per difendere
meccanicamente una formula
parlamentare e di governo. Sia¬
mo i primi, anzi, a denunciare
le carenze di questo centro-sini¬
stra e a sviscerarne i motivi la¬
tenti di crisi. Ma non crediamo
neU’alternativa sterile ed iste¬
rica e vogliamo tuttavia preser¬
vare l’unità con tutte le compo¬
nenti deirUGI, anche con gli
scissionisti e con i comunisti.
Chiediamo perciò a tutte le com¬
ponenti deirUGI di tentare con
noi una verifica, che non può
non passare ancora, strategica¬
mente, attraverso la collabora¬
zione con i giovani cattolici del-
r«Intesa», ma che porta nel¬
l’esperimento ben altro peso e
forza unitaria. Nella nuova
giunta nazionale dell’UNURI,
costituitasi recentemente per
nostra iniziativa, la sinistra uni¬
versitaria collabora con i catto¬
lici attraverso giovani del PSI,
del PSIUP, del PCI; non si trat¬
ta quindi di una ripetizione mec¬
canica di formule parlamentari,
che sono costate il prezzo di cosi
gravi lacerazioni, ma di una scel¬
ta autonoma e originale, che de¬
ve trovare gli studenti cattoli¬
ci, socialisti e comunisti uniti
nel respingere il piano della
scuola, cosi come è scaturito dai
lavori della commissione di Gui
e di Ermini, e nel rivendicare
una riforma compiutamente de¬
mocratica ».
Mediazione inutile
All’offerta unitaria dei gio¬
vani del PSI i goliardi del
PSIUP, che sono stati dapper¬
tutto alla testa delle recenti e
clamorose agitazioni universi¬
tarie, hanno contrapposto la ri¬
chiesta intransigente dell’alter¬
nativa. « Non abbiamo fatto una
scissione — ha detto a nome del¬
la sinistra dell’UGI il goliardo-
sindacalista Gian Mario Cazza-
niga (studente di filosofia alla
Normale di Pisa, dirigente della
FIOM a Torino: niente di mas¬
simalista nello stile e nel lin¬
guaggio, e niente di burocratico;
aria triste, però, e sguardo cupo,
riflesso singolare nell’UGI d’un
radicale pessimismo intellettuale
di tanta parte delle nuove leve)
_e non abbiamo costituito un
nuovo partito per continuare a
subire, comunque travestita, la
logica della politica della de¬
stra socialista. Siamo qui per ro¬
vesciare suirUGl, senza la pru¬
denza tattica dei nostri diri¬
genti nazionali, tutti i motivi di
crisi di tutta la sinistra italia¬
na. Non siamo disponibili per
una unità formale ed aprioristi¬
ca, condizionata dai rimorsi gio¬
vanili per il riformismo del PSI
e dalle velleità trotskiste di gio¬
vani che restano nel PCI Non
basta la presenza fisica di un
comunista, nella giunta di go¬
verno deirUNURI, per rovescia¬
re una politica. La presenza di
Togliatti accanto a Nenni nei go¬
verni tripartiti del ’45-’47 non ha
evitato la sconfitta delle sinistre
e il monopolio clericale del po¬
tere. Noi proponiamo ai giovani
comunisti di costituire con noi
una maggioranza di sinistra nel-
rUGI, per contrapporre una rea¬
le alternativa alla collaborazio¬
ne subalterna con i cattolici ».
Per tre giorni, al congresso
di Firenze, i giovani comunisti
hanno tentato di eludere la scel¬
ta tra la collaborazione con i cat¬
tolici, mediata dai giovani del
PSI, e la maggioranza di alter¬
nativa coi giovani del PSIUP. Il
comunista romano Claudio Pe¬
truccioli, discepolo del filosofo
marxiano-galileano Della Volpe,
per sfuggire alla tenaglia pole¬
mica del PSI e del PSIUP, è ar¬
rivato a porre la propria auto¬
candidatura alla presidenza del-
rUGI, ponendo come condizio¬
ne pregiudiziale che essa fos¬
se votata contemporaneamente
(sic!) dai socialisti delle due par¬
ti. Gli è stato seccamente repli¬
cato, dall’una e dall’altra parte,
che sono quarant’anni — dalla
scissione di Livorno — che i so¬
cialisti di destra e di sinistra
persistono nel rifiutarsi di crede¬
re nelle virtù taumaturgicamen¬
te unitarie del « centralismo de¬
mocratico ».
Conclusione interlocutoria
La conclusione interlocutoria
del compromesso è alla fine pas¬
sata attraverso l’umiliazione
dell’inutile mediatore: i giovani
del PSI hanno conquistato, in
virtù della forza obiettiva della
loro proposta unitaria, l’onere
di reggere la presidenza del-
l’UGI; i goliardi del PSIUP han¬
no potuto rivendicare la liber-
Critica marxista
Numero speciale sul partilo (nti. 5-6. settembre - dicembre 1963):
Umiierto Cerroni: Per una teoria del partito
Lucio Magri: Problemi della teoria marxista del partito
rivolusionario
A. NATTA - G. C. Pajetta: Il centralismo democratico nel-
relaborasione e nella esperienza dei comunisti italiani
Valentino Gerratana: Forme e contenuti della democra¬
zia nei partiti italiani
Giorgio Amendola: Movimento e organiszazione delle masse
Enrico Berlinguer: Lo stato del partito in rapporto alle
modificazioni della società italiana
Alfredo Reichlin: Il partito in Puglia
Aldo Tortorella II partito a Milano
Guido Fanti: Il partito in Emilia
Documenti (1922-1944) — Recensioni
n
ti di controllare, entrando in di¬
rezione, la capacità di autono¬
mia del nuovo presidente, aste¬
nendosi dal sorreggerlo con un
voto positivo sino alla prova dei
fatti. Gli unici che non sanno
perchè sono entrati nella dire¬
zione deirUGI e perchè non han¬
no votato per il presidente so¬
cialista sono i due comunisti.
Non si può non riconoscere
pari dignità alle posizioni dei
giovani del PSI e dei giovani del
PSIUP, quali almeno si sono
espresse nel corso del 14. con¬
gresso dell'Unione Goliardica
Italiana. La faticosa reciproca
ricerca di autonomia rispetto
agli schemi parlamentari e alle
ipostasi politiche ed ideologiche
dei loro maggiori pretende una
apertura di credito, che non è
azzardata per chi conosce la sto¬
ria deirUGI e continua a crede¬
re nella validità del metodo lai¬
co, quali che siano le etichette
in voga e il linguaggio di moda.
E’ difficile negare di riconosce¬
re in molto di ciò che è stato det¬
to a Firenze l’eco attuale e coe¬
rente di una battaglia che dura
da quasi vent’anni. L’ansia del¬
l’unità e l’orgoglio dell’alterna¬
tiva sono propri di una associa¬
zione che la storia ha voluto lai¬
ca e la lotta politica ha collo-•
cato SEMPRE a sinistra: la « col-1
laborazione democratica » con gli
studenti cattolici è stata propria ^
deirUGI, prima e oltre il centri- ;
smo, prima e al di là del centro-
sinistra; ma giammai essa fu se¬
parata e mutilata dalla contesi
stazione alternativa alla legittiJ,
mità dell’unità politica e cultu-t
rale dei cattolici.
Il travaglio dei comunisti
L’invito mai dismesso ai co¬
munisti e ai cattolici ad entrare/
neirUGI non aveva altro senso:/
che i comunisti, nonostante tut-|
to, neirUGI ci stiano da novq
anni e che i cattolici, nonostan-j
te il centro-sinistra, daH’UGI,!
ormai soli, persistano a restara
fuori, non può essere senza si-\
gnificato. L’aggressività che i
giovani del PSI conferiscono al¬
la rinnovata collaborazione coi
cattolici airUNURI, se resta ga¬
rantita dall’unità delle sinistre
neirUGI, non può non offrire ob¬
biettivamente, il terreno concre¬
to, politicamente valido e auto¬
nomo, alle effettive capacità di
alternativa di tutta la sinistra. A
queste condizioni, se l’UGI reg¬
ge, r« Intesa », come organizza¬
zione unitaria degli studenti cat¬
tolici, alla lunga è spacciata.
Non è inspiegabile, allora, il
travaglio e il ritardo dei giova¬
ni comunisti: essi non osano an¬
cora liberare nell’UGI, come pur
fecero i «liberali» e pur stan¬
no facendo i socialisti — a loro
rischio e pericolo — la loro in¬
terna dialettica, mischiare e
sciogliere tra gli altri e negli al¬
tri le contraddizioni e le diffe¬
renze interne, che comunque li
travagliano. Che vale richiamar¬
si a Gramsci, invece che a Pram-
polini o a Ferri, se si continua
a sacrificare anche !’« occasione
storica » deU’UGI per una malin¬
tesa e meccanica riproduzione
del « centralismo democratico »?
Vale più per essi l’unità for¬
male dei «comunisti in quanto
tali » dell’unità « articolata », co¬
me essi stessi dicono, per non
usare il termine «storico» di
«unità laica delle forze», pro¬
prio della «tradizione» dell’UGI,
che è la tradizione di libertà del¬
la cultura e di autonomia della
politica? In verità ci sembra che
il congresso di Firenze abbia ri¬
sposto in maniera esauriente a
questi interrogativi. E possa de¬
gnamente figurare, per questo,
accanto ai precedenti tredici con¬
gressi dell’Unione Goliardica Ita¬
liana
L. J.
Diario politico
Cuba: di nuovo al roll-back
CONO molti, negli Stati Uniti, a pensare che il
kennedismo esibito dall’attuale amministrazione
americana sarà probabilmente riveduto e corretto dopo
le elezioni di novembre. Ne avemmo noi pure subito
il sospetto, quando ci parve che il kennedismo ve¬
nisse ora troppo diligentemente, verbosamente con¬
servato, con clamorose « offensive di pace », e altri
simili traguardi elettorali.
Ora il gesto pesante, del taglio degli aiuti ai
paesi che mantengono relazioni di scambio con Cuba,
è un segno assai malaugurato di ritorno al dullesismo.
La tesi che giustifica infatti quel gesto minaccioso
è esattamente questa: a) gli aiuti si dànno, o si riti¬
rano, per motivi di diretta, o indiretta, valutazione
ideologica della nazione aiutata; h) Io scopo degli
aiuti sta tutto nell’immediata capacità di produrre
effetti sul piano della conformizzazione di un paese
all’ideologia degli Stati Uniti.
La sola differenza, nel caso particolare di Cuba, è
che l’Amministrazione Johnson, unendo i capi delle due
tattiche, ne fa un vero e proprio strumento di « san¬
zioni », a carico di Castro. Resta da vedere se sarà
Cuba a soffrirne, o, in generale, la politica estera
americana.
Le nazioni colpite sono cinque: « il primo dei
nostri alleati », come deplora il « New York Times »,
citando la Gran Bretagna; la Francia, la Jugoslavia,
la Spagna e il Marocco. Per quanto riguarda la Fran¬
cia, si fa presto ad aggiungere nuova paglia all’ironia
bruciante del generale; per la Jugoslavia, questa è
solo l’ultima delle gaffes americane, che hanno pro¬
vocato il ritiro di un grande ambasciatore a Bel¬
grado, Kennan.
La faccenda spagnola è non più delicata, ma
28
più istruttiva. Certo non saremo noi a dolerci di
una misura, che colpisce il franchismo, ma essa ha
il difetto di essere aberrante, come tutto ciò che
riguarda i rapporti Washington-Madrid. In passato
venivano misurati alla stregua purissima di interessi
militari; ora, come sembrerebbe a un primo sguardo,
a quella meramente ideologica. Siccome però nel pri¬
mo, come nel secondo modo, si tratta di un fonda¬
mento nazionalistico, in questo caso si rivela inaspet¬
tatamente una certa quale coerenza della destra ame¬
ricana.
Ma il Marocco? L’aiuto americano fu, l’anno
scorso, di 21 milioni di dollari: poco, ma quanto
serviva a trattenere strettamente nel campo della
destra atlantica un paese, dove i dirigenti pensano
in questo modo, e un’opposizione assai forte, che
morde il freno, pensa in modo opposto. Alla fine,
conveniva agli Stati Uniti produrre tanto clamore
senza prima prevedere le conseguenze? E dare a ve¬
dere verso quali distanze, all’indietro, può ricomin¬
ciare a muoversi una ideologia imperialistica, che
sembrava, in molti anni, aver « realizzato » l’utilità,
al mondo, dei « neutri », dei « diversi », dei « non
sottomessi »?
Il « New York Times » ha una conclusione giusta;
noi speriamo solo che i nostri amici, ora svezzati
brutalmente dall’aiuto militare, capiscano che si tratta
di una mossa sgraziata di politica interna, e non
insistano troppo nella protesta. E’ esatto, Ma il
giorno in cui si fa la politica estera di una certa
politica interna, si rischia di scoprire troppo esplici¬
tamente la faccia della classe dirigente di un paese:
ed è esattamente quella classe che seguiva a malin¬
cuore, e non soffre di aver perduto, un presidente
come Kennedy. Johnson, dice il giornale, deve pur
dare qualche soddisfazione alla sua destra, sia essa
nel suo partito, o fra repubblicani di Goldwater e
, Rockefeller. Tuttavia il « grosso » politico è colui
che, in generale, non se ne fa accorgere.
I nazi, uno per uno
r»E’ UN BOOM, in Germania, di memorie hitle-
^ riane. Lo « Spiegel » pubblica via via i suoi
« Tischgesprache », che rappresentano, a dir poco, il
livello più abbietto della pretenziosità autodidattica.
Un altro settimanale lancia di lui un profilo popo¬
lare, quasi per domande: affinchè i ragazzi tedeschi
sappiano, dopo tutto, che tipo era.
L’editore Piper mette fuori, in questi giorni, il
« Volto del Terzo Reich », di J. C. Fest; « profilo
di un regime totalitario ». Il meglio del libro è una
« galleria » degli eroi: tutti i « secondi » di Hitler
hanno un nutrito ritratto. Ecco la sincerità di un
Goering: « Ringrazio Dio che non mi ha dato la
nozione dell’obbiettività: sono solo capace di essere
soggettivo ». Goebbels: « E’ Eros che parla in me:
ogni donna mi eccita sino al sangue, mi sento un
lupo ». Che uomo era Heydrich: * Anche in raj^
porto al nazionalsocialismo, disponeva di quella di¬
mensione opportunistica che può sembrare l’ornamen¬
to di un’ambizione di potere, ma è già, di fatto.
il segno di un nichilismo ideologico, che non impe¬
gna a nulla ». Himmler: « Il mio principio è' che
ogni SS ha da essere leale e fedele ai suoi, e verso
nessun altro. Che questo convenga a russi o cechi,
non mi interessa. Prenderemo presso tutti ciò che
conviene al nostro sangue: si debbano pure rapire
bambini e allevarli sul nostro suolo. Che gli altri
popoli vivano nell’agio o nella fame mi importa solo
nella misura, in cui li considero schiavi al servizio
della nostra civiltà ».
Aperto rimpianto
ipESA anche su noi la scomparsa precoce di un
uomo come Felice Balbo, che abbiamo letto e
rispettato in vita soprattutto nei momenti più dram¬
matici, quando gli fu messa l’alternativa di uscire
dalla Chiesa, nella quale era nato, o di deporre il
pensiero di un’assimilazione cristiana di alcuni temi
del marxismo. In realtà ci pare, tuttavia, che una
tra le tesi di fondo del marxismo, quella della re¬
sponsabilità « pratica » della filosofia, Felice Balbo
l’abbia riclaborata e moralizzata sino all’ultimo, senza
deporla mai.
Rileggiamo le ultime pagine del libro « Idee per
una filosofia dello sviluppo umano ». Balbo notava
giustamente che in Italia, e in genere nel mondo
occidentale, la filosofia rischia di impoverirsi sempre
più in un fatto scolastico. Si cercano professori di
filosofia per insegnare nelle scuole filosofia ad ado¬
lescenti, i quali non ne faranno poi nessun uso. La
grande filosofia, che da Platone a Marx si è sentita
immersa nel corso della produzione di nuov a storia,
di profonde rettifiche della società, oggi non ha
« richiesta ». Mille altri specialisti sono « domanda-
Quaderiii
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29
Dalla Rivoluzione d’ottobre alla
guerra civile ai primi passi verso
la costruzione d’uno stato socia¬
lista: la piu completa ricostruzione
di eventi che hanno mutato il cor¬
so della storia contemporanea.
Edward H. Carr
La rivoluzione bolscevica
1917-1923
« B Ib llott c » di cnltun uatìc» » fp. XXV-1360
La polemica sulla coesistenza pa¬
cifica e sulla rivoluzione nei paesi
coloniali fino agli ultimi documen¬
ti di parte cinese.
ti »: ma il politico fa volentieri a meno della filosofia.
Partito dallo storicismo, Balbò si rendeva per¬
fettamente conto che è proprio la fine di una filosofia
come unica verità, che ha contribuito a detronizzare
le filosofie come « guida » di un’epoca; nello stesso
tempo, tuttavia, proponeva, e voleva ipotizzare le
modalità opportune, che si volesse almeno, nella so¬
cietà, « verificare » le filosofie, sul metro della loro
capacità, di delucidare la logica del rapporto mezzo¬
fine, che è indispensabile per determinare le « prio¬
rità » delle scelte politico-sociali. A questa condi¬
zione, secondo lui, la filosofia come « lavoro » trovava
non solo la sua giustificazione, ma la sua collocazione
nella cultura politica contemporanea.
C’era forse una certa macchinosità in un progetto
del genere, del filosofo « direttamente » utile, dispo¬
nibile; derivava dall’aver deprezzato ormai quello
stesso storicismo d’origine, per il quale il rapporto
filosofia-società deve svolgersi con un dinamismo,
una ricchezza di articolazioni, come propone, per
non nominare altri, un Lukacs. Tuttavia credo che
questa esigenza, di rendere disponibile, subito, hic
et nunc, il lavoro del filosofo, derivasse in Felice
Balbo dalla sollecitudine ansiosa, sempre più impe¬
riosamente moralistica, della « integrazione » a cui
deve offrirsi ogni persona, per dare obbiettività
etica alla propria esistenza (nel libro citato, pp. 108
e segg.). Questo era il volto della sua generosa
severità, e lo rimpiangeremo per molti anni, nè
potremo dimenticarlo.
Coesistenza e rivoluzione
DootuiMfiti iMla disputa oino-sovlattea
■ aura di Paola CaliinI a Inrlea Collotti Pisolial
«UbtiU«ocU» pa.«7 L.M00
H grande sciopero dei minatori
del ’63 e le nuove prospettive del¬
la lotta di classe in Francia.
Saverio Tutino
Gollismo e lotta operaia
«UWfabiicU» pp.2)2 LUDO
Kiclucdtw la iilimi* Il auovo Cauloso seoctile ddk ediiloni Hìimall,
La legge deH’orlogenesi
A LCUNE DEFINIZIONI di Teilhard de Chardin,
il ” gesuita proibito ”, si attaglierebbero forse
all’onorevolé' Moro.
Dal ” Vocabulaire Teilhard ” ( Paris, Edit. Uni-
versitaires, 1963, p. 68): ” Ortogenesi: fenomeno
per il quale l’evoluzione segue, in certi casi, una
linea di progressi continui, ottenuti per micromuta¬
menti, sempre nello stesso senso, sia sul piano bio¬
logico che su quello psichico. In questo secondo caso,
l’o. si esprime ad esempio nella ortogenesi umana
di socializzazione ”. — Voce ” socializzazione ”, a
p. 87: ” costituzione progressiva dell’umanità in
unità organizzata e coerente ove tutti gli uomini
sono solidali. Socializzazione per compressione: sta¬
dio superiore o di convergenza estrema, di totaliz¬
zazione e di personalizzazione; socializzazione di
espansione, primo stadio della socializzazione, carat¬
terizzato dai fenomeni di popolamento, di civiliz¬
zazione e di individuazione ” ( è per ora il solo
che riguardi le tattiche morotee, specie se posto in
relazione con la definizione teilhardiana di ” Liber¬
tà: potere di autodeterminazione per il quale l’uomo
aderisce ai valori. Non identificare libertà e possibi¬
lità di scelte: questa appartiene alla libertà imper¬
fetta ”. Il moroteismo è infatti ” una tecnica di mi¬
cromutazioni accettate tra più possibilità di scelta,
nel proposito di una linea di progressi continui, in
cui si ricomponga, desiderabilmente, sempre la me¬
desima direzione
SERGIO ANGELI
30
PADRE LENER ALL’ELISEO
IL DIBATTITO SUL DIVORZIO
I fantasmi
e le statistiche
DI LUHil GHERSI
FfclRE che il diritto non è che il riflesso codificato
del costume e delle convinzioni morali prevalenti
in una determinata società è ormai un luogo comune,
ma è un luogo comune che in certi casi diventa una
grossa bugia. Perchè in concreto, ed è anche questo
un luogo comune, il diritto suole seguire ed assai di
rado anticipa quel complesso di idee, sentimenti ed
anche, a volte, pregiudizi che si suole definire mo¬
ralità sociale. Quando questa sfasatura tra il costume
sociale e le leggi che dovrebbero regolarlo si fa più
marcata e diviene un fossato accade che zone più o
mene- ampie della società si sottraggano di fatto alla
legge e che in una certa misura, sia pure per aspetti
circoscritti, la vita si svolga secondo il ritmo che le
è proprio e che il diritto, ormai inadeguato, non è in
grado di regolare. E’ questo il caso dei « fuorilegge
del matrimonio », che in Italia, stando alle statistiche
più attendibili, superano certamente il milione, aprendo
così nel tessuto sociale una lacerazione allarmante e
7 creando una condizione di disagio che forse coinvolge
quattro o cinque milioni di italiani. La-revisione del
diritto familiare costituisce pertanto un problema so¬
ciale di grosse dimensioni e non, come s’è cercato di
sostenere da qualche parte, una fisima da intellettuali,
un chiodo fisso di laicisti arrabbiati; la crisi dell’isti¬
tuto matrimoniale, così com’è oggi configurato nel
nostro codice civile, investe in un modo o nell’altro
il dieci per cento della popolazione italiana.
Era questo il dato obiettivo dal quale gli organiz¬
zatori della tavola rotonda su « Il divorzio e l’unita
familiare » sono partiti per prop)orre all’attenzione del¬
l’opinione pubblica e del mondo politico un tema che
nel nostro paese troppo spesso viene considerato tabu.
Del divorzio hanno discusso al dibattito dell’Eliseo,
promosso dal Movimento Gaetano Salvemini, il ge¬
suita padre Lener e il prof. D’Avak da una parte, e dal¬
l’altra, la scrittrice Anna Garofalo, l’avvocato Ercole
Graziadei ed un magistrato, il consigliere di Cas¬
sazione Mario Berutti; presiedeva Arturo Carlo Jemolo.
La linea antidivorzista, sostenuta nel corso del
dibattito da padre Lener e D’Avak, tendeva per un
verso a minimizzare l’entità del problema e per altro
verso a prospettare le conseguenze drammatiche o ad¬
dirittura catastrofiche che avrebbe certamente compor¬
tato l’istituzione del divorzio in Italia.
Sul primo punto il discorso è breve: i dati sono
quelli che abbiamo citati, non provengono da statisti¬
che ufficiali, dato che non ne esistono da noi su questa
materia, ma non sono per questo meno attendibili. Pro¬
viamo ad esaminarli più dettagliatamente. Il dato di
partenza, non contestabile perchè risulta dagli archivi
dei tribunali, è ebe in Italia ci sono circa cinquemila
separazioni legali all’anno. Questa cifra, per essere in¬
tesa nel suo rapporto effettivo con la realtà deve essere
però quintuplicata, dal momento che su ogni separa¬
zione legale che si va a chiedere al tribunale ve ne
sono almeno altre quattro che non si vanno a chie¬
dere; la separazione legale infatti non cambia pratica-
mente quasi nulla e costituisce per le classi povere una
spesa inutile e troppo onerosa e per le classi agiate
un fastidio tranquillamente evitabile: in entrambi i
casi è molto più semplice e più comodo un accordo di
fatto. Ed ecco che, sulla base di questo calcolo, i
cinquemila « separati » diventano venticinquemila, un
tasso annuo per nulla eccezionale, che corrisponde al¬
lo 0,50 per cento della popolazione italiana. Abbiamo
così una cifra che dovrebbe ridimensionare le appren¬
sioni di quanti temono per l’introduzione del divorzio,
ma che, nello stesso tempo, dovrebbe far riflettere
sulla gravità della situazione attuale. Se proviamo,
infatti, a moltiplicare questa cifra per trentacinque
— gli anni in cui, considerando la media dei decessi,
si può calcolare l’accumulazione — abbiamo appunto
il totale di seicentomila separazioni di diritto o di
fatto e dunque di un milione e duecementomila citta¬
dini dei due sessi che hanno rotto la propria famiglia
e che, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno
stretto un nuovo legame familiare, questa volta ille¬
gale. Ed ecco che la cifra è di nuovo raddoppiata; i
concubini in Italia sono almeno due milioni E poi¬
ché di solito si tratta di cittadini non meno prolifici
SI
J;gli altri, dobbiamo calcolare ancora altri due milioni
di « fuorilegge del matrimonio »: i bambini, appunto,
di cui gli antidivorzisti sembrano preoccuparsi tanto.
A conti fatti, si tratta di quattro o forse cinque mi¬
lioni di italiani, adulti e bambini, per i quali la vita
familiare si svolge fuori dal sistema previsto dalla
legge. Non ci sembra un risultato brillante dal punto
di vista della « santità della famiglia » e « dell’edu¬
cazione cristiana della prole ».
Padre Lener
e le Blatisliche
La seconda trincea degli antidivorzisti al dibattito
dell’Eliseo è consistita nel prospettare gli inconve¬
nienti sociali e politici dell’introduzione del divorzio
nel nostro paese.
Sui primi è stato padre Lener a gettare lampi di
luce sinistra prospettando la disgregazione dell’isti¬
tuto familiare che inevitabilmente seguirebbe « l'il-
limitabile libertà del divorzio ». « Aprite appena uno
spiraglio nella diga dell’indissolubilità * — ha detto
padre Lener citando un autorevole antidivorzista del
secolo scorso — « e tosto lo spiraglio, divenuto falla,
farà crollare la diga ». L’autorevole gesuita ha rico¬
nosciuto che si trattava di un parlare per ipotesi da
timore* del peggio o da « salto nel buio » ed ha cer¬
cato di provare, cifre alla mano, che non di salto nel
buio si trattava ma di esperienza ormai acquisita nei
paesi che hanno introdotto il divorzio nella loro le¬
gislazione.
« Consultato con uno sguardo generale l’annuario
delle Nazioni Unite, anche a prescindere dalle punte
massime registrate nel dopoguerra, si vede » — ha af¬
fermato padre Lener — « che nei paesi europei dal
1936 al '31 le cifre dei divorzi sono raddoppiate e,
dopo il ’51, non accennano a diminuire. Negli Stati
Uniti siamo arrivati ad un divorzio su tre matrimoni ».
« Ma c’è di più », — ha aggiunto — « anche a pre¬
scindere da questa discussione sulle statistiche, sta di
fatto che in alcuni paesi (Inghilterra, Stati Uniti,
Svizzera) ed altri in cui il dilagare dei divorzi è pa¬
cificamente ammesso, si vanno organizzando sempre
più potentemente, su scala nazionale e federale, dei
movimenti e delle organizzazioni per porre ai divorzi
un freno indiretto... ».
FILMCRITICA
Dlrctlorai ItnOARDO BRUNO
Nel fascìcolo n. 138:
t Note per II disprezzo » di Jean-Luc Godard;
4 Ricordo di una faccia di pietra » di Giulio
Cesare Castello, « Fenomanoiogia dei teiefilm »
di Vittorio Cottafavi; * Cloak and Dagger esem¬
pi dello stile di Fritz Lang » di Adriano Aprà;
4 Spagna: quel poco di nuovo » di Jorge Grau;
Note e recensioni di Nicola Ciarletta, Luigi
Martelli, Stefano Roncoroni, Mario Zucconi,
Maurizio Ponzi.
Lasciamo che questi movimenti si organizzino
« sempre più potentemente » e torniamo alle stati¬
stiche.
Le statistiche dell’annuario delle Nazioni Unite
danno torto a padre Lener. Le ha lette alla tribuna
dell’EIiseo l'avv. Graziadei, e non presentano il qua¬
dro catastrofico esposto dall’illustre gesuita. Le cifre
sono queste: dal 2 al 2,20 per mille il tasso di divor-
zialità annuo degli Stati Uniti e dell’Ungheria (altro
che « un divorzio ogni tre matrimoni »!), i due paesi
che in questo campo tengono il livello più alto; 0,93
per mille il tasso annuo di Israele; 0,89 quello della
Svizzera; 0,83 quello della Germania ovest; 0,62 quello
della Francia; 0,50 quello del Belgio e 0,36 quello
del Canadà. Quanto al dilagare dei divorzi nell’ultimo
dopoguerra, si tratta d’un fenomeno di assestamento
tipico di tutti i dopoguerra, che s’è verificato anche alla
fine della prima guerra mondiale, ma che in entrambi
i casi è stato seguito da una stabilizzazione sui livelli
precedenti.
E’ comprensibile che padre Lener abbia sentito il
bisogno a un certo punto di « prescindere da questo
discorso sulle statistiche »: forse avrebbe fatto me¬
glio a « prescindere » del tutto.
La chiesa
« non transigerebbe »
E’ toccato al professor D’Avak il compito di illu¬
strare gii inconvenienti giuridici ed i pericoli politici
dell’introduzione del divorzio, dopo che padre Lener
aveva rappresentato con accenti così drammatici le
conseguenze che sarebbero derivate sul piano sociale.
Come il gesuita s’era appellato addirittura a Bertrand
Russell per giustificare la tesi massimalista e parados¬
sale del divorzio consensuale non sottoposto a cause
limitative di nessun genere come unico modo possi¬
bile di concepire il divorzio secondo giustizia, così il
professor D’Avak s’è richiamato, lui sostenitore del
Concordato, al principio dell’assoluta uguaglianza di
tutti i cittadini davanti alla legge per concludere che
una riforma del codice civile che limitasse l’introdu¬
zione del divorzio ai soli matrimoni non concordatari
creerebbe di fatto una disuguaglianza civile tra cit¬
tadini cattolici e non cattolici. Da questa tesi radicale
D’Avak ha tratto una conclusione di ben diverso ca¬
rattere: visto che sarebbe ingiusto introdurre il di¬
vorzio per i soli matrimoni non concordatari e visto
che per estendere il divorzio a tutti i cittadini sarebbe
necessaria una revisione costituzionale che portereb¬
be a rimettere in discussione il problema stesso dei
rapporti tra stato e chiesa, varrebbe la pena — si è
chiesto — di arrivare a tanto?
Ebbene, secondo noi ne varrebbe la pena. Tanto
più che non crediamo affatto che — come D’Avak
ha detto —, in una eventuale revisione del Concor¬
dato, la chiesa potrebbe cedere su qualsiasi articolo
* ma non transigerebbe mai sull’articolo 34 » e che
conseguentemente coloro che vogliono l’introduzione
del divorzio dovrebbero « sapere che, in corrispettivo,
c’è da affrontare ex novo il problema dei rapporti
32
tra stato e chiesa ». La chiesa, sul divorzio, è venu¬
ta a transazione in numerose occasioni, accettando rea¬
listicamente questo istituto nei paesi che l’adottavano:
l’ha accettato, per esempio, stipulando il Concordato
con il governo dittatoriale di Peron, l’ha accettato fir¬
mando il Concordato col governo dittatoriale di
Trujillo, l’ha accettato quando ha stretto il Concordato
con Hitler; non si capisce perchè dovrebbe scatenare
una guerra di religione se la Repubblica italiana deci¬
desse di adeguare la propria legislazione matrimoniale
a quella di tutti i paesi civili.
L’interlocutore
accomodante
Dalla tavola rotonda del movimento Salvemini non
poteva venire una risposta operativa ad un problema
che è in definitiva problema di volontà politica. Una
risposta di questo tipo doveva venirci dai partiti di
sinistra democratica, ma se si eccettua il positivo ed
ampio commento della * Voce Repubblicana », abbia¬
mo trovato da questa parte un muro di silenzio, mal¬
grado l’eco notevolissima che il dibattito aveva avuto
sulla stampa d’informazione.
Soltanto i comunisti sono intervenuti con puntua¬
lità c decisione nel dibattito. Essi hanno subito te¬
nuto a proporsi come gli unici « interlocutori » validi
dei cattolici. « Nonostante il ”nulla di fatto” del-
l’Eliseo — ha scritto Ciglia Tedesco su Rinascita —
può e deve essere portato avanti un discorso proficuo
sul gravissimo problema morale, politico, giuridico,
sociale costituito dall’attuale configurazione dell’isti¬
tuto del matrimonio in Italia. Un discorso che da
parte nostra vogliamo rivolgere esattamente ai cat¬
tolici: ckè gl’interlocutori decisivi, anche in questo
campo, siamo noi e loro. Ma con i cattolici è possibile
avviare un dialogo sul divorzio a patto che essi ces¬
sino di identificarsi con i clericali; perché solo in tal
modo si disporranno a distinguere e a comprendere
come le nostre posizioni non possono essere assoluta-
mente assimilate a quel tipo di posizioni laicistiche
che sono proprie della borghesia ».
« Si tratta — secondo Ciglia Tedesco — di sol¬
lecitare i cattolici a considerare che può non esservi
contraddizione tra la indissolubilità del matrimonio
— vissuta però come tensione morale e umana, e non
subita o imposta come necessità di ”ordine pubbli¬
co” — e l’ammettere, con la possibilità dell’errore, an¬
che il rimedio all’errore. Se infatti la scelta si rivela
sbagliata e il matrimonio fallisce, come può la società
oggi seguitare ancora a non prenderne atto? Certo,
di un fallimento si tratta: cioè di una eventualità ne-
gativ.i che duò verificarsi e non di una sorta di con¬
notazione intrinseca a ogni matrimonio. Non si tratta
dunque, di prevedere, per dirla con il padre Lener,
una ”illimitata e illimitabile libertà di divorzio”, ma
di ricercare un tipo di legislazione in base alla quale
il matrimonio non sia rescisso come un qualsiasi con¬
tratto. E questo, riteniamo, comporta non la limita¬
zione della casistica (qui siamo d’accordo con il pa¬
dre Lener), ma una regolamentazione rigorosa e
omogenea alla peculiarità del rapporto matrimoniale ».
Non sappiamo in che consista questa « regola¬
mentazione rigorosa e omogenea alla peculiarità del
rapporto matrimoniale », che a quanto pare dovrebbe
costituire il superamento della « casistica » che fun¬
ziona come limite giuridico del divorzio « borghese ».
Posto tuttavia *che il divorzio, borghese o proletario
che sia, resta pur sempre da configurare come uno
strumento giuridico che consenta di sciogliere un rap¬
porto di matrimonio, saremmo curiosi di sapere qua¬
le « casistica » i comunisti intenderebbero sostituire
a quella « borghese » per delimitare, magari in modo
« omogeneo e peculiare », i confini di applicabilità di
questa legge. Forse la casistica dei gesuiti?
Riconosciamo peraltro volentieri che le nostre po¬
sizioni laicistiche « non possono essere assoluta-
mente assimilate » a quelle dei comunisti e crediamo
che, per esperienza, abbiano buone ragioni di rico-
scerlo anche i clericali. In fin dei conti i « laicisti »
da almeno cento anni hanno mantenuto in Europa un
confronto con i cattolici in termini di libertà e di
chiarezza delle posizioni reciproche. L’adesione sin¬
cera di moltissimi cattolici alle idee di libertà e lo
stesso travaglio di rinnovamento che dopo il papato
di Giovanni XXIII investe tutta la chiesa nel suo
complesso, sono il frutto di questo lungo e spesso
aspro confronto con la democrazia, e non dei pasticci
concordatari tipo articolo 7.
LUIGI GHERSI
abbonatevi a
SECVND.v PARS DE
L’astrolabio
Abb. annuo 2.300
Sostenitore 5.000
ss
DOCUMENTI
Cristianesimo e clericalismo
« L’anticlericalismo podrec-
chiano - massonico - miissoli-
niano, il quale discuteva nei
comizi l’esistenza di Dio, e de¬
capitava le madonne e basto¬
nava i preti, fu una vergogna,
che non dovrebbe più risorgere,
e nessun partito sarebbe degno
di rispetto, se non lo sconfes¬
sasse risolutamente. Ma sarebbe
da considerarsi come attacco
anticattolico e antipapale l’af¬
fermazione che Pio XI e Pio
Xn cooperarono con Musso¬
lini? Se quel fatto è inesistente,
allora è il carattere falso e non
il carattere anticattolico del¬
l’affermazione che deve essere
condannato. Ma se quell’affer¬
mazione è vera, si deve soppri¬
mere, perché è antipapale e
anticattolica? ».
GAETANO SALVEMINI
(disegno di Nino Cannittraci)
DI GAETANO SALVEMINI
La cortesia del prof. Gino Luzzatto ci consen¬
te di presentare ai nostri lettori questa lettera
inedita, indirizzata da Gaetano Salvemini, il 21
ottobre 1946, a un amico convertitosi al cattoli¬
cesimo, probabilmente il suo vecchio compagno
Domenico Modugno.
Carissimo,
Fu una gran festa per me leggere la tua lettera
del 28 agosto. Ritrovai in essa tutto te stesso, col
tuo passato. E mi parve di essere ritornato a più
che trenta anni or sono.
La persona, a cui tu accenni sul principio della
tua lettera, mi scrisse or è un anno una lettera a
base di gargarismi rivoluzionari — quei gargarismi
che sono il pasto quotidiano dei piccoli borghesi in¬
tellettuali meridionali, scombinati e inconcludenti.
Gli risposi in termini piuttosto generici, dato che non
ricordavo di averlo mai conosciuto. Ritornò a scri¬
vermi un altro paio di volte, propinandomi gli stessi
gargarismi. Non gli risposi, visto che non ho tempo
da perdere. Come vedi, non è certo da quella parte
che poteva la tua personalità essere diminuita nel
mio pensiero e nel mio affetto.
Sono stato assai contento di leggere nella tua let¬
tera che tu metti uomini come me fra i « cristiani ».
Giuseppe Donati mi soleva dire lo stesso. Io stesso,
quando debbo spiegare quali sono le basi della mia
fede morale, rispondo senza esitazione che sono « cri¬
stiano ». E se la gente mi domanda che mi spieghi
meglio, dichiaro che sono cristiano perché accetto
incondizionatamente gli insegnamenti morali di Gesù
Cristo, e cerco di praticarli per quanto la debolezza
della natura umana me lo consente; quanto ai dogmi,
che sono andati sovrapponendosi nei secoli agli inse¬
gnamenti morali di Cristo, non me ne importa pro¬
prio nulla; non li accetto, non li respingo, non li
discuto: la mia fede in certe norme di condotta mo-
84
rale non dipende dal credere die Cristo era figlio di
Dio. Vi sono canaglie che credono alla divinità di
Cristo, e galantuomini che non ci credono. Io divido
gli uomini secondo che sono canaglie o galantuomini,
e non secondo che hanno gli occhi neri o azzurri, o
secondo che credono o non credono alla divinità di
Cristo.
Le norme della vita morale sono state elaborate
dalla umanità, attraverso l’esperienza di centinaia e
centinaia di secoli, e sono le stesse per tutti sotto
qualunque latitudine e longitudine. Alcuni associa¬
rono quelle norme morali alla dottrina buddista; altri
alla dottrina confuciana; altri alla dottrina mosaica;
altri alla dottrina cristiana; jo, per conto mio, associo
le mie idee morali a nessuna teoria religiosa. Le mie
idee morali si trovavano quasi tutte nella filosofia stoi¬
ca prima che Cristo nascesse. Cristo ne aggiunse ad
esse una nuova, quella della carità. Poi vennero i
teologi a fabbricare intorno ai suoi insegnamenti un
catafalco di dogmi. Io mi sono arrestato all’anno della
crocifissione. Dopo quell’anno non c’è più nulla di
nuovo che io abbia imparato come precetto di vita
morale, e i catafalchi dogmatici dei secoli successivi
non mi riguardano. Vi sono in tutte le parti del mon¬
do uomini che professano la stessa religione, ma
alcuni sono santi e altri canaglie; e vi sono uomini
che sono santi o canaglie appartenendo alle più dif¬
ferenti religioni. Quel che m’interessa è la pratica
morale, e non la fede dogmatica di ciascuno.
Beninteso che se un uomo onesto ritiene di dovere
appoggiare la sua pratica morale su una fede reli¬
giosa, io non lo crederò per questo meno intelligente
di me. Ognuno nel proprio spirito a modo proprio
giustifica le proprie azioni. La vecchierella, che pre¬
gando innanzi alla immagine della Madonna trova
conforto al suo dolore e un raggio di speranza, è
altrettanto rispettabile quanto il filosofo che pesta
l’acqua nel mortaio delle sue astrazioni.
Come vedi, caro mio, io non trovo nulla da ri¬
dire nella dichiarazione di fede che hai avuto la bontà
di fare nella tua lettera. Sono persuaso che sci stato
sempre e sarai sempre un galantuomo, quale che sia
la dottrina religiosa a cui hai creduto di dover aderire
in questi lunghi anni di dolore.
Data la importanza essenziale che io dò — ed ho
sempre dato — al problema morale, puoi ben com¬
prendere se sono contento che su questo terreno la
unità spirituale fra te e me non sia stata mai spezzata
dalla lontananza, dagli anni e dal forzato silenzio.
Tu scrivi nella tua lettera che hai aderito non
solo al cristianesimo, ma al cristianesimo cattolico, e
che tu consideri come tuoi inconciliabili avversari i
cattolici fascisti e filofascisti nostalgici della defunta
monarchia; ma che non te la senti di andare con gli
azionisti, c non te la senti neanche di andare coi de¬
mocratici cristiani, la cui eterogeneità ti ripugna. An¬
che in questo non c’è nessuna differenza fra te e me
( a parte il cristianesimo cattolico dogmatico, al
quale non faccio obiezioni di sorta perchè si trova
fuori del mio campo visivo). Insomma, vi è un vasto
territorio sul quale possiamo camminare, oggi come
ieri, insieme, tenendoci la mano.
Vengo ora ai punti sui quali mi pare che non ci
è possibile andare d’accordo.
Tu scrivi che In Italia I cattolici rappresentano
una gran forza, giacché se politicamente sono non ài
rado tra loro agli antipodi, dal punto di vista reli¬
gioso formano una massa compatta; « gli attacchi anti¬
cattolici ed antipapali renderebbero impossibile la
collaborazione anche di sinistra con una concentra¬
zione capace di costruire una repubblica tollerabile ».
Tutto dipende dal significato che tu dai alle pa¬
role « attacchi anticattolici e antipapali ». L’anticle¬
ricalismo podrecchiano - massonico - mussoliniano, il
quale discuteva nei comizi l’esistenza di Dio, e deca¬
pitava le madonne, e bastonava i preti, fu una vergo¬
gna, che non dovrebbe più risorgere, e nessun partito
sarebbe degno di rispetto, se non lo sconfessasse ri¬
solutamente. Ma considereresti tu come « attacco an¬
ticattolico e antipapale » l’affermazione che Pio XI e
Pio XII cooperarono con Mussolini? Se quel fatto è
inesistente, allora è il carattere falso c non il carattere
anticattolico dell’affermazione che deve «sere con¬
dannato. Ma se quell’afiermazione è vera, si deve sop¬
primere, perché è antipapale e anticattolica? Qu«to
è un punto sul quale il tuo pensiero non mi riesce
chiaro.
Il fatto che tu condividi la opinione religiosa
( direi piuttosto dogmatica ) dei cattolici reazionari
filofascisti ti indurrebbe forse a cooperare con «si
anche sul terreno politico, se questo ti apparisi ne¬
cessario per far prevalere coll’aiuto del braccio se¬
colare le dottrine religiose (direi piuttosto dogmati¬
che) comuni a te e a loro? Ecco un altro punto su
cui il tuo pensiero non mi ri«ce chiaro.
Tu scrivi che « l’abolizione del concordato fareb¬
be il gioco non solo dei cattolici conservatori, ma
anche dei neofascisti e dei fascisti nostalgici, e dan-
neggerebbe gravemente la tendenza democristiana
Sturzo-Donati ». Qui mi pare che siamo arrivati al
vero centro della discussione.
Si può essere contrari alla politica concordataria
del Vaticano senza violare n«sun dogma della Chie¬
sa cattolica. I cattolici belgi e svizzeri non hanno mai
voluto saperne di un concordato. I cattolici ingl«i,
americani e francesi non domandano un concordato.
Don Sturzo dal 1919 al 1924 non domandò mai un
concordato, e Pio XI si compiacque a cose fatte che
la mancanza di pubblica discussione preventiva avesse
reso possibile un successo che certamente sarebbe
mancato. Oggi il Concordato è voluto dal Vaticano.
Se la Democrazia Cristiana di Don Sturzo non si di¬
mostrerà indipendente dal Vaticano proprio su questo
terreno, che è terreno politico e non dogmatico, tanto
vale che essa confessi apertamente di essere nè più nè
meno che una longa manus del Vaticano, il quale si
serve dei clericali come quinta colonna fra i partiti di
destra, e della democrazia di Sturzo come quinta co¬
lonna fra i partiti di sinistra, ma lo scopo degli uni e
degli altri è uno solo: fare prevalere la politica del
Vaticano nella vita pubblica italiana.
All’abolizione del regime concordatario un partito
politico italiano che sia democratico sul serio e non
a chiacchiere, non può rinunziare a n«sun patto. Il
regime concordatario fa del clero cattolico e dei fedeli
che si raccolgono intorno al clero cattolico, un corpo
privilegiato, la cui rappr«entanza spetta di diritto al
Papa, c quei privilegi non possono essere alterati dalla
U
maggioranza dei cittadini perchè sono garentiti da un
trattato fra il governo e il Papa, Sarebbe come se
Stalin domandasse al governo di un paese non sovie¬
tico un concordato, in forza del quale i comunisti di
quel paese sarebbero messi sotto il protettorato del
governo sovietico. Qualunque concordato distrugge il
principio della eguaglianza dei cittadini innanzi alla
legge. Qualunque concordato deve perciò essere abo¬
lito senz’altro. Questo fecero gli uomini del Risorgi¬
mento. Questo Pio XI e Mussolini disfecero. Questo
deve essere disfatto da capo. Comunisti, socialisti,
azionisti, repubblicani non osano pensare con chia¬
rezza su questo punto — salvo ad essere presi domani
da un accesso di anticlericalismo furioso alla Podrccca.
Per conto mio, non cederei un solo millimetro di ter¬
reno su questo punto, dovessi anche rimanere per tutta
l’eternità « Orazio sol contro Toscana tutta ».
Bada che l’abolizione del concordato — imme¬
diata, totale, senza trattative col Vaticano — non porta
come conseguenza necessaria l’abrogazione di tutte
le leggi che furono promulgate dal regime fascista
in conformità con gli impegni assunti nel concordato.
Mi spiego con due esempi. Il Concordato abolisce il
matrimonio civile per i cattolici e impone al governo
italiano l’obbligo di seguire una data procedura nella
celebrazione dei matrimoni. Orbene, si può abolire il
concordato, e lasciare intatto il sistema legislativo
sorto in Italia nel 1929, senza ritornare alla legge sul
matrimonio civile del 1865. Il Concordato rende im¬
possibile una legge, che introduca il divorzio anche
per i non cattolici. Si può mettere fine al concordato,
cioè rivendicare per il governo secolare il diritto di
adottare o non adottare il divorzio, e nello stesso tem¬
po dichiararsi contrari al divorzio sia per ossequio
aH’insegnamento morale cattolico, sia per altre consi¬
derazioni che possono essere accolte anche da non
cattolici: per esempio, ostilità delle donne contro il
IL PONTE
RIVISTA MESSILE Dì POLITICA £ LETTERATURA
u PIERO CALAMANDREI
Sommario del n. 1, gennaio 1964:
Umberto Segre: La politica estera del centro-
sinistra.
Leo Levi: Lettera da Israele. Il t ritorno > di
Paolo e la pace in terra.
Antonio Bianchi: Agricoltura e compromessi
nella CEE.
I. Montanelli - F. Comandini - E. Enriques
Agnoletti: Scontri per Garibaldi.
Mario Delle Piane: Il problema dell’inter¬
vento italiano nella prima guerra mondiale.
Renato Poggioli: Leone Tolstoj come uomo e
come artista.
Gilberto Finzi: Riformista o riformatore?
Camillo Pennati: Tre poesie.
Nino Isaia: L'uomo di un'epoca. Ricordi.
Rassegne - Teatro, di A. Mango.
Osservatorio - Ritrovo - Recensioni.
Direttori: E. E Agnoletti e Corrado Tumiatl
Piazza Indipendenza, 29 • Firenze
divorzio, specialmente nell’Italia meridionale; pericolo
di disorganizzare l’istituto della famiglia, inopportu¬
nità di sollevare siffatta questione mentre vi sono altre
gatte da pelare, e così di seguito.
Altro è dire questo argomento è tabù perchè c’è un
concordato e il Papa mette il suo divieto; — altro è
dire: i cattolici, come cittadini, hanno il diritto di
oppiorsi a questa riforma, e gli altri italiani hanno il
dovere di prendere in considerazione i sentimenti dei
loro concittadini cattolici e non offenderli se non per
ragioni assai serie e dopo matura considerazione. Altro
è dire: i cattolici hanno il diritto di uniformarsi allo
insegnamento del Papa su un dato problema, così
come i comunisti si uniformano alle istruzioni di
Mosca su molti problemi; — altro è dire: di qui non
passano nè cattolici nè acattolici, nè comunisti, nè
anticomunisti perchè un concordato col Papa vieta il
diritto di passaggio.
Insomma i cattolici democratici debbono scegliere:
o governo clericale, o governo secolare nel quale essi
abbiano gli stessi diritti di libertà che spettano a tutti
i cittadini di un paese libero, e quindi la possibilità
di far prevalere i loro punti di vista nella legislazione
secolare col metodo della libertà eguale per tutti, ma
non privilegi garantiti da un concordato secondo la
dottrina clericale.
L’argomento principe dei clericali, e — temo,
purtroppo — anche dei democratici-cristiani alla don
Sturzo — è che la popolazione italiana è cattolica, e
i suoi sentimenti vanno rispettati. E’ facile rispondere
anzi tutto che il rispetto ai sentimenti religiosi di un
popolo non può essere imposto per legge, ma deve
rampollare dalla coscienza e dalla educazione di quel
popolo; i cattolici debbono provvedere essi allo svi¬
luppo di quella coscienza e di quella educazione, e
non invocare il carabiniere per imporlo armata manu.
Anche se tutti gli italiani fossero cattolici consapevoli,
convinti, coerenti e praticanti, e un solo italiano non
fosse tale, quell’unico italiano dovrebbe avere di fron¬
te alla legge gli stessi identici diritti dei suoi concit¬
tadini cattolici, e questi non dovrebbero godere di
nessun privilegio legale nei suoi confronti.
Sta inoltre il fatto che in Italia i cattolici consape¬
voli, convinti, coerenti e praticanti, sono una mino¬
ranza esigua. Il Partito popolare nel 1919 non convo¬
gliò che il 25% dei voti. La Democrazia Cristiana, nel
1946, non ha convogliato che il 35% dei voti, e molti
di questi voti furono dati non da cattolici consapevoli,
convinti, coerenti e praticanti per aderire alle dottrine
del Vaticano, ma da persone la cui fede religiosa era
rinchiusa tutta nei portafogli. Con che diritto preten¬
de la minoranza cattolica di garantirsi grazie a un
concordato col Papa una posizione giuridica di pri¬
vilegio in mezzo alla maggioranza dei suoi concittadini?
Che i monarchici e i reazionari cerchino la prote¬
zione del Vaticano contro le forze di sinistra, c per ot¬
tenere quella protezione inghiottano il Concordato, e
che il Vaticano in compenso ordini ai clericali di fare
massa insieme con chi promette il rispetto del Concor¬
dato, è perfettamente naturale. Quello che non è na¬
turale è che i cristiani, i quali si dicono non clericali,
minaccino gli uomini di sinistra col dilemma: « o voi
inghiottite il Concordato, o noi ce ne andiamo coi
clericali e col Vaticano, e addio alle vostre e nostre
U
riforme *. A questa minaccia gli uomini dì sinistra
debbono rispondere: « Smettete il vostro doppio gio¬
co, e andatevene coi clericali e col Vaticano, ma noi
il concordato non lo inghiottiamo. Rimarremo in m-
noranza, data la vigliaccheria dei comunisti, socialisti
e repubblicani. Ma non sarà sempre così ».
Vi sono due modi di arrivare alla abolizione del
Concordato. L’ideale sarebbe di arrivarvi all’amiche¬
vole, attraverso un compromesso amichevole non col
Vaticano ma con quella parte dei cattolici italiani che
non è accecata dalle tradizioni medievali. Il compro¬
messo dovrebbe avere sempre per base 1 abolizione
immediata senz’altro del concordato — su questo
punto la mia intransigenza sarebbe assoluta — ma la
massima parte delle leggi concordatarie rimarreb^ro
intatte, mettiamo, per cinque mni, magari per dieci
anni; scaduto il compromesso, si negozierebbe un nuo¬
vo compromesso. Chi avesse miglior filo tesserebbe
miglior tela. La massima parte delle leggi concordata¬
rie, ma non tutte, potrebbero essere lasciate fuori
discussione. Due leggi dovrebbero cadere immedia¬
tamente: quella che fa della religione cattolica^ la
religione dello Stato, e quella che esenta da ogni im¬
posta tutte le istituzioni ecclesiastiche, cioè permette
in un paese rovinato di usare strade, ponti, tribunali,
edifici pubblici, bonifiche, ferrovie, etc., senza
tribuire alle spese; una vera e propria porcheria di
cui il tuo e mio Gesù Cristo non sarebbe entusiasta.
Ma il Vaticano non cede mai spontaneamente
nessuno dei privilegi ereditati dal Medio Evo, nè per¬
mette ai cattolici di accettare compromessi, salvo che
vi sia costretto dal pericolo di danni maggiori. Bisogna
sempre con quella gente là mostrare il bastone di ferro
se si vuol arrivare ad usare solamente il guanto di
velluto. Per bastone di ferro intendo il minacciare
un’abolizione immediata di tutte le leggi concordata¬
rie, e in aggiunta ( sempre nella speranza di non inet-
tere mano a quegli estremi) l’abolizione immediata
totale del bilancio dei culti; la confisca delle mense
vescovili e capitolari; l’abolizione dei sussidi ai paiTO-
ci; il trasferimento dei beni delle parrocchie ai co¬
muni, liberi i comuni di assegnare le rendite al culto o
ad opere di assistenza sociale ed educazione popolare.
Se il Vaticano sapesse di dover evitare questi
estremi, lascerebbe ai cattolici italiani la via aperta
per una divisione all’amichevole. Solo quando deve
adattarsi al meno peggio, il Vaticano lascia ai cattoli¬
ci libertà di regolarsi caso per caso secondo il loro
buon senso e non secondo fantasmi ereditati dal tem¬
po di Gregorio VII e di Innocenzo III. Dove il
Vaticano ha paura di un serio movimento anticleri¬
cale, i cattolici non clericali godono di larga libertà
d’azione. Non appena il movimento anticlericale de¬
clina, il Vaticano spinge in prima linea i clericali e
li aiuta a soffocare i cattolici non clericali.
Mentre ti scrivo, mi cade sottomano l'Osservatore
Romano del 1“ settembre 1946, dal quale apprendo
che un conte Ruccellai di Firenze vorrebbe far ap¬
provare dalla Costituzione una « legge costituzionale
sulla religione dello Stato », secondo la quale « lo
Stato riconosce la personalità e la sovranità della
Chiesa cattolica romana in conformità del diritto ca¬
nonico », * gli attentati, le offese e le calunnie alla
religione dello Stato, alla Chiesa e ai suoi ministri
sono punibili », *■ la pubblica propaganda contrari*
alla religione dello Stato è vietata », è permessa la
professione e propaganda <n anche in pubblico » di
culti non cattolici « purché non contrari agli articoli
della presente legge ». L’Osservatore Romano, pub¬
blicando quel documento senza critiche di sorta, di¬
mostra che esso contiene le pretese del Vaticano.
Dopo avere ottenuto il 70% da Mussolini, il Vati¬
cano pretende il restante 30% dai successori di
Mussolini in premio, a quel che pare, della coope¬
razione da esso concessa per venti anni a Mussolini.
La Chiesa in un paese retto a democrazia è una
associazione privata retta da leggi interne proprie.
Il diritto canonico è la legge interna della chiesa
cattolica, moralmente obbligatoria per chiunque si
sente cattolico. Ma quel dovere deve nascere da una
scelta libera. Chi non nacque cattolico o non si sente
più cattolico, non deve essere tenuto dalle norme del
diritto canonico: deve legalmente obbedire alle sole
leggi che sono comuni a lui e a tutti i suoi con¬
cittadini. In Italia il Vaticano pretende che il diritto
canonico diventi leggi civile obbligatoria, anche per
quelli che non intendono seguire la Chiesa cattolica.
Ogni individuo privato, e ogni associazione pri¬
vata, ha il diritto di essere protetto dalla legge co¬
mune contro gli attentati, le offese e le calunnie.
Il Vaticano pretende un privilegio speciale anche in
questo campo, beninteso che le offese e le calunnie
dell’Osservatore Romano contro i culti non cattolici
non sarebbero né offese né calunnie, ma sarebbero
critiche perfettamente giustificate. Siamo in pieno
regime totalitario, cioè fascismo — fascismo eccle¬
siastico e non fascismo secolare.
Sarebbe bene sapere se i democratici<ristiani alla
Uastrolabio
37
Don Sturzo accettano o respingono le idee contenute
nel progetto di legge pubblicato dall’Osservatore Ro¬
mano. Se non le accettano, lo dicano apertamente:
preparerebbero una concentrazione di tutte le forze
democratiche ragionevoli e lavorerebbero ad educare
il popolo'italiano nella morale cristiana mille volte
più che mettendo l’arma dei carabinieri a servizio
del diritto canonico. Oppure accettano quel sistema
di idee? E lo dicano chiaramente e onestamente uscen¬
do dagli equivoci.
Che cosa intendono essi quando invocano la « li¬
bertà »? Intendono « libertà per tutti », oppure « li¬
bertà per i soli cattolici »? E intendono « libertà per
tutti » come un ideale da affermare in permanenza,
o come un espediente provvisorio da essere utilizzato
per arrivare ad un regime di * libertà per i soli
cattolici »?
Tu scrivi nella tua lettera che « uno dei maggiori
problemi politici dell’Italia di oggi è quello di fare
del cristianesimo cattolico una potente forza di rinno¬
vamento etico, educativo e anche politico ». Perché
non lo dici al Papa, ai cardinali, agli arcivescovi e ai
vescovi italiani? Ne avrebbero bene avuto del tempo
per metter mano a quel rinnovamento! Non pare ci
abbiano mai pensato.
Tu hai perfettamente ragione a ritenere che un
atteggiamento modernista fra i cattolici non servirebbe
Se riuscirete a rinovare quella impalcatura dal di
dentro, o non si rinnova affatto. Ma dove sono que¬
ste forze di rinnovamento dal di dentro? Vedo vel¬
leità, non vedo volontà. Temo assai che assistiamo
nella Democrazia Cristiana d’oggi a una seconda edi¬
zione di quella lotta fra conservatori e democratici
che paralizzò il Partito Popolare venticinque anni or
sono. E dietro ai conservatori c’è oggi, come c’era
allora, l’alto clero cattolico accentrato nel Vaticano.
Se riescirete a rinnovare quella impalcatura dal di
dentro, farete un vero miracolo — e, ripeto, dif¬
fonderete un nuovo sentimento religioso contro cui
nessun uomo di buon senso dovrebbe obiettare, per¬
ché il sentimento religioso diventa deleterio e odioso
solamente quando sconfina dai limiti della libertà
morale e pretende di prevalere colla forza.
L’anticlericalismo è nato storicamente come dife¬
sa contro il clericalismo da parte di chi non intendeva
lasciarsi dettar la legge dai preti. Nei primi due de¬
cenni di questo secolo in Italia le ragioni dell’anti¬
clericalismo erano venute meno, perché il clericalismo
aveva perduto i denti dopo mezzo secolo di lotte
sfortunate. Questo spiega perché nel 1922 intese
cominciavano ad apparire possibili fra socialisti e po¬
polari. Pio XI, essenzialmente reazionario c filofa¬
scista, rese impossibili quelle intese. Oggi vi è la
possibilità di ricostruire la vita italiana senza cleri¬
calismo e senza anticlericalismo. Per riconquistare
molti italiani alla fede cattolica fecero più due martiri
della lotta antifascista come Don Minzoni e Don
Morosini che mille dottori di diritto canonico. Ed
ecco che il Vaticano approfitta di questa disposizione
degli animi per pretendere nuovi privilegi oltre quelli
che aveva ottenuto da Mussolini. A quella ondata
clericale corrisponderà o prima o poi una reazione
anticlericale.
Non illudetevi che possiate a lungo tenere inca¬
tenati alla póirticà del Vaticano i partiti di sinistra,
minacciandoli di piantarli in asso se non inghiottono
insieme con voi tutto quel che il Vaticano pretende
che inghiottiate. Solo se avrete il coraggio di stac¬
carvi dai clerico-reazionari e dichiararvi in politica
indipendenti dai Vaticano, solo in questo caso riu¬
scirete a impedire una nuova tempesta non solo
anticlericale, ma anche antireligiosa.
Credendo fermissimamente nella « libertà per tutti
come ideale permanente », e cioè nel diritto di ognuno
di andare all’inferno o al paradiso per la strada che
più gli aggrada, io farei alle coltellate con chiunque
disturbasse la vecchiarella nella sua preghiera e pre¬
tendesse imporle un’altra fede o nessuna fede, e con
questo sentirei di compiere il mio dovere verso quel¬
la fede morale-storica<ristiana, della quale indegna¬
mente mi professo seguace. Anche se qualcuno mi
consigliasse la fede di quella vecchiarella o qualun¬
que altra fede, riconoscerei che è questo un suo
diritto, e mi sentirei in dovere di tollerare le sue
prediche. Riconoscerei che è nel suo diritto anche
se mi dicesse che andrò all’inferno se non lo ascolto:
tale è il suo modo di pensare, e anche in questo io
debbo sopportare con pazienza quella molestia. Ma
se non si contenta di promettermi l’inferno nell’al¬
tro mondo e vuol crearmi l’inferno già in questo
mondo colla prigione, col boicottaggio economico,
colla calunnia, allora la mia fede morale diventa
immediatamente anti-clericalismo politico militante, e
sono pronto a fare alle coltellate con chi pretende di
mandarmi per forza in paradiso.
Il mio sogno sarebbe di camminare a braccetto
con te finché rimanesse lena a te per predicare le
tue idee religiose e morali, e a me per predicare le
mie idee morali senza religione. Ma il giorno in cui
ti vedessi passare nel campo vaticanesco a predicare
non solo le tue dottrine religiose, ma anche le idee
politiche del Vaticano, quel giorno non me la pren¬
derei calda neanche se vedessi risorgere l’anticleri¬
calismo a base di bastonature di preti nelle strade.
Scuotendo desolato il capo, ripeterci con Manzoni:
« mal date, ma ben ricevute ».
G)me vedi ho cominciato coll’essere d’accordo
con te, ed ho finito — temo — coll’essere in disac¬
cordo. Anche questa è una prova del fatto che si
può convenire su molti principi generali c dissentire
sulle conseguenze pratiche da dedurre da quei prin¬
cipi, c si può dissentire su tutti i principi eppur
convenire su molte azioni pratiche.
GAETANO SALVEMINI
abbonatevi a
^astrolabio
Abb. annuo L. 2.300 - Sostenitore L. 5.000
38
Libri
Il socialismo dei non impegnati
Neutralismo e jjuerra frethla
di Giampaolo (balchi Novali
Coniunilà, pp. 264, L. 2500
I L fenomeno del neutralismo
è nuovo, complesso e pressoché
inesplorato; in Italia, poi, è un
argomento ancora vergine, quanto
meno al livello della saggistica
se non della generica pubblicistica.
Ciò rende prezioso, in partenza, il
contributo del Calchi Novali, il
quale ha messo a frutto la sua
non recente dimestichezza con i
problemi del ” terzo mondo ” in¬
traprendendo un'ampia disamina di
quei loro aspetti comuni che han¬
no acquistato crescente rilievo nel¬
la realtà internazionale.
L'autore si è attenuto a un cri¬
terio prevalentemente cronologico,
riuscendo ad evidenziare le tap¬
pe fondamentali dell' evoluzione
del neutralismo, le quali si iden¬
tificano poi con altrettante com¬
ponenti avviate verso una più o
meno stabile fusione in un unico
Alone. Egli ha inoltre inserito cri¬
ticamente il fenomeno nella pro¬
blematica generale del mondo di
oggi, e in primo luogo del contra¬
sto Est-Ovest. E dobbiamo dire
che, se un appunto gli può essere
mosso quanto all'impostazione del
lavoro, è di non aver calcato ab¬
bastanza la mano sul neutralismo
visto dal di dentro; il che gli
avrebbe forse assicurato dei risul¬
tati più sicuri, anche se meno
ambiti.
Ci spieghiamo. Ci sembra che
Calchi Nevati avrebbe dovuto con¬
cedere di meno alla preoccupa¬
zione di provocare nel lettore un
giudizio immediato favorevole al
neutralismo, e presentare invece
una serie più ricca di elementi at¬
ti a facilitare un giudizio, quale
che sia, su un fenomeno cosi po¬
co conosciuto. Neutralismo visto dal
di dentro: concentrare cioè l'analisi
critica sulle formulazioni concet¬
tuali studiate e suile loro appli¬
cazioni, piuttosto che sugli atteg¬
giamenti tenuti 0 da tenere di
fronte ad esse; e inoltre, un loro
più largo e approfondito confron¬
to con le varie situazioni interne
dalle quali sono sorte.
Malgrado questi rilievi, il la¬
voro del Calchi Novali costituisce
un contributo molto valido a una
considerazione critica dell' argo¬
mento. Lo stesso titolo suggerisce
di prendere le mosse dalla compo¬
nente più ovvia del neutralismo:
il suo carattere di vasta ribellione
contro la guerra fredda e il suo
estendersi, contro la realtà dei due
blocchi e il pericolo nucleare. Neu¬
tralismo e guerra fredda, d'altron¬
de, sono termini inscindibili anche
perché Senza l'aspra contrapposi¬
zione dei due blocchi non vi sa¬
rebbe stato spazio per l'emergere
relativamente cosi rapido di un
" terzo mondo ", non vi sarebbe¬
ro state le condizioni propizie per
un'offensiva su vasta scala contro
il colonialismo proprio e Impro¬
prio, e contro il sottosviluppo. Che
poi tale lotta abbia acquistato An
daH'inizio l'impronta del neutrali¬
smo o del disimpegno, costituisce
in parte una delle tante conse¬
guenze della degenerazione stali¬
niana del comuniSmo — e non so¬
lo perché l'URSS, almeno Ano al
1955, non dimostrò alcuna sensi¬
bilità per i problemi e le Istanze
dei paesi uscenti dalla colonializ-
zazione o tesi a liberarsene.
Furono questa degenerazione e
questa insensibilità a compromet¬
tere la suggestione potente eserci¬
tata dalla Rivoluzione d'ottobre
sui movimenti di emancipazione
del mondo coloniale, e a frustrare
le naturali implicazioni anti-colo-
nialiste dell'originario programma
comunista. Venne meno la prospet¬
tiva di quel vasto fronte antl-im-
perlalista di tutte le forze rivolu¬
zionarie — dal nazionalismo di co¬
lore ai vari socialismi europei —
teorizzato da Lenin aU'indomani
delta conquista del potere in Rus¬
sia (teorizzazione ripresa recente¬
mente, con successo non sorpren¬
dentemente scarso, dalla leader¬
ship post-staliniana, e che il Cal¬
chi Novali avrebbe potuto oppor¬
tunamente menzionare — se non
altro come antecedente storico —,
anziché ricorrere ad alcune opina¬
bili citazioni per appoggiare la te¬
si della strumentalizzazione del-
l'anti-colonialismo ai Ani della lot¬
ta di classe). A ragione, perciò,
l'autore rileva come, a causa della
contraddizione che condiziona lo
politica deirURSS " nella sua du¬
plice qualità di primo Stato socia¬
lista e di protagonista della guer¬
ra freddo ", è stato determinante,
ai Ani del movimento anti-colonia-
lista, il semplice precedente della
Rivoluzione d'ottobre, dei progressi
eccezionali dell'industrializzazione
e della tecnica sovietiche. Dopodi¬
ché, è An troppa grazia l'identiA-
cazione dell' URSS col " centro
ideale di ogni movimento di eman¬
cipazione ", posta come condizione
della validità anti-imperialista del
neutralismo.
Questa, diciamo, dissonanza va
ricollegata a un motivo di fondo
che, in un certo senso, dà il tono
al volume di Calchi Novali e ne
costituisce l'aspetto più stimolan¬
te e insieme più precario. Le quali-
Acazioni assunte dal neutralismo
col passare degli anni — accele¬
razione della decolonizzazione, re¬
sistenza ai ritorni imperialistici,
superamento delle condizioni di
sottosviluppo, difesa della pace ed
eliminazione delle cause di attrito
tra 1 due blocchi — non esauri¬
scono il programma neutralista né
bastano a conferirgli un'impronta
sufAclentemente originale ed inci¬
siva. Lo stesso motivo anti-impe¬
rialista. in fondo, non dice gran che, ,
da sé solo, se non altro per es¬
sere facilmente sfruttabile nelle
circostanze e per i Ani più diversi.
La nuova componente che, secon¬
do il Calchi Novali, completa il
programma neutralista, avvaloran¬
dolo ed esaltandolo nella sua inte¬
rezza è invece l’impegno a ” rea¬
lizzare la rivoluzione sociale e la
costruzione del socialismo ", sia
pure ” adattandolo alle contingenze
del mondo arabo o della società
africana ”, essendo l’area dei paesi
non impegnati ” il mondo (...) in
cui la via al socialismo è origi¬
nale ”. L’affermazione di questa
componente e la sua integrazione
nella tematica neutralista vengono
ricollegate dall'autore al fondamen¬
tale, decisivo apporto arrecato al
neutralismo dal suo unico vero por¬
tavoce europeo: la Jugoslavia.
Questo concetto, che domina un
pò tutta l’opera, trova la sua espli¬
cazione più articolata e convincen-,
te nell’analisi dedicata al caso in¬
diano. La funzione di guida dei
non allineati, il prestigio e il mor¬
dente dell’azione neutralista del¬
l’India di Nehru sono gradualmen¬
te scaduti, di pari passo con l’in¬
voluzione aH’interno e l’afAevolir-
sl dell’impegno di rinnovamento
economlco-sociale, e con l'indebo¬
limento progressivo della sua re¬
sistenza al neo-colonialismo. Per
quanto l'offuscarsi dell’astro india¬
no nel Armamento dei non impe¬
gnati possa spiegarsi parzialmente
anche con la comparsa di nuovi e
più vigorosi centri d’irradiazione, il
fatto resta assai slgniAcativo ed
esemplare. CI si può chiedere, tut¬
tavia. se sia proprio un caso che
l'esemplo più eloquente abbia ca¬
rattere negativo. E per cercare una
risposta, consideriamo la conferen¬
za al vertice di Belgrado del set¬
tembre 1961, l’ultima «ande assi¬
se del neutralismo, nella quale si
39
è cercato di dargli un’impostazio¬
ne programmatica particolarmen¬
te coerente ed incisiva, selezionan¬
do nel contempo l'eterogeneo
schieramento di forze dispiegatosi
in precedenti occasioni.
Per la verità, l'autore precisa
che la selezione era avvenuta ” in
conformità ai principi del non al¬
lineamento ”, e si premunisce af¬
fermando che la conferenza era
importante ” più per la politica che
vi si sarebbe enucleata che per il
successo della rassegna in sè ”, al¬
ludendo alla presenza di taluni
paesi ed all’assenza di altri. Ma
come non tentare di spingere a
fondo l'indagine sul curriculum do¬
mestico di tutti i 25 selezionati se
la "costruzione del socialismo” (e
sia pure di un socialismo ’’ adat¬
tato ” e "originale”) deve dav¬
vero figurare tra gli impegni fon¬
damentali del neutralismo? L’au¬
tore ritiene sufficiente giustificare
in qualche modo — e non senza
buone pezze d’appoggio — la pre¬
senza di paesi come Cipro, Libano
e Somalia (” culturalmente e poli¬
ticamente vicini all’occidente”),
da una parte, e Marocco, Yemen
e Arabia Saudita (” solidali solo
per motivi contingenti con la po¬
litica neutralistica di cui non pra¬
ticavano il riferimento sociale”),
dall’altra. Qui occorrerebbe in pri¬
mo luogo chiarire se ed in quale
misura Cipro o il Libano abbiano
od avessero per avventura le car¬
te in regola quanto al ’’ riferimen¬
to sociale ”, e se l’Arabia Saudita,
ad esempio, non fosse o non sia
economicamente legata a filo dop¬
pio all’Occidente. Il discorso, però,
dovrebbe essere generale, ed accen¬
tuarsi anzi non tanto per i casi
che appaiono praticamente scontati
in partenza (quali l’Afghanistan, il
Nepal. l’Etiopia), quanto su quelli
generalmente considerati più signi¬
ficativi ed esemplari, senza trascu¬
rare naturalmente l’incidenza del¬
lo stesso caso indiano.
Non è possibile contestare ra¬
gionevolmente la portata storica e
la funzione obiettivamente pro¬
gressiva della ” rivolta ” del terzo
mondo. Sarebbe necessario, invece,
tentare di chiarire se e in quale
misura tale rivolta sia portatrice
— per le sue fonti di ispirazione e
per i modi in cui si attua con¬
cretamente — di valori genui¬
namente rivoluzionari, anche se
non del tutto nuovi in ogni loro
aspetto e anche se non necessaria¬
mente riconducibili al socialismo.
Il torto del Calchi Nevati non è,
dunque, di aver sollevato il proble¬
ma, ma di non averlo posto appun¬
to in quanto problema, e anzi di
averlo dato per risolto in un de¬
terminato senso senza peraltro ad¬
durre prove sufficienti. Ci si po¬
trebbe chiedere: cos’è il socialismo
” adattato ” e ’’ originale ”? E Cal¬
chi Nevati non ha, per caso, trop¬
po sbrigativamente identificato la
costruzione del socialismo con una
generica pianificazione economica e
con la prevalenza o l’esclusività
dell’iniziativa statale nel processo
di industrializzazione? E’ inevita¬
bile, infine, ripensare a quei casi
di evidente involuzione demagogi-
co-totalitaria verificatisi d’esempio
più recente è offerto dal Ghana)
in paesi la cui esperienza appariva
particolarmente promettente, e più
in generale ai continui progressi
del neo-colonialismo, con tutte le
sue implicazioni, in ogni parte del
terzo mondo.
Un ultimo rilievo. Calchi Nevati
indica come caratteristica e condi¬
zione deH'effìcacia anti-imperiali-
stica del neutralismo non soltanto
la costruzione del socialismo al¬
l’interno, ma anche l’accettazione
della ’’ vena indissolubile che ac¬
comuna — nella stessa campagna
per il progresso e la indipenden¬
za dei popoli — i programmi del
riscatto nazionale ed il socialismo
internazionale ”. Ma cos’è il ” so¬
cialismo internazionale ”? Secondo
ogni apparenza, l’autore esclude il
blocco comunista — avversato pro¬
grammaticamente dal neutralismo
appunto in quanto blocco —, an¬
che se poi invita ad accantonare
” le più viete riserve anti-marxi-
ste ” e a riconoscere nell’URSS ’’ il
centro ideale di ogni movimento di
emancipazione ”. Nè si riferisce,
presumibilmente, ai partiti che
hanno il loro punto d’incontro nel¬
l’Internazionale socialista. Rimane,
quindi, la postulazione di un socia¬
lismo internazionale non anti-mar-
xista. se non proprio marxista, il
quale però non ci risulta che esista
se non allo stato di vaga aspira¬
zione. Che un simile socialismo pos¬
sa servire d’appoggio o da guida
per il terzo mondo appare perciò
piuttosto dubbio; sempreché non si
accetti la formulazione posta a
conclusione del libro, la quale at¬
tribuisce al socialismo — previa
depurazione dal ” satellitismo ’’ e
in connubio con il neutralismo at¬
tivo — un ” compito di media¬
zione fra paesi ricchi e paesi po¬
veri ”.
Tutto sta, evidentemente, ad in¬
tendersi su che cosa sia o debba
essere il socialismo.
FRANCO SOGLIAN
MOVIMENTO GAETANO SALVEMINI
Domenica 22 marzo alle ore 10, a Roma, nella sala dell’Hotel Uni¬
verso — Via Principe Amedeo, 5-B — dopo la lettura di qualche
scena del « Vicario » e la esposizione da parte del dr. Leo Levi
(di Gerusalemme) di alcune sue impressioni sul viaggio di Paolo V^I
in Palestina si svolgerà un dibattito sul dramma di Rolf Hochhuth.
Analoghi dibattili saranno tenuti lunedì 23, alle ore 21, alla Casa
della cultura di Milano — Via Borgogna, 3 — e martedì 24, alle
ore 21, alla Società di cultura di Genova (Palazzo del grattacielo).
Per i primi di aprile è preannunciato il 2° Convegno del Movi¬
mento Gaetano Salvemini, sul tenia: « Disarmo atomico e forza mul¬
tilaterale ».
Relatori: P) il prof. Patrick Blackett dell’Università di Londra,
premio Nobel per la fisica, già consigliere dell’ammiragliato britan¬
nico per i problemi di strategia nucleare, autore dei due volumi
sull’argomento tradotti in italiano neH’edizione Einaudi; 2°) il pro¬
fessor Karol Lapter, dell’Università di V^arsavia, consulente giuridico
del governo polacco per i problemi del disarmo, più volte membro
di delegazioni ufficiali all’ONU c alla Conferenza di Ginevra; 3°) Fer¬
ruccio Parri.
T lavori del convegno inizieranno con una breve introduzione
storica del dottor G. Calchi Novali, sabato 4 aprile alle ore 16,30,
a Rom.a, nel salone del palazzo Brancaccio (largo Brancaccio 82)
e coiitimieranno il giorno appresso nello stesso locale, alle ore 10
della mattina cd al pomeriggio alle ore 16.
Tutti i lettori AclVAstrolabio sono invitati al dibattito cd al
convegno.
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