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Full text of "L'Astrolabio 1964 n° 05"

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Uastrdabio 

proliemi deliavita italiana 


Anno II — N. 5 
10 marzo 1964 

Una copia lire 100 


LE RIFORME 
E LA 

CONGIUNTURA 


UN INEDITO DI SAIVEMN 

LA SINISTRA NELL'UNIVERSITÀ 

ERNESTO ROSSI: QUATTRO DITA DI GIUNTA 


L'ASTROLABIO Via XXIV Maggio, 43 • Roma • Spedizione in abb. post. • Gr. II 












Lettere 


Liiiìinacci e Vantifascismo 


Illustre Senatore, 

non sarà certo rivolgendomi a Lei 
che invocherò disposizioni di legge 
per rispondere all’attacco di Erne¬ 
sto Rossi sul numero 4 di Astrolabio; 
so che mi basta rivolgermi alla Sua 
correttezza e alla Sua lealtà, alle 
quali faccio appello con tanto mag¬ 
gior calore, in quanto se l’attacco 
di Ernesto Rossi mi colpisce è so¬ 
prattutto, e forse soltanto perché 
apparso sulla rivista che porta il 
Suo nome, e quindi dal Suo nome 
trae autorità. 

Ernesto Rossi, all’articolo in po¬ 
lemica con il mio del Corriere della 
sera a proposito del * Vicario », ha 
creduto utile aggiungere una nota 
del tutto estranea alla discussione, 
nella quale mi accusa di essere sta¬ 
to « dalla parte dei manganellatori » 
per esser apparso fra i principali 
collaboratori del settimanale Oggi, 
che < esaltò le teorie fasciste, il Du¬ 
ce, il Fuehrer... e mise In burletta 
le teorie liberali e democratiche, la 
civiltà occidentale, gli americani, 
gli inglesi, gii ebrei ». Su questo set¬ 
timanale io ho scritto articoli fa¬ 
scisti, che il Rossi definisce « vere 
calze di seta piene di sterco ». 

Lo stile villano dello scritto del 
Rossi non mi scalfisce, nemmeno se 
copiato da Napoleone, che definì ap¬ 
punto: c de la m... dans un bas de 
soie » il principe di Talleyrand; mi 
accontento di rispondere alla tradu¬ 
zione dal napoleonico del Rossi con 
la traduzione del commento di Tal¬ 
leyrand: < che peccato che un cosi 
grand'uomo sia tanto maleducato », 
dove lascio volentieri anche il gran¬ 
d’uomo; ma quello che non posso 
ammettere è il tentativo non one¬ 
sto, e probabilmente al servizio di 
altra polemica che non mi riguarda, 
di falsare un aspetto dell’antifasci¬ 
smo che pure ha avuto la sua fun¬ 
zione e il suo coraggio. 

Così dunque noi che dopo la sop¬ 
pressione di Omnibus ci raccogliem¬ 
mo nella redazione di Oggi per con¬ 
tinuare, e raffinare, e portare mag¬ 
giormente nel campo minato della 
politica la formula del settimanale 
soppresso, non saremmo stati che 
corifei del Regime; non saremmo 
stati che un’edizione più elegante 
della prosa degli Appelius e degli 
Interlandi. E va bene: ma allora 
perché i sequestri? Perché gli at¬ 
tacchi ringhiosi o maligni della 
stampa ligia? Perché a me e ad 
altri venne finalmente proibito di 
scrivere? Perché pure Oggi venne 
soppresso? E d’altra parte; perché 1 
consensi, l’attenzione, la trepida at¬ 
tesa dell’apparizione del giornale 
nelle edicole, e tanta fiducia di quan¬ 
ti sapevano pur leggere? 

Ho avuto con i comunisti tanti 


scontri; ma nemmeno da loro mi è 
venuta un’accusa come quella del 
Rossi, e nei contrasti politici, come 
nei contatti personali al consiglio 
comunale di Roma ho sempre av¬ 
vertito verso di me, e ne sono loro 
riconoscente, il rispetto almeno di 
quel passato di scrittore; di quella 
mia attività che parve loro abba¬ 
stanza chiara, quando non erano 
che un pugno di cospiratori sempre 
stretti fra 11 buio e la galera, per 
inviare a me Antonio Giolitti pri¬ 
ma, il prof. Geymonat dopo, a sta¬ 
bilire attraverso me 1 contatti con 
Tantifascismo liberale e con la corte. 
Anch'essi, allora, seppero leggere e 
capire; e deve venire Ernesto Ros¬ 
si, adesso, a parlare così! Che lo 
facciano i missini; i giovani, che 
nemmeno possono immaginare le 
angustie che ci soffocavano, passi; 
ma Ernesto Rossi? 

L’amarezza che ne provo Le dica, 
illustre Senatore, che ancora oggi, 
in tanta trasformazione di sentimen¬ 
ti e atteggiamenti, vi è anche fra i 
conservatori quale io mi onoro di 
essere, chi si ribella e si sdegna se 
vogliono togliergli il titolo e il van¬ 
to dell'antifascismo, e il diritto di 
stare accanto a persone come Lei, 
sia pure con umiltà di minorità. 

Mi creda devotissimo 

Manlio LupInaccI 
Roma 

Nessun bisogno di ricorrere alla 
legge, ma un semplice impegno di 
correttezza giornalistica ci avrebbe 
indotto a pubblicare la lettera di 
Manlio Lupinacci. Mi lascino dire 
i lettori che solo il dovere della 
riproduzione integrale m’impedisce 
di sopprimere qualche passaggio 
elogiativo che mi riguarda. Ma 
poiché Lupinacci mi chiama per¬ 
sonalmente in causa, e nella sua 
lettera rilevo due aspetti, uno per¬ 
sonale ed uno generale, devo dirgli 
che solo il secondo può dar mate¬ 
ria di risposta e di discussione. Se 
egli rivendica la sincerità ed il 
fervore del suo sentimento di anti¬ 
fascista, non ha bisogno di ricor¬ 
rere ad altre testimonianze perchè 

10 senz'altro ne debba prev*°r affo 
Diverso pud essere il giudizio sul¬ 
le forme di cripto-antifascismo del 
tempo e degli organi di stampa 
cui si richiama Lupinacci. Nessu¬ 
no più alieno di me da intransi¬ 
genze moralistiche, facili soprat¬ 
tutto se postume. Nessuno più con¬ 
sapevole di me che il tempo * si¬ 
mili a sè pii uomini produce »; ed 

11 tempo fascista ha dato un pro¬ 
dotto che ci vorranno ancora ven- 
t’anni a liquidarlo. Ciò che non 
conduce a indulgenze plenarie; 
deve condurre, a mio parere, ad 


t 


equità, e più ancora a serenità di. 
giudizio. Non mi sembra che la 
rivendicazione di carattere gene¬ 
rale qui espressa possa essere ac¬ 
colta semplicisticamente come vor¬ 
rebbe la lettera qui riportata. 

t. p. 


Il brevetto dei medicinali 


Egregio Sig. Direttore, 

in merito all’inchiesta « Monopo¬ 
lio della Salute » vorrei fare qual¬ 
che considerazione su alcuni punti 
trattati dal sig. La Cava non tanto 
per polemizzare quanto per far co¬ 
noscere l’opinione di chi ha una 
decennale esperienza nel mercato 
farmaceutico italiano. Per evidenti 
ragioni di spazio e per non abusare 
della Vostra pazienza limiterò il mio 
intervento ai due punti principali 
trattati neU’inchiesta: La ricetta¬ 
zione INAM ed il Brevetto sui me¬ 
dicinali. Per sgomberare il campo 
da qualsiasi malinteso faccio pre¬ 
sente di non essere alle dipendenze 
di una Industria italiana od ameri¬ 
cana oggetto di analisi nella Vostra 
indagine. 

Al fine di mettere in evidenza la 
proliferazione italiana delle ricette 
mediche presso l’INAM, massimo 
ente assistenziale italiano, il sig. 
La Cava fa il raffronto con la si¬ 
tuazione inglese, e fa notare che 
una parte della popolazione italia¬ 
na consuma almeno dieci volte più 
medicinali di quanto non consumi 
la popolazione inglese. Dimostra co¬ 
sì di aver centrato il massimo pro¬ 
blema del bilancio INAM, e, facen¬ 
do osservare che nessuna ragione 
giustifica questa differenza nel con¬ 
sumo di medicinali, mette in evi¬ 
denza che nel sistema assistenziale 
italiano qualche cosa non funziona. 

A mio giudizio però il sig. La Ca¬ 
va sbaglia quando, per contenere la 
proliferazione di ricette, tira in bal¬ 
lo il brevetto sui medicinali; è evi¬ 
dente che il brevetto non serve a 
questo scopo. Perchè non pone in¬ 
vece la domanda, che è la più lo¬ 
gica: non sarà questo fenomeno do¬ 
vuto al fatto che in Italia 1 medici¬ 
nali sono completamente (salvo po¬ 
che eccezioni) gratuiti? In Inghil¬ 
terra si è arrivati a far pagare lire 
170 per ricetta non tanto per ri¬ 
sparmiare i 37 miliardi calcolati dal 
sig. La Cava, quanto per contenere 
il numero delle ricette: quindi se 
si è arrivati a pensare che il citta¬ 
dino inglese, che pur viene lodato 
per 11 suo alto senso di civismo, 
possa consumare meno medicine se 
ogni volta che entra in farmacia 
deve pagare una piccola quota, per- 

(segue a pag. 4) 













Anno n — N. 5 




10 marzo 1964 


L’astrolabio 

problemi della vita italiana 


DIREnORE: FERRUCCIO FARRI COMITATO DI REDAZIONE 

Lamberto Borghi - Luigi Fossati - Anna Garofalo 
Alessandro Galante Garrone - Gino Luzzatto 
Leopoldo Riccardi - Ernesto Rossi - Paolo Sylos 
Labtni - Nino Valeri - Aldo Visalberghi. 
Redattore responsabile; Luigi Ghersi. 


Sommario 


Ferruccio Farri 

Le riforme e la congiuntura .... 

5 

NOTE E COMMENTI 

Roma - L'Europa delle buone intenzioni 

7 


Roma - L'eccezione e la regola .... 

8 

AHUALITA' 

Roma - Il prezzo dei medicinali 

9 

Lorenzo Accardi 

Cronache del centro-sinistra: Moro e i sin- 



dacati .. 

10 

Federico Artusio 

Il PSI alla prima prova . . . • . 

12 

Luciano Bolis 

Lettera da Parigi: L'alternativa del buonsenso 

14 

G. Calchi Novati 

Il conflitto somalo-etiopico: Il confine con- 



testato .. 

16 

Max Salvadori 

Commento a cose del Messico .... 

18 

Anna Garofalo 

1 processi agli ex nazisti: Non perdonare nè 



dimenticare. 

20 

L J. 

Il Congresso dell'UGI: La sinistra nell'Uni- 



versità . 

26 

INCHIESTE 

Dibattito sul divorzio: Fantasmi e statistiche 

31 

Ernesto Rossi 

Pio XII, Paolo VI e gli ebrei: Quattro dita di 


DOCUMENTI 

giunta. 

21 

Gaetano Salvemini 

Cristianesimo e clericalismo .... 

34 

RUBRICHE Sergio Angeli 

Diario politico - Cuba: di nuovo al roll-back; 

1 nazi, uno per uno; Aperto rimpianto; 



La legge dell'ortogenesi .... 

28 


Libri - Il socialismo dei non impegnati . 

39 


Redazione amministrazione: Roma, Via XXIV Maggio, 43 - Tel. 484.559 - 485.600 - Autorizz. del Trib. di Roma n. 8861 
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Tipografia GATE, Via dei Taurini 19, Roma • 


















(sCEue da paE- 2) 

ché la stessa cosa non viene attuata 
anche in Italia? 

Apparentemente questa soluzione 
può sembrare impopolare e nessu¬ 
no osa proporla anche se è la più 
semplice e la sola capace di elimi¬ 
nare il progressivo aumento della 
spesa di medicinali, vero tallone di 
Achille dell’attuale sistema assisten¬ 
ziale italiano. Però continuando a 
voler ignorare l’evidenza solamente 
per tema deU’impopolarità si rischia 
di scivolare verso la demagogia. Se 
si provasse a spiegare in modo chia¬ 
ro quali vantaggi deriverebbero ai 
mutuati se l’INAM potesse ridurre 
le spese di medicinali a favore di 
una migliore e completa assistenza 
ospedaliera io penso che tutti capi¬ 
rebbero l’utilità della piccola quota 
a carico del mutuato. L’attuale go¬ 
verno volendo potrebbe avere l’au¬ 
torità e la forza di attuare questa 
riforma nell’interesse dei mutuati e 
per un miglior funzionamento del 
sistema assistenziale. 

L’istituzione del Brevetto sui me¬ 
dicinali oltre ad allineare l’Italia 
con gli altri paesi del MEC, a sal¬ 
vaguardare gli interessi delle indu¬ 
strie che impegnano ingenti capitali 
nella ricerca scientifica, avrebbe il 
grande merito di risanare il merca¬ 
to farmaceutico italiano e di mora¬ 
lizzarlo stroncando la proliferazione 
delle specialità. Il brevetto sul pro¬ 
cedimento è da preferirsi perché 
lascierebbe la possibilità di arrivare 
allo' stesso preparato con una sin¬ 
tesi diversa, quindi attraverso la 
ricerca dei minori costi di produ¬ 
zione si arriverebbe al minor prezzo 
dei medicinali: questa è la vera con¬ 
correnza più che la cessione auto¬ 
matica (la sintesi dei cortisonici in¬ 
segni). Il brevetto sul procedimento 
implica una esauriente documenta¬ 
zione di tutto il processo di sintesi, 
attraverso la quale è facile calco¬ 
lare il reale costo di produzione. 

Il proporre che il Ministero della 
Sanità acquisti il laboratorio d’ana¬ 
lisi delle farmacie comunali di Reg¬ 
gio, quale strumento per tagliare i 
favolosi guadagni degli industriali 
farmaceutici attraverso l’analisi dei 
costi, oltre ad essere semplicistico 
dimostra scarsa conoscenza delle 
possibilità dei laboratori d’analisi. 
Per calcolare il costo di una specia¬ 
lità medicinale bisogna conoscere il 
procedimento di sintesi qualora si 
tratti di un prodotto di sintesi (qui 
si rivela utile il brevetto perché 
descrive il procedimento di sintesi), 
oppure sommare il costo dei sin¬ 
goli componenti tenendo come base 
il prezzo internazionale della ma¬ 
teria prima. In questo secondo caso 
si può analizzare se i componenti 
corrispondono per numero e percen¬ 
tuale alla formula dichiarata, ma 
per fare queste analisi meglio sa¬ 
rebbe se il Ministero si rivolgesse 
all’Istituto Superiore di Sanità. 

L’istituzione del brevetto porterà 
sicuramente un profondo sconvol¬ 
gimento nel mercato farmaceutico 


italiano, ma non bisogna credere che 
esso porti vantaggi unicamente alla 
grande industria: nei paesi dove esi¬ 
ste il brevetto la media industria 
non è sparita, perché se esso verrà 
ben applicato agirà nell’interesse 
pubblico come difesa dal furto sen¬ 
za concedere niente alla specula¬ 
zione. 

Una specialità coperta da brevet¬ 
to potrebbe essere presentata alla 
classe medica in modo serio da col- 
laboratori altamente qualificati. La 
spinta corruttrice o massicciamente 
pubblicitaria sui medici (per usare 
le parole stesse del slg. La Cava) 
si verifica quando più ditte devono 
spingere il medesimo identico pro¬ 
dotto; in questo caso le ditte serie 
si basano sul loro nome, sostenuto 
da una lunga tradizione di serietà 
e forti della propria attrezzatura 
tecnico-scientifica, mentre le pseudo¬ 
ditte non potendo vantare gli stessi 
requisiti agiscono sul medico cor¬ 
rompendolo con quel sistema chia¬ 
mato comparaggio. Quindi il bre¬ 
vetto impedendo la proliferazione 
delle specialità e la sopravvivenza 
di pseudo-ditte toglierebbe la ragio¬ 
ne d’essere al comparaggio, e si ri¬ 
velerebbe il più importante stru¬ 
mento di moralizzazione. 

Dott. Luigi Ramello 
chimico industriale 
S. Damiano 

La proposta di far concorrere il 
mutuato alla spesa d'acquisto dei 
farmaci, come misura atta a fre¬ 
nare acquisti non necessarf, mi 


pare si possa avanzare solo quan¬ 
do tutti i cittadini abbiano diritto 
gratuito alle medicine e quando 
queste, soprattutto, non presentino 
gli scandalosi prezzi odierni. 

Precisato che, nel MEC, solo la 
Francia ha doppio brevetto e che 
negli altri Paesi esiste il solo bre¬ 
vetto di procedimento, e contestato 
che in Italia l’industria impieghi 
« ingenti capitali » in ricerche che 
non siano puramente metodologi¬ 
che, convengo sulla proposta ael 
lettore. Essa però va effettivamen¬ 
te verificata, e ciò potrebbe esser 
fatto solo da una qualificata com¬ 
missione alla quale si demandasse 
finalmente il compito di esaminare 
il < problema brevetto » da un 
punto di vista economico e non 
soltanto giuridico,' come sin qui si 
è fatto. Quanto al resto debbo dire 
che, per controllare effettivamente 
i prezzi, occorre, come che sia, che 
il Minuterò della Sanità abbia ef¬ 
fettivamente dei propri tecnici del 
ramo, e non vedo quale altra solu¬ 
zione esso possa adottare all’infuo- 
ri di una partecipazione alla pro¬ 
duzione. 

Rispetto al fatto che le < grandi 
case » non ricorrano a sistemi ille¬ 
citi di concorrenza (comparaggio), 
si potrebbero citare al contrario 
tutti i clamorosi esempi registrati 
anche recentemente dalla stampa, 
e i 28 esempi fatti nel n. 12 del¬ 
l'Astrolabio. 

E. 1. c. 


La Repubblica €li Bonomi 


Caro Direttore, 

avrà conservato memoria di una 
mia lettera sulla Federconsorzi in 
Parlamento, ospitata sull’Asfrola- 
lobio del 25 dicembre 1963. 

Fra l’altro scrivevo che ad una 
mia interrogazione del 24 otto¬ 
bre ’63 al Ministro dell’agricoltura 
e delle foreste, per conoscere se 
non avesse ritenuto opportuna la 
pubblicazione dei tre fascicoli re¬ 
lativi alle gestioni ammassi, im¬ 
portazione olio e importazione gra¬ 
no della Federconsorzi. l'interro¬ 
gato alla data del 4 dicembre non 
aveva ancora risposto. 

Dopo quattro mesi, la caduta di 
un governo e il cambio di un mi¬ 
nistro, in data 25 febbraio, la ri¬ 
sposta m'è venuta. A firma del- 
l’on. Ferrari Aggradi, nuovo mi¬ 
nistro, ma vecchio lupo, come ci si 
è accorti nel corso dello svolgi¬ 
mento dell’interpellanza e delle iti- 
terrogazioni degli on. Avolio, Mi¬ 
celi e Renato Colombo sulla Fe¬ 
derconsorzi, nella seduta della Ca¬ 
mera di venerdì 21 febbraio 1964. 

Trascrivo la risposta dell’on. Fer¬ 
rari Aggradi: 

< La situazione economico-finan- 


ziaria delle gestioni di ammasso, 
affidate dallo Stato all’Organizza¬ 
zione Federconsortile nel periodo 
1944 45-1961;62, è stata compilata 
e messa a disposizione del Parla¬ 
mento in ottemperanza a quanto 
chiesto con l’ordine del giorno pre¬ 
sentato al Senato della Repubblica 
dal Sen. Bonacina ed altri, il 18 
settembre 1963, nel corso della di¬ 
scussione dello stato dì previsione 
della spesa di questo Ministero per 
l’esercizio finanziario 1963-1964. 

Non si ravvisa, pertanto, nè l’op¬ 
portunità nè la necessità che la 
predetta situazione formi oggetto 
di pubblicazione da parte di que¬ 
sto Ministero medesimo ». 

Non conosco la dattilografa o 
l’archivista cui è stato affidato 
l’incarico di compilare il testo del¬ 
la risposta. 

Certamente deve trattarsi di per¬ 
sona totalmente priva di humour. 
Io avrei premesso aH’ultimo perio¬ 
do (...non si ravvisa ecc.) l’inciso: 
data la irrilevanza dell'argomento 
con quel che segue. 

La repubblica bonomiana con¬ 
tinua. 

Oh. Beniamino Flnocchlaro 
Molfetta 


4 












U astrolabio 


Le riforme e la congiuntura 

DI FERRUCCIO FARRI 


CI FA PRESTO a dir « politica dei redditi ». Ma 
^ chi ha la forza e l’autorità per realizzarla? E’ la 
formula ora corrente per indicare una politica che 
nel processo di distribuzione del reddito tra i vari 
gruppi sociali riesca ad evitare scosse disordinatnci 
dell’equilibrio economico. L’ha invocata qualche eco¬ 
nomista allarmato tra il 1962 e 1963 dalle grandi 
agitazioni sindacali e salariali e dal contemporaneo 
salire dei prezzi. 

Invero se si vuol ridurre la pressione che una 
domanda surriscaldata esercita sul mercato dei wni 
e dei servizi sollecitandone all’insù i prezzi, e quindi 
i costi, parrebbe più razionale ed efficace agire alla 
origine del ciclo che non alla fine, rincarando con ine¬ 
vitabile arbitrio ed imprevedibili ripercussioni 1 uno 
o l’altro consumo. E’ meglio che la scelta sia operata 
dallo stesso consumatore, al quale nei momenti di 
stretta congiunturale una saggia politica equilibratrice 
riduca la capacità di spesa. 

C’è stato un economista che di fronte agli im¬ 
picci della realtà ha idoleggiato la figura del « buon 
dittatore ». Fuori di questo mitico demiurgo chi sa¬ 
prebbe, chi potrebbe fare una politica saggia e ra¬ 
zionale? La politica la fanno i gruppi, le clasM, i 
partiti secondo la linea dei loro interessi. L equilibrio 
di una politica economica è il risultato di un rapporto 
di forze, forze, beninteso, non solo numeriche. 

Una politica nazionale dei redditi degna di questo 
nome dovrebbe incidere su tutte le forme di reddito. 
E se fosse costretta a rivolgersi alle retribuzioni dei 
lavoratori e degli impiegati per poter toccare i con¬ 
sumi di massa, dovrebbe colpire insieme con peso 
economicamente proporzionato il profitto deirimpren- 
ditore e il reddito del capitalista. Come è possibile 
farlo seriamente in Italia dove forse due terzi, almeno 
del reddito mobiliare, sfuggono all’accertamento fi¬ 
scale? 

Nessuno in Italia osa chiedere il blocco dei salari. 
Almeno per ora. Tanto meno lo potrebbe fare un go¬ 
verno a partecipazione socialista; a parte la presenza 
degli altri sindacati e la riflessiva prudenza dell’on. 
Moro. Nemmeno il doti. Cicogna nutre pravi pensieri 
— così egli assicura — in questa materia. Ognuno 
misura le reazioni decise che ogni tentativo in questa 
direzione provocherebbe. A buon conto agli squilli di 
tromba di destra, hanno risposto, come nella Battaglia 
di Maclodio, vigorosi squilli di tromba di sinistra. 


La richiesta ai sindacati quindi si sfuma in un 
appello alla comprensione ed alla collaborazione. La 
CISL propone la sua ricetta del « risparmio contrat¬ 
tuale » che la CGIL non ama, e potrebbe tuttavia esser 
impiegata se ed in quanto potrebbe contribuire a 
risolvere il problema della casa. La CGIL contrap¬ 
pone la sua diagnosi di questa crisi congiunturale ed 
il suo piano, noto nelle linee generali, non ancora 
nelle argomentazioni e nei termini concreti che possono 
permettere una più precisa valutazione. 

Ma anche il Ministro Pastore, rifiutando decisamen¬ 
te ogni intervento dall’esterno, afferma che spetta ai 
sindacati inserire nella vicenda economica le grandi ri¬ 
vendicazioni che possono giustificare una autonoma e 
organica posizione di corresponsabilità nella politica 
economica. Trasportiamo questo discorso ai sindacati 
dei quali sono parte prevalente i comunisti, ed avremo 
ancora una volta la conferma della infelicità di po¬ 
sizione di un governo costretto a chieder collabora¬ 
zione a forze esterne alla delimitazione della sua arca 
polìtica, alle quali è quindi difficile pagare il prezzo 
della collaborazione. 

Forse l’appello televisivo dell’on. Moro seguito 
al suo primo intervento può essere spiegato come un 
tentativo di sbloccare su un piano psicologico e quasi 
etico i limiti angusti ed angustiosi che l’anticomuni¬ 
smo istituzionale della Democrazia cristiana pone alla 
libertà di azione di cui un governo ha bisogno tanto 
più quanto si fanno stringenti le difficoltà; queste in¬ 
vero sono effettive, ma non di tal natura da giusti¬ 
ficare un grido d’allarme che come tale a molti è 
parso inopportuno. 

Quali siano tuttavia le difficoltà oggettive e dure 
lo dicono certe risposte all’invito alla bilaterale fidu¬ 
cia rivolto ai cosiddetti operatori economici ed ai 
lavoratori. Si inasprisce nei settori di destra, e più 
fortemente dentro lo schieramento governativo che 
fuori, la reazione virulenta contro ogni atto che abbia 
apparenza di cedimento verso la parte comunista. Si 
intensifica a sinistra il tiro di sbarramento contro ogni 
concessione alla parte capitalista, contro ogni presun¬ 
to cedimento nel programma riformatore. 

pUO’ DARSI che il nostro giudizio sia troppo 

severo. Può darsi ch’esso non sappia rendersi 
conto della ricettività di certe zone della opinione 
pubblica. Certo questo incessante appellarsi all’auste- 


5 














rità ed alla fidiKÌa sembrano fatti per generare più 
incredulità che tranquillità. E’ la coerenza, la conti¬ 
nuità dcH’azione di governo, la sicurezza di guida che 
danno credito. Maschi sono i fatti, e possono esserlo 
i discorsi quando hanno la concretezza del fatto e 
del da farsi. 

Ma lasciano perplessi le invocazioni all’unione na¬ 
zionale, giustificabili solo in casi di emergenza davvero 
straordinaria, fuori dei quali ha ragione Riccardo Lom¬ 
bardi quando obietta all’on. Moro che non esiste una 
interpretazione astratta dell’interesse generale della col¬ 
lettività, sempre da ricondurre, anche nei problemi 
di apparenza tecnica, ad una azione, ad una scelta 
politica. 

Quando il Governo propone di frenare certe 
direzioni delia spesa privata ed i suoi dirottamenti su 
certi consumi, o di migliorare i circuiti di distribuzione 
commerciale — a parte la valutazione della efficacia 
specifica del provvedimento e dei sui effetti — sono 
antiche distorsioni prodotte da un laisser faire pseudo¬ 
liberale cui si cerca di rimediare. Quando indirizza e 
incoraggia gli investimenti pubblici e privati in dire¬ 
zioni conformi ad una politica di bassi costi di trasfor¬ 
mazione industriale e del basso costo della vita è un 
programma democratico che si persegue. 

Anche un’azione di stabilizzazione monetaria è 
tecnica, è politicamente neutrale solo all’apparenza. 
Essa ha come suo strumento principale il governo 
del credito. L’alimentazione di credito a medio e 
lungo termine dipende da criteri e scelte approvabili 
se guardano a sinistra, disapprovabili se di apparte¬ 
nenza agnostica: il Governo ha obbedito ad una dura 
necessità proporzionando alle ridotte possibilità at¬ 
tuali gli impegni di interesse pubblico e fa bene a 
lasciar spazio agli investimenti necessari alla impresa 
privata, fa male se non fornisce mezzi e non sblocca 
di urgenza gli ostacoli all’applicazione della Legge 167. 

E degli effetti delle restrizioni di credito a breve 
termine è sempre il Governo che deve esser giudice 
poiché ne è responsabile. L’inflazione ha un costo; la 
disoccupazione un altro. Chi deve fare il bilancio? 
Chi deve valutare la sopportabilità delle conseguenze 
del difetto di credito di esercizio, soprattutto in atti¬ 
vità a particolari esigenze di turnover? Oggi è il 
caso dell’attività edilizia. Ed un certo allarme oggi è 
giustificato dal sommarsi di un rallentamento con¬ 
giunturale a lungo periodo con contrazioni particolari 
e contingenti. E’ una somma che può dare una vera 
depressione. La fisica delle vibrazioni insegna che il 
pericolo del crollo nasce dal sommarsi delle armoni¬ 
che. E’ un giudizio politico che deve intervenire. Ma 
è urgente che intervenga. Un mese di ritardo sarebbe 
esiziale. 

Una buona ragione può avere il Presidente del 
Consiglio quando, ponendosi come interprete dello 
interesse generale, intende forse avvalorare l’appello 
che egli vuol rivolgere agli imprenditori ed ai rispar¬ 
miatori. Ed è una buona ragione alla quale sono meno 
sensibili i socialisti fuori del governo, più facilmente 
trascinati al nominalismo quando dimentichino che 
operano in una società binomia, e che il capitale neces¬ 
sario alla sua vita è prevalentemente nelle mani del 
cosiddetto « avversario di classe *. Molte manovre 
della speculazione possono essere frustrate, se è pre¬ 


sente una volontà politica, come giustamente teda-' 
mano i socialisti. Ma non vedo purtroppo manovre ef¬ 
ficaci contro lo sciopero bianco degli imprenditori e 
dei capitalisti. 

^lUNTI ad un nodo ormai critico della situazione, 
prima politica che economica, è bene esser chiari 
e sinceri. E’ ben fondato il bisogno di stabilità c di 
tranquillità che riapra la possibilità delle previsioni e 
delle prospettive. Non si tratta di rianimare le borse, 
che nelle condizioni attuali di mercato così pericolo¬ 
samente manovrato sarebbe meglio chiudere, affidan¬ 
done forse ad altri organi le funzioni istituzionali. Non 
si tratta di abbandonare in nessun punto una seria po¬ 
litica tributaria. Si può trattare di eliminare pastoie 
burocratiche, di facilitare il rinnovo e l’ammoderna- 
mento degli impianti, di non infierire contro l’autofi¬ 
nanziamento della impresa non monopolistica, di pro¬ 
porzionare il credito alle necessità dell’esercizio. La 
fiducia seguirà. Nessuna contraddizione sin qui con una 
impostazione di centro-sinistra, nulla del resto che i 
sindacati non potrebbero accettare. Il dissenso nasce 
quando si stabilisce una sorta di contrasto tra la po¬ 
litica di congiuntura e le cosiddette riforme di struttu¬ 
ra. E’ un dissenso oscurato anche dall’uso generico 
ed improprio delle formule. Queste possono conte¬ 
nere una serie concatenata di obiettivi che conducano 
ad una trasformazione socialista dell’assetto del paese, 
fuori peraltro delle prospettive contrattuali, oltre che 
temporali, del centro-sinistra. 

E’ giusto, è doveroso che i socialisti non ripongano 
in soffitta queste mete e queste speranze. Ma sin 
quando possono restare nei confini degli impegni pro¬ 
grammatici assunti da questo governo non vi è nulla, 
neppure la battaglia tributaria contro il cosiddetto 
« profitto non guadagnato », che non appartenga ad 
una impostazione soltanto democratica della politica 
economica. Questa riposa su canoni precisi di politica 
di prezzi, di controllo del credito, d’impiego della im¬ 
presa pubblica, ch’è premessa di una programmazione 
selettiva. 

Ha torto il Presidente del Consiglio quando non 
riconosce che tra un’alternativa centrista ed una 
cosiddetta, e mal detta, marxista è questa alternativa 
democratica ch’egli ha sostanzialmente scelto, con 
tutte le sue implicazioni, anche se non organicamente 
dichiarate dal suo programma. Ha torto se non vede 
che solo essa, nelle condizioni attuali della società 
italiana, permette una interpretazione degli interessi 
generali della collettività che non sia un equivoco 
ripiegamento su posizioni centriste. Delle quali pur¬ 
troppo il discorso non è più ipotetico. Quanto accade 
all’interno della Democrazia Cristiana non può non 
richiamare una preoccupata attenzione. Rilanci massic¬ 
ci, già in preparazione — si direbbe — dal prossimo 
Congresso nazionale alla fine dell’anno la prova, per 
ora temuta, delle elezioni amministrative. Disgrega¬ 
zione, scarsa efficienza politica dei gruppi di sinistra; 
rafforzamento corrispondente delle posizioni dorotee. 

Il diminuito peso socialista seguito alla scissione, 
l’incrinatura di alcune posizioni repubblicane, influi¬ 
scono sulle preoccupazioni di potere democristiane. 
Se il controllo del partito regredisse verso il centro 
difficilmente sarebbe evitabile una crisi al prossimo 


I 





















Una politica economica seria, controllata, che eviti 
regressioni di livello di attività economica e di occu¬ 
pazione, basta a reggere, a superare i momenti più 
critici, a riportare alla normalità. Ma la fiducia dell’al¬ 
tra parte alla vita ed al successo di questo governo è 
ancora più necessaria. Esso può averla, e la paga al 
giusto prezzo, se impegna se stesso alla collaborazio¬ 
ne che chiede ai sindacati, CGIL compresa. L’aggra¬ 
varsi della condizione dell’economia ha creato una 
situazione nuova, di maggior rischio, di maggior fra¬ 
gilità, nella quale la opposizione dei lavoratori sa¬ 
rebbe fatale alla sorte del Governo. 

FEBBUCCIO PABBI 


autunno. Ma chi può dire che ci si fermerebbe al 
centro? E si aprirebbe un brutto periodo politico 
d’incognite e di angustie che non potrebbe neppure 
condurre allo scioglimento delle elezioni politiche, 
inaccettabili dalla Democrazia Cristiana sin quando 
fosse sotto il peso di congiunture politiche ed econo¬ 
miche sfavorevoli. 

Anche sul piano politico questo Governo se vuol 
salvarsi deve considerare la politica di congiuntura una 
cosa sola, condotta con lo stesso spirito, secondo lo 
stesso indirizzo, della politica di riforma. Non sul 
mascheramento e sulla obliterazione del centro-sinistra 
l’on. Moro può vincere la sua difiicile battaglia, ma 
sulla sua più viva ed operante riaffermazione. 


Note e commenti 


ROMA 

L’Europa delle buone intenzioni 


TL MINISTRO Saragat ha conclu- 

so alla Camera il dibattito sulla 
politica estera ribadendo la posizio¬ 
ne e le prospettive del governo sui 
più importanti e attuali problemi 
internazionali. Per quanto concerne 
la politica europea, Saragat ha ri¬ 
cordato che la maggioranza di cen¬ 
tro-sinistra tende alla realizzazione 
di un’Europa unita, aperta alla Gran 
Bretagna e a tutti i paesi del con¬ 
tinente disposti ad accettare i Trat¬ 
tati di Roma, associata agli Stati 
Uniti d’America « in condizioni di 
parità ». 

Altrettanto esplicito, purtroppo, 
il Ministro degli Esteri non è stato 
sugli strumenti che il governo in¬ 
tende adoperare nell’ambito della 
Comunità Europea per il raggiun¬ 
gimento degli obiettivi illustrati, in 
una situazione che si fa di giorno 
in giorno più chiusa a causa del¬ 
l’ostinata e coerente opposizione 
della Francia ad ogni iniziativa eu¬ 
ropeista. Nè, sembra, possano in¬ 
fluire in modo determinante su que¬ 
sta situazione le uniche due pro¬ 
poste avanzate in febbraio al Con¬ 
siglio dei Ministri della CEE, l’una 
dalla Commissione Esecutiva per 
la fusione degli Esecutivi delle tre 
Comunità Europee, l’altra dal mi¬ 
nistro Saragat per le elezioni dirette 
e a suffragio universale del Parla¬ 
mento Europeo. La prima è, in de¬ 
finitiva, una proposta di natura tec¬ 
nica diretta a razionalizzare e a ren¬ 


dere più funzionali le istituzioni 
della Comunità mediante la creazio¬ 
ne di un Esecutivo unico che avo¬ 
chi a sè le attuali competenze delle 
Commissioni della CEE e dell’Eu- 
ratom e dell’Alta Autorità della 
CECA. Al nuovo Esecutivo non 
sarà però attribuito alcun ‘ nuovo 
potere e ogni sua decisione — ad 
eccezione di alcune di natura eco¬ 
nomica che potranno essere adotta¬ 
te a maggioranza, in attuazione del¬ 
le norme del Trattato di Roma — 
continuerà ad essere sottoposta al¬ 
l’esame del Consiglio dei Ministri 
della Comunità, emanazione diretta 
dei sci governi. La Francia, come 
previsto, ha accolto favorevolmen¬ 
te la proposta della Commissione, 
che non ostacola la visione golli¬ 
sta dell’Europa delle Patrie, ma 
si è decisamente opposta alla pro¬ 
posta di Saragat per le elezioni del 
Parlamento Europeo. 

Il progetto che il Ministro degli 
Esteri ha illustrato a Bruxelles pre¬ 
vede che il numero dei membri del 
Parlamento (attualmente 142) ven¬ 
ga raddoppiato a partire dal 1. gen¬ 
naio 1966. La metà verrebbe desi¬ 
gnata, come adesso, dai Parlamenti 
nazionali dei « Sci » e l’altra metà 
eletta direttamente e a suffragio 
universale dagli elettori europei, 
secondo modalità e tempi da defi¬ 
nire. Non si tratta, in effetti, di 
una proposta nuova, anche se è la 
prima volta che il rappresentante 


di uno dei sei paesi membri la 
presenta ufficialmente al Consiglio 
dei Ministri. Già nel 1960, il Par¬ 
lamento Europeo aveva approvato 
e successivamente trasmesso al Con¬ 
siglio un’analoga proposta, elabora¬ 
ta dal socialista belga Fernand 
Dehoussc. Il progetto — che pre¬ 
vedeva l’elezione diretta di 426 
deputati, un terzo dei quali desi¬ 
gnati per un breve periodo transi¬ 
torio dai Parlamenti nazionali — è 
rimasto giacente negli archivi del 
Consiglio che non lo ha mai esa¬ 
minato. Di tanto in tanto il rap¬ 
presentante di uno dei cinque paesi 
più aperti ad esigenze europeiste 
ne faceva oggetto parziale di un 
intervento, ricordando l’opportuni¬ 
tà di procedere — prima o poi — 
all’elezione diretta del Parlamento 
dei « Sci ». 

Belgio, Olanda, Lussemburgo e 
Repubblica Federale Tedesca han¬ 
no accolto con favore il progetto 
italiano, che è stato rinviato per 
un ulteriore approfondimento al¬ 
l’esame dei rappresentanti perma¬ 
nenti dei sei governi in seno alla 
CEE. Tutto lascia però supporre 
che anche le proposte del Ministro 
Saragat facciano la fine poco glo¬ 
riosa del progetto Dehoussc. L’op¬ 
posizione di Couve de Murville, 
perfettamente in linea con la po¬ 
litica europea seguita dalla Fran¬ 
cia fin dall’avvento al potere del 
Presidente De Gaulle, non permet¬ 
te infatti di sperare che si crei in 
breve tempo un Parlamento comu¬ 
ne espresso direttamente dai po¬ 
poli europei. Non essendo concepi¬ 
bile che i cinque paesi della Comu- 


1 








nfft più favorevoli all’integrazione 
europea procedano unilateralmente 
all’elezione diretta di una parte dei 
rappresentanti al Parlamento di 
Strasburgo, il progetto Saragat ri¬ 
schia* di restare un’affermazione di 
principio senza alcuna conseguenza 
pratica sul terreno politico europeo. 

Quanto più i « no » di De Gaul- 
le riportano alla memoria i « niet » 
di Molotov che paralizzavano ogni 
iniziativa del Consiglio di Sicurez¬ 
za dell’ONU, tanto più è indispen¬ 
sabile che i cinque partners europei 
della Francia effettuino una scelta 
di fondo che non può essere rin¬ 
viata alla scomparsa di De Gaulle 
e all’ipotetica vittoria elettorale dei 
laburisti inglesi e dei socialdemo¬ 
cratici tedeschi. O rassegnarsi, in 
sostanza, ad operare in un’Europa 
chiusa, dalle dimensioni esclusiva- 
mente economiche e dal profilo sem¬ 
pre più chiaramente protezionistico, 
che non ostacola — anzi apre la 
strada — a più intensi contatti po¬ 
litici intergovernativi tra i paesi 
membri, o fare onestamente e co¬ 
raggiosamente il punto della situa¬ 
zione e concludere che la Francia 
di oggi non può più essere consi¬ 
derata un interlocutore valido nel 
dialogo europeo apertosi poco pri¬ 
ma della fine della seconda guerra 
mondiale c concretizzato nel 1952 
e 1957 con l’istituzione della CECA 
e della CEE. Ogni compromesso 
con la Francia e ogni generica affer¬ 
mazione di europeismo che non si 
traduce poi in concreta iniziativa 
politica fanno a questo punto il 
gioco di De Gaulle e si risolvono 
— come la conclusione dei nego¬ 
ziati agricoli, determinata in par¬ 
tenza dalla scadenza ultimativa po¬ 
sta dalla Francia — in altrettante 
vittorie della diplomazia francese, 
la cui abilità è indiscussa. Afferma¬ 
re oggi che l’Europa deve essere 
aperta alia Gran Bretagna e asso¬ 
ciata agli Stati Uniti è come non 
affermare assolutamente nulla quan¬ 
do si sa in partenza di non avere 
gli strumenti politici adeguati ad 
imporre alla Francia un’Europa del 
genere 

Che il nuovo governo italiano si 
differenzi — almeno nella politica 
europea — dai precedenti è co¬ 
munque fuor di dubbio. Afferma¬ 
re a chiare lettere che l’Europa dei 
popoli dei sei paesi non ha nulla 
a che spartire con l’Europa sognata 

• 


dal Presidente francese è sempre 
meglio che dire e non dire e ten¬ 
tare di volta in volta una sterile 
mediazione tra Pai^'gi e Amsterdam 
o, come è avvenuto più di recente, 
tra Parigi e Bonn. Soltanto, non è 
sufficiente. 

Non mancheranno comunque 
banchi di prova di prossima sca¬ 
denza — a cominciare dai nego¬ 
ziati tariffari con gli Stati Uniti, 
il cui inizio è previsto per il pros¬ 
simo maggio — per saggiare le 
effettive intenzioni del nostro go- 

ROMA 

L’eccezione 

LEGGERE certa stampa, sem¬ 
brerebbe che l’opera di mora¬ 
lizzazione della nostra vita pubblica 
— miraggio lontanissimo per tanti 
anni — sia ormai felicemente av¬ 
viata. Mandando in galera il pro¬ 
fessor Ippolito, la coscienza civile 
dei cittadini è stata soddisfatta. Un 
episodio normalissimo, leggiamo nel¬ 
l’editoriale del Messaggero del 5 
scorso intitolato « Lo Stato si di¬ 
fende *: la legge è uguale per tutti, 
colpisce in alto come in basso, sen¬ 
za remore politiche, senza riguardi 
di prestigio, nè discriminazioni di 
grado o di autorità; nessuno può 
avere dubbi, ormai, sulla serietà 
della moralizzazione iniziata dallo 
Stato. Sarà. Ma non riusciamo ad 
essere così ottimisti. Premesso che 
ci addolora profondamente la fine 
così conturbante di un uomo di 
alto valore, e stabilito che sono le 
imputazioni che toccano l’interesse 
personale ad offenderci seriamente, 
dobbiamo dire che non crediamo che 
l’arresto di Ippolito esaurisca la que¬ 
stione; né lo consideriamo un fatto 
« normale ». Anzi: normale, pur¬ 
troppo, ci sembra la prassi ammini¬ 
strativa seguita da Ippolito: quan¬ 
ta gente è finita in galera per averla 
adottata, favorita, tollerata? 

Qui è il punto. In Italia, quando 
non si può comprimere uno scan¬ 
dalo, lo si neutralizza personaliz¬ 
zandolo, scaricando tutti gli effetti 
penali sulla groppa di una o più 
persone. Restano fuori sempre gli 
aspetti politici della questione: l’ala 
della giustizia non è mai tanto gran¬ 
de da coprire anche questi. Ippo¬ 
lito avrebbe potuto neutralizzare per 


verno nel settore europeo « per 
differenziare definitivamente volon¬ 
tà politiche da velleità politiche. 
Analogo discorso, purtroppo, è al¬ 
trettanto valido per gli altri part¬ 
ners della Francia, la cui opposi¬ 
zione formale alle inflative golliste 
in Europa non ha mai impedito che 
le conferenze-stampa a sorpresa del 
Presidente francese divenissero la 
effettiva fonte di produzione della 
politica della Comunità Europea. 

GIUSEPPE LOTETA 


e la regola 

tanto tempo ogni potere di controllo 
se gli uomini preposti ad esso non 
avessero dimostrato delle carenze 
evidenti? A noi, più che il caso 
personale del prof. Ippolito, inte¬ 
ressa questa prassi diffusissima, que¬ 
sta « norma » che è insieme politica 
e di costume: finché le responsabi¬ 
lità connesse al mancato funziona¬ 
mento degli organi politici di con¬ 
trollo resteranno in secondo piano, 
gli Ippolito continueranno a ger¬ 
mogliare come margheritine. Fiu¬ 
micino, Federconsorzi, Asbanane, 
SFI... due pesi e due misure. 

E’ necessario, comunque, distin¬ 
guere nettamente il caso Ippolito 
dal CNEN: precisare le responsa¬ 
bilità dell’uomo, chiarire ogni pos¬ 
sibile implicazione politica, ma non 
dimenticare che lo scandalo è dila¬ 
gato perchè faceva comodo colpire 
attraverso Ippolito il CNEN e la 
sua p>olitica nucleare, che tagliava 
le gambe all’iniziativa privata nel 
settore. Si ripresenta adesso l’oc¬ 
casione per la ripresa della cam¬ 
pagna, e non solo contro il CNEN, 
ma anche contro lo spettro dello 
« statalismo » c del centro-sinistra. 
I discorsi moralistici di certa stampa 
sanno un tantino di bruciato. In¬ 
sensibilmente il lettore viene por¬ 
tato a confondere Ippolito con il 
CNEN, e il CNEN con gli enti pub¬ 
blici in genere. Si può temere che 
finita relegata nell’ombra la neces¬ 
sità di affrontare seriamente e con¬ 
cretamente il problema della ricerca 
scientifica in Italia. Confidiamo nel¬ 
l’energia del ministro Arnaudi per¬ 
chè ogni insidia sia vigorosamente 
controbattuta. 












ROMA 

Il prezzo dei medicinali 


Q uando diverrà operante la ri¬ 
duzione del prezzo dei medicinali 
compresi nella prima lista (1.080 
prodotti) inviata dal ministro per la 
Sanità Mancini al CIP ? La premu¬ 
ra non caratterizza certo l’azione del 
governo in rapporto ai vari problemi 
dei farmaci, se si eccettuano le ripe¬ 
tute proposte di giungere subito al¬ 
la legge sul brevetto. Le riduzioni di 
prezzo ( quelle stesse — tutt’altro 
che totalmente accolte — presentate 
un anno fa al CIP dal rappresentan¬ 
te delle Municipalizzate) sono tor¬ 
nate in discussione a metà febbraio, 
e, il 5 marzo, sono state esaminate 
dalla commissione plenaria, che de¬ 
ve sottoporle alla ratifica dei mini¬ 
stri membri della Commissione In¬ 
terministeriale Prezzi. 

La convocazione dei ministri del 
CIP non è stata ancora annunciata; 
circola invece la notizia che la Com¬ 
missione plenaria intenda discutere 
ancora a lungo le proposte della 
Sanità accettate dalla propria Sotto¬ 
commissione. Questa dilazione può 
avere conseguenze ben più gravi di 
una semplice perdita di tempo: per 
capirlo, basta rifare sinteticamente 
la storia di quanto è avvenuto ne¬ 
gli ultimi tempi. 

Formatosi il primo governo di 
centro-sinistra, il rappresentante in 
sede CIP delle Municipalizzate, dr. 
Massimo Aleotti, venne convocato 
dal segretario del Comitato, dr. Fo¬ 
glietti, che gli comunicò di essere 
stato autorizzato a dare il via al¬ 
l’esame globale dei prezzi. Bisogna¬ 
va però programmare il lavoro: co¬ 
minciare dunque con il raggruppare 
in altrettante liste le specialità omo¬ 
genee. Poiché il ministero della Sa¬ 
nità non fwssedeva, e non possiede, 
un elenco completo dei medicinali 
esistenti con le rispettive dettagliate 
composizioni (soltanto neH’ultimo 
Consiglio dei ministri di febbraio 
Mancini ha ottenuto dal Tesoro i 
250 milioni per dotare il proprio 
Ministero dell’impianto meccanogra¬ 
fico necessario per tale lavoro), la 
* programmazione » del CIP si svi¬ 
luppò lungo l’arco di quell’anno fino 
al « disimpegno » del governo Fan- 
fani che congelò ogni provvedi¬ 
mento. 

In quel momento, esattamente un 


anno fa, davanti alla sottocommis¬ 
sione farmaceutica del CIP c’era 
solo quell’elenco di 1.080 specialità 
che è stato ora rispolverato da Man¬ 
cini. Esso raggruppava tutti gli anti¬ 
biotici c i loro associati. Tali pro¬ 
dotti — registrati come ogni altro 
soltanto sulla base del costo di pro¬ 
duzione-campione, e il cui prezzo 
finale, come vuole la legge, era pan 
a tale costo moltiplicato per 3 (e 
per 3,5 nel caso che alla ditta fosse 
riconosciuto di aver compiuto una 
effettiva ricerca scientifica) — ave¬ 
vano visto frattanto diminuire no¬ 
tevolmente i propri costì di produ¬ 
zione, sia per le nuove tecniche c 
i più perfezionati macchinari estrat¬ 
tivi che per la loro produzione su 
vasta scala. 

Il prezzo dei prodotti in esame 
era salito l’anno scorso — secondo 
i calcoli delle Municipalizzate fatti 
propri già allora dal rappresentante 
della Sanità — a 7-10 volte il loro 
nuovo costo di produzione: dunque 
da due a tre volte più di quanto 
stabilisca la legge. Un guadagno più 
che speculativo e senz’altro scanda¬ 
loso, ma che, ufficialmente accertato, 
è stato ufficialmente consentito an¬ 
cora per un anno. 

Nella penultima settimana di feb¬ 
braio giungevano ai ministri dell’In¬ 
dustria (Medici) e del Bilancio 
(Giolitti) i telegrammi con cui il 
loro collega, Mancini, chiedeva che 
fosse ripreso l’esame per la ridu¬ 
zione del prezzo di quelle 1.080 
specialità. Alla fine della stessa set¬ 
timana, il Consiglio dei Ministri de¬ 
dicato alle prime misure anticon¬ 
giunturali stabiliva di dar corso — 
tra l’altro — alla riduzione di una 
serie di prezzi farmaceutici nell’am¬ 
bito delle misure « anticongiuntu¬ 
rali »: la bella definizione consen¬ 
tiva a un togato quotidiano mila¬ 
nese di dire che su tali farmaci 
« sarebbero state ridotte le impo¬ 
ste permettendo la diminuzione del 
prezzo ». 

Il 25 febbraio la sottocommis¬ 
sione si riuniva; il rappresentante 
della Sanità, intervenendo, chiedeva 
candidamente che il prezzo del «De- 
Nol» fosse ritoccato... in aumento: 
certo doveva aver letto la prosa mi¬ 
lanese sulla <t riduzione delle impo¬ 


ste » e non aveva alcuna diversa 
disposizione. Il « De-Nol » è quel 
medicinale importato dal Sud Africa 
per il quale L’Espresso documento 
nel 1957 che il suo costo era di 
1.450 lire (tenuto conto dei coef¬ 
ficienti moltiplicatori), mentre v^ 
niva venduto ufficialmente a 15.000 
lire. Per parte nostra, documentam¬ 
mo l’anno scorso come, dopo la de¬ 
cisione del CIP — attesa da sei 
anni — di portarne il prezzo a 1.450 
lire, la casa distributrice avesse im¬ 
mediatamente dimezzato le 15.000 
lire. 

La sottocommissione è tornata a 
riunirsi tre giorni dopo. Con stu¬ 
pore dei rappresentanti deH’indu- 
stria, il rappresentante della Sanità 
— che affermò, per la prima volta 
nella storia di queste riunioni, di 
parlare a nome del Ministro — 
chiese finalmente la riduzione per 
almeno sei o settecento degli anti¬ 
biotici in esame. Le riduzioni chie¬ 
ste erano tali da allineare tutti i 
prezzi superiori a quelli minimi pra¬ 
ticati per alcune centinaia di anti¬ 
biotici dalla media e piccola indu¬ 
stria. Tali livelli si aggirano comun¬ 
que attorno al coefficiente sei.^ 

Il criterio adottato tende eviden¬ 
temente a limitare la reazione del- 
[’Assofarma, contro misure non cer¬ 
to drastiche. Ma così non è stato: 

VAssofarma ha attaccato la decisio¬ 
ne ministeriale, e ha già trovato 
evidentemente nuove armi per pro¬ 
crastinare la riduzione dei prezzi. 

Il 3 marzo è avvenuta la nuova 
riunione della sottocommissione che 
doveva precedere la convocazione 
dell’assemblea plenaria del CIP fis¬ 
sata per il 5. La riunione tecnica, 
però, non si è conclusa: i ministri 
membri del CIP attendono quindi 
di essere riconvocati per la neces¬ 
saria ratifica della decisione esecu¬ 
tiva. Al livello di commissione ple¬ 
naria e di riunione interministeriale 
non partecipa il rappresentante del 
Ministero della Sanità (formato 
molti anni dopo la legge istitutiva 
del CIP). La data in cui le ridu¬ 
zioni diverranno operative dipende 
perciò dal Ministero dell’Industria; 
ogni dilazione dei lavori dell’assem- 
blea plenaria costituisce un guada¬ 
gno di tempo per la manovra con 
cui VAssofarma, ancora una volta, 
tenta d’impedire la normalizzazione 
dei prezzi imperanti nel settore. 

O. M. 


9 





CRONACHE DEL CENTRO-SINJSTRA 

Moro e i sindacati 

DI LORENZO ACCARDI 


MISURE anticongiunturali 
del Governo hanno convinto 
poco. Esse richiedono pregiudi¬ 
zialmente la cooperazione con¬ 
corde delle forze del capitale 
e delle forze del lavoro, chiama¬ 
te a un’intesa che ha tutte 
le caratteristiche dell’armistizio. 
Ma la stessa logica del centro- 
sinistra riporta la congiuntura 
in un tempo politico più lungo 
della contingenza del momento 
e vincola la ricerca delle solu¬ 
zioni di emergenza alle scelte 
di fondo. In definitiva la crisi 
congiunturale ha contratto, e di 
conseguenza drammatizzato, i 
tempi di sviluppo del compro¬ 
messo quadripartito, alterando¬ 
ne sensibilmente le possibilità 
strategiche, e anticipandone le 
più lontane scadenze. Una ra¬ 
gionevole durata avrebbe dovu¬ 
to caratterizzare il centro-sini¬ 
stra in termini di volontà poli¬ 
tica e di potere, consentirgli di 
definire e accreditare le sue più 
autentiche prospettive, di colle¬ 
gare la sua interna dialettica con 
la più vasta dialettica della real¬ 
tà sociale e della lotta politica, 
di inserire la propria iniziativa 
nella inquietudine di un Paese 
che richiede nuove forme di li¬ 
bertà e ricerca un nuovo equi¬ 
librio. 


Una mediazione difficile 

La spinta della congiuntu¬ 
ra riporta in primissimo piano 
i contrasti di classe e anticipa 
l’ipotesi di una svolta prevista 
al punto terminale dell’itinera¬ 
rio del centro-sinistra; il mar¬ 
gine di neutralità che era im¬ 
plicito nel compromesso quadri- 
partito diventa margine di sco¬ 
pertura. 

Il presidente del Consiglio, 
con estrema onestà, ha confes¬ 
sato di fatto la debolezza del 
suo Governo chiamando al ta¬ 


volo delle trattative i rappre¬ 
sentanti del capitale e del lavo¬ 
ro. Il tentativo non ha altro sen¬ 
so se non quello di tradurre il 
compromesso dei partiti al go¬ 
verno in compromesso diretta- 
mente stipulato dagli schiera- 
menti sociali in lotta. Ma pos¬ 
sono queste forze, che ritrova¬ 
no tutte le ragioni del loro mo¬ 
do d’essere nella competizione 
obiettiva che le fa diverse e con¬ 
trapposte, superare la loro stes¬ 
sa definizione, convergere im¬ 
provvisamente in via del tutto 
autonoma in un discorso co¬ 
mune? E’ difficile rispondere af¬ 
fermativamente. Vi si oppone 
l’urto reale degli interessi che 
esse rappresentano e ai quali so¬ 
no tanto più rigorosamente le¬ 
gate quanto più le soluzioni pos¬ 
sibili della crisi economica met¬ 
tono in gioco le rispettive e di¬ 
vergenti scelte di fondo, politi¬ 
camente vive per la stessa pre¬ 
senza del centro-sinistra: che 
non è il governo provvisorio del¬ 
la congiuntura ma il governo di 
queste scelte. E in effetti, le 
difficoltà che angustiano oggi 
la coalizione di maggioranza de¬ 
rivano appunto dalla necessità 
di dover chiarire le prospettive 
programmatiche sulle quali mi¬ 
surare gli interventi anticon¬ 
giunturali e sulle quali far le¬ 
va per mobilitare le forze eco¬ 
nomiche e sociali. Se l’unità di 
intenti alla quale si appella l’on. 
Moro non è che la proiezione 
della neutralità del governo, si 
è facili profeti nel dare per 
scontato il fallimento della pro¬ 
va. Il presidente del Consiglio 
può certamente registrare la vo¬ 
lontà delle singole rappresentan¬ 
ze da lui convocate ma è impro¬ 
babile possa pervenire ad una 
mediazione die escluda il tra¬ 
vaglio di una scelta politica. 
Quali possibilità esistono per 
conciliare i giudizi e i proposi¬ 
ti delle parti chiamate in causa? 


La Confindustrìa si dice dispo¬ 
sta a trattare, anzi a collabora¬ 
re. Purché, precisa, non si vo¬ 
glia strozzare la libertà di mo¬ 
vimento degli imprenditori, pur¬ 
ché il costo delle misure anti¬ 
congiunturali sia equamente di- 
strbuito fra tutte le categorie 
sociali, purché i salari si concor¬ 
dino con le esigenze della pro¬ 
duzione, purché si accantonino 
le riforme di struttura e si so¬ 
stituiscano con altre rispondenti 
ai bisogni civili (pubblica ammi¬ 
nistrazione, previdenza) ; purché, 
in definitiva, si faccia leva sul¬ 
l’ordinamento del sistema. E ov¬ 
viamente per far salve queste 
condizioni, é necessario che il 
governo rovesci la tendenza « a 
subordinare sia la portata della 
situazione attuale, sia i possibili 
rimedi a concezioni e a conside¬ 
razioni di ordine puramente po¬ 
litico», in modo che non «urti 
contro presupposti e presunzio¬ 
ni di natura politica ogni ten¬ 
tativo di riportare valutazioni e 
scelte degli interventi su di un 
piano tecnico ». 

La CISL e TUII. 

Non ancora esplicita la ri¬ 
sposta della CISL. C’é, comun¬ 
que, un commento dell’on. Stor¬ 
ti alle misure anticongiunturali; 
«L’azione del governo non ha 
ancora sufficientemente indivi¬ 
duato i settori e i fenomeni che 
più richiedono interventi cor¬ 
rettivi». E c’é un articolo di 
Donat-Cattin, uomo di governo 
e di sindacato, che valorizza la 
«sosta auspicata da Moro pur¬ 
ché sia sosta della pressione eco¬ 
nomica e non interruzione del¬ 
l’attacco strutturale al vecchio 
Stato ». 

Il recente congre.sso della UIL 
ha dato modo a Viglianesi di 
configurare nel dettaglio l’at¬ 
teggiamento della confederazio¬ 
ne sindacale da lui presieduta. 
Il tono combattivo e polemico 
di Viglianesi, l’esaltazione da lui 
fatta della programmazione co¬ 
me obiettivo di fondo perfetta¬ 
mente congeniale all’impegno 
sindacale, non aumentano tut¬ 
tavia la sostanza delle sue ri¬ 
chieste: riforma della pubblica 
amministrazione, istituzione del¬ 



io 








le regioni, riforma del sistema 
tributario; e in riferimento alla 
congiuntura: stabilità dei prez¬ 
zi e della produzione. Se il col¬ 
loquio con i sindacati invocato 
da Moro porta verso queste con¬ 
clusioni, si tratta allora di «un 
colloquio chiaro e responabile »; 
in caso diverso l’appello del Pre¬ 
sidente del Consiglio «si ridu¬ 
ce a un fatto patetico e paterna¬ 
listico ». 


11 peso della CGIL 

Com’è facile rilevare la posi¬ 
zione della UIL è debole per 
rappresentare nel colloquio an¬ 
che le posizioni della CGIL ed 
è eccessiva per incontrare la 
Confindustria. E del resto la 
massima, e dichiarata, aspirazio¬ 
ne del segretario generale della 
UIL è di essere condizionante 
interlocutore degli imprenditori 
e di escludere da ogni eventua¬ 
lità di contrattazione la CGIL. 
Viglianesi misura la validità del 
più grande sindacato italiano 
adottando una decisa discrimi¬ 
nazione politica nei confronti 
dei comunisti e negando alla 
CGIL ogni autonomia che non 
sia affidata alla sua componente 
socialista. Della quale però in¬ 
valida la capacità di incidenza 
riconoscendo ai comunisti un 
peso determinante ed esclusivo 
nel controllo politico della CGIL. 
Ogni tentativo di indurre la par¬ 
te sindacale comunista ad una 
collaborazione con il centro-sini¬ 
stra è per Viglianesi una colpe¬ 
vole illusione. Ma i fatti non lo 
seguono; perchè in concreto l’ap¬ 
pello insistente che il centro-si¬ 
nistra rivolge alle forze del lavo¬ 
ro passa principalmente attra¬ 
verso la CGIL ed è la risposta 
della CGIL che ne segnerà il 
successo o l’insuccesso. Cosi è 
nelle circostanze reali prima che 
negli schemi; ed è certamente 
contraddittorio negarsi ad ogni 
riconoscimento di autonomia del¬ 
la più consistente organizzazio¬ 
ne sindacale del nostro Paese. 
Contraddittorio sul piano tatti¬ 
co, perchè i lavoratori che si 
vogliono incontrare sono in gran 
parte lì. nella CGIL. Contraddit¬ 
torio in termini politici, perchè 


ove non si postuli in atto un 
travaglio di autonomia del mon¬ 
do sindacate, la vicenda del cen¬ 
tro-sinistra si riduce ad un in¬ 
contro di formule e si allontana 
dalle prospettive della sinistra 
italiana volendone evitare i ri¬ 
schi. Il centro-sinistra non avrà 
forza reale se nel momento in cui 
vuole mobilitare l’opinione e l’in¬ 
teresse dei lavoratori non riesce 
a raggiungerli per non vedere 
l’autenticità delle loro richieste 
fra le maglie della organizzazio¬ 
ne della CGIL. 

Di diverso parere, e lo hanno 
scritto sull’Auanti, sono i so¬ 
cialisti, che intendono provare 
la presenza comunista nella Con¬ 
federazione del lavoro sulla vo¬ 
lontà politica e programmatica 
del centro-sinistra. E sta di fat¬ 
to che nel dibattito, apertosi a 
proposito della congiuntura, sul¬ 
le scelte di governo in materia 
di politica economica la CGIL 
sinora appare unita. Rifiuta cioè 
di ridurre i problemi del mo¬ 
mento entro una superficie con¬ 
tingente volendo invece cali¬ 
brarne le soluzioni alle aspetta¬ 
tive di una programmazione co¬ 
sì definita; «che abbia come 
obiettivo — come ha scritto Lu¬ 
ciano Lama — uno spostamento 
dei redditi reali a favore dei la¬ 
voratori, la piena occupazione, 
profonde riforme delle struttu¬ 
re economiche, uno sviluppo del¬ 
la democrazia a tutti i livelli del 
potere»; una programmazione 
nella quale la cosiddetta variabi¬ 
le indipendente sia il salario 
operaio e non il profitto del ca¬ 
pitale. «Ma dov’è oggi questa 
programmazione? ». 

L’interrogativo che si pone 
Lama è lo stesso che si pone 
Lombardi quando scrive di 
« premesse » e non di « promes¬ 
se » della programmazione. I 
socialisti non intendono richie¬ 
dere sacrifici ai lavoratori se 
non nella misura in cui realiz¬ 
zano nel governo un programma 
di profonde riforme della socie¬ 
tà italiana e delle sue strutture 
economiche, e si ritrovino per 
intanto impegnati nell’adempi¬ 
mento delle promesse relative 
alle leggi per le regioni e l’agri¬ 
coltura, per l’urbanistica («una 
autentica nazionalizzazione del 


suolo») e le società per azioni 
(« radicale trasformazione di 
tutto l’istituto societario che lo 
faccia strumento della program¬ 
mazione»). Non concedono cioè 
il rinvio delle riforme che la 
destra economica ritiene indi¬ 
spensabile per il superamento 
corretto della congiuntura. Que¬ 
sto è almeno quanto è stato det¬ 
to in un pubblico comizio ad Asti 
da Antonio Gioì itti, che si è 
esplicitamente riferito al collo¬ 
quio fra governo e sindacati. Il 
ministro del Bilancio ha polemiz¬ 
zato scopertamente con La Mal¬ 
fa disconoscendo alla enunciazio¬ 
ne di una « politica dei redditi » 
la capacità di coinvolgere i sin¬ 
dacati nello sforzo anticongiun¬ 
turale. La Malfa ha replicato 
che la programmazione comincia 
da una politica dei redditi e a 
nulla vale anticipare i tempi se 
questo vuol dire la crisi di un 
governo che è comunque di cen¬ 
tro-sinistra e non ha alternative 
a sinistra. 


La prospettiva socialista 

Ed è doveroso riconoscere la 
coerenza di La Malfa che difen¬ 
de una strategia che vuol evi¬ 
tare il peggio, salvaguardando 
con la sopravvivenza di questo 
governo le possibilità di ripresa 
del centro-sinistra. 

Tuttavia non si può dimentica¬ 
re che la responsabilità sociali¬ 
sta non è a senso unico e cioè 
soltanto verso il governo, ma che 
incombe al PSI una responsabi¬ 
lità preminente nei confronti d^ 
gli interessi dei lavoratori e, più 
in generale, delle istanze di rin¬ 
novamento che esso deve conti¬ 
nuare a rappresentare di fatto e 
non verbalmente anche come 
partito di governo, pena la pro¬ 
pria decadenza politica e l’invo¬ 
luzione della formula di centro- 
sinistra. 

Non per evitare il peggio il 
PSI è al governo né per assicu¬ 
rare una qualsiasi stabilità, ma 
per condurre un’azione riforma¬ 
trice di ampio respiro alla qua¬ 
le non possono sottrarsi i prov¬ 
vedimenti per superare la con¬ 
giuntura. 

LORENZO ACCARDI 


11 







Il PSI alla 
prima prova 

DI FEDERICO ARTUSIO 


TL FATTO più importante che sia accaduto nel PSI 
da quanto è entrato nel governo {e ha subito la 
scissione a sinistra) è, a nostro avviso, che il giornale 
del partito, cioè l’elaborazione di una critica e di una 
giustificazione dell’azione di governo — dinanzi alla 
base e dinanzi all’opinione pubblica — sia stato posto 
nelle mani di Riccardo Lombardi. Prescindiamo di 
proposito dalle qualità giornalistiche egli possa dimo¬ 
strare. Prima di tutto, perchè si tratta di un direttore 
« politico »; in secondo luogo, perchè le famose qua¬ 
lità che si celebrano nel « giornalista » sono spesso 
una qualifica sprezzantemente antipolitica delle sue 
prerogative: un tipo di giudizio che, dopo tutto, è 
molto discutibile, ma è poi assolutamente da respin¬ 
gere in chi è chiamato a dirigere un giornale di partito. 

Dunque, è molto importante, a nostro avviso, che 
Lombardi sia a quel posto; c staremmo per credere 
che, se il PSI avesse sin dall’inizio, ancora al tempo 
delle grandi dispute prescissione, dato questa garanzia 
di incfipendenza critica del giornale dal governo, forse 
le cose si sarebbero messe meno male. Ma allora il 
partito pensava di impiegare Lombardi in compiti di 
ministro: ed era anche questo un errore di prospet¬ 
tiva, perchè doveva essere ben chiaro che Lombardi, 
se non dissentiva nel fine, non era affatto persuaso 
che i mezzi (cioè quel patto di governo, in tutti i suoi 
particolari) fossero i migliori, e avrebbe preferito re¬ 
stare sulla linea del rapporto teorico mezzi-fine, dove 
si può esercitare una pressione rettificatrice, che non 
imbarcarsi nella gestione diretta, dove si tratta troppo 
spesso di seguire; in un governo di coalizione poi, 
di seguire non solo il leader del proprio partito, ma 
quelli degli altri partiti. 

Ora, fino a questo momento, si può ben dire che 
Lombardi, da quando ha preso la direzione del gior¬ 
nale, non ha mancato in nessuna occasione di osser¬ 
vare il compito che si è prefisso; e non è colpa sua 
*e in qualche caso si è reso ingrato ai suoi compagni. 
Soprattutto, ha tenuto la giusta posizione, quando, 
discutendo l’appello di Moro, ha riproposto la que¬ 


stione che, a buon diritto, i cattolici hanno definito 
« ideologica », nei riguardi dell’alleanza di govi^rno 
con la DC. Quando Lombardi, infatti, ha rammen¬ 
tato alla DC che questa non può appagarsi di una 
posizione di indifferenza interclassista, altrimenti non 
si fa centro sinistra, il « Popolo » si è affrettato a 
rispondere che !’« Avanti », se vuole, può discutere 
singole misure di governo, ma non può avanzare 
questioni di principio o di dottrina: si era infatti 
stabilito, e consentito, di lavorare assieme ma in pie¬ 
na coordinazione (cioè indifferenza, e distanza) di 
ideologie. 

Ora questo rilievo del « Popolo », che in linea 
di fatto non è sbagliato perchè rammenta una Con¬ 
dizione che è stata effettivamente enunciata dalle 
parti interessate come pregiudiziale all’avvicinamento 
tra cattolici e socialisti, se da un lato richiamava 
Lombardi a un gentlemen’s agreement, dall’altra met¬ 
teva però l’indice su un problema, il rapporto tra 
ideologia e partecipazione al governo, che in qualche 
circostanza la DC può anche considerare trascurabile, 
ma che il partito socialista non può scordare mai. 

J'UTTO il ^aio, infatti, è incominciato di qui, 

per i socialisti. Che aveva la sinistra da rim¬ 
proverare alla partecipazione governativa? In linea 
di principio, sembrò in congresso, nulla: i principi 
non vietano a un partito socialista di governare in¬ 
sieme a partiti borghesi. Ma quello che ci si riser¬ 
vava, e che pareva invece andar perduto con la 
concezione autonomistica, era di condurre questa col¬ 
laborazione come una lotta, come una contestazione. 

Un partito socialista può collaborare con la bor¬ 
ghesia al governo solo ad una condizione; di non 
diventare borghese, dunque di continuare a rappre¬ 
sentare, dentro a una società che ha strutture giuri¬ 
diche improntate alla tutela dell’individualismo bor¬ 
ghese, la massima espansione, sino al limite e nello 
stesso tempo già al di là del limite, della rottura 
socialista. Allo stesso modo, è vero, il socialista non 
pretende che il suo coalizzato borghese cessi di esse¬ 
re tale. Ma pensa che solo lottando nel collaborare, 
ciascuno possa contare di far avanzare la sua parte, 
e di caratterizzare così la coalizione. 

Come allora rinunziare, nell’atto di andare al 
governo, alla ideologia proletaria come ideologia di 
lotta, come indicazione continua del traguardo sul 
quale tenersi e insieme andar oltre? Un partito so¬ 
cialista si riconosce e si definisce da questa sua con¬ 
dizione: di non poter rinunziare all’ideologia come 
indicazione e giustificazione di una collaborazione 
nella lotta. Ebbene, ai socialisti di sinistra parve che, 
accettando le condizioni contratte con Moro, i socia¬ 
listi avessero rinunziato a quel loro privilegio, che 
costituisce l’essere socialisti: e uscirono. Ora si ritro¬ 
vano daccapo nella vecchia condizione, dell’ideologia 
che determina e prospetta le ragioni e i metodi del¬ 
l’opposizione. Probabilmente già si domandano se 
per caso non abbiano sbagliato: se non sia venuto 
in evidenza che, nella difficoltà di afferrare l’avver¬ 
sario, che si trincera dietro la « necessità » dei prov¬ 
vedimenti anticongiunturali, l’istanza ideologica giri 
più a vuoto, che non sarebbe stato restando, entro 
il partito, a esercitare una pressione profonda^Però 


12 






anche i compagni del PSI non possono non chiedersi 
se, per il momento almeno (e non si può prevedere 
sino a quando) lo stato di necessità, la realtà dei fatti 
nei quali si è stati immessi, il rispetto che essi susci¬ 
tano in chi li manovra con un certo potere di mu¬ 
tarli, ma anche con una certa imposizione di non 
mutarli, non finiscano con il sospendere ogni attività 
ideologica, visto che non vi sono propriamente tra¬ 
guardi socialisti da tenere in vista, ma appena quello 
dell’efficienza, della funzionalità dei primi provve¬ 
dimenti. 

La condizione amara del PSI, oggi, sembra infatti 
essere questa. Il PSI coopera a restaurare il gioco, 
il movimento, di una società ad ordinamento capi¬ 
talistico. Non si è arrestata una macchina socialista; 
si è parzialmente inceppata una macchina capitalisti¬ 
ca. E viene fatto a molti di chiedersi se non sarebbe 
stato più astuto, o almeno più prudente, lasciare che 
fossero i partiti della borghesia a riparare meccanismi 
che avevano troppo sfruttato, o troppo consumato. 
La risp)osta che i socialisti hanno dato a questa do¬ 
manda, fu che astenersi sarebbe stato ingenuo e im¬ 
prudente. La borghesia, quando ha consumato i suoi 
strumenti di potere, li sostituisce con altri, non più 
ispirati all’idealità, ma alla pura sopravvivenza del 
proprio predominio: si fa fascista. Bisognava andare 
al governo, si disse, per evitare un nuovo’ ’22:^ una 
rinascita, sia pure sotto nuove forme, del fascismo. 
Ecco che così, per salvare un certo livello di governo 
borghese da un rischio di dislivello totalitario, si corre 
ora il rischio di lavorare comunque per la pura restau¬ 
razione del gioco naturale del capitalismo. E qui, 
l’alternativa; o buttarsi senza riserve nella coalizio¬ 
ne, per far sì che la restaurazione non significhi inay- 
vertitamente soffocamento di tutte le future possi¬ 
bilità di una ripresa socialista — oppure mantenere 
sin d’ora vive le riserve, ma al rischio che non si 
evitasse del tutto, allora, il nuovo ’22. (Il ragiona¬ 
mento degli autonomisti, infatti, è che prima di tutto 
si tratta di rimettere in ordine la casa, e che poi si 
potrà muovercisi dentro; ma volercisi muovere men¬ 
tre si fa ordine, è pericoloso. Fu così che, quando 
venne fuori la questione della cedolare secca, Nenni 
pare abbia detto ai compagni di direzione: se non ci 
state, tanto vale che andiamo a dimetterci. L’argo¬ 
mento fu decisivo, perchè equivaleva a dire: così 
viene il ’22, e non ci si pensa più). 

ARA LA cosa più importante, a nostro avviso, è 

che i socialisti, oggi, restino all’ingrato tiinone 
dell’austerità e dell’impopolarità, ma che non si la¬ 
scino ulteriormente ricattare dal millenarismo a rove¬ 
scio del fascismo che si riavventa. Se ad ogni momento 
essi rinfoderano l’obiezione socialista ai provvedimen¬ 
ti da coiKordare nel governo, verrà l’ora, in cui non 
avranno più alcuna risorsa ideologica con la quale 
partecipare ad un governo borghese; ma non avranno 
neppure la forza, il peso di chi, avendo rinunziato o 
non mai partecipato alla pretesa di un’ideologia so¬ 
cialista, ha almeno il beneficio che si ricava dall’aver 
apologizzato, o risparmiato, o lusinghevolmente «com¬ 
preso », le esigenze imprenditoriali. Già oggi si ha 
spesso l’impressione che conti Saragat piuttosto che 
Nenni, il socialdemocratico dichiarato, non il socia¬ 


lista. E siccome il potere si perde in quanto non # 
eserciu, il rischio è che alla fine non accada affatto 
ciò che Saragat ha sempre rifiuuto — un’intesa DG 
PSI sulla testa del PSDI — ma semplicemente che 
neppure di ciò si abbia ormai più a parlare. 

Torniamo alla direzione dell’« Avanti », come vie¬ 
ne ora esercitata, e rallegriamoci che almeno in questa 
forma sia rinata, entro la posizione di governo, la 
riserva ideologica nel senso dialettico che avevamo 
indicato in principio. 

Certo che se il PSI non si fosse riservato altro, 
come potere sugli uomini, che quello di un giornale, 
allora il potere sulle cose, che si esercita dalle pol¬ 
trone dei ministeri, lo soverchierebbe senza residui. 
Nel PSI vi sono certo altre risorse e altre riserve 
di dissenso. Tuttavia, per ora, questa è la più evi¬ 
dente. Fossimo socialisti, pregheremmo Lombardi e 
i suoi amici di non stancarsi e di non recedere. Si 
fa così presto a perdere tutto. Non temano neppure 
di spingere la crìtica, a volte, sino alla tensione, sino 
alla necessità di spiegazioni, da parte di compagni 
di segreteria o di governo o di gruppo parlamentare. 
Non raccomandiamo questo come suscitatori di di¬ 
scordie, è ovvio; come intriganti azionisti; ma come 
riserva di quel sale della terra, che è il fattore ideo¬ 
logico della politica. Il « praticismo » da ministro è 
cosa facile da acquistare, non è poi che tattica di 
alto livello, più la normale dose di spocchia di chi 
è arrivato. Ma a un socialista italiano questo non 
può interessare, o almeno non può interessare come 
lo scopo più importante del suo partito. 

FEDERICO ARTUSIO 


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Uastrolabio 


13 





















GASTON DEFFERRE 


LETTERA DA PARIGI 

L’alternativa del buonsenso 


petitore di de GauUe, egli non può 
non avere il « complesso » della 
statura, in tutti i sensi; ma se ne 
tira benissimo, ricorrendo alla sola 
arma a disposizione, l’ironia; una 
ironìa garbata, quasi anglosassone, 
che non attacca frontalmente l’ay- 
versario e soprattutto non ne di¬ 
sconosce i meriti, ma si limita a 
metterne in luce certi aspetti un po’ 
paradossali e grotteschi. E i fran¬ 
cesi, che hanno spiccatissimo il gu¬ 
sto della battuta, ridono e simpa¬ 
tizzano naturalmente con lui (salvo 
poi votare in maggioranza per l’al¬ 
tro, che incarna meglio l’ideale 
eterno della grandeur). 

Defferre naviga tra due scogli che 
si chiamano « ritorno alla quarta 
Repubblica » e « neo-gollismo senza 
de Gaulle *. Infatti non può guar¬ 
darsi dall’uno senza rischiare con¬ 
tinuamente di naufragare sull’al¬ 
tro. E sono entrambi temibili, mo¬ 
bilitando intere squadre di amici 
e avversari, tutti spietatamente col 
fucile puntato, pronti a sparare alla 
minima mossa falsa. 

E’ quindi naturale che, in queste 
condizioni, succeda al candidato 
Defferre, come appunto con l’ulti¬ 
ma conferenza-stampa, di non ac¬ 
contentare pienamente nessuno. 


DI LUCIANO BOUS 


r ASTON DEFFERRE, il futuro 
candidato antagonista di de 
Gaulle alla presidenza della repub¬ 
blica francese, è stato ospite della 
Associazione della stampa estera di 
Parigi, che gli ha offerto una cola¬ 
zione, presenti alcune centinaia di 
giornalisti di tutti i paesi. 

Il sindaco di Marsiglia da qual¬ 
che tempo appare instancabile e non 
si lascia sfuggire occasione per ri¬ 
badire i suoi punti di vista su que¬ 
sto o quell’aspetto della politica 
francese: ciò che avrebbe fatto lui 
se si fosse trovato al posto di de 
Gaulle; ciò che farà un giorno se 
la fiducia degli elettori lo chiamerà 
a succedergli all’EIiseo. 

Ieri a Marsiglia, Bordeaux e Car- 
cassonne; oggi a Parigi: la sua è 
una campagna che durerà probabil¬ 
mente due anni, ed egli la sta con¬ 
ducendo con l’ardore e l’ostinazione 
propri di un neofita. In completo 
grigio chiaro, sorrìdente e sempre 
sbarbato di fresco, con la sua voce 


persuasiva e quasi dimessa, egli rap¬ 
presenta, anche nel tono e nei gesti, 
l’antitesi naturale di colui al quale 
si contrappone. 

In realtà, sotto un’apparente bo¬ 
nomia, quel progressista borghese 
che si chiama Gaston Defferre na¬ 
sconde una volontà tenace e una 
personalità complessa, temprata da 
una lunga milizia parlamentare nel 
partito di Guy Mollet e da una diu¬ 
turna pratica amministrativa quale 
sindaco della seconda città di Fran¬ 
te traboccare il vaso. Per me, in¬ 
da (dove però, rammentano i ma¬ 
ligni, la sua maggioranza è sempre 
sostenuta dai voti dell’UNR); ma 
cela soprattutto una capacità mano¬ 
vriera e diplomatica non comune, 
che gli consente di far fronte age¬ 
volmente anche a situazioni deli¬ 
cate e difficili, nelle quali i suoi av¬ 
versari hanno finora cercato invano 
di farlo inciampare. 

Riconosciamo che la posizione di 
Defferre non è comoda. Qjme com¬ 


TL TEMA centrale di Defferre è 

quello dell’indipendenza o ugua¬ 
glianza degli Stati. La sua dimo¬ 
strazione è di tipo classico, ma 
estremamente elementare. « Chec¬ 
ché ne pensi de Gaulle, che ne fa 
il perno della propria politica di 
potenza, l’indipendenza degli Stati 
non esiste — dice Defferre; — a 
meno che non vogliamo rinunciare 
a bere caffè, a calzare scarpe di 
cuoio e a vestire abiti di lana, tutti 
prodotti che importiamo necessaria¬ 
mente dall’estero ». 

All’ideale àeWindipendenza, da 
collocare quindi in soffitta tra i ci¬ 
meli di un passato morto per sem¬ 
pre, Defferre propone di sostituire 
invece quello àei\' uguaglianza, « che 
— egli precisa — ha il merito di 
farci meglio comprendere il valore 
della solidarietà internazionale ». 
Ma come questa situazione possa 
poi evolvere verso forme più con¬ 
sistenti di unione, per esempio fe¬ 
derale, Defferre non ce lo dice. 

Da questo postulato dell’ugua¬ 
glianza degli Stati, Defferre prende 
lo. spunto pei parlare dell’unità eu- 


14 






ropea;' un’Europa evidentementa 
non troppo dissimile da quella 
« delle patrie » tanto vantata dal 
generale de GauUe, se presuppo¬ 
sto dovrebbe esserne appunto la 
equivalenza degli clementi statuali 
che la compongono. Non è certa¬ 
mente un caso se il riferimento 
alla « soprannazdonalità » non ri¬ 
corre mai nei discorsi del neo¬ 
candidato, che in compenso parla 
molto della politica che questa Eu¬ 
ropa dovrebbe fare: dall’aiuto al 
Terzo Mondo all’apertura verso 
l’Inghilterra, dalla forza d’urto con¬ 
tinentale alle riforme socialiste di 
cui, con lui, si farebbero garanti, 
a Londra e a Bonn, Harold Wil¬ 
son e Willy Brandt. 

« Anni fa si parlava di Europa 
vaticana — ha detto a un certo 
punto Defferre — ma l’accusa, co¬ 
me protestante, mi faceva sorride¬ 
re! ». Ora però egli pensa davvero 
ad una « santa alleanza europea 
socialista », che, sotto lo schermo 
abbagliante dell’affinità ideologica, 
dovrebbe fare passare in seconda 
linea le tradizionali rivalità degli. 
Stati. 

Ma come potrà arrivarci? Al di 
là di ogni astratta concezione di 
dottrina, anche i socialisti, quando 
diventano maggioranza, non pos¬ 
sono in pratica che lasciarsi condi¬ 
zionare dagli avvenimenti, i quali 
non si presentano mai nello stesso 
modo in due paesi diversi. 

Così non è detto che il leader 
laburista, fattosi primo ministro, 
manifesti per l’Europa un’apertu¬ 
ra maggiore del suo predecessore 
tory; né che il sindaco di Berlino, 
una volta cancelliere, abbia, per 
esempio suH’America, una conce¬ 
zione diversa da quella di alcuni 
suoi avversari attualmente al go¬ 
verno (dico alcuni, perché si sa 
che tra Schroeder ed Erhard, an¬ 
che senza contare Adenauer, c‘è 
davvero di mezzo il mare..,). Lo 
stesso Defferre, in più di un punto 
potrebbe sentirsi obbligato a se¬ 
gnare la politica di de GauUe. Del 
resto, egli appare già oggi, in tante 
cose, più vicino al cancelliere 
Erhard che al candidato sociali¬ 
sta che gli dovrebbe succedere. 

La « triplice » prospettata da 
Defferre — e ch’egli metterà a 
punto nei prossimi giorni con un 
viaggio a Londra... e a New York 
— non mi sembra quindi disporre 


di un filo più resistente di queUo 
che ha cucito, per esempio, il pat¬ 
to franco-tedesco. 

A TUTTE queste cose pensavo 
dentro di me mentre ascoltavo 
Defferre parlare del « nuovo volto 
socialista dell’Europa », che avreb¬ 
be anch’egli tenuto a battesimo. 
E mi tornava aUa mente anche il 
beU’articolo di Federico Artusio 
che avevo letto sull’ultimo numero 
AtW'Astrolabio, proprio su Defferre. 

« Non è il nostro uomo », esso 
concludeva; e stranamente mi tro¬ 
vavo ora d’accordo con lui. Ma 
forse per ragioni opposte. Per Ar¬ 
tusio, infatti, era stata la risco¬ 
perta àtWeuropeista Defferre a fa- 
vece, era proprio la conferma del 
suo europeismo fasullo a lasciarmi 
nell’incertezza, fornendomi indiret¬ 
tamente la prova che nessuna al¬ 
ternativa a de GauUe è oggi con¬ 
cepibile in Francia, fuori del qua¬ 
dro nazionale. 

« Cambia il maestro, ma la mu¬ 
sica è sempre quella », dicevano i 
nostri nonni. Per essere onesti, bi¬ 
sognerebbe aggiungere che, in que¬ 
sto caso, cambierebbe certo anche 
il tono: dalla magniloquenza pa¬ 
triottarda al dialogo sulle cose con¬ 
crete, dalla visione mondiale di un 
neo-colonialismo francese alla pras¬ 
si quotidiana del riformismo socia¬ 
lista, dalla politica dei puntigli a 
quella della collaborazione. 

Certo, sarebbe già un progres¬ 
so, come il ritorno a un metro co¬ 
mune per giudicare le cose, c la 
liberazione da un incubo che, men¬ 
tre culla e solletica la maggioranza 
dei francesi, tiene però col fiato 
sospeso quella grossa minoranza 
che non intende lasciarsi cullare... 
e i numerosi amici della Francia 
che, dal loro osservatorio d’oltre 
frontiera, considerano impotenti la 
progressiva involuzione deU’esa- 
gono. 

Non ultimo elemento di questo 
progresso: il fatto ch’esso si com¬ 
pirebbe in nome di un uomo e non 
più di un mito, attraverso una poli¬ 
tica che si vorrebbe fatta per gli 
uomiiji e non per dei fantasmi, 
col presupposto che tutti sono ugua¬ 
li e quindi nessuno può montare 
sul piedistallo. 

Ripetiamo, tutto ciò sarebbe già 
un progresso; ma se la direzione 


di marcia resta fondamentalmente 
sbagliata, concludiamo anche noi 
con l’Artusio: « ...c’interessa? ». 

Avevo posto anch’io — per 
L’Astrolabio — una domanda a 
Defferre: come si poteva a ogni 
momento parlare, come lui faceva, 
di un’« Europa economicamente e 
politicamente unita » (quasi che 
essa dovesse davvero rappresen¬ 
tare l’impegno prioritario del suo 
futuro settennato) e prospettarci 
nello stesso tempo, per l’appunta¬ 
mento àeW'Orizzonte '80, una 
Francia sempre sovrana e piena di 
sé; certo non isolata come oggi e 
in pace con tutti, ma non per que¬ 
sto meno arbitra dei propri destini 
e gelosa dei suoi privilegi come na¬ 
zione? 

Ma Defferre non mi ha spiegato 
la contraddizione. Né l’avrebbe po¬ 
tuto. A meno di riconoscere che 
le due strade sono effettivamente 
divergenti e che non si possono 
quindi percorrere insieme. 

Perché la vera opposizione non 
sta tra un nazionalismo megalo¬ 
mane e caparbio alla de GauUe e 
un riformismo nazionale e sociali¬ 
sta alla Defferre o aUa Mendès, 
ma tra queste politiche (che mi¬ 
rano entrambe al potenziamento 
deUa nazione, comunque poi esso 
venga inteso) e la sola capace di 
sostituirvi un ideale diverso, cioè 
una politica europea per un ideale 
europeo. Politica e ideale che han¬ 
no per necessario presupposto il 
superamento della realtà nazionale, 
intesa come scopo e centro di ogni 
attività, c la sua sostituzione con 
una più grande realtà europea, di 
cui si accetti la preminenza in tutti 
i campi. 

Ma avevo torto di sperare che 
queste precisazioni mi potessero ve¬ 
nire da Defferre. Il capo dell’op¬ 
posizione francese è oggi impegnato 
a portar via voti a de GauUe, e 
per questo non può non fare i con¬ 
ti con una Francia che — piaccia 
o non piaccia a chi legge e a chi 
scrive — ha già mostrato in più 
occasioni di essere a maggioranza 
gollista. 

Come lo era, del resto, lo stesso 
Defferre, quando affermava, qual¬ 
che anno fa, che solo U generale 
poteva ancora salvare U paese... 
Che pretenderemo quindi da lui? 

LUCIANO BOLIS 


u 







IL CONFLITTO SOMALO-ETIOPICO 

Il confine contestato 

DI GIAMPAOLO CALCHI NOVATI 


T A BANDIERA della Somalia è 

azzurra, con una stella a cinque 
punte: due punte rappresentano i 
territori dell’ex-Somalia italiana c 
del Somaliland già protettorato bri¬ 
tannico, riuniti in un unico Stato 
dal r luglio 1960; le altre tre raf¬ 
figurano le terre irredente, precisa- 
mente la Costa francese dei somali, 
la regione dell’Ogaden-Haud etio¬ 
pico e il distretto nord-orientale 
del Kenya. Di fronte all’intransi¬ 
genza delle controparti, che non 
hanno mai riconosciuto la legitti¬ 
mità di tali rivendicazioni, era ine¬ 
vitabile che la Somalia prendesse 
in considerazione la possibilità di 
un’azione per attuare i propri piani 
e dare soddisfazione ai sentimenti 
nazionali dei somali residenti nelle 
terre ancora staccate dalla madre¬ 
patria: anche senza pronunciare una 
parola definitiva, in mancanza di 
dati sicuri, sulla responsabilità im¬ 
mediata d’aver dato origine ai 
combattimenti che nei primi giorni 
di febbraio hano impegnato le for¬ 
ze regolari di Somalia ed Etiopia 
minacciando di degenerare in una 
guerra aperta fra i due paesi, è 
quindi al fermento dei somali in 
terra straniera ed ai preparativi mi¬ 
litari del governo di Mogadiscio che 
sembra doversi addebitare il ricorso 
alla forza. Anche nel Kenya, del re¬ 
sto, dal dicembre scorso si segnalano 
movimenti di irregolari, più o me¬ 
no esplicitamente appoggiati ed in¬ 
coraggiati dalla Somalia, che atten¬ 
tano aH’intewità territoriale di que¬ 
sto Stato amicano, da poco asceso 
all’indipendenza. 

Il problema sollevato dalle richie¬ 
ste del governo somalo ha un aspet¬ 
to generale ed un aspetto partico¬ 
lare. La questione delle frontiere è 
invero fra i fattori di divisione e 
di debolezza più rilevanti dell’attua¬ 
le assetto africano: in un primo 
tempo si era creduto che la preca¬ 
rietà delle frontiere, la casualità 
della spartizione territoriale, la fra¬ 
gilità di molti Stati avrebbero po¬ 
tuto costituire un impulso verso la 
applicazione accelerata dei miti del¬ 


l’integrazione continentale, subordi¬ 
nando i particolarismi del microna¬ 
zionalismo alle prospettive del pa¬ 
nafricanismo; la realtà doveva rive¬ 
larsi diversa, perché per la sua stes¬ 
sa formazione anomala (la nazione 
attraverso lo Stato anziché lo Stato 
attraverso la nazione), il nazionali¬ 
smo nei singoli Stati africani ha fi¬ 
nito per assumere note esasperate, 
spesso in funzione difensiva, esclu¬ 
dendo una pronta composizione del¬ 
la balcanizzazione operata dalla do¬ 
minazione coloniale jn entità allarga¬ 
te e, più vitali. A ciò si deve aggiun¬ 
gere la sovrapposizione di elementi 
ideologici, per i contrasti di indi¬ 
rizzo fra governo e governo, che ha 
reso definitiva la separazione (ba¬ 
sta jDensare alla scissione della Fe¬ 
derazione del Mali, determinata ap¬ 
punto dalla diversa concezione po¬ 
litica dei partiti al potere nel Sene¬ 
gai e nel Sudan, i due membri deUa 
Federazione ). 

Pur coscienti dell’eccessivo spez¬ 
zettamento territoriale e dell’artifi¬ 
ciosità della maggior parte dei nuo¬ 
vi Stati africani indipendenti, i lea- 
ders africani hanno accettato come 
male minore, in attesa della matu¬ 
razione di un nazionalismo di por¬ 
tata continentale che concretizzi gli 
ideali astratti che si richiamano alla 
personalità africana ed alla négritu- 
de, la convalida dello status quo, 
negando preventivamente ogni vali¬ 
dità alle rivendicazioni territoriali 
interstatali. La Carta dell’unità afri¬ 
cana approvata dal vertice di Addis 
Abeba del maggio 1963 statuisce in¬ 
direttamente ma fermamente — con 
i molti accenni all’« integrità terri¬ 
toriale degli Stati africani » — la 
inamovibilità delle frontiere eredi¬ 
tate dagli Stati nazionali, salvo na¬ 
turalmente accordo spontaneo fra 
le parti interessate. Non era sfug¬ 
gito però che ad Addis Abeba la 
Somalia aveva avanzato serie ri¬ 
serve su questo criterio, in polemica 
con il discorso di Hailé Sélassié, 
uno dei più risoluti nel sostenere la 
necessità di accantonare ogni riven¬ 
dicazione per non sottoporre il con¬ 


tinente nero ad un pericoloso scon¬ 
volgimento generale. 

E’ innegabile infatti che gli Stati 
africani, specialmente quelli del¬ 
l’Africa nera, sono stati costituiti 
dalle jxjtenze coloniali senza alcun 
rispetto per i caratteri etnici delle 
popolazioni residenti e per i prece¬ 
denti storici. Anche nel Maghreb, 
come ha dimostrato il conflitto al¬ 
gerino-marocchino, esistono inter¬ 
pretazioni discordanti sulle rispettive 
sfere di sovranità. In questo senso, 
dunque, l’irredentismo dei somali 
partecipa della medesima problema¬ 
tica conosciuta in altre parti del 
continente, da altri gruppi etnici ri¬ 
masti divisi in più entità statali, ed 
è destinato ad incontrare scarsi suf¬ 
fragi nelle capitali africane. 

Il pansomalismo ha però un aspet¬ 
to più propriamente ” nazionale ”, 
che manca ad analoghi progetti di 
unificazione. Non si tratta in altre 
parole né di secessionismo (come fu 
per la pretesa di Tschombe di im¬ 
personare le istanze particolari del¬ 
le genti lunda in opposizione alle 
tribù baluba ed alle tribù congolesi 
'fautrici di uno Stato unitario) né 
di puro e semplice appello ad una 
situazione pre-coloniale (come ac¬ 
cade per il ” grande Marocco ” ). I 
somali — che hanno già conseguito 
un notevole successo pratico sal¬ 
dando in un’unica repubblica i due 
tronconi amministrati da Italia c 
Gran Bretagna, ovviando positiva- 
mente alle difformità lasciate dalle 
diverse amministrazioni coloniali — 
hanno elaborato, insieme a costumi 
e tradizioni affini, un inconfondi¬ 
bile coscienza nazionale, che rende 
la loro causa assai simile ad una 
campagna per l’affermazione del di¬ 
ritto d’auto-determinazione; nomadi 
per natura, i somali non si sono mai 
preoccupati di fissare le proprie fron¬ 
tiere, ma ciò nonostante sempre vi¬ 
vo è stato il loro senso unitario. 

Per valutare, nel loro contenuto 
giuridico, le argomentazioni dei so¬ 
mali — che sottolineano come sol¬ 
tanto la dominazione coloniale abbia 
scompaginato la nazione somala, ri¬ 
masta fino allora omogenea — sa¬ 
rebbe necessario risalire molto in¬ 
dietro nel tempo, alle vertenze ita- 
lo-etiopiche ed al modo con cui i 
governi di Londra e di Roma risol¬ 
sero secondo i propri interessi di 
potenza, le contestazioni relative al¬ 
l’esatta delimitazione delle frontiere 
somale ed etiopiche, c del Kenya, 


16 








w 


procedendo di fatto a scambi di ter¬ 
ritori. Il problema tuttavia è emi¬ 
nentemente politico. Certamente, 
quelle sistemazioni furono il frutto 
di un compromesso fra il coloniali¬ 
smo italiano ed il colonialismo bri¬ 
tannico senza alcuno scrupolo per 
le sorti del popolo somalo e della 
nazione somala, e non è neppure 
escluso che le potenze coloniali si 
siano fatte guidare da un calcolo di 
dominazione più sicura, giuncando 
sulle prevedibili rivalità che si sa¬ 
rebbero radicate. Fondato è il so¬ 
spetto soprattutto per l’equivoco 
comportamento britannico in rela¬ 
zione al distretto nord-orientale del 
Kenya, malgrado l’apposita com¬ 
missione incaricata di studiare la 
questione avesse accertato il quasi 
unanime consenso degli abitanti per 
l’accessione alla Somalia; negoziati 
fra una delegazione britannica ed 
una delegazione somala si svolsero 
a Roma nell’agosto 1963, ma senza 
esito, rimandando Londra ogni de¬ 
cisione al governo indipendente 
kenyano. 

La controversia è complicata dal¬ 
le convenzioni intercorse fra Etiopia 
e Gran Bretagna e denunciate da 
Addis Abeba con la fine del protet¬ 
torato britannico sul Somaliland, 
che consentivano ai pastori somali 
di pascolare nelle regioni dell’Haud 
(watering and grazing rights). In 
Etiopia vivono circa 750.000 somali 
e nel Kenya 100.000, per lo più 
nomadi. Per meglio resistere alle 
pressioni della Somalia, Etiopia e 
Kenya hanno stipulato il 27 dicem¬ 
bre 1963 un accordo di mutua di¬ 
fesa. 

Il principale ostacolo alla realiz¬ 
zazione della ’ grande Somalia ”, co¬ 
munque, è costituito dall’Etiopia 
che si oppose già — per sabotare 
il completamento nazionale dei so¬ 
mali — all’unificazione del Somali¬ 
land e della Somalia in amministra¬ 
zione fiduciaria all’Italia. Hailé Sé- 
lassié non ha mai nascosto di non 
accettare il principio di auto-deter¬ 
minazione su base etnica, giudican¬ 
do vincolanti i vecchi trattati del¬ 
l’epoca coloniale. 

Se il Kenya è contrario a cedere 
alla volontà dei somali per non da¬ 
re inizio ad un processo di disin¬ 
tegrazione nazionale, l’atteggiamen¬ 
to di intransigenza del governo di 
Addis Abeba riflette anche l’inten¬ 
zione di affermare un diritto di pre 
lazione sulla stessa Costa francese 


dei somali, che è di fatto intima¬ 
mente legata (attraverso il porto 
di Gibuti e la ferrovia che vi fa 
capo) al sistema economico etiopi¬ 
co; in questo territorio — che ha la 
qualifica costituzionale di territorio 
d’oltremare — vive una forte ali¬ 
quota di africani di stirpe dankalica, 
non affine ai somali, che sono meno 
della metà dei 70.000 abitanti, neu¬ 
tralizzando perciò la spinta annes¬ 
sionistica verso la Somalia. Il caso 
della Somalia francese è singolare, 
perché né la Somalia né l’Etiopia, 
che pure proclamano di difendere 
con la loro azione una politica ” afri¬ 
cana ”, di consolidamento degli Sta¬ 
ti africani sorti dal ritiro dell’im¬ 
perialismo, hanno intrapreso passi 
concreti per liquidare la domina¬ 
zione francese su questo lembo del 
Corno dell’Africa, economicamente 
senza valore ma di un’importanza 
strategica eccezionale. 

In queste condizioni era preve¬ 
dibile che la tensione accumulatasi 
in tanti anni dovesse esplodere in 
un conflitto. 

I combattimenti sono stati parti¬ 
colarmente accesi nella zona del¬ 
l’Haud. L’Etiopia ha subito chiesto 
l’intervento dell’Organizzazione del¬ 
l’unità africana (ODA) mentre la 
Somalia si è rivolta al Consiglio 
di sicurezza delle Nazioni Unite. 
La scelta dell’organo per i due ri¬ 
corsi è significativa; all’OUA, in¬ 
fatti, e non solo perché ha sede ad 
Addis Abeba ed è ritenuta una crea¬ 
tura della diplomazia dell’impera¬ 
tore Hailé Sélassié, la Somalia ha 
scarse speranze di imporre la pro¬ 
pria tesi revisionistica; all’ONU, in¬ 
vece, il giuoco delle alleanze e delle 
influenze potrebbe riuscire più sot¬ 
tile e portare a risultati diversi (il 
Ghana e l’Egitto mostrarono in pas¬ 
sato una solidarietà discreta per la 
unificazione di tutti i somali e lo 
stesso Chou En-Lai si è espresso 
in termini benevoli per il naziona¬ 
lismo pansomalo). 

II 12 febbraio si è riunito a Dar- 
es-Salaam (capitale del Tanganyika) 
un convegno di ministri degli Este¬ 
ri africani. La conferenza era stata 
convocata dal presidente Nyerere per 
esaminare la situazione venutasi a 
creare nell’Africa orientale dopo 
l’intervento — sollecitato dai gover¬ 
ni locali — di truppe britanniche 
per far fronte alle insurrezioni mi¬ 
litari nel Tanganyika, nell’Uganda 
e nel Kenya, ma, in considerazione 


dei combattimenti sul confine so¬ 
malo-etiopico, ha discusso anche 
questo problema. Unanimemente i 
ministri africani hanno invitato le 
parti a concordare una tregua ed a 
tentare una soluzione negoziata del¬ 
la controversia; il cessate-il-fuoco è 
stato però ripetutamente violato an¬ 
che in seguito; per la pacificazione 
a lungo termine si stanno adope¬ 
rando molti governi africani, fra 
cui il Sudan ed il Ghana. 

Qualunque sarà lo sviluppo degli 
avvenimenti presenti, è certo che 
il problema somalo tornerà più vol¬ 
te d’attualità prima di trovare una 
soluzione soddisfacente e definitiva. 
La sola prospettiva durevole sem¬ 
bra coincidere con un progresso so¬ 
stanziale dei programmi panafrica- 
nisti: fra le unioni regionali in pro¬ 
getto, una riguarda appunto l’Africa 
orientale, che è però contrastata dal 
presidente Nkrumah, il quale ri¬ 
tiene incompatibili tali raggruppa¬ 
menti regionali con il sogno pan¬ 
continentale. La Federazione del¬ 
l’Africa orientale è in fase di rista¬ 
gno anche limitatamente ai suoi 
ideatori originali (Tanganyika, Ke¬ 
nya ed Uganda), ed è perciò poco 
verosimile che essa possa offrirsi co¬ 
me via d’uscita della crisi somalo¬ 
etiopica, almeno in un tempo pros¬ 
simo. E’ d’altro canto evidente che 
solamente mediante intese dirette 
sui punti più acuti di dissidio fra 
Stati vicini la solidarietà africana 
potrà stabilizzarsi ed evolvere ver¬ 
so forme più mature, e non vice¬ 
versa, in quanto i governi non sem¬ 
brano disposti a fare concessioni 
prima d’avere raggiunto un suffi¬ 
ciente grado di sicurezza sull’irre¬ 
versibilità del processo d’unifica¬ 
zione. 

Le conseguenze delle vecchie di¬ 
spute fra imperialismi concorrenti, 
che si riflettono in nuove rivendi¬ 
cazioni territoriali aggiungono altri 
motivi di instabilità, oltre a quelli 
provocati dalle ripercussioni più pro¬ 
priamente politiche della decoloniz¬ 
zazione. In questo diffuso malessere 
che pesa sull’Africa orientale s’in¬ 
serisce il giuoco delle grandi poten¬ 
ze; ed è facile capire come la crisi 
di sviluppo e di assestamento delle 
nuove nazioni offrano occasioni non 
indifferenti alle diplomazie interes¬ 
sate per coinvolgere questa zona 
dell’Africa di tanto interesse stra¬ 
tegico nella contesa della guerra 
fredda. 

GIAMPAOLO CALCHI NOVATI 


11 







Commento a cose del Messico 


CONO passati quasi quattro decen¬ 
ni da quando, nel 1927, scrivendo 
sulla Rivista Pedagogica delle scuole 
messicane (e criticando così indiret¬ 
tamente la p>olitica fascista nel campo 
educativo), Giovanni Pioli riportava 
l’affermazione di un noto scienziato 
americano di allora: « L’influenza del 
Messico sull’America Latina nei pros¬ 
simi 50 o 100 anni sarà probabil¬ 
mente simile a quella esercitata dalla 
Francia sull’Europa dopo la Rivolu¬ 
zione Francese. Forse ad esso è ri¬ 
servato d’essere la guida spirituale e 
morale dell’America Latina. Il Mes¬ 
sico è il solo stato dell’America Lati¬ 
no che si sia accinto a risolvere i pro¬ 
blemi fondamentali: agrario, dell’im¬ 
perialismo estero, delle razze, educa¬ 
tivo, c dei rapporti fra Chiesa e po¬ 
polazione ». L’affermazione non era 
esagerata; non lo è neppure in rela¬ 
zione al 1964 anche se, nella stampa 
europea di oggi, sembrano al primo 
posto — per ragioni assai diverse 
— Cuba, il Brasile e l’Argentina. 

Di solito, poco si sa in Europa 
del Messico e quel poco è in gran 
parte errato: come sempre, il mito 
oscura la realtà; formatasi, sulla 
base d’informazioni frammentarie e 
di interpretazioni superficiali, una 
immagine, essa serve a valutare e a 
giudicare. Contrariamente all’imma¬ 
gine, la nazione messicana (che rag¬ 
giungerà quest’anno i 40 milioni, 
quasi tre volte più di quello che era 
mezzo secolo fa) ha compiuto, in 
quest’ultimi decenni, in ogni ramo di 
attività, progressi invidiabili. Città 
del Messico è un centro intellettuale 
di prim’ordine, anche prescindendo 
dali’apporto di migliaia di esuli re¬ 
pubblicani spagnoli; l’arte messicana 
contemporanea è troppo nota perchè 
occorra mettere in risalto le carat¬ 
teristiche che le sono proprie; per 
quanto esista ancora, sopra tutto 
presso i settori dell’intellighenzia che 
pur affermandosi progressisti vivono 
più nel passato che nel presente, una 
ossessione come il problema agrario, 
il Messico si è venuto industrializ¬ 
zando rapidamente grazie all’attività 
e capacità di imprenditori e tecnici 
aiutati, dal 1934 quando Cardenas 
assunse il potere presidenziale, da 
una politica governativa efficiente. 


DI MAX SALVADORI 

che come al solito è criticata da 
quanti non hanno responsabilità di 
governo. Durante gli anni cinquanta 
l’espansione economica, malgrado le 
difficoltà create dall’esplosione demo¬ 
grafica, è stata paragonabile a quella 
dell’Europa dei Sei; fra le repubbli¬ 
che dell’America Latina, l’influenza 
messicana è assai notevole, e per 
gli Stati Uniti l’approvazione o la 
disapprovazione del Messico contano 
più di quelle di qualsiasi altra nazio¬ 
ne quando si tratta di problemi ri¬ 
guardanti le due Americhe (fu im¬ 
portante l’atteggiamento favorevole 
del Messico all’epoca della crisi del¬ 
l’ottobre ’62, fu importante nel ’63 
l’atteggiamento sfavorevole del Mes¬ 
sico quando il governo americano 
proposte una serie di sanzioni dirette 
all’isolamento di Cuba). 

Dalla rivoluzione del 1911 (più 
importante per l’emancipazione del¬ 
la nazione messicana dell’indipen¬ 
denza acquistata nel 1821) uno dei 
problemi che hanno appassionato 
maggiormente i settori politicamente 
attivi del pubblico messicano, è sta¬ 
to quello dell’istruzione. A questo, 
seguendo i luoghi comuni dell’illu¬ 
minismo, venivano collegati i proble¬ 
mi della libertà politica (intesa de¬ 
mocraticamente come autogoverno e 
non patriottardamente come indipen¬ 
denza), dei prestigio sul piano in¬ 
ternazionale, e — sopratutto — del 
progresso economico. Quando, nella 
scìa della rivoluzione spagnola del 
1820, il Messico divenne indipen¬ 
dente, come popolazione, estensione 
(doppia di quella di oggi), risorse 
naturali, capitale di cui il paese era 
dotato, poteva essere paragonato 
favorevolmente agli Stati Uniti 
del 1783. 

A quale fattore occorreva attri¬ 
buire il diverso sviluppo delle due 
nazioni, statica Luna, dinamica l’al¬ 
tra? all’educazione che nella nuova 
nazione di lingua spagnola differiva 
profondamente da quella nella na¬ 
zione di lingua inglese, si rispondeva 
— semplicisticamente — sia a sud 
che a nord del Rio Grande. Mezzo 
secolo fa il problema messicano del¬ 
l’istruzione sembrava avere due 
aspetti principali: analfabetismo e 
monopolio (o quasi monopolio) cle¬ 


ricale. Statisticamente, la quasi tota¬ 
lità dei messicani sono cattolici come 
lo sono gli italiani, ed anche se si 
tratta per i più — come già afferma¬ 
va in una sua lettera del 1864 l’ef¬ 
fimera imperatrice del Messico Car¬ 
lotta — di uno pseudocattolicesimo 
fortemente impregnato di credenze 
indie, l’influenza del clero è stata 
uno degli elementi centrali della 
vita messicana. Prima del 1911, la 
istruzione era un privilegio gelosa¬ 
mente controllato e non un diritto 
di tutti; aveva come scopo l’indot¬ 
trinamento, cioè l’asservimento delle 
menti; era uno strumento di cen¬ 
sura; eliminava il più possibile dallo 
insegnamento le discipline scientifi¬ 
che dalla cui diffusione dipende in 
gran parte lo sviluppo economico. 
Sappiamo bene che non si trattava 
di problemi puramente messicani: 
esistono e sono esistiti in quasi tutte 
le collettività umane in cui si è af¬ 
fermato il dogmatismo sovrannatu¬ 
rale; li trovavamo ancora recente¬ 
mente nel Mezzogiorno borbonico 
e post-borbonico. ( Occorre certo 
diffidare dei paralleli, ma ricordo 
che visitando anni fa le città del 
Messico centrale quali Morelia — 
sede universitaria — Puebla e To- 
luca, mi sembrava di viaggiare nello 
estremo sud della penisola italiana). 
Era opinione concorde dei messicani 
colti e riformisti di attribuire alla 
mancanza di istruzione l’arretratezza 
del paese, la difficoltà di smuovere 
la nazione, la presenza di comunità 
indie non assimilate, la debolezza 
sul piano emisferico, l’indice elevato 
di fenomeni patologici quali delitti 
di sangue ed alcoolismo, la debolez¬ 
za in alcuni settori della popola¬ 
zione dei legami familiari e l’indice 
elevato di illegittimità, la supersti¬ 
zione e via di seguito. In quest’ulti¬ 
mo cinquantennio vi sono nomi di 
educatori messicani che si sono fatti 
una reputazione anche in Europa, da 
Vasconcelos, Caso, Saenz, Bassols, 
Gamio, a Torres-Bodet, ex-direttore 
generale dell’UNESCO a Parigi, mi¬ 
nistro dell’istruzione sia prima che 
dopo la parentesi parigina, campio¬ 
ne indefesso dell’educazione di 
massa. 

Data l’importanza del Messico, la 


18 









serietà con la quale dal 1911 in poi 
sono stati affrontati i problemi edu¬ 
cativi, la varietà di esperimenti riu¬ 
sciti e falliti, è da augurarsi che 
venga tradotto il libro pubblicato 
recentemente dalla Huntigton Li¬ 
brary (una delle tante case editrici 
non commerciali che facilitano negli 
Stati Uniti la pubblicazione di libri 
degni di essere stampati anche se 
il pubblico a cui si rivolgono è mol¬ 
to limitato) di cui è autore il pro¬ 
fessore americano R.E. Ruiz, sulla 
sfida che analfabetismo e povertà 
rappresentano per il Messico, fi ma¬ 
teriale raccolto è pieno di interesse, 
sopra tutto per chi non è al corren¬ 
te di cose messicane. 

L’A. esordisce riassumendo i dati 
del problema educativo quale si pre¬ 
sentava in particolare durante gli 
anni che precedettero e seguirono 
immediatamente la promulgazione 
della costituzione del 1917. Descrive 
successi ed insuccessi di riforme adot¬ 
tate durante i quindici anni dominati 
dalle figure di Obregòn e di Galles: 
due nomi ben conosciuti in Europa 
da quanti tre decenni fa cercavano 
di arginare la marea fascista; anni 
turbolenti che videro però raffermar¬ 
si della rivoluzione del 1911. Libe¬ 
ratosi nel 1935 Cardenas dalla tutela 
del suo patrono Galles, vi fu il breve 
periodo (un quinquennio circa) in 
cui la politica governativa dell'istru¬ 
zione fu in mano a coloro che l’A. 
presenta come esponenti della scuola 
socialista, ed il cui socialismo, agra¬ 
rio, populista, fatto più di emozione 
che di ragionamento, aveva (eccetto 
per l’uso della violenza c per l'inte¬ 
gralismo) dei punti di contatto con 
il castrismo di oggi; come il castri¬ 
smo, il programma negativo era più 
chiaro di quello positivo ( nel campo 
educativo erano avversari da distrug¬ 
gere, in particolare, il positivismo 
comtiano, il darwinismo sociale e il 
deweyismo, ai quali i populisti mes¬ 
sicani attribuivano una eccessiva 
preoccupazione per l’individuo che 
andava a detrimento della coesione 
sociale); come i populisti russi erano 
andati a cercare nel mir dell’epoca 
pre-czarista l’ideale di cui volevano 
l’applicazione, così i populisti messi¬ 
cani, ministri e consiglieri di Garde- 
nas, i quali consideravano reazio¬ 
nario Dewey, campione dell’istru¬ 
zione progressista negli Stati Uniti, 
volevano risuscitare il comunitari¬ 
smo che l’A. ritiene essere stato ca¬ 
ratteristico della vita degli indii 


messicani, e che è la formula di tutte 
le collettività in cui la rigida orga¬ 
nizzazione del gruppo impone il con¬ 
formismo integrale. 

Gon la scelta a successore di Gar- 
denas del generale Gamacho nel 
1940, ebbe inizio il processo di al¬ 
lontanamento dal populismo degli 
anni trenta, processo che si è venuto 
man mano accentuando durante l’ul¬ 
timo decennio, caratterizzato ( anche 
se l’A. appena vi accenna) da rapi¬ 
do sviluppo, dalla diffusione della 
istruzione, dal miglioramento di scu- 
le ed università, dalla creazione di 
istituti più adatti di quelli tradizio¬ 
nali a formare dirigenti aziendali e 
tecnici capaci di agire efficientemen¬ 
te nel campo economico; caratteriz¬ 
zato pure da squilibri più gravi di 
quelli verificatisi in Italia, fonte per¬ 
ciò di tensioni ed antagonismi. 


Strumentalizzazione 
della storia 

Gompletato il riassunto storico, 
l’A. tratta nei capitoli che seguo¬ 
no di aspetti particolari del proble¬ 
ma educativo messicano: la forma¬ 
zione degli insegnanti, e lo sfor¬ 
zo che solo parzialmente ebbe suc¬ 
cesso di creare una classe di inse¬ 
gnanti entusiasti, il cui entusiasmo 
avrebbe dovuto avere ( e non sembra 
che abbia avuto) un effetto rigene¬ 
ratore sulle masse; l’educazione dei 
contadini, la cui presenza nell’Ame¬ 
rica latina ed assenza nell’America di 
lingua inglese costituisce uno degli 
elementi di maggiore incomprensio¬ 
ne fra quella e questa; l’educazione 
degli indii non assimilati (in realtà 
una piccola minoranza che si sta n- 
ducendo gradualmente, che anche 
però occupa un largo posto nel¬ 
le preoccupazioni dell’intellighenzia 
progressista messicana ) ; il posto che 
lo spagnolo dovrebbe occupare nello 
sviluppo di una coscienza nazionale; 
e finalmente l’antagonismo fra cleri¬ 
calismo e laicismo, fra il dogmati¬ 
smo cattolico che ha una visione 
netta e precisa di quello che dovreb¬ 
be essere l’educazione (ed in par¬ 
ticolare di quello che dovrebbero es¬ 
sere le scuole pubbliche) ed una va¬ 
rietà di dottrine laiche che spesso 
distano fra di loro non meno di 
quello che ognuna dista dalla posi¬ 
zione cattolica. 

11 materiale del libro è interessan¬ 


te e vale certo la pena che venga 
conosciuto all’estero. In quanto allo 
schema storico del quale l’A. si ser¬ 
ve per collocare e interpretare gli av¬ 
venimenti, esso vale a seconda dei 
giudizi e dei pregiudizi dei lettori. 
L’A, non fa quello che storici appar¬ 
tenenti a scuole diverse dalla sua 
ritengono compito fondamentale del¬ 
la storia: ricostruire il passato rivi¬ 
vendolo, esaminandolo e giudicando¬ 
lo sopra tutto in base ai concetti, 
alle situazioni, ai valori di allora e 
non in base ai concetti, alle situazio¬ 
ni, ai valori d’oggi. Applicando alla 
situazione messicana le passioni ( e la 
terminologia ) dei progressisti ameri¬ 
cani d'oggi, l’A, parla di Galles come 
d’un conservatore, insiste — critican¬ 
dolo aspramente — su di un darwi¬ 
nismo sociale che appartiene più alla 
realtà anglosassone che a quella la¬ 
tino-americana ( ricalcando una nota 
pubblicazione del sociologo A. Gaso 
che non è però elencata nella biblio¬ 
grafia), attribuisce ad educatori e a 
presidenti della repubblica america¬ 
na finalità più comprensibili nel 1964 
che nel 1924 o 1944. Per l’A. la 
storia, cioè il passato, è interpre¬ 
tata in base ad emozioni e passioni 
di oggi, diventa strumento di con¬ 
vinzione ideologica, e perde il ca¬ 
rattere (sempre di difficile applica¬ 
zione) di disciplina in cui la ricer¬ 
ca del vero trascende appunto tali 
emozioni e passioni. 

Di tutto questo il lettore si accor¬ 
ge facilmente, e lo può scontare. L’A. 
appartiene alla schiera già numerosa 
di intellettuali americani fra i quali, 
con numerose gradazioni, ha fatto 
presa la protesta contro il sistema 
ideologico del quale furono espres¬ 
sione i principi) del 1776, Il quale 
anche si sta indebolendo nella mi¬ 
sura in cui si indeboliscono le isti¬ 
tuzioni che in quei principi) trovano 
la loro giustificazione; si tratta di 
intellettuali tendenzialmente sociali¬ 
sti i quali però non sanno ancora 
— i piu — se il loro socialismo è 
democratico (nel senso americano 
della parola) o autoritario (come 
non lo sapevano i populisti messica¬ 
ni dell’epoca di Cardenas, come non 
lo sanno molti dei castristi di oggi). 
Leggendo il libro, il lettore appro¬ 
fondirà la sua conoscenza del Mes¬ 
sico; arriverà anche ad una migliore 
comprensione della crisi che attra¬ 
versano settori importanti dell’in¬ 
tellighenzia americana. 

MAX 8ALVADORI 

It 





I PROCESSI AGLI EX NAZISTI 

Non perdonare nè dimenticare 

DI ANNA GAROFALO 


Meditate che questo è stalo 
Vi comando queste parole. 

Scolpitele nel vostro cuore 
Stando in casa andando per via, 
Coricandovi alzandovi 
Ripetetele ai vostri figli 

Primo Levi 

«Se questo è un uomo» (Einaudi 

1963) 

AGNI giorno, da molti mesi — ed 
è bene che ciò avvenga — i 
giornali danno ampi resoconti dei 
processi che si svolgono nella Ger¬ 
mania dj Bonn contro i criminali 
nazisti che finora l’avevano fatta 
franca, rifugiandosi in qualche pae¬ 
se compiacente o mimetizzandosi 
sotto falso nome e false spoglie in 
patria, con migliaia di vittime sul¬ 
la coscienza. 

Sono di scena in quelle aule uo¬ 
mini, donne e bambini ebrei depor¬ 
tati nei campi di sterminio e con¬ 
dannati a morire nelle camere a 
gas o di fame, di torture, di epi¬ 
demie, di sadici esperimenti « scien¬ 
tifici » o della cosiddetta « euta¬ 
nasia ». 

Gli interrogatori degli assassini 
e le testimonianze di qualche scam¬ 
pato per miracolo, venuto a depor¬ 
re come ultimo omaggio alla me¬ 
moria dei compagni che non pos¬ 
sono più parlare, rivelano sempre 
nuove efferatezze e ripropongono al 
giudizio degli uomini liberi — e 
anche di quelli che per fanatismo 
di parte si ostinano a negare o a 
minimizzare quelle pagine di igno¬ 
minia — la più grande carneficina 
di questo secolo, di fronte a cui 
ogni essere umano prova un senso 
di sdegno e di vergogna. 

Le aule del tribunale di Franco¬ 
forte dove si svolgono i processi 
sembrano anguste per contenere il 
senso di orrore che nasce da quelle 
dichiarazioni, da quei racconti, che 
forza le porte e le finestre come 
se volesse spalancarle per far usci¬ 
re i miasmi, l’acre respiro della be¬ 
stialità, la degradazione di uomini 
che erano insieme schiavi e tiranni. 


proni davanti all’autorità e feroci 
verso i loro simili. 

Il silenzio del pubblico di fronte 
alle domande e alle risposte cne si 
incrociano come spade è totale, un 
silenzio che è come sospensione del¬ 
la vita e paura di quella morte evo¬ 
cata ad ogni istante, nelle sue forme 
più inique. Non la morte che tutti 
ci aspetta, la morte che è scritta 
nell’atto di nascita, ma la morte 
proditoria, la morte - agguato, la 
morte piena di « perchè ». Molti 
interrogativi nascono dalla lettura 
di quei processi, da quelle risteste 
o deposizioni di imputati e di te¬ 
stimoni, ma uno è perentorio: « ci 
sono giovani, nell’aula? Chi sono? 
che cosa pensano della generazione 
che si macchiò di quei delitti, dei 
loro padri che, anche se non diret¬ 
tamente colpevoli, permisero quel¬ 
le stragi, lasciarono coprire di ver¬ 
gogna il volto di un’intera nazione? 

Che cosa pensano i giovani delia 
risposta che sempre ricorre in boc¬ 
ca alle belve: « obbedivamo agli 
ordini ricevuti »? Come giudicano 
questa mostruosa, iniqua obbe¬ 
dienza? 

Forse, ora che la strage è com¬ 
piuta, il chiedersi che cosa essa ha 
insegnato non agli adulti scettici, 
non agli anziani ubbriacati dal boom 
economico, ma ai loro figli e nipoti 
incolpevoli è tutto quanto ci resta 
per cercar di capire un popolo 
per molti aspetti indecifrabile e il 
cui spirito di rivalsa, il cui nazio¬ 
nalismo e militarismo rinascono 
ogni volta dalle ceneri della di¬ 
sfatta. 

Somigliano ai padri, questi gio¬ 
vani tedeschi o sono veramente di¬ 
versi, consapevoli di portare una 
eredità pesante, decisi a far dimen¬ 
ticare, per quel che possono, le 
colpe del nazismo, il martirio di 
sei milioni di ebrei, i bambini get¬ 
tati vivi nelle fiamme, le donne rese 
sterili e folli, gli uomini ridotti a 
sognare la camera a gas? 

Lo sanno o fingono di non sa¬ 
perlo, come l’autista tedesco che 


nel *49 ci accompagnò al campo di 
sterminio di Dachau e con noi vi¬ 
sitò le testùnonianze degli orrori 
e dei massacri, lesse le scritte in 
tutte le lingue, entrò nella stanza 
dei forni e delle torture, dove il 
sangue misto a capelli strappati 
ancora macchiava i muri? Guar¬ 
davamo il suo viso e il suo sbi¬ 
gottimento ci sembrava sincero, 
ma poi la ragione ci imponeva di 
non credergli, troppo recenti ^ e 
clamorose quelle sventure e lui 
in età di sapere, di capire, di ini- 
dovinare. 

Ebbene, è meglio dirlo chiaro: 
noi non possiamo dimenticare e 
ncfipure perdonare. Se non l’odio, 
il rancore è un lievito che tiene 
in piedi, che tiene svegli. Addor¬ 
mentarci non ci è consentito. 

Noi leggiamo quelle testimo¬ 
nianze, quelle risposte, con la fron¬ 
te che brucia, con la pelle che si 
raggrinza, con il dolore di non 
aver fatto abbastanza per impedire 

10 scempio. E ci sembra che la 
sola cosa che noi possiamo fare 
stia in questo sdegno, in questa 
vergogna, che coglie anche noi per 

11 fatto di essere uomini, per quel 
tanto di silenzio che ognuno di noi 
ha conservato, di fronte ad altri 
silenzi più colpevoli e più grandi. 
Noi non concepiamo — l’ha detto 
così bene Ernesto Rossi — « que¬ 
sto amore uguale per tutti gli uo¬ 
mini (tanto per i carnefici che per 
le loro vittime) e per tutti i po¬ 
poli tanto per quelli aggressori che 
per quelli aggrediti) ». Gli « em- 
brassons nous » a tutti i costi non 
sono per noi. Accettiamo di tene¬ 
re accesa in petto questa discordia 
come una forma di espiazione, an¬ 
ziché adagiarci in un comodo oblio, 
noi gli scampati, noi i vivi della 
guerra perduta, di fronte a quei 
sei milioni di ombre. 

Certo, vogliamo la pace, voglia¬ 
mo la coesistenza fra i popoli, qua¬ 
lunque sia U loro regime politico 
e vogliamo che ogni controversia 
sia risolta attraverso mediazioni in¬ 
ternazionali e non attraverso la 
guerra. 

Ma volere la pace non significa 
rinunziare a pensare e tanto meno 
a giudicare, significa fare in modo 
che quanto è successo non avvenga 
più. Se dimenticassimo e perdo¬ 
nassimo, quei morti sarebbero mor¬ 
ti due volte. 

ANNA GAROFALO 


20 







PIO XII, PAOLO VI E GLI EBREI 


Quattro dita di giunta 

DI ERNESTO ROSSI 


La pubblicazione del primo articolo di Erne¬ 
sto Rossi su Pio XII e gli ebrei ha provocato la 
reazione di molti lettori, che ci hanno espresso 
il loro consenso e anche il loro dissenso. Ci sem¬ 
bra perciò necessario ricordare che gli scrittori 
dell’Astrolabio, uniti da alcuni grandi principi 
etici e politici comuni, non intendono jare di que¬ 
sto foglio l'organo di particolari dottrine e di 
particolare propaganda, ma solo una sede di 
discussioni ed un’invito alla riflessione critica. 
Già in altre occasioni, questo criterio ci ha spinto 
a preferire di dare ai lettori una gamma di opi¬ 
nioni divergenti. E anche su un terreno delicato, 
come quello che comporta giudizi su uomini e 
fatti della religione, L’Astrolabio tiene a presen¬ 
tarsi con una posizione aperta, in cui possano tro¬ 
var posto tanto i cattolici laici che gli agnostici 
anticlericali. Di questa posizione aperta forni¬ 
scono una prova i due articoli di Ernesto Rossi, 
a illustrazione di una vicenda storica che ha ac¬ 
ceso l’interesse vivissimo dell’opinione pubbli¬ 
ca internazionale. 

PON TUTTO il putiferio che le gerarchie ecclesia¬ 
stiche hanno saputo scatenare contro la rappresen¬ 
tazione di II vicario, mi sembra che abbiano dato 
prova di non aver meditato abbastanza sul saggio 
pensierino che il Ferrari mette in bocca al marchese 
Colombi: 

<f II modo più bello, secondo il mio parere, 

di serbare il silenzio, è quello di tacere ». 

Invece di tacere hanno lanciato anatemi; hanno 
riempito i giornali di articoli, lettere, testimonianze; 
hanno organizzato cortei di protesta clerico-fascisti; 
hanno fatto scomodare le forze dell’ordine imprendo 
l’ingresso nei teatri... Resultato: dal dramma di Hoch- 
huth si sta ricavando un film che probabilmente avrà 
un successo anche più clamoroso del lavoro teatrale, 
e, in tutti i paesi civili, « la venerata memoria di 
Pio XII » è oggi chiamata a rispondere di quella che è 
stata la politica della Santa Sede, durante la guerra, 
nei confronti dello sterminio degli ebrei. 

Dopo aver detto che Hochhuth ha scelto il tema 
deh suo dramma « col solo scopo di procurarsi una 
clamorosa pubblicità », L'Osservatore della Domenica, 
del 12 febbraio, ha riconosciuto che « le cose gli sono 
andate ancora meglio del previsto, grazie alle pole¬ 
miche accese dal suo lavoro, peraltro mediocre, privo 
di problematica, senza slancio artistico, degno di finire 
nel dimenticatoio come tendenzioso libello ». 


Un bel modo, in verità, di farlo finire nel dimen¬ 
ticatoio! Gli amministratori di alcune delle maggiori 
ca.se cinematografiche americane hanno già incaricato i 
loro marketing offices di approfondire l’indagine su 
questo episodio, per vedere se non convenga dare un 
indirizzo completamente nuovo alle campagne pubbli¬ 
citarie; a saperli « toccare nel loro debole », i mon¬ 
signori del Vaticano possono divenire strumenti di 
propaganda efficaci come le meglio tornite gambe e 
le più prosperose poppe delle belle figliole, e più delle 
indiscrezioni giornalistiche sugli accoppiamenti, i litigi, 
le fughe, i divorzi, i processi scandalosi delle « dive » 
e dei « divi ». 

Gli (( sforzi » del papa 

L’Osservatore Romano del 1“ marzo ha riportato 
altre due colonne di testimonianze in difesa di Pio XII. 
Riprendo, perciò, a vuotare il sacco là dove l’ho la¬ 
sciato nell’ultimo numero. 

Alcune dichiarazioni pubblicate sul giornale della 
Santa Sede riguardano la carità, la generosità, il cuore 
paterno del papa; non hanno alcuna importanza per 
stabilire la verità della tesi principale sostenuta dal 
Vaticano, e cioè che Pio XII fece tutto queUo che 
poteva e che doveva fare come « Pastor Angelicus » 
contro le persecuzioni e lo sterminio degli ebrei. Alla 
fine della guerra non c’era, credo, in Italia un gerarca 
fascista che non si fosse tempestivamente precostituito, 
come polizza di contrassicurazione, la prova di avere 
salvato qualche ebreo. 

La testimonianza che sembra, invece, avere una 
maggiore importanza è quella che l’Osservatore ha 
ripreso dalle « Lettere all’editore » di un mensile cat¬ 
tolico, la Herder Correspondence, a firma Robert M. 
W. Kenpner, ex deputato americano. Questo signore, 
già « capo del consiglio por i crimini di guerra di 
Norimberga » ( 1 ), ha scritto che « il Papa stesso 
aveva dovuto constatare gli scoraggianti risultati dei 
suoi sforzi nell’intervenire a favore di molti ebrei ». 

« A dispetto di questi sforzi 3.000 sacerdoti catto¬ 
lici, in Germania, Austria, Polonia, Francia e altri 
Paesi, furono messi a morte dai nazisti, come è dimo¬ 
strato nello studio Cronache di sacerdoti martiri, di 
B.M. Kampener, che sarà pubblicato prossimamente ». 

L’ex deputato non ci spiega come mai la Santa 
Sede — tanto sollecita sempre a fulminare scomu¬ 
niche e a mettere il mondo a rumore contro i libe¬ 
rali, i socialisti e i comunisti che ardiscono toccare i 
suoi anacronistici privilegi, o torcere un capjello ad un 

(1) Così il dr. Kempner viene qualificato dal- 
VOsservatore; ma dagli atti dei processi di Norim¬ 
berga risulta che in quei processi egli fu vice-pro¬ 
curatore per gli Stati Uniti contro i criminali di 
guerra. 


21 










lacerdote cattolico (2), non abbia mai protestato pub- 
olicamente contro i governanti nazisti responsabili del¬ 
l’eccidio di 3.000 sacerdoti. 

« Dopo la disfatta del Terzo Ketch — ha scritto 
Habosch, nel saggio citato nel mio ultimo articolo — 
la Chiesa si è ricordata dei preti imprigionati dai 
tedeschi e dei resistenti cattolici tedeschi già da essa 
vituperati e respinti come traditori della patria, e le 
professioni di fede nazista dei cattolici sono state pre¬ 
sentate come espedienti che avevano consentito di 
lottare in modo più efficace contro la dittatura hitle¬ 
riana » ( 3 ). 


Le Fosse Ardealine 

La tesi — sostenuta anche dal dr. Kempner — 
che Pio XII non protestò mai pubblicamente contro 
gli sterminatori degli ebrei perché i fascisti e i nazisti 
gli impedivano di parlare è smentita dai fatti. 

« Mai il Reich hitleriano — afierma Habosch — 
ha cercato di attentare alla libertà del Vaticano; lo 
ha considerato sempre come un socio di cui si doveva 
diffidare, ma col quale conveniva conservare buoni 
rapporti ». 

La verità di questa affermazione è provata anche 
dal telegramma, n. 184, del 24 gennaio 1943, con 
le istruzioni di Ribbentrop al suo ambasciatore presso 
la Santa Sede, von Weiszaecker, di cui il dr, Kemp¬ 
ner riporta il seguente brano; 

« Jl Vaticano progetterebbe di fare una dichiara¬ 
zione politica o propagandistica contro la Germania, 
fatta in materia che resulterebbe chiaro e senza equi¬ 
voco, che qualsiasi peggioramento nelle relazioni rica¬ 
drebbe in pratica a svantaggio esclusivo della Ger¬ 
mania. Sia chiaro che il governo del Reich non difet¬ 
terebbe di materiali di propaganda per prendere ade¬ 
guate misure atte a controbilanciare ogni azione inten¬ 
tata dal Vaticano contro la Germania ». 

Il dr. Kempner ci ammannisce questo telegramma 
per dimostrare quali gravi pressioni il governo nazista 
esercitava sul Vaticano per « farlo tacere »; ma il 
fatto che un sostituto del procuratore generale al pro¬ 
cesso di Norimberga non sia riuscito a trovare negli 
incartamenti di Ribbentrop dei documenti più pro¬ 
banti di questo moderatissimo ammonimento prova il 
contrario: convalida il giudizio di Habosch. 

Habosch ricorda anche (a pag. 1289) che {'Osser¬ 
vatore Romano, nell’ottobre del 1943, si felicitò con 
l’armata tedesca per il suo corretto comportamento 
nei confronti della Città del Vaticano: 

« Esso ha espresso — scrisse allora l’ambasciatore 
Weiszacker — la sua ricqnoscenza alle nostre truppe 
per aver rispettato la curia e il Vaticano. Da parte 
nostra abbiamo promesso che anche in avvenire il 
nostro comportamento rimarrà lo stesso ». 

Habosch commenta; * Grazie a questa promessa, 
che sigillava un'alleanza, le deportazioni, il terrore e 
gli assassina degli ostaggi potevano continuare senza 
sollevare alcuna protesta papale. Per contro il Santo 
Padre indirizzò a Roosevelt una lettera personale per 
protestare contro il bombardamento di Roma. Pro¬ 
testò anche contro un attentato organizzato dalla resi¬ 
stenza italiana che fece 33 vittime, ma conservò il 


silenzio quando i tedeschi fucilarono, per rappresaglia, 
335 ostaggi » ( 4 ). 

Il dr. Kempner scrive anche: 

^ ■« Ogni movimento propagandistico della Chiesa 
contro il Reich di Hitler sarebbe stato non soltanto 
” una provocazione suicida ", come Rosemberg ha di¬ 
chiarato, ma avrebbe provocato lo sterminio di molti 
più ebrei e sacerdoti ». 

Né Kempner, né {'Osservatore ci dicono dove e 
quando Rosemberg fece quella dichiarazione; ma l’Or- 
servatore aggiunge: 

(2) Analogamente la Santa Sede parve non ac¬ 
corgersi delle stragi dei sacerdoti baschi, perpetrate 
dai musulmani marocchini e dai mercenari di Franco 
durante la guerra civile di Spagna, 

Per quanto riguarda le scomuniche contro i li¬ 
berali, le piu belle sono ancora quelle « fulminate » 
da Pio IX durante il nostro Risorgimento. Vedi la 
recentissima antologia, curata da Alfonso Leonetti 
e da Ottavio Pastore sotto il titolo; Chiesa e Risor¬ 
gimento (Ed. Avanti.' Milano, ottobre 1963). Ecco, 
ad esempio, la scomunica contro tutti i patrioti 
italiani, che si legge nella allocuzione di Pio IX 
al Concistoro segreto del 20 giugno 1859: 

« Dippiù ricordiamo a tutti la scomunica mag¬ 
giore e le altre pene e censure ecclesiastiche, ful¬ 
minate dai Sacri Canoni, dalle Costituzioni Apo¬ 
stoliche, e dai decreti dei Concilii generali, special¬ 
mente del Tridentino, da incorrersi senza bisogno di 
altra dichiarazione da coloro che in qualsivoglia 
modo ardiscono di scuotere il potere temporale del 
romano Pontefice, e quindi dichiariamo esservi di 
già miseramente incorsi tutti coloro i quali a Bolo¬ 
gna, a Ravenna, a Perugia, e altrove osarono col- 
Topera, col consiglio, coll’assenso e per qualsiasi 
altro modo, di violare, perturbare ed usurpare le 
civili potestà e giurisdizioni nostre e di questa Santa 
Sede, e il patrimonio di San Pietro >. 

(3) Heint Habosch — < L'église catholique et le 
nazisme », in Les temps modernes, gennaio 1964. 
Il brano riportato nel testo (da pag. 1299) così con¬ 
tinua; «E’ soltanto cosi che si è resa possibile, dopo 
la guerra, la straordinaria carriera di un Globke. 
Di fatto egli era un cattolico fra innumerevoli altri 
che faceva al suo posto (al ministero degli In¬ 
terni) quello che gli altri facevano al loro posto, 
seguendo, alla lettera, le direttive dell'episcopato. 
La Chiesa ha presentato Globke come un « resisten¬ 
te >, grazie al medesimo sotterfugio che le ha per¬ 
messo di presentare il suo stesso atteggiamento come 
un atteggiamento di « resistenza ». 

Hans Globke venne a Roma l’anno scorso ad 
accompagnai'e Adenauer nella sua visita di congedo 
in Vaticano. Già ministro degli Interni (cioè della 
polizia) fin dal 1930, il dr. Globke è stato direttore 
generale della cancelleria Federale nella repubblica 
tedesca, dal 1949 al 1953, e poi segretario di Stato. 

(4) Se il papa non parlò della strage delle fosse 
Ardeatine, in cui un terzo delle vittime furono ebrei, 
l'Osservatore Romano ne fece un breve cenno sul 
numero del 24 marzo 1944, riportando il comunicato 
ufficiale dell’Agenzia Stefani, che terminava: < Il 
comando tedesco ha ordinato che, per ogni tedesco 
ammazzato, dieci criminali comunisti badogliani sa¬ 
ranno fucilati. Quest'ordine è già stato eseguito ». 
Nel suo commento il giornale della Santa Sede fece 
« un appello alla serenità e alla calma > in cui in¬ 
vocava prima « dagli irresponsabili (cioè dai ” re¬ 
sistenti”) il rispetto per la vita umana, che non 
hanno il diritto di sacrificare mai, il rispetto per 
l’innocenza, che ne resta fatalmente vittima », e poi 
c dai responsabili (cioè dai comandi tedeschi) la 
coscienza di questa loro responsabilità verso se stes¬ 
si, verso le vite che vogliono salvaguardare, verso 
la storia e la civiltà ». 


22 












• Da fonte attendibile, dunque, perché a diretta 
conoscenza di documenti dell'istruttoria del processo 
di Norimberga, si conferma ancora una volta che 
pubblico intervento di condanna di Papa Pio Xii 
avrebbe conseguito il resultato di sempre maggiori 
dolori e strazi degli ebrei e cattolici perseguitati. Pre¬ 
feribile continuare instancabilmente, anche se nel silen¬ 
zio, l'opera di assistenza e di protezione svolta con 
invitto fervore da Papa Pio XII, attraverso i canali 
diplomatici e valendosi della rete gerarchica, per ten¬ 
tare di prevenire e limitare le orrende iniziative e 
confortare e proteggere le vittime ». 

E’ questa la tesi centrale, portata dai clericali a 
giustificazione del silenzio di Pio XII: il Papa non 
parlò per evitare il peggio. Anche i tre frati di 
Mazzarino si sono difesi affermando che volevano 
evitare il peggio. Ma se questa tesi fu accettata 
per buona dai giudici di prima istanza (che il 
22 giugno 1962 assolsero i tre frati con formula 
piena), è stata poi respinta dai giudici di seconda 
istanza, che il 5 luglio 1963 li hanno condannati a 
13 anni di galera pier associazione a delinquere, estor¬ 
sione continuata e aggravata. Io sono tato corde coi 
giudici di seconda istanza. 

I documenti, che ho già riportato sull’ultimo nu¬ 
mero dtWAstrolabio, per provare quali rapporti di 
amorosi sensi intercorrevano fra il Papa e il Fiihrer 
immediatamente dopo la elevazione del cardinale Pa¬ 
celli al soglio pontifìcio (marzo 1939) e per mettere 
in luce il significato del suo « non intervento » 
dopo la emanazione delle prime leggi antisemite del 
governo di Vichy (ottobre 1941) e del suo silenzio 
dopo la grande razzia degli ebrei, sono, a me sembra, 
sufficienti per darci un’idea dell’opera svolta da Pio 
XII « attraverso i canali diplomatici ». 

D’altra parte il telegramma del 17 ottobre 1943, 
inviato dall’ambasciatore tedesco presso la Santa ^de 
sulla razzia a Roma ( pubblicato pure nel mio articolo 
precedente) ed il telegramma del 24 gennaio 1943, 
di Ribbentrop, di cui ho dato sopra il testo, dim(> 
strano quale preoccupazione i nazisti avevano che il 
Papa prendesse pubblicamente posizione contro di 
loro. 

« l fatti dimostrano — osserva Habosch (pagina 
1921) — che in Francia, e negli altri paesi occupati 
dai tedeschi, sono state le azioni di resistenza quelle 
che hanno salvato la vita ai perseguitati; non la 
plicità diretta o indiretta dei collaboratori della Chiesa 
o di altri collaboratori. La sola volta che la Chiesa 
tedesca si oppose in maniera risoluta agli assassini! 
di Stato ottenne pieno successo. L'eutanasia, prati¬ 
cata a cominciare dal 1940, cessò nell'agosto del 1941, 
Hitler • avendo proibito a Rosemberg, in seguito a 
un colloquio con Mussolini, qualsiasi atto di provo¬ 
cazione in confronto del Vaticano ». 

Habosch ricorda anche un altro caso di intervento 
positivo del Vaticano: il 24 giugno 1944, Pio XII 
indirizzò al reggente Horty un messaggio per prote¬ 
stare contro le deportazioni degli ebrei ungheresi: 
le deportazioni degli ebrei convertiti cessarono. 

• Se si ricorda — scrive Habosch (pag. 1298) — 
con quali precauzioni, con quali cure meticolose e 
sotto quali mascherature la dittatura volle conservare 
segreti gli stermina, non si può non attribuire gran 


parte della responsabilità a questa congiura del silen¬ 
zio organizzata dallo Stato nazista. E' soltanto nella 
misura in cui il silenzio venne rotto, nella misura in 
cui si manifestò una resistenza, che la macchina dello 
sterminio si inceppò e non riuscì a raggiungere tutti 
i suoi obiettivi ». 

Un articolo di « Esprit » 

Anche quei cattolici che non vogliono rilevare 

— come a me pare giusto rilevare — la responsabilità 
diretta, positiva assunta da Pio XII con le sue mani¬ 
festazioni di consenso alla politica della « grande Ger¬ 
mania », anche quei cattolici che attribuiscono al papa 
soltanto la colpa del silenzio, se sono sinceri, non 
possono evitare il problema: debbono anche loro ri¬ 
conoscere « lo scandalo che deriva dal fatto — come 
ha scritto, sulla rivista Esprit, Jean Marie Domenach 

— che un uomo della parola abbia taciuto» (5). 

« E' questo il problema — afferma l’autorevole 

scrittore della sinistra cattolica francese. — Il resto, 
tutto il resto, è politica. Il guaio è che il resto ha 
contato di piti. Non facciamo gli ipocriti, chè cono¬ 
sciamo troppo bene il perchè ». 

Alla domanda: « poteva il Papa tacere? », Do¬ 
menach risponde: 

• No certamente. In momenti eccezionali è com¬ 
pito suo far udire, ad ogni costo, una parola chiara. 
Sarebbe ancora il ” successore di Pietro " se non sa¬ 
pesse proclamare la fede malgrado le minacce dei per¬ 
secutori? Sarebbe ancora " il vicario di Cristo " se 
non rendesse pubblicamente, quando ce ne sia biso¬ 
gno, ciò che la Chiesa deve a Dio, senza preoccuparsi 
di Cesare? Lo sterminio degli ebrei era uno di questi 
momenti. E certo si citano altri scandali: Hiroshima, 
la dittatura franchista, il colonialismo sud-africano e 
portoghese... Chi non si rende conto, tuttavia, di 
quanto più ci impegnasse nel profondo il genocidio 
hitleriano, in un mistero di iniquità in cui il dramma 
di Hochhuth ci ricaccia, come poco fa il libro di 
Schwartz-Bart? Ma la mancanza di Pio XII — una 
volta tolti di mezzo tutti gli elementi individuali: la 
germanofilia, un certo egocentrismo — non si com¬ 
prende che come il prolungarsi di una deficienza an¬ 
teriore, ben più ampia. La verità è che gli ebrei co¬ 
minciarono ad essere perseguitati, in ambiente cri¬ 
stiano e col consenso della maggioranza dei cattolici, 
ben prima di Hitler, e che lo furono anche dopo di 
lui, poiché si uccidevano ancora ebrei in Polonia nel 
1946 e nel 1947. La verità è che la Chiesa, da secoli, 
si è trovata più sovente dalla parte dei persecutori 
che da quella dei perseguitati, si chiamassero essi ere¬ 
tici, ebrei, negri o proletari ». 

Non bisogna dimenticare — aggiunge Domenach 
— che « la Chiesa che aveva formato ed eletto a suo 
capo Pio XII non era affatto preparata ad affrontare 
quella testimonianza di profeta che l’esperienza fa¬ 
scista ed hitleriana volevano da lei ». 

« Era una Chiesa ancora irretita nel gioco del po¬ 
tere, gravata da una massa contadina reazionaria, di¬ 
retta da Vescovi, di cui molti erano dei diplomatici 
e dei signori e ben pochi uomini del Vangelo... Era 

(5) Esprit, febbraio 1964. 


ts 









la Chiesa che cantava il Te Deum per celebrare la 
disfatta delle insurrezioni operaie, che odiava il ca¬ 
pitano Dreyfus, che impartiva la benedizione a Mus¬ 
solini, Franco e Pavelitch ( 6 ). 

L’amico dei nazisti 

Habosch scrive che, dai suoi compatrioti, Pio XII 
— per la sua infatuazione per la Germania e per i 
suoi abitanti — era chiamato, in italiano, « il papa 
tedesco »: « ai suoi occhi la Germania rappresentava 
il pilastro centrale del cattolicesimo» (pag. 1291). 

L’atteggiamento di più che benevola comprensione 
di Pio XII nei confronti dei criminali nazisti fu una 
conseguenza di quella simpatia e del suo odio verso 
il comuniSmo « opera del Maligno ». 

Ho già detto, nel precedente articolo, che il Con¬ 
cordato del luglio 1933 — col quale il nazismo, ap¬ 
pena instaurato al potere, venne canonizzato dalla 
Santa Sede — fu opera del nunzio a Berlino, cardi¬ 
nale Pacelli, e di von Papen, leader del centro catto¬ 
lico nel parlamento tedesco. 

Il 14 luglio 1933, in una riunione del suo gabi¬ 
netto, il Fùhrer dichiarò: 

« Questo Concordato, il cui contenuto non mi 
interessa affatto, crea una atmosfera di fiducia che 
ci è molto propizia nella nostra lotta sistematica con¬ 
tro il giudaismo internazionale ». 

Habosch, che riporta queste parole (a pag. 1292), 
ricorda anche che il segretario di Stato, cardinale Pa¬ 
celli, nell’aprile del 1937, aveva scritto all’ambascia¬ 
tore tedesco presso la Santa Sede che non miscono¬ 
sceva « la grande importanza della formazione di 
fronti di difesa politica interni, sani e vitali, contro 
il pericolo del bolscevismo ateo ». Il Vaticano con- 
duceva questa lotta con altri mezzi, ma « approvava 
egualmente l’impiego di mezzi di potenza esterna, 
contro il pericolo bolscevico» (pag. 1301). 

Fra i « mezzi di potenza esterna » ovviamente 
c’era anche quello della persecuzione del « popolo 
deicida », che il Vaticano considerava il più perico¬ 
loso diffusore della « pestilenza del bolscevismo ». 

Il giorno stesso della elezione di Pio XII, 2 marzo 
1939, Ciano annotò nel suo Diario, che — secondo 
quanto gli aveva riferito Pignatti, ambasciatore presso 
la Santa Sede — « il Pacelli era il cardinale favorito 
dai tedeschi ». 

Tre giorni dopo, il 5 marzo, l’ambasciatore tede¬ 
sco presso la Santa Sede, Bergen, inviò al suo go¬ 
verno un telegramma (n. 261), per riferire i risultati 
dell’udienza che gli aveva subito concesso il nuovo 
papa: 

* Nel corso della udienza, il papa, dopo che gli 
ebbi rinnovato le mie felicitazioni, mi ha sottolineato 
che ero il primo ambasciatore che riceveva: ci teneva 
molto a incaricarmi personalmente di esprimere al 
Fùhrer e Cancelliere del Reich la sua profonda gra¬ 
titudine; aggiungeva i suoi voti più sinceri per la 
felicità del popolo tedesco che aveva imparato a sti¬ 
mare e ad amare ogni giorno di più nel corso della 
sua lunga esperienza, durante la sua attività a Mo¬ 
naco e a Berlino. Il papa mi ha espresso poi il suo 
" voto fervente in favore della pace fra lo Stato e la 


Chiesa l’aveva già ripetuto spesso, quando era se¬ 
gretario di Stato, ma ci teneva oggi a confermarlo 
espressamente nella sua qualità di papa. 

« Per caratterizzare la sua posizione nei confronti 
delle diverse forme di governo, nel corso del collo¬ 
quio, mi ha ricordato il discorso che l'anno scorso 
fece, in lingua tedesca, al Congresso Eucaristico di 
Budapest, in cui, nel punto principale, disse: " La 
Chiesa non ha la missione di intervenire negli affari 
e nelle contingenze puramente terrene per scegliere 
tra i diversi sistemi e metodi che possono essere chia¬ 
mati a risolvere i problemi necessari del pre¬ 
sente ”» (7). 

Quattro giorni dopo la elezione. Pio XII scrisse 
a Hitler la lettera affettuosa, di cui ho riportato il 
brano più significativo nel mio precedente articolo. 

Il 13 marzo von Bergen commentò quella lettera 
col telegramma n. 31, in cui osservava: 

« Il tono generale della lettera del papa Pio XII 
al Fùhrer e Cancelliere del Reich per annunciargli la 
sua elezione, e inviata oggi per mezzo del segretario 
di legazione Picot senza altre formalità, per mancanza 
di tempo, è infinitamente più cordiale della lettera 
che indirizzò papa Pio XI al presidente del Reich 
allora in carica. Si deve specialmente rilevare il de¬ 
siderio di un’intesa che, in questa occasione, il papa 
esprime nuovamente. Il testo tedesco della lettera 
rivela la mano del papa, che, secondo informazioni 
degne di fede, si è espressamente riservato di trat¬ 
tare, lui stesso, le questioni tedesche ». 

Delitti non espiati 

Nel libro II manganello e l’aspersorio ho già fatto 
una abbondante raccolta di prove della continua col¬ 
laborazione che — nonostante tutte le pubbliche di- 


(6) L’articolo continua asserendo che tutta la Chiesa 
cattolica, tutta la cristianità sono chiamate in causa: 

< In grande maggioranza avevano scelto il potere, 
il realismo, il denaro. Secoli di compromesso con 
l’ordine stabilito impedivano che al momento deci¬ 
sivo .il grido salutare venisse fuori. Con un atteggia¬ 
mento naturale il capo della Chiesa si comiiortò 
come un capo di nazione, quasi che gli interessi 
cattolici potessero essere scissi dalla libertà concul¬ 
cata, dall’Europa oppressa, dall’annientamento degli 
Ebrei. Con un atteggiamento naturale, i più dei 
Vescovi si comportarono da prefetti, anche se, non 
avendo la responsabilità del Papa, essi sarebbero 
stati più liberi di intervenire ». 

Quale cattolico di sinistra italiano sarebbe oggi 
capace di scrivere su una rivista sgradevoli verità 
di questo genere? 

(7) Les archives secrétes de la Wilhelmstrasse — 
IV Les suites de Munich (Octobre 1938 - Mars 1939) 
— Librerie Plon 1953, pagg. 546. Nella stessa pagina 
di questo volume si legge il telegramma n. 28, da¬ 
tato 8 marzo 1939, in cui l’ambasciatore Bergen 
informa il suo ministro che l’atteggiamento della 
stampa tedesca verso il nuovo papa < è accolto con 
soddisfazione negli ambienti non solo del Vaticano, 
ma dell’Italia», ed aggiunge: c Dopo la morte del 
papa, la visibile distenzione che si è prodotta fa 
nascere la ferma speranza che le differenze fra la 
Germania e il Vaticano potranno essere fra breve 
eliminate ». 

Il successivo telegramma, n. 31, che ho riportato 
nel testo, è a pag. 547. 


24 













chiarazloni di neutralità e d’imparzialità — Pio XII 
diede a Hitler, a Mussolini e a Franco, fino al mo¬ 
mento in cui lo sbarco degli anglo-americani in ^rica 
e il successo della controffensiva russa non fwero 
capire anche a lui che la partita dei nazi-fascisti era 
ormai completamente perduta; da quel momento 
Pio XII iniziò quella abilissima operazione di rove¬ 
sciamento di fronte, che — con l’aiuto dei governanti 
americani — doveva riuscirgli cosi bene, c portarlo, 
dopo la resa incondizionata della Germania, a espri¬ 
mere, il 2 giugno 1945, in una allocuzione al Sacro 
Collegio, la sua fiducia che il pwpolo tedesco si sarebbe 
risollevato a nuova vita dopo aver respinto « lo 
tro satanico esibito dal nazionalsocialismo » e dopo 
che i colpevoli avessero « espiato i delitti da loro 

commessi ». i l i 

Ma in testa alla lista dei « colpevoli » anche il 
papa avrebbe dovuto segnare il nome del suo caris¬ 
simo amico, Franz von Papen, che aveva favorito in 
tutti i modi l’ascesa del Fiihrer e il suo consolida¬ 
mento al potere; che il 30 gennaio del 1933 era dive¬ 
nuto vice cancelliere al fianco di Hitler; che aveva 
preparato e firmato il Concordato della Santa Sede 
con la Germania nazista; che — nella sua qualità di 
ambasciatore a Vienna dal 1934 al 1938 si era 
validamente adoperato a rafforzare il ^ partito nazista 
in Austria favorendo in tutti i modi 1 Anschluss; che 

— quale ambasciatore ad Ankara dal 1939 al 1944 

— aveva diretto tutte le operazioni di spionaggio e 
di sabotaggio contro gli anglo-americani nel Medio- 
Oriente (8). 

Nel febbraio del 1947 von Papen venrie chiamato 
a rispondere dei suoi crimini davanti al tribunale mi¬ 
litare interalleato di Norimberga. 

In un libro, pubblicato nel 1959 con l’imprimatur 
delle autorità ecclesiastiche e con una presentazione 
dell’arcivescovo di Torino, Leone Algisi ha scritto 
di « aver sentito dire » che una documentazione, in 
difesa di von Papen, che dimostrava quello che egli 
aveva fatto, verso la fine della guerra, per far sentire 
« una delle ultime voci libere in favore del suo p^ 
jX)lo », era pervenuta dalla Santa Sede al tribunale 
di Norimberga e « aveva avuto peso al processo » ( 9 ). 

Come era facilmente prevedibile, a Norimberga 
von Papen fu assolto. (Fra i giudici americani pre¬ 
valevano i « benpensanti » tipo Kempner). Nuova¬ 
mente processato e condannato a otto anni di lavori 
forzati da un tribunale tedesco di denazificazione, ai 
primi del 1949 la sua pena venne condonata: l’ex 
vice-cancelliere del III Reich aveva in Vaticario un 
amico troppo potente ed a lui legato da troppi ricordi 
di fecondo lavoro, svolto ai bei tempi del Fiihrer, 
perchè potesse espiare sul serio i suoi delitti, come 
gli altri criminali nazisti. 

ERNESTO ROSSI 


(8) Cfr. la voce a lui dedicata nel Dictionnaire dt- 
plomatique, della Académie diplomatique Interna¬ 
tional (Paris 1933). Da questa voce risulta anche 
che von Papen, mentre era attaché militare della 
Germania a Washington, il 4 dicembre 1915 (quando 
ancora gli Stati Uniti non erano entrati in guerra) 
venne espulso dal governo americano come respon¬ 
sabile di operazioni dirette a impedire i rifornimeriti 
agli alleati e l’entrata in guerra degli Stati Uniti 
al loro fianco. 

t9) Giovanni XXIII (ed. Marietti, 1959, pag. 160). 


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25 






























IL CONGRESSO DELL' U6I 


La sinistra nell’Università 

E’ doveroso riconoscere esclusivamente ai giovani socialisti delle due 
sponde il inerito del compromesso finale. Soprattutto su di essi, piut¬ 
tosto che sulle pur notevoli capacità tattiche dei giovani comunisti, 
pesa l’incognita rappresentata daH’aggiiato delle prossime scadenze; 
quasi una scommessa tra la forza dirompente delle scissioni socia¬ 
liste, lontane e recenti, e la capacità di maturare dialetticamente insie¬ 
me l’unità e l’alternativa della nuova sinistra. 


TL COMPROMESSO con il qua- 
le si è concluso il congresso 
nazionale deH’Unione Goliardi¬ 
ca Italiana, svoltosi a Firenze 
dal 21 al 24 febbraio, rispetta 
fedelmente il rapporto di forze 
attualmente esistente all’inter¬ 
no dell’associazone che racco¬ 
glie tutte le componenti della 
sinistra universitaria. La nuo¬ 
va direzione nazionale dell’UGI 
risulta composta da tre studen¬ 
ti del PSI (compreso il nuovo 
presidente, il goliardo milane¬ 
se Roberto Spano), da due stu¬ 
denti del PSIUP e da due co¬ 
munisti; i settantacinque dele¬ 
gati presenti a Firenze in rap¬ 
presentanza di venticinque as¬ 
sociazioni d’Ateneo erano ap- 
pvmto divisi in tre grossi rag¬ 
gruppamenti; venticinque di 
essi erano socialisti aderenti al 
PSI, veliti delegati gravitava¬ 
no verso il PSIUP, diciotto era¬ 
no controllati dal PCI. Soltan¬ 
to una decina di delegati, privi 
di un peso congressuale auto¬ 
nomo, si definivano, ancora ge¬ 
nericamente, radicali, repubbli¬ 
cani, socialdemocatici o indi- 
pendenti. Alla sua quattordice¬ 
sima edizione, a distanza di di¬ 
ciotto anni dalla nascita del¬ 
l’associazione, il congresso del- 
rUGI ha sancito formalmente 
una non più contestabile real¬ 
tà: tutte le forze ed ogni moti¬ 
vo della tradizione laica si risol¬ 
vono senza residui nelle nuove 
generazioni volte ai partiti del 
socialismo. L’assenza — per la 
prima volta — di una presenza 


«radicale» nella direzione del- 
rUGI ne è una ovvia, anche se 
per certi versi sensazionale, 
controprova. 

Il risvolto di codesta realtà sta 
nella lievitazione, tortuosa e sot¬ 
terranea, che va provocando nel¬ 
le giovani componenti socialiste 
dell’ UGI, quella tradizione, che 
è stata da esse ereditata ormai 
in esclusiva e che costituisce la 
parte essenziale e duratura del¬ 
la storia della goliardia italiana; 
quella tradizione che sarebbe 
sempre più equivoco definire 
«liberale» e che sarebbe scor¬ 
retto chiamare ancora «radica¬ 
le», e alla quale si negano an¬ 
cora gli studenti cattolici, tut¬ 
tora asserragliati nel ghetto cor¬ 
porativo e confessionale della 
«Intesa universitaria». Si deve 
all’avanzata maturazione di que¬ 
sta tradizione laica di cultura e 
di politica nei giovani socialisti 
e comunisti dell’UGI — cosi cre¬ 
diamo alla luce di quanto abbia¬ 
mo visto e ascoltato — se il con¬ 
gresso di Firenze è riuscito a 
superare, al di là dello stesso 
compromesso finale, i motivi po¬ 
lemici immediati e meccanici 
della lacerazione tra i due par¬ 
titi socialisti (era il primo con¬ 
gresso dopo la scissione del PSI) 
e l’imbarazzo dei giovani comu¬ 
nisti, infelicemente costretti a 
misurare nel fuoco di un con¬ 
fronto incrociato e implacabile 
l’ambiguità di una risposta tat¬ 
tica, che definisce contempora¬ 
neamente come una «jattura» 
la scissione socialista e come un 


«fatto positivo» la costituzione 
del PSIUP. 

Era inevitabile che i postumi 
recenti della scissione socialista, 
che tanta incidenza ha avuto nel 
mondo giovanile e universitario, 
portassero al limite di rottura la 
tensione polemica di questo con¬ 
gresso deirUGI. Si è potuto in¬ 
vece constatare, oltre ogni pre¬ 
visione, quanto impotente sia in 
un ambiente generosamente au¬ 
tonomo il tatticismo unitario dei 
comunisti, che si è rivelato in¬ 
capace di mascherare qui con 
formule aprioristiche e fittizie 
una dolorosa lacerazione, ove 
non avesse soccorso una ragio¬ 
ne di unità, superiore e antici¬ 
pata rispetto ai motivi di crisi 
e di divisione dei partiti della si¬ 
nistra italiana. 

E’ doveroso riconoscere esclu¬ 
sivamente ai giovani socialisti 
delle due sponde il merito del 
compromesso finale. Sopratutto 
su di essi, piuttosto che sulle 
pur notevoli capacità tattiche 
dei giovani comunisti, pesa l’in¬ 
cognita rappresentata dall’ag¬ 
guato delle prossime scadenze: 
quasi una scommessa tra la for¬ 
za dirompente delle scissioni so¬ 
cialiste, lontane e recenti, e la 
capacità di maturare dialettica- 
mente insieme l’unità e l’alter¬ 
nativa della nuova sinistra. 

Per ora, l’unità e l’alternati¬ 
va sono stati offerti al dibat¬ 
tito congressuale dell’UGI come 
termini divergenti, due comi di 
un dilemma, formalmente dife¬ 
si l’un contro l’altro dai due set- 


2 « 








ir 


tori socialisti. I giovani del PSI 
si sono presentati a Firenze con 
una impostazione corretta e sug¬ 
gestiva, che ha colto di sorpresa 
anche i loro più tenaci avver¬ 
sari. «Noi — ha detto a nome 
dei goliardi del PSI lo studente 
romano Fabrizio Cicchitto — 
non siamo qui per difendere 
meccanicamente una formula 
parlamentare e di governo. Sia¬ 
mo i primi, anzi, a denunciare 
le carenze di questo centro-sini¬ 
stra e a sviscerarne i motivi la¬ 
tenti di crisi. Ma non crediamo 
neU’alternativa sterile ed iste¬ 
rica e vogliamo tuttavia preser¬ 
vare l’unità con tutte le compo¬ 
nenti deirUGI, anche con gli 
scissionisti e con i comunisti. 
Chiediamo perciò a tutte le com¬ 
ponenti deirUGI di tentare con 
noi una verifica, che non può 
non passare ancora, strategica¬ 
mente, attraverso la collabora¬ 
zione con i giovani cattolici del- 
r«Intesa», ma che porta nel¬ 
l’esperimento ben altro peso e 
forza unitaria. Nella nuova 
giunta nazionale dell’UNURI, 
costituitasi recentemente per 
nostra iniziativa, la sinistra uni¬ 
versitaria collabora con i catto¬ 
lici attraverso giovani del PSI, 
del PSIUP, del PCI; non si trat¬ 
ta quindi di una ripetizione mec¬ 
canica di formule parlamentari, 
che sono costate il prezzo di cosi 
gravi lacerazioni, ma di una scel¬ 
ta autonoma e originale, che de¬ 
ve trovare gli studenti cattoli¬ 
ci, socialisti e comunisti uniti 
nel respingere il piano della 
scuola, cosi come è scaturito dai 
lavori della commissione di Gui 
e di Ermini, e nel rivendicare 
una riforma compiutamente de¬ 
mocratica ». 


Mediazione inutile 

All’offerta unitaria dei gio¬ 
vani del PSI i goliardi del 
PSIUP, che sono stati dapper¬ 
tutto alla testa delle recenti e 
clamorose agitazioni universi¬ 
tarie, hanno contrapposto la ri¬ 
chiesta intransigente dell’alter¬ 
nativa. « Non abbiamo fatto una 
scissione — ha detto a nome del¬ 
la sinistra dell’UGI il goliardo- 
sindacalista Gian Mario Cazza- 
niga (studente di filosofia alla 


Normale di Pisa, dirigente della 
FIOM a Torino: niente di mas¬ 
simalista nello stile e nel lin¬ 
guaggio, e niente di burocratico; 
aria triste, però, e sguardo cupo, 
riflesso singolare nell’UGI d’un 
radicale pessimismo intellettuale 
di tanta parte delle nuove leve) 

_e non abbiamo costituito un 

nuovo partito per continuare a 
subire, comunque travestita, la 
logica della politica della de¬ 
stra socialista. Siamo qui per ro¬ 
vesciare suirUGl, senza la pru¬ 
denza tattica dei nostri diri¬ 
genti nazionali, tutti i motivi di 
crisi di tutta la sinistra italia¬ 
na. Non siamo disponibili per 
una unità formale ed aprioristi¬ 
ca, condizionata dai rimorsi gio¬ 
vanili per il riformismo del PSI 
e dalle velleità trotskiste di gio¬ 
vani che restano nel PCI Non 
basta la presenza fisica di un 
comunista, nella giunta di go¬ 
verno deirUNURI, per rovescia¬ 
re una politica. La presenza di 
Togliatti accanto a Nenni nei go¬ 
verni tripartiti del ’45-’47 non ha 
evitato la sconfitta delle sinistre 
e il monopolio clericale del po¬ 
tere. Noi proponiamo ai giovani 
comunisti di costituire con noi 
una maggioranza di sinistra nel- 
rUGI, per contrapporre una rea¬ 
le alternativa alla collaborazio¬ 
ne subalterna con i cattolici ». 

Per tre giorni, al congresso 
di Firenze, i giovani comunisti 


hanno tentato di eludere la scel¬ 
ta tra la collaborazione con i cat¬ 
tolici, mediata dai giovani del 
PSI, e la maggioranza di alter¬ 
nativa coi giovani del PSIUP. Il 
comunista romano Claudio Pe¬ 
truccioli, discepolo del filosofo 
marxiano-galileano Della Volpe, 
per sfuggire alla tenaglia pole¬ 
mica del PSI e del PSIUP, è ar¬ 
rivato a porre la propria auto¬ 
candidatura alla presidenza del- 
rUGI, ponendo come condizio¬ 
ne pregiudiziale che essa fos¬ 
se votata contemporaneamente 
(sic!) dai socialisti delle due par¬ 
ti. Gli è stato seccamente repli¬ 
cato, dall’una e dall’altra parte, 
che sono quarant’anni — dalla 
scissione di Livorno — che i so¬ 
cialisti di destra e di sinistra 
persistono nel rifiutarsi di crede¬ 
re nelle virtù taumaturgicamen¬ 
te unitarie del « centralismo de¬ 
mocratico ». 


Conclusione interlocutoria 

La conclusione interlocutoria 
del compromesso è alla fine pas¬ 
sata attraverso l’umiliazione 
dell’inutile mediatore: i giovani 
del PSI hanno conquistato, in 
virtù della forza obiettiva della 
loro proposta unitaria, l’onere 
di reggere la presidenza del- 
l’UGI; i goliardi del PSIUP han¬ 
no potuto rivendicare la liber- 


Critica marxista 

Numero speciale sul partilo (nti. 5-6. settembre - dicembre 1963): 
Umiierto Cerroni: Per una teoria del partito 
Lucio Magri: Problemi della teoria marxista del partito 
rivolusionario 

A. NATTA - G. C. Pajetta: Il centralismo democratico nel- 
relaborasione e nella esperienza dei comunisti italiani 
Valentino Gerratana: Forme e contenuti della democra¬ 
zia nei partiti italiani 

Giorgio Amendola: Movimento e organiszazione delle masse 
Enrico Berlinguer: Lo stato del partito in rapporto alle 
modificazioni della società italiana 
Alfredo Reichlin: Il partito in Puglia 
Aldo Tortorella II partito a Milano 
Guido Fanti: Il partito in Emilia 
Documenti (1922-1944) — Recensioni 


n 











ti di controllare, entrando in di¬ 
rezione, la capacità di autono¬ 
mia del nuovo presidente, aste¬ 
nendosi dal sorreggerlo con un 
voto positivo sino alla prova dei 
fatti. Gli unici che non sanno 
perchè sono entrati nella dire¬ 
zione deirUGI e perchè non han¬ 
no votato per il presidente so¬ 
cialista sono i due comunisti. 

Non si può non riconoscere 
pari dignità alle posizioni dei 
giovani del PSI e dei giovani del 
PSIUP, quali almeno si sono 
espresse nel corso del 14. con¬ 
gresso dell'Unione Goliardica 
Italiana. La faticosa reciproca 
ricerca di autonomia rispetto 
agli schemi parlamentari e alle 
ipostasi politiche ed ideologiche 
dei loro maggiori pretende una 
apertura di credito, che non è 
azzardata per chi conosce la sto¬ 
ria deirUGI e continua a crede¬ 
re nella validità del metodo lai¬ 
co, quali che siano le etichette 
in voga e il linguaggio di moda. 
E’ difficile negare di riconosce¬ 
re in molto di ciò che è stato det¬ 
to a Firenze l’eco attuale e coe¬ 
rente di una battaglia che dura 
da quasi vent’anni. L’ansia del¬ 
l’unità e l’orgoglio dell’alterna¬ 
tiva sono propri di una associa¬ 
zione che la storia ha voluto lai¬ 
ca e la lotta politica ha collo-• 
cato SEMPRE a sinistra: la « col-1 


laborazione democratica » con gli 
studenti cattolici è stata propria ^ 
deirUGI, prima e oltre il centri- ; 
smo, prima e al di là del centro- 
sinistra; ma giammai essa fu se¬ 
parata e mutilata dalla contesi 
stazione alternativa alla legittiJ, 
mità dell’unità politica e cultu-t 
rale dei cattolici. 


Il travaglio dei comunisti 

L’invito mai dismesso ai co¬ 
munisti e ai cattolici ad entrare/ 
neirUGI non aveva altro senso:/ 
che i comunisti, nonostante tut-| 
to, neirUGI ci stiano da novq 
anni e che i cattolici, nonostan-j 
te il centro-sinistra, daH’UGI,! 
ormai soli, persistano a restara 
fuori, non può essere senza si-\ 
gnificato. L’aggressività che i 
giovani del PSI conferiscono al¬ 
la rinnovata collaborazione coi 
cattolici airUNURI, se resta ga¬ 
rantita dall’unità delle sinistre 
neirUGI, non può non offrire ob¬ 
biettivamente, il terreno concre¬ 
to, politicamente valido e auto¬ 
nomo, alle effettive capacità di 
alternativa di tutta la sinistra. A 
queste condizioni, se l’UGI reg¬ 
ge, r« Intesa », come organizza¬ 
zione unitaria degli studenti cat¬ 
tolici, alla lunga è spacciata. 


Non è inspiegabile, allora, il 
travaglio e il ritardo dei giova¬ 
ni comunisti: essi non osano an¬ 
cora liberare nell’UGI, come pur 
fecero i «liberali» e pur stan¬ 
no facendo i socialisti — a loro 
rischio e pericolo — la loro in¬ 
terna dialettica, mischiare e 
sciogliere tra gli altri e negli al¬ 
tri le contraddizioni e le diffe¬ 
renze interne, che comunque li 
travagliano. Che vale richiamar¬ 
si a Gramsci, invece che a Pram- 
polini o a Ferri, se si continua 
a sacrificare anche !’« occasione 
storica » deU’UGI per una malin¬ 
tesa e meccanica riproduzione 
del « centralismo democratico »? 
Vale più per essi l’unità for¬ 
male dei «comunisti in quanto 
tali » dell’unità « articolata », co¬ 
me essi stessi dicono, per non 
usare il termine «storico» di 
«unità laica delle forze», pro¬ 
prio della «tradizione» dell’UGI, 
che è la tradizione di libertà del¬ 
la cultura e di autonomia della 
politica? In verità ci sembra che 
il congresso di Firenze abbia ri¬ 
sposto in maniera esauriente a 
questi interrogativi. E possa de¬ 
gnamente figurare, per questo, 
accanto ai precedenti tredici con¬ 
gressi dell’Unione Goliardica Ita¬ 
liana 

L. J. 


Diario politico 


Cuba: di nuovo al roll-back 

CONO molti, negli Stati Uniti, a pensare che il 
kennedismo esibito dall’attuale amministrazione 
americana sarà probabilmente riveduto e corretto dopo 
le elezioni di novembre. Ne avemmo noi pure subito 
il sospetto, quando ci parve che il kennedismo ve¬ 
nisse ora troppo diligentemente, verbosamente con¬ 
servato, con clamorose « offensive di pace », e altri 
simili traguardi elettorali. 

Ora il gesto pesante, del taglio degli aiuti ai 
paesi che mantengono relazioni di scambio con Cuba, 
è un segno assai malaugurato di ritorno al dullesismo. 
La tesi che giustifica infatti quel gesto minaccioso 


è esattamente questa: a) gli aiuti si dànno, o si riti¬ 
rano, per motivi di diretta, o indiretta, valutazione 
ideologica della nazione aiutata; h) Io scopo degli 
aiuti sta tutto nell’immediata capacità di produrre 
effetti sul piano della conformizzazione di un paese 
all’ideologia degli Stati Uniti. 

La sola differenza, nel caso particolare di Cuba, è 
che l’Amministrazione Johnson, unendo i capi delle due 
tattiche, ne fa un vero e proprio strumento di « san¬ 
zioni », a carico di Castro. Resta da vedere se sarà 
Cuba a soffrirne, o, in generale, la politica estera 
americana. 

Le nazioni colpite sono cinque: « il primo dei 
nostri alleati », come deplora il « New York Times », 
citando la Gran Bretagna; la Francia, la Jugoslavia, 
la Spagna e il Marocco. Per quanto riguarda la Fran¬ 
cia, si fa presto ad aggiungere nuova paglia all’ironia 
bruciante del generale; per la Jugoslavia, questa è 
solo l’ultima delle gaffes americane, che hanno pro¬ 
vocato il ritiro di un grande ambasciatore a Bel¬ 
grado, Kennan. 

La faccenda spagnola è non più delicata, ma 


28 



















più istruttiva. Certo non saremo noi a dolerci di 
una misura, che colpisce il franchismo, ma essa ha 
il difetto di essere aberrante, come tutto ciò che 
riguarda i rapporti Washington-Madrid. In passato 
venivano misurati alla stregua purissima di interessi 
militari; ora, come sembrerebbe a un primo sguardo, 
a quella meramente ideologica. Siccome però nel pri¬ 
mo, come nel secondo modo, si tratta di un fonda¬ 
mento nazionalistico, in questo caso si rivela inaspet¬ 
tatamente una certa quale coerenza della destra ame¬ 
ricana. 

Ma il Marocco? L’aiuto americano fu, l’anno 
scorso, di 21 milioni di dollari: poco, ma quanto 
serviva a trattenere strettamente nel campo della 
destra atlantica un paese, dove i dirigenti pensano 
in questo modo, e un’opposizione assai forte, che 
morde il freno, pensa in modo opposto. Alla fine, 
conveniva agli Stati Uniti produrre tanto clamore 
senza prima prevedere le conseguenze? E dare a ve¬ 
dere verso quali distanze, all’indietro, può ricomin¬ 
ciare a muoversi una ideologia imperialistica, che 
sembrava, in molti anni, aver « realizzato » l’utilità, 
al mondo, dei « neutri », dei « diversi », dei « non 
sottomessi »? 

Il « New York Times » ha una conclusione giusta; 
noi speriamo solo che i nostri amici, ora svezzati 
brutalmente dall’aiuto militare, capiscano che si tratta 
di una mossa sgraziata di politica interna, e non 
insistano troppo nella protesta. E’ esatto, Ma il 
giorno in cui si fa la politica estera di una certa 
politica interna, si rischia di scoprire troppo esplici¬ 
tamente la faccia della classe dirigente di un paese: 
ed è esattamente quella classe che seguiva a malin¬ 
cuore, e non soffre di aver perduto, un presidente 
come Kennedy. Johnson, dice il giornale, deve pur 
dare qualche soddisfazione alla sua destra, sia essa 
nel suo partito, o fra repubblicani di Goldwater e 
, Rockefeller. Tuttavia il « grosso » politico è colui 
che, in generale, non se ne fa accorgere. 


I nazi, uno per uno 

r»E’ UN BOOM, in Germania, di memorie hitle- 
^ riane. Lo « Spiegel » pubblica via via i suoi 
« Tischgesprache », che rappresentano, a dir poco, il 
livello più abbietto della pretenziosità autodidattica. 
Un altro settimanale lancia di lui un profilo popo¬ 
lare, quasi per domande: affinchè i ragazzi tedeschi 
sappiano, dopo tutto, che tipo era. 

L’editore Piper mette fuori, in questi giorni, il 
« Volto del Terzo Reich », di J. C. Fest; « profilo 
di un regime totalitario ». Il meglio del libro è una 
« galleria » degli eroi: tutti i « secondi » di Hitler 
hanno un nutrito ritratto. Ecco la sincerità di un 
Goering: « Ringrazio Dio che non mi ha dato la 
nozione dell’obbiettività: sono solo capace di essere 
soggettivo ». Goebbels: « E’ Eros che parla in me: 
ogni donna mi eccita sino al sangue, mi sento un 
lupo ». Che uomo era Heydrich: * Anche in raj^ 
porto al nazionalsocialismo, disponeva di quella di¬ 
mensione opportunistica che può sembrare l’ornamen¬ 
to di un’ambizione di potere, ma è già, di fatto. 


il segno di un nichilismo ideologico, che non impe¬ 
gna a nulla ». Himmler: « Il mio principio è' che 
ogni SS ha da essere leale e fedele ai suoi, e verso 
nessun altro. Che questo convenga a russi o cechi, 
non mi interessa. Prenderemo presso tutti ciò che 
conviene al nostro sangue: si debbano pure rapire 
bambini e allevarli sul nostro suolo. Che gli altri 
popoli vivano nell’agio o nella fame mi importa solo 
nella misura, in cui li considero schiavi al servizio 
della nostra civiltà ». 

Aperto rimpianto 

ipESA anche su noi la scomparsa precoce di un 

uomo come Felice Balbo, che abbiamo letto e 
rispettato in vita soprattutto nei momenti più dram¬ 
matici, quando gli fu messa l’alternativa di uscire 
dalla Chiesa, nella quale era nato, o di deporre il 
pensiero di un’assimilazione cristiana di alcuni temi 
del marxismo. In realtà ci pare, tuttavia, che una 
tra le tesi di fondo del marxismo, quella della re¬ 
sponsabilità « pratica » della filosofia, Felice Balbo 
l’abbia riclaborata e moralizzata sino all’ultimo, senza 
deporla mai. 

Rileggiamo le ultime pagine del libro « Idee per 
una filosofia dello sviluppo umano ». Balbo notava 
giustamente che in Italia, e in genere nel mondo 
occidentale, la filosofia rischia di impoverirsi sempre 
più in un fatto scolastico. Si cercano professori di 
filosofia per insegnare nelle scuole filosofia ad ado¬ 
lescenti, i quali non ne faranno poi nessun uso. La 
grande filosofia, che da Platone a Marx si è sentita 
immersa nel corso della produzione di nuov a storia, 
di profonde rettifiche della società, oggi non ha 
« richiesta ». Mille altri specialisti sono « domanda- 


Quaderiii 

dt 

cronaca 

politica 

La più aggiornata rassegna degli aweni* 
menti interni e internazionali che inte¬ 
ressano il nostro Paese. 

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Una cronaca obiettiva per un giudizio 
obiettivo sugli uomini e sui fatti del 
nostro tempo. 

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mentazione Italiana » Lungotevere Tor di 
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29 








Dalla Rivoluzione d’ottobre alla 
guerra civile ai primi passi verso 
la costruzione d’uno stato socia¬ 
lista: la piu completa ricostruzione 
di eventi che hanno mutato il cor¬ 
so della storia contemporanea. 

Edward H. Carr 

La rivoluzione bolscevica 

1917-1923 

« B Ib llott c » di cnltun uatìc» » fp. XXV-1360 


La polemica sulla coesistenza pa¬ 
cifica e sulla rivoluzione nei paesi 
coloniali fino agli ultimi documen¬ 
ti di parte cinese. 


ti »: ma il politico fa volentieri a meno della filosofia. 

Partito dallo storicismo, Balbò si rendeva per¬ 
fettamente conto che è proprio la fine di una filosofia 
come unica verità, che ha contribuito a detronizzare 
le filosofie come « guida » di un’epoca; nello stesso 
tempo, tuttavia, proponeva, e voleva ipotizzare le 
modalità opportune, che si volesse almeno, nella so¬ 
cietà, « verificare » le filosofie, sul metro della loro 
capacità, di delucidare la logica del rapporto mezzo¬ 
fine, che è indispensabile per determinare le « prio¬ 
rità » delle scelte politico-sociali. A questa condi¬ 
zione, secondo lui, la filosofia come « lavoro » trovava 
non solo la sua giustificazione, ma la sua collocazione 
nella cultura politica contemporanea. 

C’era forse una certa macchinosità in un progetto 
del genere, del filosofo « direttamente » utile, dispo¬ 
nibile; derivava dall’aver deprezzato ormai quello 
stesso storicismo d’origine, per il quale il rapporto 
filosofia-società deve svolgersi con un dinamismo, 
una ricchezza di articolazioni, come propone, per 
non nominare altri, un Lukacs. Tuttavia credo che 
questa esigenza, di rendere disponibile, subito, hic 
et nunc, il lavoro del filosofo, derivasse in Felice 
Balbo dalla sollecitudine ansiosa, sempre più impe¬ 
riosamente moralistica, della « integrazione » a cui 
deve offrirsi ogni persona, per dare obbiettività 
etica alla propria esistenza (nel libro citato, pp. 108 
e segg.). Questo era il volto della sua generosa 
severità, e lo rimpiangeremo per molti anni, nè 
potremo dimenticarlo. 


Coesistenza e rivoluzione 

DootuiMfiti iMla disputa oino-sovlattea 
■ aura di Paola CaliinI a Inrlea Collotti Pisolial 

«UbtiU«ocU» pa.«7 L.M00 


H grande sciopero dei minatori 
del ’63 e le nuove prospettive del¬ 
la lotta di classe in Francia. 


Saverio Tutino 
Gollismo e lotta operaia 

«UWfabiicU» pp.2)2 LUDO 



Kiclucdtw la iilimi* Il auovo Cauloso seoctile ddk ediiloni Hìimall, 


La legge deH’orlogenesi 

A LCUNE DEFINIZIONI di Teilhard de Chardin, 

il ” gesuita proibito ”, si attaglierebbero forse 
all’onorevolé' Moro. 

Dal ” Vocabulaire Teilhard ” ( Paris, Edit. Uni- 
versitaires, 1963, p. 68): ” Ortogenesi: fenomeno 
per il quale l’evoluzione segue, in certi casi, una 
linea di progressi continui, ottenuti per micromuta¬ 
menti, sempre nello stesso senso, sia sul piano bio¬ 
logico che su quello psichico. In questo secondo caso, 
l’o. si esprime ad esempio nella ortogenesi umana 
di socializzazione ”. — Voce ” socializzazione ”, a 
p. 87: ” costituzione progressiva dell’umanità in 
unità organizzata e coerente ove tutti gli uomini 
sono solidali. Socializzazione per compressione: sta¬ 
dio superiore o di convergenza estrema, di totaliz¬ 
zazione e di personalizzazione; socializzazione di 
espansione, primo stadio della socializzazione, carat¬ 
terizzato dai fenomeni di popolamento, di civiliz¬ 
zazione e di individuazione ” ( è per ora il solo 
che riguardi le tattiche morotee, specie se posto in 
relazione con la definizione teilhardiana di ” Liber¬ 
tà: potere di autodeterminazione per il quale l’uomo 
aderisce ai valori. Non identificare libertà e possibi¬ 
lità di scelte: questa appartiene alla libertà imper¬ 
fetta ”. Il moroteismo è infatti ” una tecnica di mi¬ 
cromutazioni accettate tra più possibilità di scelta, 
nel proposito di una linea di progressi continui, in 
cui si ricomponga, desiderabilmente, sempre la me¬ 
desima direzione 

SERGIO ANGELI 


30 











PADRE LENER ALL’ELISEO 


IL DIBATTITO SUL DIVORZIO 

I fantasmi 
e le statistiche 

DI LUHil GHERSI 

FfclRE che il diritto non è che il riflesso codificato 
del costume e delle convinzioni morali prevalenti 
in una determinata società è ormai un luogo comune, 
ma è un luogo comune che in certi casi diventa una 
grossa bugia. Perchè in concreto, ed è anche questo 
un luogo comune, il diritto suole seguire ed assai di 
rado anticipa quel complesso di idee, sentimenti ed 
anche, a volte, pregiudizi che si suole definire mo¬ 
ralità sociale. Quando questa sfasatura tra il costume 
sociale e le leggi che dovrebbero regolarlo si fa più 
marcata e diviene un fossato accade che zone più o 
mene- ampie della società si sottraggano di fatto alla 
legge e che in una certa misura, sia pure per aspetti 
circoscritti, la vita si svolga secondo il ritmo che le 
è proprio e che il diritto, ormai inadeguato, non è in 
grado di regolare. E’ questo il caso dei « fuorilegge 
del matrimonio », che in Italia, stando alle statistiche 
più attendibili, superano certamente il milione, aprendo 
così nel tessuto sociale una lacerazione allarmante e 


7 creando una condizione di disagio che forse coinvolge 
quattro o cinque milioni di italiani. La-revisione del 
diritto familiare costituisce pertanto un problema so¬ 
ciale di grosse dimensioni e non, come s’è cercato di 
sostenere da qualche parte, una fisima da intellettuali, 
un chiodo fisso di laicisti arrabbiati; la crisi dell’isti¬ 
tuto matrimoniale, così com’è oggi configurato nel 
nostro codice civile, investe in un modo o nell’altro 
il dieci per cento della popolazione italiana. 

Era questo il dato obiettivo dal quale gli organiz¬ 
zatori della tavola rotonda su « Il divorzio e l’unita 
familiare » sono partiti per prop)orre all’attenzione del¬ 
l’opinione pubblica e del mondo politico un tema che 
nel nostro paese troppo spesso viene considerato tabu. 
Del divorzio hanno discusso al dibattito dell’Eliseo, 
promosso dal Movimento Gaetano Salvemini, il ge¬ 
suita padre Lener e il prof. D’Avak da una parte, e dal¬ 
l’altra, la scrittrice Anna Garofalo, l’avvocato Ercole 
Graziadei ed un magistrato, il consigliere di Cas¬ 
sazione Mario Berutti; presiedeva Arturo Carlo Jemolo. 

La linea antidivorzista, sostenuta nel corso del 
dibattito da padre Lener e D’Avak, tendeva per un 
verso a minimizzare l’entità del problema e per altro 
verso a prospettare le conseguenze drammatiche o ad¬ 
dirittura catastrofiche che avrebbe certamente compor¬ 
tato l’istituzione del divorzio in Italia. 

Sul primo punto il discorso è breve: i dati sono 
quelli che abbiamo citati, non provengono da statisti¬ 
che ufficiali, dato che non ne esistono da noi su questa 
materia, ma non sono per questo meno attendibili. Pro¬ 
viamo ad esaminarli più dettagliatamente. Il dato di 
partenza, non contestabile perchè risulta dagli archivi 
dei tribunali, è ebe in Italia ci sono circa cinquemila 
separazioni legali all’anno. Questa cifra, per essere in¬ 
tesa nel suo rapporto effettivo con la realtà deve essere 
però quintuplicata, dal momento che su ogni separa¬ 
zione legale che si va a chiedere al tribunale ve ne 
sono almeno altre quattro che non si vanno a chie¬ 
dere; la separazione legale infatti non cambia pratica- 
mente quasi nulla e costituisce per le classi povere una 
spesa inutile e troppo onerosa e per le classi agiate 
un fastidio tranquillamente evitabile: in entrambi i 
casi è molto più semplice e più comodo un accordo di 
fatto. Ed ecco che, sulla base di questo calcolo, i 
cinquemila « separati » diventano venticinquemila, un 
tasso annuo per nulla eccezionale, che corrisponde al¬ 
lo 0,50 per cento della popolazione italiana. Abbiamo 
così una cifra che dovrebbe ridimensionare le appren¬ 
sioni di quanti temono per l’introduzione del divorzio, 
ma che, nello stesso tempo, dovrebbe far riflettere 
sulla gravità della situazione attuale. Se proviamo, 
infatti, a moltiplicare questa cifra per trentacinque 
— gli anni in cui, considerando la media dei decessi, 
si può calcolare l’accumulazione — abbiamo appunto 
il totale di seicentomila separazioni di diritto o di 
fatto e dunque di un milione e duecementomila citta¬ 
dini dei due sessi che hanno rotto la propria famiglia 
e che, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno 
stretto un nuovo legame familiare, questa volta ille¬ 
gale. Ed ecco che la cifra è di nuovo raddoppiata; i 
concubini in Italia sono almeno due milioni E poi¬ 
ché di solito si tratta di cittadini non meno prolifici 


SI 







J;gli altri, dobbiamo calcolare ancora altri due milioni 
di « fuorilegge del matrimonio »: i bambini, appunto, 
di cui gli antidivorzisti sembrano preoccuparsi tanto. 
A conti fatti, si tratta di quattro o forse cinque mi¬ 
lioni di italiani, adulti e bambini, per i quali la vita 
familiare si svolge fuori dal sistema previsto dalla 
legge. Non ci sembra un risultato brillante dal punto 
di vista della « santità della famiglia » e « dell’edu¬ 
cazione cristiana della prole ». 

Padre Lener 
e le Blatisliche 

La seconda trincea degli antidivorzisti al dibattito 
dell’Eliseo è consistita nel prospettare gli inconve¬ 
nienti sociali e politici dell’introduzione del divorzio 
nel nostro paese. 

Sui primi è stato padre Lener a gettare lampi di 
luce sinistra prospettando la disgregazione dell’isti¬ 
tuto familiare che inevitabilmente seguirebbe « l'il- 
limitabile libertà del divorzio ». « Aprite appena uno 
spiraglio nella diga dell’indissolubilità * — ha detto 
padre Lener citando un autorevole antidivorzista del 
secolo scorso — « e tosto lo spiraglio, divenuto falla, 
farà crollare la diga ». L’autorevole gesuita ha rico¬ 
nosciuto che si trattava di un parlare per ipotesi da 
timore* del peggio o da « salto nel buio » ed ha cer¬ 
cato di provare, cifre alla mano, che non di salto nel 
buio si trattava ma di esperienza ormai acquisita nei 
paesi che hanno introdotto il divorzio nella loro le¬ 
gislazione. 

« Consultato con uno sguardo generale l’annuario 
delle Nazioni Unite, anche a prescindere dalle punte 
massime registrate nel dopoguerra, si vede » — ha af¬ 
fermato padre Lener — « che nei paesi europei dal 
1936 al '31 le cifre dei divorzi sono raddoppiate e, 
dopo il ’51, non accennano a diminuire. Negli Stati 
Uniti siamo arrivati ad un divorzio su tre matrimoni ». 
« Ma c’è di più », — ha aggiunto — « anche a pre¬ 
scindere da questa discussione sulle statistiche, sta di 
fatto che in alcuni paesi (Inghilterra, Stati Uniti, 
Svizzera) ed altri in cui il dilagare dei divorzi è pa¬ 
cificamente ammesso, si vanno organizzando sempre 
più potentemente, su scala nazionale e federale, dei 
movimenti e delle organizzazioni per porre ai divorzi 
un freno indiretto... ». 


FILMCRITICA 

Dlrctlorai ItnOARDO BRUNO 


Nel fascìcolo n. 138: 

t Note per II disprezzo » di Jean-Luc Godard; 
4 Ricordo di una faccia di pietra » di Giulio 
Cesare Castello, « Fenomanoiogia dei teiefilm » 
di Vittorio Cottafavi; * Cloak and Dagger esem¬ 
pi dello stile di Fritz Lang » di Adriano Aprà; 
4 Spagna: quel poco di nuovo » di Jorge Grau; 
Note e recensioni di Nicola Ciarletta, Luigi 
Martelli, Stefano Roncoroni, Mario Zucconi, 
Maurizio Ponzi. 


Lasciamo che questi movimenti si organizzino 
« sempre più potentemente » e torniamo alle stati¬ 
stiche. 

Le statistiche dell’annuario delle Nazioni Unite 
danno torto a padre Lener. Le ha lette alla tribuna 
dell’EIiseo l'avv. Graziadei, e non presentano il qua¬ 
dro catastrofico esposto dall’illustre gesuita. Le cifre 
sono queste: dal 2 al 2,20 per mille il tasso di divor- 
zialità annuo degli Stati Uniti e dell’Ungheria (altro 
che « un divorzio ogni tre matrimoni »!), i due paesi 
che in questo campo tengono il livello più alto; 0,93 
per mille il tasso annuo di Israele; 0,89 quello della 
Svizzera; 0,83 quello della Germania ovest; 0,62 quello 
della Francia; 0,50 quello del Belgio e 0,36 quello 
del Canadà. Quanto al dilagare dei divorzi nell’ultimo 
dopoguerra, si tratta d’un fenomeno di assestamento 
tipico di tutti i dopoguerra, che s’è verificato anche alla 
fine della prima guerra mondiale, ma che in entrambi 
i casi è stato seguito da una stabilizzazione sui livelli 
precedenti. 

E’ comprensibile che padre Lener abbia sentito il 
bisogno a un certo punto di « prescindere da questo 
discorso sulle statistiche »: forse avrebbe fatto me¬ 
glio a « prescindere » del tutto. 

La chiesa 

« non transigerebbe » 

E’ toccato al professor D’Avak il compito di illu¬ 
strare gii inconvenienti giuridici ed i pericoli politici 
dell’introduzione del divorzio, dopo che padre Lener 
aveva rappresentato con accenti così drammatici le 
conseguenze che sarebbero derivate sul piano sociale. 
Come il gesuita s’era appellato addirittura a Bertrand 
Russell per giustificare la tesi massimalista e parados¬ 
sale del divorzio consensuale non sottoposto a cause 
limitative di nessun genere come unico modo possi¬ 
bile di concepire il divorzio secondo giustizia, così il 
professor D’Avak s’è richiamato, lui sostenitore del 
Concordato, al principio dell’assoluta uguaglianza di 
tutti i cittadini davanti alla legge per concludere che 
una riforma del codice civile che limitasse l’introdu¬ 
zione del divorzio ai soli matrimoni non concordatari 
creerebbe di fatto una disuguaglianza civile tra cit¬ 
tadini cattolici e non cattolici. Da questa tesi radicale 
D’Avak ha tratto una conclusione di ben diverso ca¬ 
rattere: visto che sarebbe ingiusto introdurre il di¬ 
vorzio per i soli matrimoni non concordatari e visto 
che per estendere il divorzio a tutti i cittadini sarebbe 
necessaria una revisione costituzionale che portereb¬ 
be a rimettere in discussione il problema stesso dei 
rapporti tra stato e chiesa, varrebbe la pena — si è 
chiesto — di arrivare a tanto? 

Ebbene, secondo noi ne varrebbe la pena. Tanto 
più che non crediamo affatto che — come D’Avak 
ha detto —, in una eventuale revisione del Concor¬ 
dato, la chiesa potrebbe cedere su qualsiasi articolo 
* ma non transigerebbe mai sull’articolo 34 » e che 
conseguentemente coloro che vogliono l’introduzione 
del divorzio dovrebbero « sapere che, in corrispettivo, 
c’è da affrontare ex novo il problema dei rapporti 


32 













tra stato e chiesa ». La chiesa, sul divorzio, è venu¬ 
ta a transazione in numerose occasioni, accettando rea¬ 
listicamente questo istituto nei paesi che l’adottavano: 
l’ha accettato, per esempio, stipulando il Concordato 
con il governo dittatoriale di Peron, l’ha accettato fir¬ 
mando il Concordato col governo dittatoriale di 
Trujillo, l’ha accettato quando ha stretto il Concordato 
con Hitler; non si capisce perchè dovrebbe scatenare 
una guerra di religione se la Repubblica italiana deci¬ 
desse di adeguare la propria legislazione matrimoniale 
a quella di tutti i paesi civili. 


L’interlocutore 

accomodante 

Dalla tavola rotonda del movimento Salvemini non 
poteva venire una risposta operativa ad un problema 
che è in definitiva problema di volontà politica. Una 
risposta di questo tipo doveva venirci dai partiti di 
sinistra democratica, ma se si eccettua il positivo ed 
ampio commento della * Voce Repubblicana », abbia¬ 
mo trovato da questa parte un muro di silenzio, mal¬ 
grado l’eco notevolissima che il dibattito aveva avuto 
sulla stampa d’informazione. 

Soltanto i comunisti sono intervenuti con puntua¬ 
lità c decisione nel dibattito. Essi hanno subito te¬ 
nuto a proporsi come gli unici « interlocutori » validi 
dei cattolici. « Nonostante il ”nulla di fatto” del- 
l’Eliseo — ha scritto Ciglia Tedesco su Rinascita — 
può e deve essere portato avanti un discorso proficuo 
sul gravissimo problema morale, politico, giuridico, 
sociale costituito dall’attuale configurazione dell’isti¬ 
tuto del matrimonio in Italia. Un discorso che da 
parte nostra vogliamo rivolgere esattamente ai cat¬ 
tolici: ckè gl’interlocutori decisivi, anche in questo 
campo, siamo noi e loro. Ma con i cattolici è possibile 
avviare un dialogo sul divorzio a patto che essi ces¬ 
sino di identificarsi con i clericali; perché solo in tal 
modo si disporranno a distinguere e a comprendere 
come le nostre posizioni non possono essere assoluta- 
mente assimilate a quel tipo di posizioni laicistiche 
che sono proprie della borghesia ». 

« Si tratta — secondo Ciglia Tedesco — di sol¬ 
lecitare i cattolici a considerare che può non esservi 
contraddizione tra la indissolubilità del matrimonio 
— vissuta però come tensione morale e umana, e non 
subita o imposta come necessità di ”ordine pubbli¬ 
co” — e l’ammettere, con la possibilità dell’errore, an¬ 
che il rimedio all’errore. Se infatti la scelta si rivela 
sbagliata e il matrimonio fallisce, come può la società 
oggi seguitare ancora a non prenderne atto? Certo, 
di un fallimento si tratta: cioè di una eventualità ne- 
gativ.i che duò verificarsi e non di una sorta di con¬ 
notazione intrinseca a ogni matrimonio. Non si tratta 
dunque, di prevedere, per dirla con il padre Lener, 
una ”illimitata e illimitabile libertà di divorzio”, ma 
di ricercare un tipo di legislazione in base alla quale 
il matrimonio non sia rescisso come un qualsiasi con¬ 
tratto. E questo, riteniamo, comporta non la limita¬ 
zione della casistica (qui siamo d’accordo con il pa¬ 
dre Lener), ma una regolamentazione rigorosa e 
omogenea alla peculiarità del rapporto matrimoniale ». 


Non sappiamo in che consista questa « regola¬ 
mentazione rigorosa e omogenea alla peculiarità del 
rapporto matrimoniale », che a quanto pare dovrebbe 
costituire il superamento della « casistica » che fun¬ 
ziona come limite giuridico del divorzio « borghese ». 
Posto tuttavia *che il divorzio, borghese o proletario 
che sia, resta pur sempre da configurare come uno 
strumento giuridico che consenta di sciogliere un rap¬ 
porto di matrimonio, saremmo curiosi di sapere qua¬ 
le « casistica » i comunisti intenderebbero sostituire 
a quella « borghese » per delimitare, magari in modo 
« omogeneo e peculiare », i confini di applicabilità di 
questa legge. Forse la casistica dei gesuiti? 

Riconosciamo peraltro volentieri che le nostre po¬ 
sizioni laicistiche « non possono essere assoluta- 
mente assimilate » a quelle dei comunisti e crediamo 
che, per esperienza, abbiano buone ragioni di rico- 
scerlo anche i clericali. In fin dei conti i « laicisti » 
da almeno cento anni hanno mantenuto in Europa un 
confronto con i cattolici in termini di libertà e di 
chiarezza delle posizioni reciproche. L’adesione sin¬ 
cera di moltissimi cattolici alle idee di libertà e lo 
stesso travaglio di rinnovamento che dopo il papato 
di Giovanni XXIII investe tutta la chiesa nel suo 
complesso, sono il frutto di questo lungo e spesso 
aspro confronto con la democrazia, e non dei pasticci 
concordatari tipo articolo 7. 

LUIGI GHERSI 


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SECVND.v PARS DE 



L’astrolabio 


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ss 





















DOCUMENTI 


Cristianesimo e clericalismo 


« L’anticlericalismo podrec- 
chiano - massonico - miissoli- 
niano, il quale discuteva nei 
comizi l’esistenza di Dio, e de¬ 
capitava le madonne e basto¬ 
nava i preti, fu una vergogna, 
che non dovrebbe più risorgere, 
e nessun partito sarebbe degno 
di rispetto, se non lo sconfes¬ 
sasse risolutamente. Ma sarebbe 
da considerarsi come attacco 
anticattolico e antipapale l’af¬ 
fermazione che Pio XI e Pio 
Xn cooperarono con Musso¬ 
lini? Se quel fatto è inesistente, 
allora è il carattere falso e non 
il carattere anticattolico del¬ 
l’affermazione che deve essere 
condannato. Ma se quell’affer¬ 
mazione è vera, si deve soppri¬ 
mere, perché è antipapale e 
anticattolica? ». 



GAETANO SALVEMINI 
(disegno di Nino Cannittraci) 

DI GAETANO SALVEMINI 


La cortesia del prof. Gino Luzzatto ci consen¬ 
te di presentare ai nostri lettori questa lettera 
inedita, indirizzata da Gaetano Salvemini, il 21 
ottobre 1946, a un amico convertitosi al cattoli¬ 
cesimo, probabilmente il suo vecchio compagno 
Domenico Modugno. 

Carissimo, 

Fu una gran festa per me leggere la tua lettera 
del 28 agosto. Ritrovai in essa tutto te stesso, col 
tuo passato. E mi parve di essere ritornato a più 
che trenta anni or sono. 

La persona, a cui tu accenni sul principio della 
tua lettera, mi scrisse or è un anno una lettera a 
base di gargarismi rivoluzionari — quei gargarismi 
che sono il pasto quotidiano dei piccoli borghesi in¬ 
tellettuali meridionali, scombinati e inconcludenti. 
Gli risposi in termini piuttosto generici, dato che non 
ricordavo di averlo mai conosciuto. Ritornò a scri¬ 


vermi un altro paio di volte, propinandomi gli stessi 
gargarismi. Non gli risposi, visto che non ho tempo 
da perdere. Come vedi, non è certo da quella parte 
che poteva la tua personalità essere diminuita nel 
mio pensiero e nel mio affetto. 

Sono stato assai contento di leggere nella tua let¬ 
tera che tu metti uomini come me fra i « cristiani ». 
Giuseppe Donati mi soleva dire lo stesso. Io stesso, 
quando debbo spiegare quali sono le basi della mia 
fede morale, rispondo senza esitazione che sono « cri¬ 
stiano ». E se la gente mi domanda che mi spieghi 
meglio, dichiaro che sono cristiano perché accetto 
incondizionatamente gli insegnamenti morali di Gesù 
Cristo, e cerco di praticarli per quanto la debolezza 
della natura umana me lo consente; quanto ai dogmi, 
che sono andati sovrapponendosi nei secoli agli inse¬ 
gnamenti morali di Cristo, non me ne importa pro¬ 
prio nulla; non li accetto, non li respingo, non li 
discuto: la mia fede in certe norme di condotta mo- 


84 









rale non dipende dal credere die Cristo era figlio di 
Dio. Vi sono canaglie che credono alla divinità di 
Cristo, e galantuomini che non ci credono. Io divido 
gli uomini secondo che sono canaglie o galantuomini, 
e non secondo che hanno gli occhi neri o azzurri, o 
secondo che credono o non credono alla divinità di 
Cristo. 

Le norme della vita morale sono state elaborate 
dalla umanità, attraverso l’esperienza di centinaia e 
centinaia di secoli, e sono le stesse per tutti sotto 
qualunque latitudine e longitudine. Alcuni associa¬ 
rono quelle norme morali alla dottrina buddista; altri 
alla dottrina confuciana; altri alla dottrina mosaica; 
altri alla dottrina cristiana; jo, per conto mio, associo 
le mie idee morali a nessuna teoria religiosa. Le mie 
idee morali si trovavano quasi tutte nella filosofia stoi¬ 
ca prima che Cristo nascesse. Cristo ne aggiunse ad 
esse una nuova, quella della carità. Poi vennero i 
teologi a fabbricare intorno ai suoi insegnamenti un 
catafalco di dogmi. Io mi sono arrestato all’anno della 
crocifissione. Dopo quell’anno non c’è più nulla di 
nuovo che io abbia imparato come precetto di vita 
morale, e i catafalchi dogmatici dei secoli successivi 
non mi riguardano. Vi sono in tutte le parti del mon¬ 
do uomini che professano la stessa religione, ma 
alcuni sono santi e altri canaglie; e vi sono uomini 
che sono santi o canaglie appartenendo alle più dif¬ 
ferenti religioni. Quel che m’interessa è la pratica 
morale, e non la fede dogmatica di ciascuno. 

Beninteso che se un uomo onesto ritiene di dovere 
appoggiare la sua pratica morale su una fede reli¬ 
giosa, io non lo crederò per questo meno intelligente 
di me. Ognuno nel proprio spirito a modo proprio 
giustifica le proprie azioni. La vecchierella, che pre¬ 
gando innanzi alla immagine della Madonna trova 
conforto al suo dolore e un raggio di speranza, è 
altrettanto rispettabile quanto il filosofo che pesta 
l’acqua nel mortaio delle sue astrazioni. 

Come vedi, caro mio, io non trovo nulla da ri¬ 
dire nella dichiarazione di fede che hai avuto la bontà 
di fare nella tua lettera. Sono persuaso che sci stato 
sempre e sarai sempre un galantuomo, quale che sia 
la dottrina religiosa a cui hai creduto di dover aderire 
in questi lunghi anni di dolore. 

Data la importanza essenziale che io dò — ed ho 
sempre dato — al problema morale, puoi ben com¬ 
prendere se sono contento che su questo terreno la 
unità spirituale fra te e me non sia stata mai spezzata 
dalla lontananza, dagli anni e dal forzato silenzio. 

Tu scrivi nella tua lettera che hai aderito non 
solo al cristianesimo, ma al cristianesimo cattolico, e 
che tu consideri come tuoi inconciliabili avversari i 
cattolici fascisti e filofascisti nostalgici della defunta 
monarchia; ma che non te la senti di andare con gli 
azionisti, c non te la senti neanche di andare coi de¬ 
mocratici cristiani, la cui eterogeneità ti ripugna. An¬ 
che in questo non c’è nessuna differenza fra te e me 
( a parte il cristianesimo cattolico dogmatico, al 
quale non faccio obiezioni di sorta perchè si trova 
fuori del mio campo visivo). Insomma, vi è un vasto 
territorio sul quale possiamo camminare, oggi come 
ieri, insieme, tenendoci la mano. 

Vengo ora ai punti sui quali mi pare che non ci 
è possibile andare d’accordo. 


Tu scrivi che In Italia I cattolici rappresentano 
una gran forza, giacché se politicamente sono non ài 
rado tra loro agli antipodi, dal punto di vista reli¬ 
gioso formano una massa compatta; « gli attacchi anti¬ 
cattolici ed antipapali renderebbero impossibile la 
collaborazione anche di sinistra con una concentra¬ 
zione capace di costruire una repubblica tollerabile ». 

Tutto dipende dal significato che tu dai alle pa¬ 
role « attacchi anticattolici e antipapali ». L’anticle¬ 
ricalismo podrecchiano - massonico - mussoliniano, il 
quale discuteva nei comizi l’esistenza di Dio, e deca¬ 
pitava le madonne, e bastonava i preti, fu una vergo¬ 
gna, che non dovrebbe più risorgere, e nessun partito 
sarebbe degno di rispetto, se non lo sconfessasse ri¬ 
solutamente. Ma considereresti tu come « attacco an¬ 
ticattolico e antipapale » l’affermazione che Pio XI e 
Pio XII cooperarono con Mussolini? Se quel fatto è 
inesistente, allora è il carattere falso c non il carattere 
anticattolico dell’affermazione che deve «sere con¬ 
dannato. Ma se quell’afiermazione è vera, si deve sop¬ 
primere, perché è antipapale e anticattolica? Qu«to 
è un punto sul quale il tuo pensiero non mi riesce 
chiaro. 

Il fatto che tu condividi la opinione religiosa 
( direi piuttosto dogmatica ) dei cattolici reazionari 
filofascisti ti indurrebbe forse a cooperare con «si 
anche sul terreno politico, se questo ti apparisi ne¬ 
cessario per far prevalere coll’aiuto del braccio se¬ 
colare le dottrine religiose (direi piuttosto dogmati¬ 
che) comuni a te e a loro? Ecco un altro punto su 
cui il tuo pensiero non mi ri«ce chiaro. 

Tu scrivi che « l’abolizione del concordato fareb¬ 
be il gioco non solo dei cattolici conservatori, ma 
anche dei neofascisti e dei fascisti nostalgici, e dan- 
neggerebbe gravemente la tendenza democristiana 
Sturzo-Donati ». Qui mi pare che siamo arrivati al 
vero centro della discussione. 

Si può essere contrari alla politica concordataria 
del Vaticano senza violare n«sun dogma della Chie¬ 
sa cattolica. I cattolici belgi e svizzeri non hanno mai 
voluto saperne di un concordato. I cattolici ingl«i, 
americani e francesi non domandano un concordato. 
Don Sturzo dal 1919 al 1924 non domandò mai un 
concordato, e Pio XI si compiacque a cose fatte che 
la mancanza di pubblica discussione preventiva avesse 
reso possibile un successo che certamente sarebbe 
mancato. Oggi il Concordato è voluto dal Vaticano. 
Se la Democrazia Cristiana di Don Sturzo non si di¬ 
mostrerà indipendente dal Vaticano proprio su questo 
terreno, che è terreno politico e non dogmatico, tanto 
vale che essa confessi apertamente di essere nè più nè 
meno che una longa manus del Vaticano, il quale si 
serve dei clericali come quinta colonna fra i partiti di 
destra, e della democrazia di Sturzo come quinta co¬ 
lonna fra i partiti di sinistra, ma lo scopo degli uni e 
degli altri è uno solo: fare prevalere la politica del 
Vaticano nella vita pubblica italiana. 

All’abolizione del regime concordatario un partito 
politico italiano che sia democratico sul serio e non 
a chiacchiere, non può rinunziare a n«sun patto. Il 
regime concordatario fa del clero cattolico e dei fedeli 
che si raccolgono intorno al clero cattolico, un corpo 
privilegiato, la cui rappr«entanza spetta di diritto al 
Papa, c quei privilegi non possono essere alterati dalla 


U 






maggioranza dei cittadini perchè sono garentiti da un 
trattato fra il governo e il Papa, Sarebbe come se 
Stalin domandasse al governo di un paese non sovie¬ 
tico un concordato, in forza del quale i comunisti di 
quel paese sarebbero messi sotto il protettorato del 
governo sovietico. Qualunque concordato distrugge il 
principio della eguaglianza dei cittadini innanzi alla 
legge. Qualunque concordato deve perciò essere abo¬ 
lito senz’altro. Questo fecero gli uomini del Risorgi¬ 
mento. Questo Pio XI e Mussolini disfecero. Questo 
deve essere disfatto da capo. Comunisti, socialisti, 
azionisti, repubblicani non osano pensare con chia¬ 
rezza su questo punto — salvo ad essere presi domani 
da un accesso di anticlericalismo furioso alla Podrccca. 
Per conto mio, non cederei un solo millimetro di ter¬ 
reno su questo punto, dovessi anche rimanere per tutta 
l’eternità « Orazio sol contro Toscana tutta ». 

Bada che l’abolizione del concordato — imme¬ 
diata, totale, senza trattative col Vaticano — non porta 
come conseguenza necessaria l’abrogazione di tutte 
le leggi che furono promulgate dal regime fascista 
in conformità con gli impegni assunti nel concordato. 
Mi spiego con due esempi. Il Concordato abolisce il 
matrimonio civile per i cattolici e impone al governo 
italiano l’obbligo di seguire una data procedura nella 
celebrazione dei matrimoni. Orbene, si può abolire il 
concordato, e lasciare intatto il sistema legislativo 
sorto in Italia nel 1929, senza ritornare alla legge sul 
matrimonio civile del 1865. Il Concordato rende im¬ 
possibile una legge, che introduca il divorzio anche 
per i non cattolici. Si può mettere fine al concordato, 
cioè rivendicare per il governo secolare il diritto di 
adottare o non adottare il divorzio, e nello stesso tem¬ 
po dichiararsi contrari al divorzio sia per ossequio 
aH’insegnamento morale cattolico, sia per altre consi¬ 
derazioni che possono essere accolte anche da non 
cattolici: per esempio, ostilità delle donne contro il 


IL PONTE 

RIVISTA MESSILE Dì POLITICA £ LETTERATURA 
u PIERO CALAMANDREI 

Sommario del n. 1, gennaio 1964: 

Umberto Segre: La politica estera del centro- 
sinistra. 

Leo Levi: Lettera da Israele. Il t ritorno > di 
Paolo e la pace in terra. 

Antonio Bianchi: Agricoltura e compromessi 
nella CEE. 

I. Montanelli - F. Comandini - E. Enriques 
Agnoletti: Scontri per Garibaldi. 

Mario Delle Piane: Il problema dell’inter¬ 
vento italiano nella prima guerra mondiale. 
Renato Poggioli: Leone Tolstoj come uomo e 
come artista. 

Gilberto Finzi: Riformista o riformatore? 
Camillo Pennati: Tre poesie. 

Nino Isaia: L'uomo di un'epoca. Ricordi. 
Rassegne - Teatro, di A. Mango. 

Osservatorio - Ritrovo - Recensioni. 


Direttori: E. E Agnoletti e Corrado Tumiatl 
Piazza Indipendenza, 29 • Firenze 


divorzio, specialmente nell’Italia meridionale; pericolo 
di disorganizzare l’istituto della famiglia, inopportu¬ 
nità di sollevare siffatta questione mentre vi sono altre 
gatte da pelare, e così di seguito. 

Altro è dire questo argomento è tabù perchè c’è un 
concordato e il Papa mette il suo divieto; — altro è 
dire: i cattolici, come cittadini, hanno il diritto di 
oppiorsi a questa riforma, e gli altri italiani hanno il 
dovere di prendere in considerazione i sentimenti dei 
loro concittadini cattolici e non offenderli se non per 
ragioni assai serie e dopo matura considerazione. Altro 
è dire: i cattolici hanno il diritto di uniformarsi allo 
insegnamento del Papa su un dato problema, così 
come i comunisti si uniformano alle istruzioni di 
Mosca su molti problemi; — altro è dire: di qui non 
passano nè cattolici nè acattolici, nè comunisti, nè 
anticomunisti perchè un concordato col Papa vieta il 
diritto di passaggio. 

Insomma i cattolici democratici debbono scegliere: 
o governo clericale, o governo secolare nel quale essi 
abbiano gli stessi diritti di libertà che spettano a tutti 
i cittadini di un paese libero, e quindi la possibilità 
di far prevalere i loro punti di vista nella legislazione 
secolare col metodo della libertà eguale per tutti, ma 
non privilegi garantiti da un concordato secondo la 
dottrina clericale. 

L’argomento principe dei clericali, e — temo, 
purtroppo — anche dei democratici-cristiani alla don 
Sturzo — è che la popolazione italiana è cattolica, e 
i suoi sentimenti vanno rispettati. E’ facile rispondere 
anzi tutto che il rispetto ai sentimenti religiosi di un 
popolo non può essere imposto per legge, ma deve 
rampollare dalla coscienza e dalla educazione di quel 
popolo; i cattolici debbono provvedere essi allo svi¬ 
luppo di quella coscienza e di quella educazione, e 
non invocare il carabiniere per imporlo armata manu. 
Anche se tutti gli italiani fossero cattolici consapevoli, 
convinti, coerenti e praticanti, e un solo italiano non 
fosse tale, quell’unico italiano dovrebbe avere di fron¬ 
te alla legge gli stessi identici diritti dei suoi concit¬ 
tadini cattolici, e questi non dovrebbero godere di 
nessun privilegio legale nei suoi confronti. 

Sta inoltre il fatto che in Italia i cattolici consape¬ 
voli, convinti, coerenti e praticanti, sono una mino¬ 
ranza esigua. Il Partito popolare nel 1919 non convo¬ 
gliò che il 25% dei voti. La Democrazia Cristiana, nel 
1946, non ha convogliato che il 35% dei voti, e molti 
di questi voti furono dati non da cattolici consapevoli, 
convinti, coerenti e praticanti per aderire alle dottrine 
del Vaticano, ma da persone la cui fede religiosa era 
rinchiusa tutta nei portafogli. Con che diritto preten¬ 
de la minoranza cattolica di garantirsi grazie a un 
concordato col Papa una posizione giuridica di pri¬ 
vilegio in mezzo alla maggioranza dei suoi concittadini? 

Che i monarchici e i reazionari cerchino la prote¬ 
zione del Vaticano contro le forze di sinistra, c per ot¬ 
tenere quella protezione inghiottano il Concordato, e 
che il Vaticano in compenso ordini ai clericali di fare 
massa insieme con chi promette il rispetto del Concor¬ 
dato, è perfettamente naturale. Quello che non è na¬ 
turale è che i cristiani, i quali si dicono non clericali, 
minaccino gli uomini di sinistra col dilemma: « o voi 
inghiottite il Concordato, o noi ce ne andiamo coi 
clericali e col Vaticano, e addio alle vostre e nostre 


U 








riforme *. A questa minaccia gli uomini dì sinistra 
debbono rispondere: « Smettete il vostro doppio gio¬ 
co, e andatevene coi clericali e col Vaticano, ma noi 
il concordato non lo inghiottiamo. Rimarremo in m- 
noranza, data la vigliaccheria dei comunisti, socialisti 
e repubblicani. Ma non sarà sempre così ». 

Vi sono due modi di arrivare alla abolizione del 
Concordato. L’ideale sarebbe di arrivarvi all’amiche¬ 
vole, attraverso un compromesso amichevole non col 
Vaticano ma con quella parte dei cattolici italiani che 
non è accecata dalle tradizioni medievali. Il compro¬ 
messo dovrebbe avere sempre per base 1 abolizione 
immediata senz’altro del concordato — su questo 
punto la mia intransigenza sarebbe assoluta — ma la 
massima parte delle leggi concordatarie rimarreb^ro 
intatte, mettiamo, per cinque mni, magari per dieci 
anni; scaduto il compromesso, si negozierebbe un nuo¬ 
vo compromesso. Chi avesse miglior filo tesserebbe 
miglior tela. La massima parte delle leggi concordata¬ 
rie, ma non tutte, potrebbero essere lasciate fuori 
discussione. Due leggi dovrebbero cadere immedia¬ 
tamente: quella che fa della religione cattolica^ la 
religione dello Stato, e quella che esenta da ogni im¬ 
posta tutte le istituzioni ecclesiastiche, cioè permette 
in un paese rovinato di usare strade, ponti, tribunali, 
edifici pubblici, bonifiche, ferrovie, etc., senza 
tribuire alle spese; una vera e propria porcheria di 
cui il tuo e mio Gesù Cristo non sarebbe entusiasta. 

Ma il Vaticano non cede mai spontaneamente 
nessuno dei privilegi ereditati dal Medio Evo, nè per¬ 
mette ai cattolici di accettare compromessi, salvo che 
vi sia costretto dal pericolo di danni maggiori. Bisogna 
sempre con quella gente là mostrare il bastone di ferro 
se si vuol arrivare ad usare solamente il guanto di 
velluto. Per bastone di ferro intendo il minacciare 
un’abolizione immediata di tutte le leggi concordata¬ 
rie, e in aggiunta ( sempre nella speranza di non inet- 
tere mano a quegli estremi) l’abolizione immediata 
totale del bilancio dei culti; la confisca delle mense 
vescovili e capitolari; l’abolizione dei sussidi ai paiTO- 
ci; il trasferimento dei beni delle parrocchie ai co¬ 
muni, liberi i comuni di assegnare le rendite al culto o 
ad opere di assistenza sociale ed educazione popolare. 

Se il Vaticano sapesse di dover evitare questi 
estremi, lascerebbe ai cattolici italiani la via aperta 
per una divisione all’amichevole. Solo quando deve 
adattarsi al meno peggio, il Vaticano lascia ai cattoli¬ 
ci libertà di regolarsi caso per caso secondo il loro 
buon senso e non secondo fantasmi ereditati dal tem¬ 
po di Gregorio VII e di Innocenzo III. Dove il 
Vaticano ha paura di un serio movimento anticleri¬ 
cale, i cattolici non clericali godono di larga libertà 
d’azione. Non appena il movimento anticlericale de¬ 
clina, il Vaticano spinge in prima linea i clericali e 
li aiuta a soffocare i cattolici non clericali. 

Mentre ti scrivo, mi cade sottomano l'Osservatore 
Romano del 1“ settembre 1946, dal quale apprendo 
che un conte Ruccellai di Firenze vorrebbe far ap¬ 
provare dalla Costituzione una « legge costituzionale 
sulla religione dello Stato », secondo la quale « lo 
Stato riconosce la personalità e la sovranità della 
Chiesa cattolica romana in conformità del diritto ca¬ 
nonico », * gli attentati, le offese e le calunnie alla 
religione dello Stato, alla Chiesa e ai suoi ministri 


sono punibili », *■ la pubblica propaganda contrari* 
alla religione dello Stato è vietata », è permessa la 
professione e propaganda <n anche in pubblico » di 
culti non cattolici « purché non contrari agli articoli 
della presente legge ». L’Osservatore Romano, pub¬ 
blicando quel documento senza critiche di sorta, di¬ 
mostra che esso contiene le pretese del Vaticano. 
Dopo avere ottenuto il 70% da Mussolini, il Vati¬ 
cano pretende il restante 30% dai successori di 
Mussolini in premio, a quel che pare, della coope¬ 
razione da esso concessa per venti anni a Mussolini. 

La Chiesa in un paese retto a democrazia è una 
associazione privata retta da leggi interne proprie. 
Il diritto canonico è la legge interna della chiesa 
cattolica, moralmente obbligatoria per chiunque si 
sente cattolico. Ma quel dovere deve nascere da una 
scelta libera. Chi non nacque cattolico o non si sente 
più cattolico, non deve essere tenuto dalle norme del 
diritto canonico: deve legalmente obbedire alle sole 
leggi che sono comuni a lui e a tutti i suoi con¬ 
cittadini. In Italia il Vaticano pretende che il diritto 
canonico diventi leggi civile obbligatoria, anche per 
quelli che non intendono seguire la Chiesa cattolica. 

Ogni individuo privato, e ogni associazione pri¬ 
vata, ha il diritto di essere protetto dalla legge co¬ 
mune contro gli attentati, le offese e le calunnie. 
Il Vaticano pretende un privilegio speciale anche in 
questo campo, beninteso che le offese e le calunnie 
dell’Osservatore Romano contro i culti non cattolici 
non sarebbero né offese né calunnie, ma sarebbero 
critiche perfettamente giustificate. Siamo in pieno 
regime totalitario, cioè fascismo — fascismo eccle¬ 
siastico e non fascismo secolare. 

Sarebbe bene sapere se i democratici<ristiani alla 



Uastrolabio 


37 

























Don Sturzo accettano o respingono le idee contenute 
nel progetto di legge pubblicato dall’Osservatore Ro¬ 
mano. Se non le accettano, lo dicano apertamente: 
preparerebbero una concentrazione di tutte le forze 
democratiche ragionevoli e lavorerebbero ad educare 
il popolo'italiano nella morale cristiana mille volte 
più che mettendo l’arma dei carabinieri a servizio 
del diritto canonico. Oppure accettano quel sistema 
di idee? E lo dicano chiaramente e onestamente uscen¬ 
do dagli equivoci. 

Che cosa intendono essi quando invocano la « li¬ 
bertà »? Intendono « libertà per tutti », oppure « li¬ 
bertà per i soli cattolici »? E intendono « libertà per 
tutti » come un ideale da affermare in permanenza, 
o come un espediente provvisorio da essere utilizzato 
per arrivare ad un regime di * libertà per i soli 
cattolici »? 

Tu scrivi nella tua lettera che « uno dei maggiori 
problemi politici dell’Italia di oggi è quello di fare 
del cristianesimo cattolico una potente forza di rinno¬ 
vamento etico, educativo e anche politico ». Perché 
non lo dici al Papa, ai cardinali, agli arcivescovi e ai 
vescovi italiani? Ne avrebbero bene avuto del tempo 
per metter mano a quel rinnovamento! Non pare ci 
abbiano mai pensato. 

Tu hai perfettamente ragione a ritenere che un 
atteggiamento modernista fra i cattolici non servirebbe 
Se riuscirete a rinovare quella impalcatura dal di 
dentro, o non si rinnova affatto. Ma dove sono que¬ 
ste forze di rinnovamento dal di dentro? Vedo vel¬ 
leità, non vedo volontà. Temo assai che assistiamo 
nella Democrazia Cristiana d’oggi a una seconda edi¬ 
zione di quella lotta fra conservatori e democratici 
che paralizzò il Partito Popolare venticinque anni or 
sono. E dietro ai conservatori c’è oggi, come c’era 
allora, l’alto clero cattolico accentrato nel Vaticano. 
Se riescirete a rinnovare quella impalcatura dal di 
dentro, farete un vero miracolo — e, ripeto, dif¬ 
fonderete un nuovo sentimento religioso contro cui 
nessun uomo di buon senso dovrebbe obiettare, per¬ 
ché il sentimento religioso diventa deleterio e odioso 
solamente quando sconfina dai limiti della libertà 
morale e pretende di prevalere colla forza. 

L’anticlericalismo è nato storicamente come dife¬ 
sa contro il clericalismo da parte di chi non intendeva 
lasciarsi dettar la legge dai preti. Nei primi due de¬ 
cenni di questo secolo in Italia le ragioni dell’anti¬ 
clericalismo erano venute meno, perché il clericalismo 
aveva perduto i denti dopo mezzo secolo di lotte 
sfortunate. Questo spiega perché nel 1922 intese 
cominciavano ad apparire possibili fra socialisti e po¬ 
polari. Pio XI, essenzialmente reazionario c filofa¬ 
scista, rese impossibili quelle intese. Oggi vi è la 
possibilità di ricostruire la vita italiana senza cleri¬ 
calismo e senza anticlericalismo. Per riconquistare 
molti italiani alla fede cattolica fecero più due martiri 
della lotta antifascista come Don Minzoni e Don 
Morosini che mille dottori di diritto canonico. Ed 
ecco che il Vaticano approfitta di questa disposizione 
degli animi per pretendere nuovi privilegi oltre quelli 
che aveva ottenuto da Mussolini. A quella ondata 
clericale corrisponderà o prima o poi una reazione 
anticlericale. 

Non illudetevi che possiate a lungo tenere inca¬ 


tenati alla póirticà del Vaticano i partiti di sinistra, 
minacciandoli di piantarli in asso se non inghiottono 
insieme con voi tutto quel che il Vaticano pretende 
che inghiottiate. Solo se avrete il coraggio di stac¬ 
carvi dai clerico-reazionari e dichiararvi in politica 
indipendenti dai Vaticano, solo in questo caso riu¬ 
scirete a impedire una nuova tempesta non solo 
anticlericale, ma anche antireligiosa. 

Credendo fermissimamente nella « libertà per tutti 
come ideale permanente », e cioè nel diritto di ognuno 
di andare all’inferno o al paradiso per la strada che 
più gli aggrada, io farei alle coltellate con chiunque 
disturbasse la vecchiarella nella sua preghiera e pre¬ 
tendesse imporle un’altra fede o nessuna fede, e con 
questo sentirei di compiere il mio dovere verso quel¬ 
la fede morale-storica<ristiana, della quale indegna¬ 
mente mi professo seguace. Anche se qualcuno mi 
consigliasse la fede di quella vecchiarella o qualun¬ 
que altra fede, riconoscerei che è questo un suo 
diritto, e mi sentirei in dovere di tollerare le sue 
prediche. Riconoscerei che è nel suo diritto anche 
se mi dicesse che andrò all’inferno se non lo ascolto: 
tale è il suo modo di pensare, e anche in questo io 
debbo sopportare con pazienza quella molestia. Ma 
se non si contenta di promettermi l’inferno nell’al¬ 
tro mondo e vuol crearmi l’inferno già in questo 
mondo colla prigione, col boicottaggio economico, 
colla calunnia, allora la mia fede morale diventa 
immediatamente anti-clericalismo politico militante, e 
sono pronto a fare alle coltellate con chi pretende di 
mandarmi per forza in paradiso. 

Il mio sogno sarebbe di camminare a braccetto 
con te finché rimanesse lena a te per predicare le 
tue idee religiose e morali, e a me per predicare le 
mie idee morali senza religione. Ma il giorno in cui 
ti vedessi passare nel campo vaticanesco a predicare 
non solo le tue dottrine religiose, ma anche le idee 
politiche del Vaticano, quel giorno non me la pren¬ 
derei calda neanche se vedessi risorgere l’anticleri¬ 
calismo a base di bastonature di preti nelle strade. 
Scuotendo desolato il capo, ripeterci con Manzoni: 
« mal date, ma ben ricevute ». 

G)me vedi ho cominciato coll’essere d’accordo 
con te, ed ho finito — temo — coll’essere in disac¬ 
cordo. Anche questa è una prova del fatto che si 
può convenire su molti principi generali c dissentire 
sulle conseguenze pratiche da dedurre da quei prin¬ 
cipi, c si può dissentire su tutti i principi eppur 
convenire su molte azioni pratiche. 

GAETANO SALVEMINI 


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Libri 


Il socialismo dei non impegnati 


Neutralismo e jjuerra frethla 
di Giampaolo (balchi Novali 
Coniunilà, pp. 264, L. 2500 

I L fenomeno del neutralismo 
è nuovo, complesso e pressoché 
inesplorato; in Italia, poi, è un 
argomento ancora vergine, quanto 
meno al livello della saggistica 
se non della generica pubblicistica. 
Ciò rende prezioso, in partenza, il 
contributo del Calchi Novali, il 
quale ha messo a frutto la sua 
non recente dimestichezza con i 
problemi del ” terzo mondo ” in¬ 
traprendendo un'ampia disamina di 
quei loro aspetti comuni che han¬ 
no acquistato crescente rilievo nel¬ 
la realtà internazionale. 

L'autore si è attenuto a un cri¬ 
terio prevalentemente cronologico, 
riuscendo ad evidenziare le tap¬ 
pe fondamentali dell' evoluzione 
del neutralismo, le quali si iden¬ 
tificano poi con altrettante com¬ 
ponenti avviate verso una più o 
meno stabile fusione in un unico 
Alone. Egli ha inoltre inserito cri¬ 
ticamente il fenomeno nella pro¬ 
blematica generale del mondo di 
oggi, e in primo luogo del contra¬ 
sto Est-Ovest. E dobbiamo dire 
che, se un appunto gli può essere 
mosso quanto all'impostazione del 
lavoro, è di non aver calcato ab¬ 
bastanza la mano sul neutralismo 
visto dal di dentro; il che gli 
avrebbe forse assicurato dei risul¬ 
tati più sicuri, anche se meno 
ambiti. 

Ci spieghiamo. Ci sembra che 
Calchi Nevati avrebbe dovuto con¬ 
cedere di meno alla preoccupa¬ 
zione di provocare nel lettore un 
giudizio immediato favorevole al 
neutralismo, e presentare invece 
una serie più ricca di elementi at¬ 
ti a facilitare un giudizio, quale 
che sia, su un fenomeno cosi po¬ 
co conosciuto. Neutralismo visto dal 
di dentro: concentrare cioè l'analisi 
critica sulle formulazioni concet¬ 
tuali studiate e suile loro appli¬ 
cazioni, piuttosto che sugli atteg¬ 
giamenti tenuti 0 da tenere di 
fronte ad esse; e inoltre, un loro 
più largo e approfondito confron¬ 
to con le varie situazioni interne 
dalle quali sono sorte. 

Malgrado questi rilievi, il la¬ 
voro del Calchi Novali costituisce 
un contributo molto valido a una 
considerazione critica dell' argo¬ 


mento. Lo stesso titolo suggerisce 
di prendere le mosse dalla compo¬ 
nente più ovvia del neutralismo: 
il suo carattere di vasta ribellione 
contro la guerra fredda e il suo 
estendersi, contro la realtà dei due 
blocchi e il pericolo nucleare. Neu¬ 
tralismo e guerra fredda, d'altron¬ 
de, sono termini inscindibili anche 
perché Senza l'aspra contrapposi¬ 
zione dei due blocchi non vi sa¬ 
rebbe stato spazio per l'emergere 
relativamente cosi rapido di un 
" terzo mondo ", non vi sarebbe¬ 
ro state le condizioni propizie per 
un'offensiva su vasta scala contro 
il colonialismo proprio e Impro¬ 
prio, e contro il sottosviluppo. Che 
poi tale lotta abbia acquistato An 
daH'inizio l'impronta del neutrali¬ 
smo o del disimpegno, costituisce 
in parte una delle tante conse¬ 
guenze della degenerazione stali¬ 
niana del comuniSmo — e non so¬ 
lo perché l'URSS, almeno Ano al 
1955, non dimostrò alcuna sensi¬ 
bilità per i problemi e le Istanze 
dei paesi uscenti dalla colonializ- 
zazione o tesi a liberarsene. 

Furono questa degenerazione e 
questa insensibilità a compromet¬ 
tere la suggestione potente eserci¬ 
tata dalla Rivoluzione d'ottobre 
sui movimenti di emancipazione 
del mondo coloniale, e a frustrare 
le naturali implicazioni anti-colo- 
nialiste dell'originario programma 
comunista. Venne meno la prospet¬ 
tiva di quel vasto fronte antl-im- 
perlalista di tutte le forze rivolu¬ 
zionarie — dal nazionalismo di co¬ 
lore ai vari socialismi europei — 
teorizzato da Lenin aU'indomani 
delta conquista del potere in Rus¬ 
sia (teorizzazione ripresa recente¬ 
mente, con successo non sorpren¬ 
dentemente scarso, dalla leader¬ 
ship post-staliniana, e che il Cal¬ 
chi Novali avrebbe potuto oppor¬ 
tunamente menzionare — se non 
altro come antecedente storico —, 
anziché ricorrere ad alcune opina¬ 
bili citazioni per appoggiare la te¬ 
si della strumentalizzazione del- 
l'anti-colonialismo ai Ani della lot¬ 
ta di classe). A ragione, perciò, 
l'autore rileva come, a causa della 
contraddizione che condiziona lo 
politica deirURSS " nella sua du¬ 
plice qualità di primo Stato socia¬ 
lista e di protagonista della guer¬ 
ra freddo ", è stato determinante, 
ai Ani del movimento anti-colonia- 
lista, il semplice precedente della 
Rivoluzione d'ottobre, dei progressi 
eccezionali dell'industrializzazione 
e della tecnica sovietiche. Dopodi¬ 
ché, è An troppa grazia l'identiA- 


cazione dell' URSS col " centro 
ideale di ogni movimento di eman¬ 
cipazione ", posta come condizione 
della validità anti-imperialista del 
neutralismo. 

Questa, diciamo, dissonanza va 
ricollegata a un motivo di fondo 
che, in un certo senso, dà il tono 
al volume di Calchi Novali e ne 
costituisce l'aspetto più stimolan¬ 
te e insieme più precario. Le quali- 
Acazioni assunte dal neutralismo 
col passare degli anni — accele¬ 
razione della decolonizzazione, re¬ 
sistenza ai ritorni imperialistici, 
superamento delle condizioni di 
sottosviluppo, difesa della pace ed 
eliminazione delle cause di attrito 
tra 1 due blocchi — non esauri¬ 
scono il programma neutralista né 
bastano a conferirgli un'impronta 
sufAclentemente originale ed inci¬ 
siva. Lo stesso motivo anti-impe¬ 
rialista. in fondo, non dice gran che, , 
da sé solo, se non altro per es¬ 
sere facilmente sfruttabile nelle 
circostanze e per i Ani più diversi. 
La nuova componente che, secon¬ 
do il Calchi Novali, completa il 
programma neutralista, avvaloran¬ 
dolo ed esaltandolo nella sua inte¬ 
rezza è invece l’impegno a ” rea¬ 
lizzare la rivoluzione sociale e la 
costruzione del socialismo ", sia 
pure ” adattandolo alle contingenze 
del mondo arabo o della società 
africana ”, essendo l’area dei paesi 
non impegnati ” il mondo (...) in 
cui la via al socialismo è origi¬ 
nale ”. L’affermazione di questa 
componente e la sua integrazione 
nella tematica neutralista vengono 
ricollegate dall'autore al fondamen¬ 
tale, decisivo apporto arrecato al 
neutralismo dal suo unico vero por¬ 
tavoce europeo: la Jugoslavia. 

Questo concetto, che domina un 
pò tutta l’opera, trova la sua espli¬ 
cazione più articolata e convincen-, 
te nell’analisi dedicata al caso in¬ 
diano. La funzione di guida dei 
non allineati, il prestigio e il mor¬ 
dente dell’azione neutralista del¬ 
l’India di Nehru sono gradualmen¬ 
te scaduti, di pari passo con l’in¬ 
voluzione aH’interno e l’afAevolir- 
sl dell’impegno di rinnovamento 
economlco-sociale, e con l'indebo¬ 
limento progressivo della sua re¬ 
sistenza al neo-colonialismo. Per 
quanto l'offuscarsi dell’astro india¬ 
no nel Armamento dei non impe¬ 
gnati possa spiegarsi parzialmente 
anche con la comparsa di nuovi e 
più vigorosi centri d’irradiazione, il 
fatto resta assai slgniAcativo ed 
esemplare. CI si può chiedere, tut¬ 
tavia. se sia proprio un caso che 
l'esemplo più eloquente abbia ca¬ 
rattere negativo. E per cercare una 
risposta, consideriamo la conferen¬ 
za al vertice di Belgrado del set¬ 
tembre 1961, l’ultima «ande assi¬ 
se del neutralismo, nella quale si 


39 










è cercato di dargli un’impostazio¬ 
ne programmatica particolarmen¬ 
te coerente ed incisiva, selezionan¬ 
do nel contempo l'eterogeneo 
schieramento di forze dispiegatosi 
in precedenti occasioni. 

Per la verità, l'autore precisa 
che la selezione era avvenuta ” in 
conformità ai principi del non al¬ 
lineamento ”, e si premunisce af¬ 
fermando che la conferenza era 
importante ” più per la politica che 
vi si sarebbe enucleata che per il 
successo della rassegna in sè ”, al¬ 
ludendo alla presenza di taluni 
paesi ed all’assenza di altri. Ma 
come non tentare di spingere a 
fondo l'indagine sul curriculum do¬ 
mestico di tutti i 25 selezionati se 
la "costruzione del socialismo” (e 
sia pure di un socialismo ’’ adat¬ 
tato ” e "originale”) deve dav¬ 
vero figurare tra gli impegni fon¬ 
damentali del neutralismo? L’au¬ 
tore ritiene sufficiente giustificare 
in qualche modo — e non senza 
buone pezze d’appoggio — la pre¬ 
senza di paesi come Cipro, Libano 
e Somalia (” culturalmente e poli¬ 
ticamente vicini all’occidente”), 
da una parte, e Marocco, Yemen 
e Arabia Saudita (” solidali solo 
per motivi contingenti con la po¬ 
litica neutralistica di cui non pra¬ 
ticavano il riferimento sociale”), 
dall’altra. Qui occorrerebbe in pri¬ 
mo luogo chiarire se ed in quale 
misura Cipro o il Libano abbiano 
od avessero per avventura le car¬ 
te in regola quanto al ’’ riferimen¬ 
to sociale ”, e se l’Arabia Saudita, 
ad esempio, non fosse o non sia 
economicamente legata a filo dop¬ 
pio all’Occidente. Il discorso, però, 
dovrebbe essere generale, ed accen¬ 
tuarsi anzi non tanto per i casi 
che appaiono praticamente scontati 
in partenza (quali l’Afghanistan, il 
Nepal. l’Etiopia), quanto su quelli 
generalmente considerati più signi¬ 
ficativi ed esemplari, senza trascu¬ 
rare naturalmente l’incidenza del¬ 
lo stesso caso indiano. 

Non è possibile contestare ra¬ 
gionevolmente la portata storica e 
la funzione obiettivamente pro¬ 
gressiva della ” rivolta ” del terzo 
mondo. Sarebbe necessario, invece, 
tentare di chiarire se e in quale 
misura tale rivolta sia portatrice 
— per le sue fonti di ispirazione e 
per i modi in cui si attua con¬ 
cretamente — di valori genui¬ 
namente rivoluzionari, anche se 
non del tutto nuovi in ogni loro 
aspetto e anche se non necessaria¬ 
mente riconducibili al socialismo. 
Il torto del Calchi Nevati non è, 
dunque, di aver sollevato il proble¬ 
ma, ma di non averlo posto appun¬ 
to in quanto problema, e anzi di 
averlo dato per risolto in un de¬ 
terminato senso senza peraltro ad¬ 
durre prove sufficienti. Ci si po¬ 
trebbe chiedere: cos’è il socialismo 
” adattato ” e ’’ originale ”? E Cal¬ 
chi Nevati non ha, per caso, trop¬ 
po sbrigativamente identificato la 


costruzione del socialismo con una 
generica pianificazione economica e 
con la prevalenza o l’esclusività 
dell’iniziativa statale nel processo 
di industrializzazione? E’ inevita¬ 
bile, infine, ripensare a quei casi 
di evidente involuzione demagogi- 
co-totalitaria verificatisi d’esempio 
più recente è offerto dal Ghana) 
in paesi la cui esperienza appariva 
particolarmente promettente, e più 
in generale ai continui progressi 
del neo-colonialismo, con tutte le 
sue implicazioni, in ogni parte del 
terzo mondo. 

Un ultimo rilievo. Calchi Nevati 
indica come caratteristica e condi¬ 
zione deH'effìcacia anti-imperiali- 
stica del neutralismo non soltanto 
la costruzione del socialismo al¬ 
l’interno, ma anche l’accettazione 
della ’’ vena indissolubile che ac¬ 
comuna — nella stessa campagna 
per il progresso e la indipenden¬ 
za dei popoli — i programmi del 
riscatto nazionale ed il socialismo 
internazionale ”. Ma cos’è il ” so¬ 
cialismo internazionale ”? Secondo 
ogni apparenza, l’autore esclude il 
blocco comunista — avversato pro¬ 
grammaticamente dal neutralismo 


appunto in quanto blocco —, an¬ 
che se poi invita ad accantonare 
” le più viete riserve anti-marxi- 
ste ” e a riconoscere nell’URSS ’’ il 
centro ideale di ogni movimento di 
emancipazione ”. Nè si riferisce, 
presumibilmente, ai partiti che 
hanno il loro punto d’incontro nel¬ 
l’Internazionale socialista. Rimane, 
quindi, la postulazione di un socia¬ 
lismo internazionale non anti-mar- 
xista. se non proprio marxista, il 
quale però non ci risulta che esista 
se non allo stato di vaga aspira¬ 
zione. Che un simile socialismo pos¬ 
sa servire d’appoggio o da guida 
per il terzo mondo appare perciò 
piuttosto dubbio; sempreché non si 
accetti la formulazione posta a 
conclusione del libro, la quale at¬ 
tribuisce al socialismo — previa 
depurazione dal ” satellitismo ’’ e 
in connubio con il neutralismo at¬ 
tivo — un ” compito di media¬ 
zione fra paesi ricchi e paesi po¬ 
veri ”. 

Tutto sta, evidentemente, ad in¬ 
tendersi su che cosa sia o debba 
essere il socialismo. 

FRANCO SOGLIAN 


MOVIMENTO GAETANO SALVEMINI 

Domenica 22 marzo alle ore 10, a Roma, nella sala dell’Hotel Uni¬ 
verso — Via Principe Amedeo, 5-B — dopo la lettura di qualche 
scena del « Vicario » e la esposizione da parte del dr. Leo Levi 
(di Gerusalemme) di alcune sue impressioni sul viaggio di Paolo V^I 
in Palestina si svolgerà un dibattito sul dramma di Rolf Hochhuth. 

Analoghi dibattili saranno tenuti lunedì 23, alle ore 21, alla Casa 
della cultura di Milano — Via Borgogna, 3 — e martedì 24, alle 
ore 21, alla Società di cultura di Genova (Palazzo del grattacielo). 

Per i primi di aprile è preannunciato il 2° Convegno del Movi¬ 
mento Gaetano Salvemini, sul tenia: « Disarmo atomico e forza mul¬ 
tilaterale ». 

Relatori: P) il prof. Patrick Blackett dell’Università di Londra, 
premio Nobel per la fisica, già consigliere dell’ammiragliato britan¬ 
nico per i problemi di strategia nucleare, autore dei due volumi 
sull’argomento tradotti in italiano neH’edizione Einaudi; 2°) il pro¬ 
fessor Karol Lapter, dell’Università di V^arsavia, consulente giuridico 
del governo polacco per i problemi del disarmo, più volte membro 
di delegazioni ufficiali all’ONU c alla Conferenza di Ginevra; 3°) Fer¬ 
ruccio Parri. 

T lavori del convegno inizieranno con una breve introduzione 
storica del dottor G. Calchi Novali, sabato 4 aprile alle ore 16,30, 
a Rom.a, nel salone del palazzo Brancaccio (largo Brancaccio 82) 
e coiitimieranno il giorno appresso nello stesso locale, alle ore 10 
della mattina cd al pomeriggio alle ore 16. 

Tutti i lettori AclVAstrolabio sono invitati al dibattito cd al 
convegno. 


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