La guerra dì Belocbio, di Palma e di Badoglio
Jia.hi Jcl wle
ADDIORRDRE
A ava « f. teccar^ C. •saia. T. Savi. Cm la caBitamlaai di Maw Faaalwni.
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rastrolabio
Domenica 4 Giugno ] 967
Direttore
Ferruccio Farri
Comitato di Redazione
Ercole Bonacina, Lamberto Borghi, Tristano Codignola, Alessan¬
dro Galante Garrone, Antonio Giolitti, Gian Paolo Nitti, Leopoldo
Riccardi, Paolo Sylos Labini, Nino Valeri, Aldo Visalberghi
Vice Direttore Responsabile
Luigi Ghersi
Ferruccio Farri: Sull’orlo della guerra.
4
sommario
P.: Economia: Carli al quadro di controllo.
6
Giuseppe Loteta: La rissa per Israele.
7
G. M.: La commedia dei fitti.
8
Antigono Donati: Kennedy Round: il mercante atlantico (in-
tervista) .
8
a vita politica
G. M.: Parlamento: l’occhio della minoranza.
11
Giampaolo Calchi Nevati: Medio Oriente: occhio per occhio .
14
Federico Artusio: Tempesta sulla coesistenza.
18
Sergio Angeli: Un’Europa isolazionista?.
22
D.: De Gaulle a Roma.
25
agenda intemazionale
1. T.: Grecia: puritani per decreto.
26
Giulio Pietranera: Carlo Rosselli e la presa di possesso fascista
cronache italiane
dell’università italiana: la cultura in orbace ....
28
L'Astrolabio è In vendita ogni sabato. Direzione, Redaz. e Amminlstraz., Via di Torre Argentina, 18, Roma, Tel. 565881,
651257. Pubblicità: L. 200 al mm. giustezza 1 colonna sulla base di 3 colonne a pag. Tariffe di abbonanoento: Italia;
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na 18, Roma accompagnate dal relativo Importo o con versamento sul c/c n. 1/40736 Intestato all'Astrolabio. Editore
« Il Seme >. Registrazione del Tribunale di Roma del 18 maggio 1966. Distributore: Società Diffusione Periodici
(SO.DI.P.) Via Zurettl, 25 - Milano - Tel. 6884251. Stampa: Graphocolor s^J.a. - Roma. Sped. in abb. postale gruppo II.
^■'astrolabio - 4 giugno 1967
3
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Oiamo sull’orlo scivoloso di
ultimatum a lunga scaden¬
za che gli umori bellicosi dei guer¬
riglieri siriani o le impazienze di
un Moshe Dayan possono far pre¬
cipitare nella guerra, sotto l’incu-
bo di un rischio mal calcolato
poiché il complesso e intricato gio¬
co dei fattori litigiosi ne rendono
più che incerto il controllo. Unico
elemento relativamente positivo
l’azione frenante delle grandi po¬
tenze, timorose del crash irrepa¬
rabile. Ma il pessimismo manife¬
stato da U Thant reduce dal Cairo
è ammonitore.
Non si vede infatti come supe¬
rare le posizioni rigide ed appa¬
rentemente irriducibili che sono
al primo piano della contesa, cioè
il blocco marittimo d’Israele al
quale Nasser aveva dovuto con¬
sentire lo sbocco ad Aqaba a com¬
penso della chiusura del Canale
di Suez, e la strenua opposizione
d’Israele a tornare alla condizione
di assediata cui aveva reagito con
l’infausta offensiva di Porto Said.
Ma in secondò piano, quasi in ag¬
guato, dietro la minacciata distru¬
zione d’Israele sta la brama nas-
seriana di una profonda revisione
territoriale della zona.
I paesi arabi contermini han¬
no interessi diversi ed una na¬
turale diffidenza verso l’invaden¬
za nazionalista di Nasser, ma una
guerra santa contro Israele non
potrebbe non trascinarli tutti.
Le vie del negoziato. Difesa
della gente ebrea e difesa del
sionismo sono due cose diverse.
Ma quali siano gli errori della po¬
litica d’Israele e le sue responsa¬
bilità verso i profughi, l’Europa
non può ammettere la condanna
della mirabile, quasi eroica co¬
struzione di una nuova patria che
è elemento vivo della civiltà occi¬
dentale. L’Europa ha sulla coscien¬
za lo sterminio del popolo ebraico
e deve salvare la risposta che a
Tel Aviv essa ha dato ad Ausch¬
witz. E’ vero che Israele è costata
un duro sacrificio alla gente ara¬
ba. E’ a questa, se mai, che una
riparazione va data.
Ma che può fare tra l’urto del
due blocchi maggiori questa Euro¬
pa che il federalismo aveva so¬
gnato come una terza forza me¬
diatrice? E’ un’Europa diversa ed
incerta, alla quale tuttavia le tre¬
mende esperienze del passato di
distruzione danno una certa, istin¬
tiva unità di reazione che fini'
sce per richiamare anche i comu¬
nisti, pur contrari alle posizioni
politiche appoggiate daU’Àmerica:
si veda la degna ed esplicita di¬
chiarazione della federazione ro¬
mana del PCI. E’ già questo un
modo serio di intervento. Non
molto più efficaci possono riuscire
le raccomandazioni che ogni ca¬
pitale rivolge ai contendenti.
Quelle che avrebbero la forza
di portare al negoziato sono bloc¬
cate sulla via dell’intesa dagli in¬
dirizzi di base della rispettiva po¬
litica mondiale. L’Unione Sovieti¬
ca non può mollare Nasser che è
la sua posizione di forza nel mon-
i
4
À
do arabo. Gli Stati Uniti alla pal¬
la al piede del Viet Nam aggiun-
gono una seconda costante, sem¬
pre presente e spesso decisiva, che
è la difesa degli sfruttamenti pe¬
troliferi. Le novità che si annuncia¬
no in qualche paese come Tirale
possono portare complicazioni e
contraddizioni nella politica ame¬
ricana.
Politica con i paraocchi. Com¬
plicato ed imbarazzato gioco a
scacchi, reso esitante dalla consa¬
pevolezza di legami e comuni in¬
teressi che è dannoso per tutti
rompere, dall’attesa di mosse ri¬
solutive. Supponendo che gli Sta¬
ti Uniti siano il centro del gioco,
come lo sono, la mossa di Nasser
nel momento di più pericoloso
impegno nel Viet Nam potrebbe
parer calcolata per lo scacco fina¬
le al re.
Ma non vi è bisogno di suppor¬
re ricatti di questo genere, o d’im¬
maginar complotti ancor più in¬
consistenti degli Stati Uniti per
imbarazzare i Soviet, per ricono¬
scere ancora una volta che indi-
visibilità della pace significa che
la pace non si aggiusta a toppe.
Il discorso ritorna dunque al
Viet Nam , intendendo questa
guerra sciagurata come il prodot¬
to di una politica imperiale che
persegue con intransigente coe¬
renza nel Pacifico e in Asia un suo
disegno di blocco della Cina co¬
munista e di controllo conseguen¬
te delle appendici peninsulari del¬
la Corea e dell’Indocina. E’ que¬
sta la responsabilità primaria del¬
la politica americana. La esca¬
lation che conosce solo la logica
dello schiacciamento dell’avversa¬
rio ne è la proiezione necessaria.
Politica con i paraocchi che an¬
nulla, paralizza, mina possibilità
e trattative di distensione, risve¬
glia diffidenze e resistenze, fa ma¬
turare nuovi incidenti, apre la
strada ed accresce le voglie di tut¬
ti i nazionalismi inquieti. E così
si allarga la rottura, si complica
la partita, della quale tra i due
grandi litiganti unico beneficiario
che può, per modo di dire, gode¬
re del logoramento gratuito dei¬
avversario, è la Cina, sin quando
non sia travolta essa stessa dal
vortice.
Le nuove minacce che si aprono
in nuovi settori dimostrano che è
ad una pace generale che bisogne¬
rebbe mirare, quella che attraver¬
so una verifica ed una conclusione
d’insieme può riportare agli accor-
l-'ASTROLABIO - 4 giugno 1967
5
politica
di di distensione e di disarmo. E’
una logica deduzione di questa
constatazione la consultazione pro¬
posta dal gen. De Gaulle. E’ ve¬
ramente una logica zoppa, non
tanto perchè inserisce la Francia
fra i quattro grandi quanto per¬
chè esclude la Cina. Fatale errore
anche questo che si inscrive nel
quadro di quella responsabilità
primaria su denunciata, condivisa
anche dalla passiva politica ita¬
liana.
Non servono le invocazioni di
Paolo VI e quelle di tutto il mon¬
do sin quando non si riesca a
colpire nella coscienza dei popoli
le radici delle politiche di potenza
e di crociata. Sta in questo spi¬
rito di crociata il nuovo pericolo
che pesa sulla pace del mondo e
sulla nostra. Vi è una polarizza¬
zione di contrasti per la quale
America e Russia sovietica diven¬
tano la patria ideale che ha sem¬
pre e comunque ragione. Dice¬
vano gli inglesi al tempo della
regina Vittoria: righi or tvrong,
my country, la patria ha sempre
ragione.
Questo non è democrazia, che
è prima di tutto indipendenza di
spirito. Questo è contro il valore
morale della Resistenza, che è
sempre stata prima di tutto lotta
di liberazione. Questo non sia
soprattutto nei giovani, che non
credano di risolvere nelle dimo¬
strazioni e nelle invettive il pro¬
blema della libertà, come conqui¬
sta piena, integrale di un sistema
di organizzazione civile e sociale,
del quale è espressione la nuova
politica internazionale della sini¬
stra italiana.
FERRUCCIO FARRI ■
. LACIMniCITE
, A C[TTE
CUER mST
Comunicato
Il Comitato per la pubbli¬
cazione e la diffusione degli
scritti di Ernesto Rossi in¬
forma che l’editore Laterza
pubblicherà una larga scel¬
ta delle lettere di Rossi dal
carcere e ristamperà vari
suoi scritti riguardanti pro¬
blemi economici e finanzia¬
ri, polemiche politiche e i
rapporti fra Stato e Chiesa.
I fondi già raccolti dal Co¬
mitato e quelli che affluiran¬
no successivamente, ver¬
ranno destinati alla distribu¬
zione su scala più ampia
possibile delle opere di Er¬
nesto Rossi ai circoli di cul¬
tura, alle biblioteche scola¬
stiche e popolari, ed alla
pubblicazione e diffusione
di una bibliografia sistema¬
tica, nonché alla eventuale
pubblicazione di altri inediti.
ECONOMIA
Carli al quadro
di controllo
L a relazione annuale della Banca
d’Italia per illustre e consolidata
tradizione, già anteriore ai tempi di
Menichella, è uno dei documenti es¬
senziali per la conoscenza e lo studio
della nostra condizione economica. Era
praticamente il solo panorama annuale
redatto con serietà scientifica fin quan¬
do per invito del Parlamento non si
iniziò la pubblicazione della Relazione
generale, annuale sulla economia del
paese. Si è allora specializzata soprat¬
tutto nei campi che le sono più propri
della moneta, del credito e della finan¬
za, giovandosi dell’opera di un ufficio
studi tenuto sempre ad alto livello. Ma
sono soprattutto le considerazioni ge¬
nerali con le quali il Governatore la
presenta all’Assemblea dei partecipanti
ed al paese che sono attese ogni anno
con interesse sempre ugualmente vivo.
Il dott. Carli è un tecnico, non un
politico. Ma è uomo di forte persona¬
lità, mosso perciò inevitabilmente da
una retrostante filosofia che è, in gros¬
so, il più efficiente ed insieme equili¬
brato funzionamento del nostro siste¬
ma economico e sociale. Non sono
spesso d’accordo con le sue vedute gC'
nerali gli scrittori dcWAstrolabio quan¬
do hanno le lune di traverso con que¬
sta società italiana scombinata e truf-
faldina. Ma fanno sempre tanto di cay
pello alla qualità rara della sua intelli¬
genza armata di estremo rigore logico,
preoccupata della precisione dell’anali¬
si, ricondotta sempre a visioni globali
degli equilibri economici con una capa¬
cità di lucida sintesi ch’è suo privile¬
gio, onorabile da tutti perchè riposa su
una profonda coscienza civile e sempre
vigile senso dello Stato.
Salvaguardare la capacità compe¬
titiva. Si immaginavano facilmente
quali potevano essere alcuni dei temi
che avrebbe quest’anno sottoposto al¬
l’opinione pubblica sul piano intema¬
zionale e nazionale. E’ merito del Carli
l’efficac’c, deciso contributo alla « spro¬
vincializzazione » dell’economia italiana
ed alla sua inserzione quanto meno
condizionata possibile nel mercato
aperto. Linea coerente di liberalizzazio¬
ne che ha come principio l’accordo di
tutti, ma che può importare, se acce¬
lerata, costi sociali dei quali i tecnici
attenti a salvaguardare gli equilibri
economici spesso non si preoccupano.
Carli, come il suo direttore generale
dott. Baffi, sono anche antichi ed atti¬
vi fautori, su questo filo di politica
generale, della integrazione europea:
troppo ottimisti peraltro e poco critici
6
La
del modo come questa politica è stata
intesa ed applicata dai Governi italia¬
ni. Ma leggete per questa parte di eco¬
nomia esterna le poche pagine dedicate
all’antica e non ancora risolta questio¬
ne della riforma e governo della liqui¬
dità internazionale: avrete una sinteti¬
ca ed insieme chiara ed esauriente in¬
formazione.
Piena inserzione nel mercato inter¬
nazionale significa salvaguardia della
capacità competitiva e quindi di un pa¬
rallelo incremento di produttività.
Vecchia solfa, e chi può contestare la
necessità di non cedere alla obsole¬
scenza economica e sociale? Ma son si¬
luri i tecnici di misurare le toUerabi-
fità dei costi in una economia diversa-
niente squilibrata nel territorio e nei
settori di attività? E’ un discorso lun¬
go, già fatto e da riprendere.
Le novità'che forse colpiranno di
più m questa relazione sono contenute
nei capitoli relativi al « credito agevo-
J?^o », alla condizione del mercato
finanziario, alla strutturazione del siste¬
ma bancario, alla finanza pubblica. Si
tratta di lagnanze in parte note e pa-
cifache: ma — sempre col linguaggio
misurato e proprio del Carli — in par¬
te scoprono interessanti altarini. Si
parla anche di banche, ma gli altarini
sono principalmente governativi, non
solo per il pericolo di un tipo di age¬
volazioni che « incentiva » lo spreco, la
spensieratezza e l’irresponsabilità. le¬
gete contro luce qualche periodo su
t^rti crediti per l’industrializzazione del
mezzogiorno o l’esportazione. Vi è un
atto del processo necessario alla nostra
classe politica. Anche questo è un di¬
scorso da riprendere.
Diavolo di un Carli! Non è facile
trovare il modo di parlare male dei
suoi rapporti. Proveremo a farlo più
che non possa questo primo resoconto
sommario.
P. ■
La rissa per Israele
P er la stampa benpensante del no¬
stro paese la crisi del Medio Orien¬
te è stata un terno al lotto. Come giu¬
dicare diversamente la possibilità of¬
ferta in questi giorni al Secolo, al Tem¬
po, al Messaggero, al Giornale d'Italia,
al Corriere della Sera di contrapporre
le prese di posizione a favore di Isra^
le a quelle • comuniste » sul Vietnam,
la « spontaneità » della veglia di do¬
menica al Portico d’Ottavia alla « reto¬
rica » della manifestazione svoltasi
poche sere prima a Piazza Navona?
Difficilmente una contrapposizione po¬
trebbe risultare più fastidiosa e falsa.
Fastidiosa perchè a scoprirsi improv¬
visamente una vocazione filo-israelita
e anti-razzista sono i medesimi gior¬
nali e gli stessi uomini politici che
non si sono mai eccessivamente scan¬
dalizzati per le torture francesi In Al¬
geria, l'apartheid sudafricano, la que¬
stione negra negli Stati Uniti e la na-
paknizzazione del bambini vietnamiti.
Falsa perchè la doverosa solidarietà
con Israele. l'Incondizionato riconosci¬
mento del suo diritto alla vita non
possono e non debbono andare di¬
sgiunti dall'altrettanto doverosa soli¬
darietà con la dura e giusta lotta del
popolo vietnamita, dalla condanna del-
ì'interverrto e dell'escalation america¬
ne nel sud-est asiatico. Dispiace In par¬
ticolare che la contrapposizione sia
stata fatta propria anche dalla Voce
Repubblicana, per una volta dimentica
che le battetglle di libertà sono ovun¬
que tali e ovunque vanno giudicate e
sostenute con lo stesso spirito liber¬
tario.
Un passo falso. Detto ciò, non si può
però non rilevare come i nunterl del
terno siano stati gli stessi comunisti
a fornirli. E soprattutto l'Unità che si
è 'immedlatantente allineata, con una
prontezza irriflessiva di memoria stali¬
nista, alla politica di potenza ohe
l]Unione Sovietica — non diversamen¬
te dagli Stati Uniti — sta conducendo
nel Medio Oriente. Anche se il sotto¬
fondo dell'attuale crisi dei rapporti tra
Israele e i paesi arabi risultava obiet¬
tivamente poco chiaro ed era reso
estremamente drammatico dalle minac¬
ce e dalle iniziative egiziane, l'Unftà
non aveva alcuna esitazione. E river¬
sava per intero la responsabilità del-
l'aggravarsi della situazione su • I com¬
plotti e 1 plani aggressivi di Israele e
di Washington ». esaltava la fermezza
di Nasser, giustificava 11 blocco di
Aqaba e perfino accusava la CIA di
aver fatto fHJbblicare « dal giornale
dell'esercito », In Arabia settentriona¬
le, • un articolo antireligioso di carat¬
tere volgarissimo, ispirato al tipico
linguaggio dell'anticlericalismo borghe¬
se europeo e ottocentesco ».
Solo negli ultimi giorni, 'l'adesione
della federazione romana del PCI alla
veglia per israele e più meditati inter¬
venti di Amendola e di bongo hanno
lasciato Intravedere 1 primi sintomi di
un ripensamento o. quanto meno, di un
giudizio meno avventato e acritico. Ma
non basta. Non si possono esaltare il
poHcentrlsnrto, le vie nazionali al socia-
iismo, l'autonomia di giudizio di ogni
partito comunista e poi seguire la
URSS (I cui motivi non di potenza so¬
cialista ma di potenza tout court pos¬
sono anche essere con>prensibiM) In
tutte le complicate mosse del perico¬
loso giuoco medio-orientale. Nè tanto
meno si può spacciare Nasser per un
pacìfico statista d'ispirazione socialista
• dedicato da undici anni alla costru¬
zione del suo paese », quando è noto
che J'ex colonnello abbia sbattuto in
galera tutti 'I comunisti egiziani, reclu¬
ti da anni scienziati e 'Istruttori militari
ex nazisti, sostenga — almeno verbal¬
mente — la necessità della completa
distruzione dello Stato d'Israele.
E Intanto, ia politica di allineamento
del PCI, non meno di quella del PCF,
ha già dato 'il poco lusirtghiero risultato
di spaccare la sinistra sul problema del
Medio Oriente. Più grave In Francia,
dove l'alleanza faticosamente raggiun¬
ta sul terreno deH'opposIzione al gol¬
lismo appare oggi fortemente incrina¬
ta: da un lato Waldeck Rochet su posi¬
zioni rigidamente filosovietiche e dal¬
l'altro Mendes Franco, Mitterrand, Guy
Mollet che condannano l'atteggiamen¬
to egiziano, Sartre che sottoscrive il
manifesto degli intellettuali francesi in
cui si giudica > Inconaprensibile l'iden¬
tificazione di Israele con un campqrfm-
periallsta ed aggressivo ». MerK) grave,
ma non per questo meno deprecabile
in Italia, dove la sinistra continua ad
essere divisa dallo spartiacque gover¬
nativo e da non pochi temi di fondo.
Dove perfino un’Iniziativa giusta ed op¬
portuna come ia veglia al Portico d'Ot-
tavia finisce per trasformarsi in una
manifestazione prevalentemente anti-
conumista pervia di quegli oratori che,
fingendo di fraintendere gli intenti de¬
gli organizzatori, hanno fatto a gara
nel contrapporre gratuitamente il sud¬
est asiatico al Medio Oriente, i kibbuz
ai koikos, la rivoluzione americana alla
rivoluzione sovietica, nell’esaltare gli
Stati Uniti come la potenza che difen¬
de e tutela le minoranze di tutto il
mondo.
GIUSEPPE LOTETA ■
L'astrolabio - 4 giugno i967
7
^ffiica
FITTI
la commedia
del blocco
sicuro so solo che adesso è sera,
quanto al problema dei fitti, il cui
blocco scade al 30 giugno, non posso che par¬
lare al condizionale e me ne dispiace. E’ da
marzo che abbiamo messo a punto il nuovo
provvedimento di legge e la relativa relazio¬
ne: da allora qualcosa poteva essere fatta, in¬
vece finiremo col prendere una decisione solo
a ridosso deU'ultima scadenza, alla fine di
questo mese » E’ il de Breganze, responsa¬
bile della commissione per la legge sui fitti
che parla, la frase è stata pronunciata al ter¬
mine deU'ultima breve riunione che ancora
una volta, avrebbe dovuto prendere in consi¬
derazione la decisione definitiva e non l’ha
presa. Che altro aggiungere alle sue parole?
Gli appartamenti abitati in Italia sono in
questo momento 13 milioni 353 mila: otto
milioni 522 mila di proprietà di chi vi di¬
mora, il resto in fitto. A fitto Ubero due
milioni 224 mila, a fitto sbloccato per rinun¬
cia deH’inquilino un milione 286 mila a fitto
concordato tra le parti 375 mila e finalmente
925 mila (il 7 per cento del totale) a fitto
ancora bloccato parte nel 1947 e parte nel
novembre del 1963. Secondo il progetto di
legge governativo messo a punto dalla com¬
missione Breganze al 30 giugno si sarebbe
dovuto liberalizzare un primo scaglione di
480 mila fitti bloccati (negozi compresi) e
tra un anno il secondo scaglione di 700 mila
contratti.
I socialisti ora avvertono che non si può
procedere in questo senso perchè nel frat¬
tempo non si è ancora provveduto a costrui¬
re case popolari, appanamenti non specula¬
tivi. Nel gruppo dei due blocchi vi sono 328
mila appartamenti goduti da pensionati, 294
mila da lavoratori dipendenti, 123 mila da
lavoratori in proprio, 73 mila da impiegati,
4 mila da coadiuvanti e infine 104 mila da
professionisti.
Si sblocchino dicono i socialisti, gli ap¬
partamenti di coloro che possono effettiva¬
mente pagare : « questo è obbligo morale ».
Lo è davvero? Con siffatti redditi probabil¬
mente oggi non si riesce a poter fittare una
casa, ai prezzi di mercato che corrono, senza
fare gravi sacrifici. E poi in tal modo quanti
sono gli appartamenti liberati? Un numero
che certamente non giusdfica tutte le liti
giudiziarie che per l’applicazione di questo
limitato sblocco si aprirebbero. E poi, se si
è in tema di morale, perchè non sbloccare i
fitti dei locali adibiti a negozio? Perchè que¬
sto non è chiesto da quei de che pensano
ai voti della destra. E così via. La soia cosa
che era da farsi, accelerare i programmi di
edilizia, non vien fatta e intanto si procede
a tentoni e per compromessi. Il compromes¬
so, più sui principi — il che è peggio —
che sulle fette di realtà intaccate, è come
sempre il solo porto d’approdo di questa
maggioranza.
G. M. ■
I mercante
L'intesa del Kennedy Round si è concretata solo dopo una serie di reciproche con¬
cessioni tra i paesi del GATT e dopo la perdita dell'iniziale fisionomia di unione atlan¬
tica sopranazionale. Nel 1968 l'economia Italiana subirò un doppio scossone, per
l'abbattimento dell'ultimo diaframma doganale esistente all’Interno del MEC ed in
seguito aH’inizio degli effetti del Kennedy Round. Una efficace terapia d’urto oppure
un pericoloso salto nei buio? Per fare il punto sulla situazione pubblichiamo qui l'in¬
tervista del prof. Antigono Donati, Presidente dell'Istituto per il commercio con l'estero.
D.: - Il commercio internazionale de¬
gli Stati Uniti ha un peso relativamente
modesto sull'economia americana. La
politica del Kennedy Round a quali
direttive generali è ispirata? Accresce¬
re la influenza di un volano stabilizza¬
tore? Vi è la sicurezza di un maggior
saldo positivo della bilancia mercantile
che possa migliorare le condizioni della
bilancia americana dei pagamenti? Vi è
il proposito di introdurre un incentivo
concorrenziale del quale i responsabili
della economia americana sentono la
necessità? La "filosofia” con la quale
Kennedy impostò il suo piano è an¬
cora la stessa nel 1967?
R.: - Non vi è dubbio che p)er gli
Stati Uniti il commercio con l’estero
ha un peso relativamente modesto nel¬
l’economia del Paese (circa il 7 per
cento siJ prodotto nazionale lordo,
contro 27 per cento per l’Italia), spe¬
cie se paragonato a queUo di alcuni
piccoli paesi industrializzati europei
per i quali le attività economiche ne-
8
La VI
ccssariamente si fondano su una in¬
tensa proiezione verso l’esterno (Bel-
8*0 e Paesi Bassi circa 73 per cento).
Liò è d’altronde naturale per un mer¬
cato così vasto e dotato di enorme po¬
tenzialità di produzione e consumo
^ttale è quello statunitense.
Questo fatto non toglie però che
anche gU U.SA. sentano la necessità
promuovere un più ampio sviluppo
dei loro traffici con l’estero nell’in¬
tento di consolidare e potenziare la
‘Oro vasta rete di interessi economici
Mondiali e di assicurare sempre più
adeguati sbocchi alle loro crescenti
produzioni nel campo industriale non
teeno che in quello agricolo. Da ciò
Jc direttive generali che, da un punto
di vista economico, hanno ispirato la
proposta del negoziato multilaterale
ooto con il nome di "Kennedy Round”.
Evidentemente, attraverso il poten¬
ziamento degli scambi conseguente ad
*^iia massiccia rimozione degli ostacoli
agli stessi su piano mondiale, gli Stati
*-^niti si proponevano e si propongono
anche di accrescere l’influenza stabiliz¬
zatrice sull’economia nazionale che i
rapporti commerciali con l’esterno pos¬
sono esercitare, come pure di miglio-
tere la loro bilancia dei pagamenti, la
situazione deficitaria dipende pe¬
raltro soprattutto da operazioni di na¬
tura extra-commerciale. E non può
Escludersi che essi abbiano mirato an-
Ehe ad introdurre uno sprone concor-
*-’ASTR0LABI0 - 4 giugno 1967
renziale per taluni loro settori indu¬
striali maggiormente protetti. Ma nella
ispirazione della politica che sta al¬
l’origine del Kennedy Round questi
proponimenti, pure importanti, sem¬
brano rivestire un interesse seconda¬
rio e collaterale rispetto alle finalità
generali sopra ricordate.
Nella concezione originaria di detta
politica, fondata su un’ampia ed aperta
visione dei problemi mondiali, tali fi¬
nalità superavano il puro aspetto eco¬
nomico per assumere un più ampio si¬
gnificato politico: quello della costitu¬
zione di una effettiva partner-ship
atlantica. Col profondo mutamento in¬
tervenuto negli ultimi anni nello stato
dei rapporti tra i paesi interessati al
di qua e al di là dell’Atlantico, questo
più largo significato è andato perdendo
gradualmente di vigore, talché il nego¬
ziato ha finito con l’assumere un va¬
lore prevalentemente commerciale.
D.: L'accordo stipulato a Ginevra tu¬
tela l'esportazione europea e italiana
dai molti vincoli e condizioni (commer¬
ciali, sanitarie, ecc.) che hanno sempre
servito ad apporre un diagramma proi¬
bizionista, variabile secondo le pres¬
sioni delle categorie dei produttori?
Antigono Donati
R.: - E’ risaputo che negli Stati Uniti
esistono — più che in Europa — di¬
sposizioni e sistemi vari extra-tariffari
(criteri di valutazione in dogana del
valore, misure sanitarie e di altro ge¬
nere, ecc.) che accrescono notevolmen¬
te il livello della protezione tariffaria
pura e semplice fino a determinare tal¬
volta per alcuni settori effetti proibi¬
zionisti.
Sotto questo aspetto il risultato cui
si è giunti con la conclusione del Ken¬
nedy Round non sembra notevole. Tut¬
tavia in un settore, quello della chi¬
mica, il compromesso raggiunto, se por¬
terà effettivamente all’abolizione da
parte del Congresso americano del-
r« American Selling Price », potrà
aprire maggiori possibilità di afferma¬
zione delle produzioni chimiche euro¬
pee, e quindi anche italiane, sul mer¬
cato statunitense.
D.: - In qual senso gli accordi pos¬
sono servire ad aiutare le economie dei
paesi sottosviluppati? A quali di que¬
sti gruppi di paesi viene estesa la ta¬
riffa ridotta?
R.: - I risultati più sostanziali rag¬
giunti a Ginevra vertono più sul set¬
tore industriale che su quello agricolo.
Sotto questo aspetto essi sembrano
pertanto interessare più i paesi indu¬
strializzati che quelli in via di svi¬
luppo.
Tuttavia le riduzioni tariffarie con¬
cordate riguardano svariati prodotti,
dell’uno e dell’altro settore, che rien¬
trano negli scambi anche dei paesi in
via di sviluppo, i quali per effetto del
gioco della dausola della nazione più
favorita, ne vengono automaticamente
a beneficiare senza, inoltre, sottostare
ad un preciso obbligo di reciprocità.
Va poi aggiunto che i principali
paesi industrializzati si sono dichiarati,
in linea di massima, disposti ad appli¬
care in anticipo, cioè senza diluizione
nei 5 anni, nei confronti dei paesi in
via di sviluppo le riduzioni, con ciò
stabilendo, quanto meno temporanea¬
mente, un trattamento preferenziale
nei loro riguardi.
Essi hanno inoltre assunto formale
impegno di ricercare i mezzi più idonei
atti ad accrescere le importazioni di
prodotti tropicali nei loro mercati.
Un altro accordo raggiunto a Gine¬
vra che si risolve in favore dei paesi
in via di sviluppo, specie di quelli che
versano in difficoltà di ordine alimen¬
tare, è poi quello relativo al program¬
ma internazionale di aiuti alimentari,
che prevede la fornitura, a titolo gra¬
tuito, di 4,5 milioni di tonnellate an¬
nue di cereali da parte dei paesi indu¬
strializzati (di cui U.S.A. 42 per cento
e CEE 23 per cento).
D.: - Quali produzioni agricole ita¬
liane possono essere colpite e quali
favorite? Vi è l'impressione che per i
produttori italiani, non per i consu¬
matori, il probabile danno sia mag¬
giore del vantaggio. E' vero?
R.: - Come già accennato, l’esito del
negoziato di Ginevra risulta, per ovvie
ragioni, sensibilmente inferiore nel
campo agricolo rispetto a quello indu¬
striale. Si calcola che le riduzioni ta¬
riffarie concordate per i prodotti agri¬
coli non cerealicoli si aggirino in me¬
dia sul 17/20 per cento contro un
33/35 per cento per i prodotti indu¬
striali.
9
tjòlìtica
Naturalmente, anche in campo agri¬
colo le concessioni sono reciproche ed
è difficile stendere un bilancio tra van¬
taggi e svantaggi.
E’ da ritenersi che alcune conces¬
sioni fatte dalla CEE su taluni pro¬
dotti — in particolare su conserve di
pollo e di altri volatili, frattaglie, le¬
gumi secchi, tabacco grezzo e sigaret¬
te — potranno favorire un più agevole
collocamento sul mercato italiano delle
rispettive produzioni dei paesi terzi.
Ma è certo altresì che notevoli con¬
cessioni sono state ottenute da parte
dei vari paesi (specie USA, Inghilterra,
Svizzera, Paesi Scandinavi). Esse po¬
tranno avvantaggiare le possibilità con¬
correnziali di taluni nostri tipici pro¬
dotti di esportazione agricolo-alimen-
tari: così è a dirsi per le conserve di
pomidoro e pomidoro pelati, per il
formaggio pecorino, salumi, vermut e
alcuni tipi di vini, marsala e spumanti,
agrumi e ortofrutticoli.
Va altresì aggiunto che la politica
agricola comunitaria esce dal negoziato
sostanzialmente immutata nei suoi mec¬
canismi e sistemi di difesa. Ed è nel
contesto di tale politica che rimane
per l’agricoltura italiana il problema
deirammodernamento strutturale e
commerciale che ne consenta un più
valido inserimento tra le agricolture
degli altri membri della Comunità.
D.: - Perchè i prodotti chimici han¬
no rappresentato l’ostacolo forse mag¬
giore al successo delle trattative? La
nostra petrolchimica non verrà posta
in condizioni difficili?
R.: - Effettivamente il settore chimico
è stato quello che fino all’ultimo ha
rischiato di far fallire le trattative.
Ciò è dipeso, com’è noto, dal-
r« American Selling Price » (ASP), si¬
stema di valutazione in dogana vigente
in USA e basato, anziché sul prezzo
d’origine, sul prezzo, generalmente
più elevato, del mercato americano. Il
sistema trova la sua applicazione so¬
prattutto nel settore dei prodotti chi¬
mici, particolarmente per quelli della
chimica organica, dei coloranti e delle
materie plastiche, col risultato di por¬
tare a volte per taluni prodotti la pro¬
tezione USA a livelli pressoché proi¬
bitivi.
Con fondamento, da parte della CEE
l’estensione delle riduzioni tariffarie al
settore veniva subordinata all’abolizio¬
ne dell’ASP. Un compromesso é stato
alla fine raggiunto nei seguenti ter¬
mini: riduzione incondizionata del 50
per cento da parte USA, con impegno
inoltre di singoli dazi non superiori al
20 per cento; riduzione in due tappe
10
da parte CEE e Regno Unito, una pri¬
ma del 20 per cento incondizionata e
una seconda del 30 per cento subordi¬
nata alla soppressione dell’ASP da
parte del Congresso americano. Il com¬
promesso non riguarda i coloranti, per
i quali valgono invece le seguenti ridu¬
zioni: USA dal 48 per cento al 30 per
cento, CEE dal 15 per cento al 10 per
cento. Regno Unito dal 33 per cento
al 15 per cento.
Il risultato così raggiunto appare
nel complesso soddisfacente per la
CEE, la quale ha ottenuto nel settore
delle concessioni sostanziali, sjiecie se
r« American Selling Price », verrà ef¬
fettivamente soppresso, mentre quelle
accordate non appaiono tali da pregiu¬
dicare le industrie chimiche europee,
ivi compresa la petrolchimica.
D.: - Quali previsioni si fanno per la
esportazione di automobili americane
in Italia e in Europa? I produttori ita¬
liani ed europei hanno possibilità di
reazione e difesa?
R.: - Nel settore automobilistico il ri¬
sultato conseguito a Ginevra coincide
quasi interamente con l’obiettivo mas¬
simo di partenza: riduzione daziaria
del 50 per cento da parte di tutti i
paesi industrializzati, ad eccezione della
Norvegia in cui essa é limitata al 30
per cento.
Per la CEE ciò significa che il li¬
vello della tariffa esterna concessa
scenderà dal 22 per cento all’ll per
cento, il che rappresenta un indubbio
vantaggio per i produttori USA che
vedranno ampliarsi le loro possibilità
di vendita sui mercati europei. Va però
osservato che le diverse preferenze dei
due mercati — quello europeo e quello
americano — in fatto di tipi e cilindrate
di macchine, e quindi i differenti orien¬
tamenti produttivi, già costituiscono un
elemento di difesa per i produttori eu¬
ropei, i quali poi troveranno un ulte¬
riore fattore nello stesso senso in un
più intenso stimolo a quelle intese in¬
teraziendali che rappresentano una ten¬
denza caratteristica nel formarsi di pw
ampi mercati aperti ed integrati. Ciò
vale particolarmente per l’Italia che in
questo, come in altri settori industriali,
ha sufficientemente dimostrato, nel con
so del progressivo abbassamento del
livello di protezione conseguente alla
instaurazione del Mercato Comune, di
sapersi validamente difendere dalla
concorrenza altrui.
D’altra parte non va dimenticato
che vantaggi concorrenziali di analoga
proporzione si apriranno alle industrie
automobilistiche europee, e quindi an¬
che italiane, nel mercato nordamericano
il quale, specie nel campo delle piccole
e medie cilindrate, offre sempre amp|
margini di assorbimento suscettibili di
sfruttamento.
D.: - Quali altri gruppi di industrie
trasformatrici sono stati fortemente in¬
teressati dai negoziati?
R.: - Oltre all’industria chimica, i set¬
tori industriali che fino all’ultimo pi^
hanno dato luogo a divergenze sono
stati, in particolare, quello siderurgico,
quello metallurgico (per l’alluminio) c
quello cartario.
Nel settore siderurgico, era il siste¬
ma daziario inglese per l’acciaio —• cO"
stituito da dazi specifici e ad valoreffl
che il Regno Unito si rifiutava di t^'
care — a sollevare le maggiori diW'
coltà. Un accordo é alla fine interve¬
nuto nel senso di una riduzione dri
20 per cento della tariffa inglese, sta
specifica che ad valorem, contro una
diminuzione dal 9 per cento al 5,7 per
cento (cioè dal 37 per cento circa)
del dazio CEE ed un allineamento
sullo stesso livello di quello USA.
Per l’alluminio, che interessa parti¬
colarmente i paesi nordici, la Comu¬
nità, pur mantenendo intatta sul 9 per
cento la sua tariffa, ha consentito ad
un contingente tariffario di 130.000
tonnellate a dazio ridotto del 5 per
cento.
Per il settore cartario, infine, la Co¬
munità, per venire incontro alle richie¬
ste dei Paesi Scandinavi che altrimenti
minacciavano di ritirare loro impor¬
tanti concessioni specie nel settore della
meccanica, ha acconsentito a ridurre
dal 16 per cento al 12 per cento (cioè
del 25 per cento) la sua tariffa, impe¬
gnandosi inoltre ad un contingente ta¬
riffario di 625.000 tonnellate a dazio
nullo.
ANTIGONO DONATI ■
A
La bouvette di Montecitorio
^ a varie parti, ultimamente, si
sono levate autorevoli voci (ricor¬
do fra le altre quelle di Leopoldo Pie-
cardi, su Astrolabio, e di Ottomano,
sidla Voce repubblicana) per riproporre
l’idea — già da tempo avanzata —
di sottrarre al dominio della maggio¬
ranza la decisione di effettuare le in¬
chieste parlamentari. Grosso modo il
discorso che viene fatto è il seguente:
la funzione di controllo costituisce la
essenza del sistema parlamentare; per-
quando la collusione fra maggio¬
ranza e Governo riesce ad impure
che vengano disposte delle inchieste
parlamentari, le quali rappresentano
strumenti indispensabili per l’esercizio
del controllo, il sistema stesso è tra¬
dito e messo a repentaglio; di qui la
n«essità che le inchieste possano ve¬
nire disposte dalla minoranza nonof-
stante la contraria volontà della mag¬
gioranza: « quando si tratta di deli-
^^rare, il principio della maggioranza
s’impone: finora non si è trovato di
•neglio. Ma sapere, devono sapere
tutti... ».
Devo confessare che un siffatto ra¬
gionamento mi lascia alquanto per¬
plesso.
La minoranza in stallo. Il controllo
parlamentare, come tutta l’attività del
Parlamento (salvo quella di ammini¬
strazione interna), ha carattere politi-
PARLAMEinO
L’OCCHIO
oaiA
I MIHORANZA
!_____
co; esso comprende quindi la pronun¬
cia di un giudizio politico su un atto
od un comportamento del Governo (o
comunque a lui imputabile) e l’ado¬
zione di una misura, anch’essa poli¬
tica, nei confronti del medesimo. Nes¬
suno contesta che tutto ciò — ed in
particolare la misura politica, che in
casi estremi può essere la revoca della
fiducia — rientri in quel « deliberare »
in cui è inevitabile far capo al princi¬
pio della maggioranza. Il controllo tut¬
tavia implica una fase precedente a
quella del giudizio e della misura, la
quale consiste nell’acquisizione — ad
esempio attraverso un’inchiesta —
delle conoscenze, dei dati di fatto, de¬
gli elementi necessari al giudizio. Ed
è appunto lì, in quella fase, che si
vorrebbe attribuire un peso maggiore
anzi decisivo alla minoranza.
Senonchè, per rimanere al caso del¬
l’inchiesta, non va dimenticato che è
la stessa Costituzione ad esigere, al¬
l’articolo 82, che l’apposita Commis¬
sione sia composta in proporzione dei
vari gruppi parlamentari. E siccome
l’aver deliberato un’inchiesta non si¬
gnifica ovviamente averla realizzata,
ma soltanto avere istituito un organo
con certi compiti e certi poteri di in¬
dagine, ne consegue che l’andamento
deU’inchiesta stessa, e quindi i suoi
effetti concreti, restano affidati all’or¬
gano che la condurrà: e cioè alle di¬
rettrici dell’indagine, ai poteri di fatto
esercitati, alla volontà — in una pa¬
rola — di « andare in fondo ». E que¬
sta resta sempre quella della maggio¬
ranza.
Finora, le Commissioni d’inchiesta
che hanno agito in periodo repubbli¬
cano sono sempre state approvate —
sia pure sotto la spinta dell’opposi¬
zione — da parte della maggioranza.
Ciò malgrado, non direi che le oppo¬
sizioni siano state particolarmente sod¬
disfatte dallo svolgimento dei loro la¬
vori: cosa potrebbe dunque attendersi
L’astrolabio - 4 giugno 1967
11
Opinioni
l’opposizione da un’inchiesta parlamen¬
tare imposta alla maggioranza, ma da
questa in fin dei conti diretta?
Ho l’impressione che l’attribuire alla
minoranza da sola il potere di delibe¬
rare inchieste, mentre non le arreche¬
rebbe che un illusorio vantaggio, po¬
trebbe invece produrre gravi inconve¬
nienti — come la paralisi, o il disor¬
dine, o il discredito generico sull’atti¬
vità dello Stato — qualora il Governo
fosse tenuto continuamente, anche se
platonicamente, sotto accusa. Vero è
che si suggeriscono al riguardo diversi
correttivi: o prevedere che p>er delibe¬
rare un’inchiesta occorra un quorum
così elevato da esigere una coalizione
di minoranze, oppure stabilire la pos¬
sibilità di chiamare ad arbitra dell’even¬
tuale dissidio fra maggioranza e mino¬
ranza la Corte Costituzionale, ovvero
ancora riservare alle minoranze un nu¬
mero limitato di inchieste da svolgere
— ma con poteri reali — durante la
legislatura. Tuttavia il primo, se non
sbaglio, è solo un apparente rimedio
al temuto comportamento di minoranze
faziose che intendessero abusare del
potere loro riconosciuto: dal solo fatto
di dover diventare bicolore o multico¬
lore l’abuso non sarebbe nè impedito
nè gran che ostacolato. Il secondo ri¬
medio, poi, oserei dire che «embra
peggiore del male, perchè dannegge-
rebbe la Corte invischiandola chissà
quanto frequentemente in controversie
politiche col risultato di farla scendere
troppo nel vivo di esse, e dannegge-
rebbe il Parlamento il quale alla lunga
finirebbe col sembrare (od essere) un
minore sotto tutela. Il terzo, infine,
con tutto il suo seducente empirismo,
in effetti rappresenterebbe ben più di
un rimedio: sarebbe la soluzione, la
meta da raggiungere; ma per arrivarvi,
da noi, se non occorrerà un’evoluzione
tanto lunga quanto quella attraverso
cui è passato il Parlamento dal quale
tale soluzione viene mutuata (quello
inglese), direi che comunque bisogna
che intervenga ancora una certa matu¬
razione.
La funzione del governo. Non è qui
il caso di discutere se sarebbe o meno
ammissibile, tenuto conto di una di¬
rettiva costituzionale del genere, che
la maggioranza attraverso una norma
regolamentare o la prassi, si autoli-
mitasse in modo da rimettere sostan¬
zialmente all’opposizione la conduzione
dell’inchiesta: certo è che allo stato
attuale dei rapporti fra le forze poli¬
tiche ciò appare abbastanza inverosi¬
mile. E lo si può comprendere: addur¬
re il carattere « neutro » o « strumen¬
tale » od « oggettivo » dell’acquisizio¬
ne a fini di controllo per sollecitare
e giustificare una deroga al principio
della maggioranza, è più suggestivo che
convincente. La verità è che fare o
non fare un’inchiesta e successivamente
scegliere tra i vari modi possibili di
condurla a termine riveste il più delle
volte un preciso e non dissimulabile
carattere politico; di fronte al quale
è ben difficile che la maggioranza ri¬
nunci a poter esercitare tutti i propri
diritti, e che il Governo rifugga dal
porre la questione di fiducia quando
veda posti in pericolo determinati in¬
teressi reputati — sia pure a torto,
come talora è accaduto — preminenti.
D’altra parte l’inchiesta parlamentare
in quanto comporta che il Parlamento
eserciti poteri spettanti all’autorità giu¬
diziaria, costituisce di per sè, indipen¬
dentemente dal suo oggetto, un evento
dinanzi alla cui rilevanza il Governo
non può restare indifferente, ma deve
assumere una posizione responsabile;
e così facendo, anziché interferire in
una sfera che non gli appartiene, adem¬
pie ad un dovere: anche se il suo atteg¬
giamento costituirà, al momento di vo¬
tare nella proposta d’inchiesta, una
pressione sulla maggioranza.
Si parla a questo proposito di « col¬
lusione » fra maggioranza e Governo,
nell’intento di sottrarre quest’ultimo
al controllo parlamentare. Direi che è
questione di misura. Certo, la solida¬
rietà che deve sussistere fra maggio¬
ranza e Governo, esasperata fino al¬
l’eccesso, traligna in collusione e co¬
stituisce un notevole pericolo, anche
se minore rispetto a quello che ver¬
rebbe da un’esagerazione opposta (tipo
quarta Repubblica francese). Ma il ri¬
medio di fondo a questo male non si
trova in Parlamento, e sopratutto non
sta nel piegare in modo innaturale il
funzionamento delle Camere basato sul¬
la decisione della maggioranza. Il ri¬
medio (o il contrappeso) risiede in una
altra istituzione del sistema, in quella
che anzi va conside/ata come primaria
c preminente, ossia nel corpo eletto¬
rale.
Non mi nascondo quanto può appa¬
rire ingenuo puntare sul nostro corpo
elettorale, nè lunghezza di una simile
strada; ma dubito assai che vi siano
delle vere scorciatoie e non, piuttosto,
delle alternative dall’incerto traguardo.
Peraltro il Parlamento potrebbe con¬
tribuire validamente ad accelerare il
cammino sulla strada anzidetta qualora
si dedicasse di più ed organicamente
alla funzione di controllo, anche per¬
chè ciò a poco a poco concorrerebbe
a provocare quella sensibilizzazione
dell’opinione pubblica nella quale ri¬
siede in ultima analisi la conditio sine
qua non dell’efficienza del controllo po¬
litico. Oggi alle Camere, oberate come
sono dal lavoro legislativo, manca an¬
zitutto il tempo da destinare al con¬
trollo ed in secondo luogo mancano
le procedure. Cosicché solo sporadica¬
mente e senza un disegno organico in
Parlamento hanno luogo discmssioni di
controllo su pochi argomenti, che sono
poi quelli sui quali il dissenso è più
profondo fra le forze politiche; discus¬
sioni che, in quanto appaiono o sono
impostate e condotte aprioristicamente,
hanno sull’opinione pubblica una presa
inversamente proporzionale al clamore
che suscitano fra i politici. Occorrereb¬
be viceversa dilatare le cxrcasioni del
controllo parlamentare, ed allora, in
un più vasto ambito, probabilmente
si verificherebbero (l’esperienza dell’at¬
tività legislativa insegna) non rare con¬
vergenze fra maggioranza ed opposi¬
zione, suscettibili di avere effetti posi¬
tivi non solo nei casi in cui la conver¬
genza si realizzasse — ma anche —
quanto meno ai fini della « ricezione »
da parte della opinione pubblica —
nei casi in cui la convergenza stessa
non avesse luogo. E tale dilatazione
è tutt’altro che impossibile.
La funzione di controllo del Parla¬
mento infatti non si esaurisce nelle
mozioni e nelle inchieste: c’è una
quantità di materiale che già oggi (®
domani potrebbe essere ancora aumen¬
tato) perviene alle Camere ad illustra¬
zione e spiegazione dell’attività svolta
dai pubblici poteri nei più disparati
settori e che in teoria rappresenta I 2
base per sistematici dibattiti di con¬
trollo, ma che in pratica a tal fine
non viene utilizzato. Se per tutto que¬
sto materiale venisse istituzionalizzata
una procedura d’esame, che si conclu¬
desse in Assemblea dopo esser passata
in Commissione, comprendendo anche
la p>ossibilità in quest’ultima fase di
approfondimenti ottenuti non attraver¬
so inchieste ma attraverso semplici
udienze, nelle quali fossero invitati
esperti, funzionari, rappresentanti di
Enti e associazioni ecc.; se tutto ciò
venisse realizzato. Parlamento e Go¬
verno comincerebbe a fare l’abitudine
al controllo il che, sdrammatizzandolo,
contribuirebbe a rendere operante la
funzione. E forse, attraverso un’oppor¬
tuna pubblicità dei lavori parlamentari,
anche i cittadini finirebbero con l’acqui¬
stare qualche interesse a concreti pro¬
blemi dibattuti continuativamente e
quindi con possibilità di riscontri e dif¬
ficoltà di evasioni verbali.
La nazionalizzazione parlamentare.
Certo questa procedura istituzionale
per il controllo, che tra l’altro, var-
12
rebbe a superare le ragioni per le quali
si è proposto di attribuire efficacia de¬
cisoria alle iniziative della minoranza,
non garantirebbe in tutti i casi una
a^uisizione completa ed approfondita,
giacché un’opposta volontà della mag-
poranza sarebbe comunque insupera¬
bile. Per la maggioranza, tuttavia, sa¬
rebbe a lungo andare pericolosa una
sistematicità di dinieghi; mentre d’al¬
tronde il ricorso ad esperti scelti di
comune accordo fra le parti politiche,
oltreché il sussidio degli ausiliari isti¬
tuzionali del Parlamento (come la Corte
dei Conti), potrebbe servire a smus¬
sare parecchi angoli, a far tacere reci¬
proci timori. In questo quadro, infine,
c lecito supporre che non pochi degli
argomenti su cui maggioranza e mino¬
ranza finiscono oggi con lo scontrarsi
frontalmente sul terreno di mozioni o
di proposte d’inchiesta potrebbero es¬
sere affrontati prima di divenire troppo
scottanti e di rendere inevitabile così
lo scontro frontale.
Si tratterebbe in altri termini di
assoggettare il Governo ad un controllo
costante, senza trascinarlo ad ogni pas¬
so sul banco degli imputati. Ma per
arrivare a tanto occorrerebbe che le
Camere riuscissero a procurarsi un am¬
pio margine di tempo, perchè l’assi¬
duo controllo parlamentare qui ipotiz¬
zato richiederebbe un impegno non
niolto minore rispetto a quello neces¬
sario per fronteggiare il fabbisogno le¬
gislativo, in uno Stato interventista
come il nostro. Secondo me, il Parla¬
mento sarebbe bensì in grado di tro¬
vare il tempo per l’esercizio della fun¬
zione di controllo, ma solo a patto di
■razionalizzare la propria attività e di
mettere a partito la propria articola¬
zione bicamerale: vale quanto dire, a
condizione di procedere in via di prassi
ad una specializzazione funzionale dei
lavori parlamentari, nel senso di fare
® una Camera la sede prevalente del¬
l’attività legislativa e dell’altra la sede
prevalente del controllo, salvo restando
f ciascuna l’esercizio della funzione di
indirizzo politico. Ad una specializza¬
zione, cioè, della quale da noi potrebbe
forse considerarsi un sintomo l’esame
intrapreso in Senato delle relazioni
della Corte dei Conti sugli Enti sov
venzionati, e verso la quale d’altronde
si sta orientando qualche Parlamento
straniero come quello belga.
E’ con mezzi di questo genere, piut¬
tosto che mediante lesioni del princi¬
pio di maggioranza, che potrebbe a
mio parere avviarsi un miglioramento
del controllo parlamentare e così pre¬
pararsi il terreno verso forme « bri¬
tanniche » di convenienza politica.
G. M.
Nella collana
Nuova biblioteca di cultura
Louis Althusser
PER MARX
Nota introduttiva di Cesare Luporini
pp. 244 L. 1.500
Uno dei libri più discussi dell’attuale ricerca filosofica
marxista. Una analisi del pensiero di Marx dagli scritti
giovanili alle opere della maturità.
Michal Kaleckì
TEORIA DELLO SVILUPPO DI
UNA ECONOMIA SOCIALISTA
A cura di Domenico Mario Nuti
pp. 160 L. 1.800
I problemi teorici delia pianificazione affrontati da uno
dei più grandi economisti europei alla luce delle più
avanzate ricerche della scienza economica.
Antonio Banfi
PRINCIPI DI UNA
TEORIA DELLA RAGIONE
pp. 484 L. 3.200
II problema della struttura teoretica e razionale della
filosofia in un’opera fondamentale del pensiero ban-
fiano, da tempo divenuta introvabile.
L’astrolabio - 4 giugno ise?
13
interftairionaie
Se si crede neli’inamovibiiità delio Stato ebraico, solo Israele
può "vincere” nella controversia del Medio Oriente, ribadendo
il proprio diritto di esistere e dissuadendo gli arabi dal minac¬
ciarla con il terrorismo e gli altri mezzi in loro possesso. Sa¬
rebbe però una sventura se gli israeliani continuassero a fidare
nella superiorità militare per congelare una situazione innatu¬
rale, evitando di impostare il problema della convivenza
con gli arabi nei suoi reali termini politici.
Cairo: il saggio ginnico
S i parla del Vietnam e dello show-
down missilistico di Cuba, si evoca
con monotona approssima 2 Ìone !’« om¬
bra » di Monaco, ma gli unici prece¬
denti con cui sia possibile stabilire un
parallelo non immaginario sono la
guerra del 1948-49 in Palestina e la
campagna del Sinai del 1956. Come
allora, anche nella nuova crisi che si
è andata sviluppando nel Medio Orien¬
te, sono di fronte arabi e israeliani:
a parole, per decidere con le armi
l’esistenza o meno dello Stato ebraico;
Q di fatto, per obiettivi diversi, non
^ imp>orta se più limitati o più generali,
JJ se circoscritti alla regione medio-
^ orientale o di portata mondiale. Sono
^ cambiate, però, a parte il clima mon-
Q diale, che non si concilia con una « tu-
14
tela » congiunta russo-americana, resa
inverosimile o equivoca dalla guerra
in corso nel Vietnam e dall’isolamento
della Cina, le alleanze internazionali.
E sono proprio gli schieramenti delle
grandi potenze a rivelare quale sia —
al di là dei motivi più immediati del
contrasto arabo-isradiano — la « po¬
sta » del conflitto che ha avuto negli
ultimi vent’anni il Medio Oriente co¬
me teatro.
Come si spiegano in effetti gli spo¬
stamenti registratisi aU’intemo del
blocco atlantico se non con lo sforzo
costante dell’Occidente di preservare il
castello della propria influenza nel
Medio Oriente, giudicato da sempre
un’area « riservata », per gli ingenti
interessi che vi fanno capo? Nel 1948,
quando la nascita dello Stato d’Israele,
prodotto sia pure contaminato del pio¬
nierismo sionista e della resistenza anti¬
coloniale, parve minacciare l’equilibrio
instabile retto sulle corrotte monarchie
arabe e sulle compagnie petrolifere,
la Gran Bretagna non esitò ad armare
ed a sostenere discretamente i paesi
della Lega araba. Nel 1956, l’avventura
militare di Francia e Gran Bretagna
a fianco di Israele per « ridimensiona¬
re * Nasser, con un occhio al Canale
di Suez e il cuore all’Algeria o al pe-
Abba Eban
medio oriente
trolio, rischiò di travolgere nella
disfatta le superstiti posizioni d’influen¬
za del mondo occidentale e gli Stati
Uniti furono pronti a dissociarsi, tro¬
vando una facile convergenza con
l’URSS al servizio del contenimento.
Le stesse considerazioni non sono più
yalide nel 1967: gli Stati Uniti sono
incondizionatamente dalla parte di
Nasser e U Thant
Israele (con cui 1 solidale anche la Gran
Bretagna, mentre la Francia cerca di
preservare un’impossibile « neutrali¬
tà ») e l’Unione Sovietica, come nel
1956 alleata degli arabi, difende que¬
sta volta la loro causa m aperta op¬
posizione agli Stati Uniti.
Da Karlovy Vary ad Aqaba. Il carat¬
tere di « confronto » fra URSS e Stati
Uniti assunto dalla crisi ha suggerito
il sospetto di una macchinazione fra
Il Cairo e Mosca per mettere in diffi¬
coltà il governo americano in un mo¬
mento delicato, per il contemporaneo
aggravamento della guerra nel Viet¬
nam, con il sottinteso di strappare agli
Stati Uniti, in una specie di « pacchet¬
to », delle concessioni nel sud-est
asiatico in cambio di un ttppcosctnent
nel Medio Oriente. L’ipotesi potrebbe
trovare un principio di prova nelle con¬
clusioni della conferenza di Karlovy
Vary, in cui, non senza sorpresa, si
mise drasticamente l’accento sul di¬
sturbo recato alla distensione dalle
manovre della VI flotta. La VI flotta,
o meglio la rimozione della VI flotta
dai porti del Mediterraneo, è però la
sola richiesta concreta che l’URSS può
avanzare in quest’area nei confronti
degli Stati Uniti, che, dal canto loro,
potrebbero ricavare dalla crisi più
vantaggi che svantaggi: a cominciare
dalla distrazione dell’opinione pubblica
mondiale dal 17® parallelo. Per non
dire della possibile tentazione di espe-
rimentare l’efficacia della forza anche
in questo scacchiere. La « presenza »
americana, e più generalmente occi¬
dentale, nel Medio Oriente, infatti, è
legata allo statu quo, territoriale e
ideologico, ma richiede forse — nella
Gli israeliani nel Neghev
situazione creatasi nello Yemen, nella
penisola arabica e nella stessa Siria —
un riassestamento che contrasti con
più vigore il naturale rafforzamento,
malgrado gli sforzi di Feisal, dell’alter¬
nativa radicale.
Il discorso ripropone la questione
dell’influenza occidentale in tutta la
regione, complicando le valutazioni
sulla politica della RAU e di Israele,
sui loro obiettivi ultimi se non sulle
rispettive responsabilità, che la stampa
italiana ha creduto di liquidare river¬
sando sul presidente egiziano tutte le
colpe, con una leggerezza che è proba¬
bilmente la sintesi di un inconscio
razzismo anti-arabo e della cattiva
coscienza di un anti-semitismo mal di¬
menticato, ma anche della consapevo¬
lezza degli interessi che la prova di
forza può coinvolgere.
Lo « scudo » americano. Le guerre
del 1948 c del 1956 sono stati due
episodi della lotta per riaffermare, in
forma diversa, la presa dell’egemonia
pccidentale nel Medio Oriente. Vittime
dell’assurda teoria del « non ricono¬
scimento », i governi arabi di oggi,
soprattutto quelli progressisti- che de¬
vono il loro potere al fallimento ma¬
teriale e morale dei governi che scate¬
narono nel 1948 la guerra contro
Israele, hanno il torto di non aver ca¬
pito la lezione. D’altra parte, le recenti
testimonianze dell’ex^ottosegretario al
Foreign Office Anthony Nutting e
dello storico Hugh Thomas sulla lunga
e accurata preparazione dell’aggressio¬
ne contro l’Egitto nel 1956 fra gli
anglo-francesi e il governo israeliano
dimostrano a sufficienza quale sia o
sia stata la spr^udicata correlazione
fra l’aspirazione di Israele ad avere
un’esistenza più sicura, che dovrebbe
15
Agenda internazionale
essere fuori discussione, e rmsofferen 2 a
dei governi occidentali per l’aspirazio¬
ne di Nasser a riempire con il nazio¬
nalismo arabo il presunto « vuoto di
potere » nella regione: insofferenza
che nel 1956 era comune anche agli
Stati Uniti, nonostante la loro azione
diplomatica contro la guerra tripartita,
se è vero che Eisenhower si affrettò
ad enunciare dopo la fine delle ostilità
quella « dottrina » che si riprometteva
appunto di dare al vacuum lasciato
dal colonialismo europeo im assetto
più rispondente air« ordine » imper¬
sonato dagli interessi occidentali.
Il trionfo diplomatico del Cairo, do¬
po la sconfitta militare nel deserto del
Sinai, doveva rappresentare il tramon¬
to definitivo della « p>olitica delle can¬
noniere », ma non tutti evidentemente
si erano rassegnati. Nè in Occidente,
nè in Israele, coloro che osservano
con compiacimento che le portaerei
della VI flotta americana dovrebbero
bastare ad intimidire gli arabi, anche
se il più moderato dei governi arabi
(quello di Beirut) non ha potuto evitare
nei giorni scorsi di chiedere ai coman¬
danti americani di tenere lontane le
loro navi dai porti libanesi, non com¬
prendono che è precisamente quella
« forza », retaggio di un sistema d’op¬
pressione, a fornire a Nasser le sue ra¬
gioni più legittime, fossero pure le
sole. Tanto più quando Israele dà l’im¬
pressione di vantare lo « scudo » che
quella forza gli garantisce o addirit¬
tura di invocarla come « spada » per
sbloccare il golfo di Aqaba, con le
implicazioni che finirebbe per avere
sul futuro delle relazioni arabo-israe¬
liane, dopo il trauma del 1956, uno
sbarco dei marines a Sharm-el-Sheikh.
Per tutto il decennio seguito all’of¬
fensiva nel Sinai, la politica di Israele
ha basato le sue mosse sull’umiliazione
militare patita da Nasser. sulla sostan¬
ziale prudenza della sua politica, sul
bluff del suo panarabismo e della sua
dedizione alla causa palestinese. E’ in
questa ottica distorta che si colloca la
poco realistica ostinazione con cui Israe¬
le ha cercato di ignorare, esasperando
la già scarsa collaborazione dei governi
arabi, il drammatico problema dei pro¬
fughi arabo-palestinesi, che nessun
governo arabo può ragionevolmente
trascurare, a pena di mettere immedia¬
tamente in pericolo la sua sopravviven¬
za, come provano le periodiche scosse
del regime giordano in concomitanza
con lo scadimento del militantismo di
re Hussein. E’ un problema per il qua¬
le non sono possibili soluzioni di
astratta e semplicistica giustizia, essen¬
do impensabile il ritorno dei profughi
nelle loro terre dof>o la distruzione del-.
10 Stato di Israele ed essendo del pari
assurdo proporre il riassorbimento di
una minoranza cosi cospicua (più di im
milione di uomini) e così radicalmente
ostile in una nazione così piccola.
Per questo però le soluzioni di com¬
promesso vanno ricercate attraverso
uno sforzo reciproco, che tuttavia né
Israele né gli stati arabi sembrano di¬
sposti a tentare. In questa situazione
esplosiva tutti gli eccessi di reazione
difensiva compiuti da Israele finiscono
per assumere agli occhi degli arabi
l’aspetto di una volontà d’aggressione.
E’ il caso dei due raids di rappresaglia
dell’esercito israeliano in Giordania (13
novembre 1966) e in Siria (7 aprile
1967), delle improvvide dichiarazioni
contro la Siria, coronate dalle manifesta¬
zioni che accompagnarono il 14 maggio
scorso le celebrazioni dell’anniversario
dell’indipendenza, svoltesi a Gerusa¬
lemme con una ostentazione che non
poteva non apparire agli arabi come
una « provocazione ». Si capisce come
in questo clima abbia potuto prender
corpo il fantasma di un piano israelia¬
no di aggressione della Siria, che era
11 « nemico » più aggressivo e che, fos¬
se o no una coincidenza, era diventato
Aref
anche il caposaldo più vistoso della pe¬
netrazione sovietica nel Medio Oriente,
e screditando la RAU.
Il fantapiano di Nasser. La convin¬
zione espressa da Nasser che lo Stato
d’Israele avesse già predisposto un pia¬
no per colpire con un attacco massiccio
la Siria il 17 maggio è stata smentita,
fra l’altro dal rapporto presentato al-
I
l’ONU da U Thant, ma l’atmosfera che
si era diffusa sui confini fra la Siria ed
Israele, prima per gli atti di sabotaggio
delle organizzazioni arabe e poi per i
«moniti » emessi da Israele, faceva ef¬
fettivamente temere il peggio: come
annotò !’« Economist », « il rumore
proveniente da Israele è meno bellicoso
di quello che proviene da un mondo
arabo mobilitato, ma, in modo più
tranquillo, è più minaccioso ». Sarebbe
superficiale individuare nel governo
della Siria il solo « capo espiatorio »>
con la pretesa di esaurire così l’intri¬
cata situazione: politicamente, perchè
la Siria non può sconfessare i propositi
di massima dei commandos di « Al-
Fatah » e delle altre organizzazioni dei
profughi; praticamente perchè è sempre
più diffìcile per la Siria e la Giordania,
se non per l’Egitto, tenere sotto con¬
trollo la massa degli arabo-palestinesi
e l’inquietudine dei loro raf^resentanti
ora che l’attesa per il « ritorno » si è
trasformata in una frustrazione senza
speranza e che la politicizzazione delle
giovani generazioni a contatto con il
travaglio della nazione araba offre mo¬
tivi più diretti ai piani di « liberazio¬
ne » interpretati dall’OLP di Ahmed
Shukeiry.
L’intervento dell’Egitto nella « sfi¬
da » fra Israele e Siria aveva verosimil-
ntente in origine una duplice finalità:
ricordare ai dirigenti israeliani le in¬
combenze oltre che gli oneri del suo
ruolo di primus inter pares nella fami¬
glia dei paesi arabi e adeguare la poli¬
tica degli uomini del Baath al potere
a Damasco alla sua strategia a lungo
termine, che pospone lo scontro con
Israele alla vittoria finale del naziona¬
lismo contro Timperialismo diretto
(nella penisola arabica) e indiretto (per
16
Agenda internazionale
il tramite degli ultimi esponenti della
classe dirigente tradizionale formatasi
3 I tempo dei mandati). Nato come ri-
•nedio a due estremismi, esso ha però
finito per allineare la RAU al « passo »
della Siria portandola in prima fila. Ad
Una simile riaffermazione della leader-
^hip egiziana spingeva anche la propa¬
ganda anti-nasseriana impiegata dai go¬
verni arabi rivali: ad ogni ritorsione di
Israele contro un suo vicino, Tunisia,
Giordania e Arabia Saudita si chiedono
« dove siano gli egiziani *, mentre, co¬
nte informa Eric Rouleau, nello Yemen
1 « realisti » arrivano a rimproverare a
Nasser di collusione con il sionismo, al
riparo dei « caschi bleu », per poter
tneglio organizzare le sue spedizioni
* espansionistiche ».
Nasser vince il primo round. Offren¬
do la sua protezione alla Siria, il gover¬
no del Cairo non ha solamente distolto
Israele — se, come peraltro non sem¬
bra probabile, tm piano esisteva —
dall’attaccare la Siria, ma ha riportato
improvvisamente al vertice il suo pre¬
stigio in tutto il mondo arabo, mobili¬
tando in suo favore anche i governi
più tiepidi. Qualche riserva era possi¬
bile per la Giordania, ma il regime di
Hussein potrebbe essere un obiettivo
« minore » dell’azione siro-egiziana.
Per tacitare ogni ulteriore insinuazione,
Nasser chiese allora l’evacuazione del¬
le truppe dell’UNEF, di stanza nel
Sinai dd 1956: la richiesta è avvenuta
in circostanze singolari, che avallano
l’ipotesi di una successione estranea al¬
le intenzioni dello stesso presidente
egiziano. Anche la pronta accettazione
di U Thant, che ha rinunciato ad una
maggiore ponderazione, ha meravigliato
e ha fatto pensare ad un mezzo di pres¬
sione. E’ probabile in realtà che U
Thant, deluso della perdita di ascen¬
dente dell’ONU, tormentato dalle que¬
stioni finanziarie, seriamente preoccu¬
pato ò. 3 \Vescalation in Asia, abbia ap¬
profittato della richiesta di Nasser, pe¬
raltro ineccepibile sul piano dei principi,
per far giungere un avvertimento alle
grandi potenze, ed in particolare agli
Stati Uniti, richiamandole alle loro
responsabilità davanti all’ONU e alla
pace del mondo.
Sull’orlo della guerra. Imponendo il
ritiro dell’UNEF, la RAU, che aveva
già vinto, si trovò nell’incomoda con¬
dizione di stravincere, perchè ritornava
a presidiare con le sue truppe il golfo
di Aqaba, senza poter più giustificare
il transito delle navi israeliane con la
presenza dei « caschi bleu »: quella che
era stata forse un’esigenza di chiarezza,
con un’implicita dichiarazione di sfidu¬
cia nelle capacità delle Nazioni Unite
di risolvere l’imbroglio medio-orientale,
si era tradotta in una miccia per l’intera
regione, dato che Israele aveva sempre
definito un casus belli il blocco del
porto di Eilath, attraverso cui passano
i suoi rifornimenti di petrolio. Lascian¬
do p>er di più ad Israele lo svantaggio
di dover prendere l’iniziativa di un
atto di guerra in senso proprio. In que¬
ste condizioni, le argomentazioni giuri¬
diche sul buon diritto dell’Egitto a con¬
trollare la navigazione di unità appar¬
tenenti ad una potenza con cui è teori¬
camente in stato, di guerra in un braccio
di mare che è certamente parte delle
sue acque territoriali, così come le
discussioni sul valore della dichiarazio¬
ne del 1957 circa la libertà del transito
negli stretti di Tiran (mai riconosciuta
dal Cairo e da Mosca), cedevano di
fronte alla prosf>ettiva di una confla¬
grazione, che potrebbe avere conse¬
guenze irreparabiU. L’imperativo di
salvare la pace divenne pregiudiziale e
si mosse la diplomazia internazionale.
L’intervento delle grandi potenze e
delle Nazioni Unite, la missione di U
Thant al Cairo, il tentativo della Fran¬
cia di far uscire la vertenza dalla con¬
sueta contrapposizione russo-americana,
non hanno contribuito in misura deci¬
siva a sciogliere la tensione, che è del
resto il frutto di un cumulo di riven¬
dicazioni e di contrasti che risale molto
indietro nel tempo. L’intransigente ri¬
conferma da parte egiziana di tutti gli
obiettivi massimalistici della politica
anti-israeliana non ha certo agevolato
una schiarita. Nonostante la meritoria
pazienza di Israele, contrario comunque
ad accettare il « fatto compiuto » del
blocco del golfo di Aqaba, la cui aper¬
tura era stata il solo successo della
campagna del 1956, la guerra, a meno
di un ritorno di tutti alla ragione, fini¬
va quasi per apparire come « fatale »,
eventualmente limitata dalla disponibi¬
lità delle parti a regolare — dopo un
primo scambio e il cessate-il-fuoco im¬
posto dall’ONU — le proprie contro¬
versie dalle nuove basi. Se si crede nel¬
l’inamovibilità dello Stato ebraico, è
in fondo solo Israele che può « vince¬
re » la guerra, ribadendo la propria
esistenza e dissuadendo per altri cinque
o dieci anni gli arabi dal minacciarla
con il terrorismo e gli altri mezzi in
loro possesso, ma sarebbe una sventu¬
ra se Israele continuasse a fidare nella
superiorità militare per congelare una
situazione innaturale, evitando di im¬
postare il problema della sua convi¬
venza con gli arabi nei suoi termini
politici, che sono i soli che possano
offrire uno sbocco duraturo e confor¬
me all’autonomia del Medio Oriente.
GIAMPAOLO CALCHI NOVATI |
Alessandria: la sfilata dei pionieri
L a polemica è aperta: i sovietici
hanno sospinto la Siria e la RAU
a provocare Israele, o ne sono stati
essi stessi sorpresi? Il risvolto di poli¬
tica interna che la polemica ha assunto
in Italia e in Francia, dopo l’allinea¬
mento dei partiti comunisti in coda
all’accusa antisraeliana, ha notevolmen¬
te intorbidato la visione dei dati ob¬
biettivi della situazione. Nondimeno, a
noi sembra che stiano in piedi nello
stesso tempo ambedue le diagnosi, ine¬
stricabilmente intrecciate fra loro. E’
dal 1956 che l’URSS ha inserito la sua
presenza nel Medio Oriente; che vi ha
sostituito gli Stati Uniti nella più one¬
rosa impresa di assistenza tecnica, quel¬
la della diga di Assuan; che favorisce
i governi siriani di sinistra, e la loro
congiunzione con la RAU e possibil¬
mente con rirak; che riversa arma¬
menti (per una somma che si calcola
fra i 1200 e i 1500 miliardi di lire)
su tutti gli stati della zona, ma ancora,
in modo speciale, su RAU e Siria.
Nello stesso tempo, l’URSS ha da sem¬
pre definito Israele come il punto di
fPPoggio dell’imperialismo americano
in Medio Oriente. Non ha dunque ini¬
ziato da oggi un contrasto, di cui non
nasconde di voler essere lei stessa pro¬
tagonista. Vale piuttosto la pena di
domandarsi se l’URSS non abbia giu¬
stificazioni precise per un’azione del
genere.
La logica dell’URSS. Gliene troviamo
due, come accade per lo più quando
si analizzano le mosse di politica estera
sovietica. La prima è che l’URSS non
può sottrarsi dal sostenere i paesi in
sviluppo. La RAU, che pure ha una
fama raramente eguagliata di persecu-
trice di comunisti, vive su importazioni
dairURSS di beni di consumo per circa
700 milioni di dollari annui di viveri.
Un’assistenza minore, ma non meno
deliberata, va alla Siria e all’Irak, an¬
che se accompagnata da mosse contra¬
stanti (come la difesa che l’URSS, ha
sempre sostenuto, e lodevolmente, dei
curdi).
Ma secondo noi conta in modo più
immediato il secondo motivo. Piaccia
o non piaccia, pur procedendo nella
distensione, l’URSS non ha cessato di
dover spiegare uno sforzo di rottura
nei confronti del cordone sanitario
americano. E’ uno sforzo lento, che ha
trovato negli ultimi anni un primo suc¬
cesso nella riconciliazione economica, in
Asia orientale, col Giappone, e, sul
continente, col Pakistan, l’Iran, e più
in qua con la Turchia. Ma mentre a
nord l’attenzione americana nell’Artico
non è sventata, e, mentre d’altra parte
La crisi del Medio Oriente ò il termine ^
punta di un processo di raffreddamento
della distensione, che ha solo la sua
più clamorosa nel Vietnam. Ma è anch*
la dimostrazione del fatto che la politica o*
coesistenza non regge se non procede ^
due linee Insieme opposte e convergenn!
la politica di pace e accordi Intemazionali
da un lato, la politica di antitesi di slstei^
in un progressivo confronto di libertà ofi"
mocratiche e sociali dall'dtro. Mentre à
questa logica il crescente aiuto che l’UR^
conferisce ad Hanoi, la mossa nel Medin
Oriente contraddice alla prima e non ^
va alia seconda delle due componenti dell*
coesistenza.
18
Agenda internazionale
tutta l’altra frontiera ostile è premuta
dalla Cina, è abbastanza comprensibile
che l’URSS cerchi una porta aperta a
Sud, verso il Mediterraneo: dunque,
attraverso gli stretti e attraverso la
Siria. Parliamo qui dell’URSS come
grande potenza. Crediamo sia capitato
^che a noi, come ad altri osservatori
di politica internazionale, di subire il
rimprovero di non saperci elevare ad
una considerazione meramente ideolo¬
gica della politica estera sovietica, e di
rimetterci al vecchio criterio realpoliti-
co dell’equilibrio di potenza. Ma a noi
sembra altrettanto miope la velleità
propagandistica di denegare all’URSS
un’ottica da potenza planetaria. Quan¬
do si tratta, del resto, di metterla sul
piedestallo di custode e garante della
j^ce, allora tutta la strumentazione po¬
litico-militare dello stato sovietico vie¬
ne esaltata per la sua efficienza. Se vo¬
gliamo dunque smettere le ipocrisie, ri¬
conosciamo che la politica di potenza
dcll’URSS si intreccia inevitabilmente
cw scelte ed alleanze ideologicamente
giustificanti o concomitanti. Ma sicco¬
me la politica della coesistenza è sino¬
ra una politica di equilibrio di potenza,
non scandalizziamoci se l’URSS, che
1 ha inventata, sappia poi anche prati¬
carla.
Notiamo subito due altre cose. Per
Vietnam: l'interrogatorio
(guanto in questi giorni la stampa e le
dichiarazioni sovietiche in sede ufficiale
(l’ONU) abbiano sempre confermato
l’impegno della difesa araba, mai esse
sono trascese ad una minaccia di guer¬
ra. In secondo luogo, se avessimo fatto
più attenzione al testo della risoluzione
di Karlovy Vary, avremmo dovuto sot¬
tolinearvi l’insistenza nel richiedere lo
sgombero, dal Mediterraneo, della Se¬
sta Flotta americana.
E’ indubbio che, con quell’allusione,
l’URSS ha parlato assai prima di Nas-
ser: e ha, con un semplice accenno, am¬
monito a lasciar operare quest’ultimo
continui a riversare su Israele con uno
spirito di guerra santa, non si giustifi¬
ca ma è notorio; che l’URSS faccia pe¬
sare su Israele la sua contestazione del¬
lo sfruttamento capitalistico anglosasso¬
ne del petrolio e della presenza nel Me¬
diterraneo della Sesta Flotta, questo è
puramente un ordigno strumentale. Mo¬
sca poteva scegliere un altro momento
e un altro modo di sollevare il proble-
ViETNAM: inizia l'attacco
secondo il proprio criterio della libertà
dei transiti marittimi. Quanto alla accu¬
sa ad Israele di « aggeggio dell’imperia¬
lismo », questo è un discorso che si
può, sul piano della propaganda, tirare
avanti aU’infinito, senza cavarne poi
molto. Lo stato d’Israele è nato grazie
alla rivolta durissima contro il protetto-
rato britannico. E’ vero che gli israelia¬
ni hanno trovato, nel mondo occiden¬
tale dove vivevano dispersi, appoggi
finanziari iniziali di enorme agevolazio¬
ne nel loro rapido processo di indu¬
strializzazione e di trasformazione della
natura; ma è anche vero che essi han¬
no realizzato sul loro territorio, attra¬
verso il kibbuz e la proprietà industria¬
le dei sindacati, esperimenti sociali che
qualunque stato socialista dovrebbe
considerare con interesse.
E’ vero nello stesso tempo, che esat¬
tamente a partire dal 1950 le frontiere
di Israele sono garantite dagli Stati Uni¬
ti, e oggi solo da questi, che hanno del
tutto rimpiazzato, in Medio Oriente, la
presenza politica anglofrancese. E’ falso
però che Israele sia immischiato, secon¬
do un modulo capitalistico, nello sfrut¬
tamento dei paesi arabi: della loro uni¬
ca ricchezza, il petrolio, Israele non ne
possiede o ne sfrutta neanche ima goc¬
cia: deve comprare tutto il suo fabbi¬
sogno nell’Iran. Che l’odio arabo si
ma; avrebbe anche potuto non sollevar¬
lo afiFatto, se non vi fosse stata indotta
dalla utilità di aprire un secondo fron¬
te, non militare certo, ma diplomatico,
contro gli Stati Uniti, non potendo
fronteggiare abbastanza efficacemente
questi ultimi nel Vietnam. Ma non cre¬
diamo di essere del tutto lontani dal
vero, pensando che nè Mosca vuole la
fine di Israele, nè desidera le violenze
verbali di Nasser; che tuttavia sta per¬
fettamente al gioco perchè vi era pron¬
ta, e perchè, da un incidente locale o
almeno da una prolungata tensione, può
raccogliere intorno a Nasser tutto il
mondo arabo facendone tacere le in¬
terne divisioni, e mettere Washington
nelle condizioni di dover scegliere tra
una politica di abdicazione o una di
rischio non calcolato, in una zona in
cui l’URSS è in vantaggio per allean¬
ze, per collegamenti logistici, e per lun¬
gimirante penetrazione.
Ritorna la guerra fredda? Non ab¬
biamo nessun motivo per assolvere sen¬
za riserve i circoli della destra israelia¬
na: ma continuiamo a pensare che, in
primo luogo, non sono loro a dirigere
oggi la politica di Gerusalemme; in se¬
condo che, nel caso specifico, c’è
un salto dalla rappresaglia dei « Mira-
L'ASTROLABIO - 4 giugno 1967
19
Agenda internazionale
PRIMO
SCAFFALE
porta i ragazzi
alle grandi letture
TOMASI
DI LAMPEDUSA
IL
GATTOPARDO
A cura di Riccardo Marchese
L. 1000
PASTERNÀK
IL DOTTOR
ZIVAGO
A cura di Mario Visani
L. 1000
MANN
CANE
E PADRONE
A cura di Sergio Checconi
L. 600
TOLSTOJ
I QUATTRO
LIBRI
DI LETTURA
A cura di Tina
e Lucia Tornasi. L. 650
D’AZEGLIO
ETTORE
FIERAMOSCA
A cura di Silvana Boschetti
L. 850
IL RACCONTO
POLIZIESCO
Poe» Doyle, Borgès,
Chesterton, Simenon»
A cura di Alberto del Monte
’ L.. 600
LA NUOVA
ITALIA
ge » su Damasco, e il blocco del golfo
di Aqaba. Rammentiamo, nello stesso
tempo, che da un pezzo gli Stati Uniti
sono venuti tentando a loro volta una
politica di buona assistenza così verso
gli arabi come verso gli ebrei, dopo
essersi resi conto dell’errore di DuUes,
quando tagliò a Nasser i fondi per la
diga di Assuan.
Ma questo non toglie che il rappor¬
to privilegiato di Israele con Washing¬
ton sia iscritto nella garanzia delle fron¬
tiere; e che la Sesta flotta si trovi nel
Mediterraneo con una mira di potere e
di « presenza » che è simmetrica, se non
ideologicamente identica, al sostegno
sovietico della Siria. La Sesta Flotta è
composta di cinquanta navi (più tre
sottomarini atomici, che fanno parte
della NATO) che pattugliano il Medi-
terraneo con diversi incarichi, uno dei
quali è proprio quello di un interven¬
to di emergenza nel Medio Oriente. Se
anche questo sinora non si è verifi¬
cato, si deve al fatto che probabilmen¬
te, in modo segreto ma probabilmente
sicuro, Washington e Mosca mantengo¬
no un dialogo destinato ad evitare uno
scontro od un appiglio, che possa far
degenerare la tensione in una guerra
guerreggiata.
A questo punto, nel quale siamo i
primi a definire in funzione imperialisti¬
ca la guardia al petrolio della Sesta
Flotta (sebbene si debba tener conto
che il petrolio va perdendo una parte
del suo valore strategico: e dopo tutto,
se i paesi arabi lo presentono, se guar¬
dano in prospettiva di qui a trent’anni,
si capisce che cerchino briga ad Israele
per impadronirsi brutalmente di un ter¬
ritorio ad avanzato livello di industria
di trasformazione) — è impossibile non
rendersi conto che la crisi del Medio
Oriente è il termine di punta di un
processo di raffreddamento della di¬
stensione, che ha solo la sua base più
clamorosa nel Vietnam.
La tempesta sta infatti scoppiando
ora sulla distensione, ma dopo un lun¬
go annuvolamento, di cui si potrebbero
elencare le macchie di crescente intensi¬
tà. Da quando l’ambasciatore Thomp¬
son è andato a Mosca per rinverdire e
intensificare la coesistenza, tutto è an¬
dato in senso decisamente opposto. Co¬
me rileva il Times di dieci giorni fa,
Thompson manda rapporti dai quali ri¬
sulta: che la moratoria degli impianti
antimissili è un discorso abbandonato; i
trattati consolari e per l’uso pacifico
degli spazi non vengono ratificati. Re¬
sta il terreno così tormentato del nego¬
ziato antiproliferazione. Sappiamo solo
che Roschin ha dichiarato al collega
Foster che non ha la minima intenzio¬
ne di cedere intorno al punto del con¬
trollo, che la Repubblica Federale tede¬
sca vorrebbe, almeno a termine, affidato
all’Euratom, e l’URSS (senza obbiezioni
in proprio degli Stati Uniti) all’Agenzia
atomica di Vienna. Comunque tutto è
ora fermo in materia di non prolif^
razione, tanto che a Ginevra i disalli¬
neati dimostrano la loro irritazione esi¬
gendo di essere chiamati a partecipare
anch’essi ad una stesura di progetto.
Il prezzo della contraddizione. Noi
non prevediamo per questo che URSS
e USA intendano passare alla guerra
guerreggiata, sebbene la riflessione di
Raymond Aron, che la rinunzia all’uso
di armi nucleari favorisca le guerre mi¬
nori e convenzionali, non sia del tutto
da accantonare. In questo caso, baste¬
rebbe un’imprudenza di Nasser per ren¬
dere possibile airURSS di infastidire
direttamente gli Stati Uniti nel Medi-
terraneo, obbligandoli a tenere due
fronti e portando Johnson dinanzi al
giudizio di un’opinione pubblica, quella
americana, che potrebbe nello stesso
tempo rimproverargli la sua lunga debo¬
lezza verso l’URSS, e l’impegno di una
doppia impresa militare che certamen¬
te farebbe sentire il suo peso anche sul¬
la vita quotidiana degli americani, come
ancora non è avvenuto per il solo ma¬
neggio del Vietnam.
Quali sono intanto le conseguenze
prime della tempesta scoppiata suUa
distensione? Per ora è disagevole deci-
borse di studio
sui problemi europei
L'Istituto universitario di studi euro-
p)el di Torino — direttore il prof. Silvio
Romano, segretario generale il dott.
Gustavo Malan — bandisce un concor¬
so per 30 borse di studio aperte a
giovani di qualsiasi nazionalltà, provve¬
duti di un titolo di studio corrispon¬
dente alla nostra laurea e di sufficiente
conoscenza deila ilngua francese. I
borsisti godranno di vitto ed alloggio
che consenta la frequenza dei corsi
regolari per un anno, ed eventualmente
per un secondo di perfezionamento e
ricerca, i corsi, tenuti dal novembre
1967 al maggio 1968 da universitari di
varie nazioni ed esF>erti di organizza¬
zioni Internazionali, vertono sui pro¬
blemi centrali, economici giuridici so¬
ciali e storici, della società europea
contemporanea ed intendono fornire
una preparazione professionale ed ac¬
cademica, sanzionata dai titoli rilasciati
alla fine dei due corsi.
Le domande per -il concorso-borse
devono essere presentate alia Segre¬
teria dell’Istituto (Torino, corso Vittorio
Emanuele, 83) entro il 30 giugno 1967.
Le domande d'iscriziorie ai corsi di
altri candidati devono pervenire entro
il 30 settembre 1967.
20
Agenda internazionale
Ararle. Abbiamo detto che ci rendiamo
perfettamente conto delle istanze di
potenza che sospingono l’URSS ad una
vigilanza sul Mediterraneo orientale;
vogliamo anche accreditarle una certa
politica di assistenza (ma anche di riar¬
do) verso paesi in sviluppo. Però, in
linea immediata, l’URSS è riuscita a
dividere il fronte della protesta anti¬
americana, perchè gran parte dell’opi¬
nione democratica e non comunista più
accesamente avversa agli Stati Uniti
considera Israele aggredito, e i comu¬
nisti, che gli danno torto, mancipii del¬
ia politica estera sovietica, quasi non
avessero appreso nulla dal policentri-
smo, dalla politica di non interferenza,
dalla discussione, che si dovrebbe rite-
nere aperta, intorno alla opportunità di
allearsi a regimi che aprono e chiudono
3 loro pieno arbitrio il pugno sulla te¬
sta del comuniSmo. Per esempio in
Francia il problema del Medio Oriente
incrina la faticosa costruzione del co¬
mune programma delle sinistre. In Ita¬
lia, conferisce una buona carta al PSU
Wntro la inabile propaganda del PCI.
Quando leggiamo su Nouvelle Obser-
vateur che gl’istruttori dei comman¬
dos siriani sono probabilmente i cinesi,
01 viene fatto di crederci, tanto sa¬
rebbe plausibile un’astuzia destinata a
*c}ualifìcare la politica comunista di ap¬
proccio, o di spinta a tergo, delle so¬
cialdemocrazie.
Ma questo è solo il minore dei dàn-
^ — e probabilmente potrebbe essere
superato senza eccessive astuzie. Il de-
rrimento più grave è un altro. E’ che la
politica di coesistenza non regge se non
procede su due linee insieme opposte e
convergenti: la politica della pace e
degli accordi internazionali, da un lato;
^3 politica di antitesi di sistema, in un
progressivo confronto di libertà demo¬
cratiche e sociali dall’altra. Ebbene,
utentre è in questa seconda logica il
crescente aiuto che l’URSS conferisce
2 Hanoi, la mossa nel Medio Oriente
contraddice alla prima e non giova alla
seconda delle due componenti della
coesistenza. Allo stato attuale, bisogna
deplorare che ciò ingeneri una perico¬
losa confusione ideologica, difficile a
districare anche solo nella propaganda.
Ui fatto, o l’URSS accetta la dottrina
cinese, e allora giustifica su una pura
base ideologica l’assistenza al Vietnam
c quella (molto meno plausibile, ma po¬
liticamente battagliabile) ai paesi arabi;
oppure si attiene alla norma di circo¬
scrivere i campi di attrito; di assumerli
2 motivo determinante della sospensio¬
ne della diplomazia distensiva — ma
non spinge più avanti un’azione che
potrebbe portarla ingiustificatamente
lontano dal suo stesso tipo di pacifismo.
I-’ASTROLABIO - 4 giugno 1967
Il dilemma sovietico. Resta, natural¬
mente, aperta anche la terza ipotesi,
cui abbiamo accennato.
L’URSS pensa di battere Johnson sul
suo stesso terreno, quello della sicu¬
mera con la quale afferma di salvare
tutto insieme il burro e i cannoni —
l’onore e gl’interessi mondiali ameri¬
cani. Ma per arrivare a questo risul¬
tato non basta fare la voce grossa, oc¬
corre adoperare il nodoso bastone. Oc¬
corre non solo la fine della distensione
— il suo deterioramento — il capovol¬
gimento di una politica che supponeva
di passare dalla semplice non interfe¬
renza ad alcune forme di cooperazione
attiva. Occorre una guerra, e occorre
che i sovietici la facciano con estrema
iniziativa. Ora ciò è contro i loro inte¬
ressi; ma soprattutto è contro i loro
principi!, e noi siamo i primi a dare
atto all’URSS di avere sempre evitato,
anche sotto Stalin, una iniziativa di
guerra aperta. L’estremo filo della coe¬
renza socialista, in URSS, sta forse an¬
che oggi più nella lettera del pacifismo,
che nella sostanza del riscatto dall’alie¬
nazione.
Ma supponiamo infine che gli Stati
Uniti decidano di forzare il blocco del
golfo di Aqaba, impresa che costerebbe
loro poche ore di fuoco: che farebbe
rURSS? Non si può sollevare la tem¬
pesta sulla coesistenza, senza tener
conto del fatto, che gli Stati Uniti han¬
no imparato a vivere « soli » nel cer¬
chio della diplomazia mondiale, men¬
tre l’URSS ha solo questo vantaggio
(o ne ha saputo godere sinora in modo
crescente) — quello di meritarsi la lode
di una politica estera aperta, e, per
quanto decisa nel modo più oligarchico,
più capace di offerta verso lo stesso
mondo di influenza americana. II Viet¬
nam è un episodio formidabile perchè
dimostra che gli Stati Uniti sanno e
possono volere la guerra, mentre i co¬
munisti possono sopportarla ma non
provocarla. Se I’URSS non replicasse
agli USA, come salverebbe il suo cre¬
dito? E se gli USA le chiedessero di
salvare la pace, come terrebbero, loro,
aperto lo spiraglio di Aqaba? Come cer¬
cheranno di ricuperare il terreno per¬
duto della coesistenza? Come invente¬
ranno, essi stessi, una maniera per reim¬
porne la pratica agli americani?
Abbiamo molta stima della bravura
diplomatica sovietica: ma questo arco¬
baleno, che dovrebbe adesso dipingere
lei stessa in un cielo che è anche quello
dell’Europa (soprattutto, anzi, quello
dell’Europa) sembra richiedere la ma¬
no di un demiurgo di grande statura:
Breznev, Kossighin — o già qualche
altro dietro la svolta di Aqaba?
FEDERICO ARTUSIO ■
APRILE 1967
Numero speciale
dedicato a Ernesto Ross!
scritti di: Riccardo Bauer; San¬
dro Galante Garrone; Aldo Ga¬
rose!; Massimo Mila. Lettere
inedite di Ernesto Rossi.
Jna copta L. 75. Abbonamento annuo
L. 600. Per richieste di numeri di saggio
e per abbonamenti rivolgersi aU'Am-
mlnl 8 tra 2 lone di RESISTENZA Torino
Casella postate n. 100. I versamenti
vanno effettuati sul c/c n. 2/33166.
Filmcritica
Aprile 1967
V J
filmaitica
lustrata — - ...-
A
In questo numero scritti di:
Umberto Barbaro; Edoardo Bru¬
no; Serena D'Arbela; Romano
Scavolini; Massimo ^cigalupo;
Riccardo Ghione; Michael Me
Giure; Stan Brahage; Renato
Tomastno; Vittorio Gelmetti;
Alfredo Leonardi; Paolo Castal-
dinl; Nuccio Lodato; Giampaolo
Sodano; Giuseppe Turrorri; An¬
tonio Castaldi; Alfredo IlardI.
21
L a formula è d’invenzione ameri¬
cana. La definisce Theodor Geiger,
direttore della « International Studies
of thè National Planning Association »,
in un libro che già dal titolo entra su¬
bito in medias res, « The Ending of
an Era of Atlantic Policy ».
Geiger parte dalla constatazione che
gli europei sono oggi risaliti ad un li¬
vello di prosperità e di iniziativa econo¬
mica tali da renderli autonomi dagli
Stati Uniti. Nello stesso tempo, i pro¬
blemi di espansionismo planetario degli
americani li lasciano vieppiù indifferen¬
ti. E’ questa duplice forma di distacco,
che Geiger definisce isolazionismo. Gli
europei, inoltre, si sentono sempre più
assorbiti dai loro problemi: non guasta,
oltre tutto, che avvertano, all’Est, la
fine di una temuta marcia di usurpa¬
zione. Gli Stati Uniti hanno la loro par¬
te di responsabilità in questa nuova
« Stimmung » europea?
Conviene parlarne oggi, che abbiamo
appena assistito alla stretta di mano fra
Saragat e De GauUe: im uomo che con¬
tinua a puntare moralmente sull’Eurc^
unita, sovranazionale, aperta, un altro
che la preferisce intenta a crescere in
intensità, ma con le sbarre abbassate ai
confini, soprattutto nella direzione del¬
l’Inghilterra. Cessata, dopo le celebra¬
zioni romane, l’ambivalenza della com¬
memorazione, riacceso il 19 giugno il
difficile colloquio diretto, a Parigi, tra
Wilson e De GauUe, che vale il di¬
scorso di Theodor Geiger? E’ una dia¬
gnosi cerveUotica; oppure c’è in essa U
nucleo di uno sviluppo, magari diverso
da queUo che egli viene poi delinean¬
do, io sviluppo di un’Europa che ven¬
ga almeno embrionalmente politicizzan¬
dosi, ma progressivamente staccandosi
daU’atlantismo? Anche questa non è
una ipotesi indegna di considerazione;
la viene insinuando, con la consueta
lucidità, il politico certo più rispettato
deU’Europa a Sei, Pierre Mendès-Fran-
ce; è iscritta nel programma del PSU,
e ritraduce sotto U termine « neutrali¬
smo » queUo che Theodor Geiger chia¬
ma isolazionismo.
I verdi pascoli dei federalismo. Se¬
guiamo anzitutto U ragionamento che
concerne i rapporti America-Europa,
Kiesinger
strettamente in relazione al crescere
deU’isolazionismo europeo. Ci aiuta una
aqalisi puntigliosa deUa Neue Zuerchef
Zeitung. Gli americani, ricorda il gior¬
nale, grazie ad alcuni grossi operatori
politicoeconomici come Paul Hof¬
mann, iniziarono, col piano MarshaU,
una tendenza che voleva portare fran¬
camente aU’unità europea. Ciò avrebbe
22
A
Agenda internazionale
Il capitale americano. Perchè irri¬
tata? Anche questo fatto sembra para¬
dossale. Che gli europei scordino così
volentieri i bCTefici ricevuti al tempo
della loro disgrazia si spiega solo per
l’infame consuetudine di odiare coloro
cui si deve riconoscenza. Ma non c’è
solo questa ragione. C’è il fatto, che gli
americani, distaccati per molti aspetti
da noi sul piano della politica; in grave
imbarazzo nella loro fondamentale stra¬
tegia, che resta pur ancora quella del¬
l’intesa diretta con l’URSS, ma anche
sicuri che noi non li possiamo aiutare a
ricuperare lo spazio perduto dal Viet¬
nam al Medio Oriente — possiedono
però in Europa occidentale puntelli di
una importanza rilevante, che aggiungo¬
no, alla nostra ingratitudine, un senso
molesto di irritazione. Il Financial
Times riferiva, nel gennaio scorso, che
interrogato ai Comuni, il ministro del¬
la Tecnologia era appena uscito in que-
permesso sia di dare organicità agli aiuti
Marshall, sia di creare una lega euro¬
peo-americana di efEcace vigilanza nei
confronti della deprecata minaccia so¬
vietica. Uomini di alto spirito profe
dco, come Jean Monnet, avviarono
dirigenti americani verso i verdi pa
scoli dell’isola federalista. Oggi un os
servatore come Henry Kissinger è mol
io franco nel riconoscere che la credu
lità americana nel miracolo di una ite
razione federalistica in Europa fu un’in
genuità, giustificabile allora solo dal
1 evidente mortificazione nazionale degli
stati europei, e della loro ricerca alme¬
no provvisoria di un succedaneo.
Adesso gli americani sono i primi ad
essersi liberati da quella visione. Primo,
1 Europa unita non è divenuta il ba¬
stione militare sperato (prima di De
Gaulle, ci ha pensato Mendès nel ’54:
e ora ringraziamo la buona sorte, per¬
chè altrimenti avremmo una Germania
con ventiquattro divisioni invece che
dodici). In secondo luogo, gli ameri¬
cani stessi tirano il fiato dinanzi alla
n^sistenza di una Comunità europea di
difesa, che sarebbe un intralcio perma-
nmte ai loro rapporti con l’URSS, nella
■ttisura almeno in cui ha senso ancora
(non disperiamo del tutto) la formula
della coesistenza. Terzo ed ultimo,
1 Europa federale non solo non la vo¬
gliono in Francia nè i gollisti nè i co-
ttiunisti; ma non la vuole seriamente
neanche la Germania, che, messa nel¬
l’angolo dagli Stati Uniti, non desidera
staccarsi da una permanente collabora¬
zione con la Francia. In breve: gli ame-
ticani hanno errato per idealismo e per
quello scambio, che la logica tradizio¬
nale ha sempre indicato come l’errore
dei principianti — lo scambio di imma¬
gini e concetti — al punto che oggi si
ritrovano un’Europa che non assume in
proprio nessuna delle finalità america¬
ne; che può fare a meno degli Stati
Uniti; che è anzi, irritata con gli Stati
Uniti.
Mendes Frange
•-'ASTROLABIO - 4 giugno 1967
iiUL. _
Brandt
sto riconoscimento: « Mi duole con¬
fessare che, nella produzione di mac¬
chine da scrivere, la nostra industria
è indipendente solo per il 20 per cen¬
to; e che anche questa quota è la più
arretrata e incapace di competitività in¬
ternazionale ». Si capisce che l’SO per
cento è in mani americane. « Non passa
settimana che una ditta inglese grande
o piccola non passi sotto capitale USA;
ma lo stesso avviene sul Continente ».
Tra il 1965 e il ’66 — secondo il Di¬
partimento americano del Commercio
— gl’investimenti americani sono au¬
mentati del 40 per cento nell’area
MEC, e del 16 per cento in Gran Bre¬
tagna. Qui il mercato déll’auto è domi¬
nato da loro per metà; per un quarto,
nel MEC.
Ma non è un argomento sul quale
vogliamo fermarci analiticamente, bensì
solo per ricordare che sono di capitale
americano i settori che condizionano
(come l’elettronica) in modo generale
gl’incrementi industriali di tutte le
branche più avanzate. Nell’insieme gli
investimenti europei degli Stati Uniti
ammontano a 14 miliardi di dollari, di
cui 5 miliardi in Gran Bretagna. Non
vi sono segni di rallentamento: segni
di insofferenza europea, certo. Ne han¬
no dati, in modo che parve sconve¬
niente, i ministri di De Gaulle; ma an¬
che il giubilato Erhard non li soppor¬
tava, negli ultimi tempi, con equo
animo.
Se riassumiamo i tratti dell’Europa a
dieci anni dall’inizio del MEC, trovia¬
mo dunque: una unione doganale in
avanzatissima realizzazione; la messa in
frigorifero del federalismo, in parte per
la sua catastrofica deficienza di piatr«-
forma sociale, in parte per l’ostilità, da
nessuno seriamente affrontata, della
Francia gollista; il ritorno, quindi, a
una presunzione di sufficienza delle po¬
litiche « nazionali », che è poi smentita
dalla impossibilità di sviluppare lo stes¬
so mercato comune senza un minimo
di unità politica, sia pure almeno attra¬
WlLSON
verso forme interstatali, progressiva¬
mente implicanti però decisioni a mag¬
gioranza, e compensazioni per le mino¬
ranze (come accade già del resto per
alcuni settori, da adesso). Nello stesso
tempo, si è aperta la consapevolezza che
l’Europa a Sei ha interessi politici sem¬
pre più discrepanti o indifferenti a quel¬
li degli Stati Uniti. Europeismo senza
atlantismo, Europa neutralista, queste
23
Agenda intemazionale
so. co. LIB. RI.
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Walter Ulbricbt
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In edizione francese
o inglese
o spagnolo.
formule mendesiane, vengono acqui¬
stando un significato sempre più con¬
creto, non negli ideali europei (qui sono
pochi ancora che ci pensano) — ma nel¬
le cose stesse.
La prospettiva mendesista. Aveva
dunque ragione De Gaulle? Non per
una antica simpatia, ma per una vici¬
nanza mentale che ci persuade — lo
confessiamo — da due decenni, la tesi
mendesiana ci pare quella giusta, e fal¬
sa quella gollista. AÌiche Mendès non
intende precipitarsi nelle spire federa¬
listiche, che importerebbero una imme¬
diata soluzione della qualificazione mi¬
litare della Repubblica Federale. Al
contrario p>oi di De Gaulle, il neutrali¬
smo europeo di Mendès mira alla aper¬
tura del MEC ai paesi dell’EFTA, e
quindi ad un’area economica così am¬
pia e potente, da non temere nè con¬
fronti nè assorbimenti da parte di quel¬
la sovietica, e da potersi, in un tempo
non eccessivamente lungo, esimert dalla
tutela americana nei settori tecnologi¬
camente più raffinati e costosi. La tesi
mendesiana ci appare la più persuasiva
non solo perchè mette in ritirata il na¬
zionalismo gollista, ma perchè tende a
trasformare l’isolazionismo europeo,
che è una tendenza di fatto, in una poli¬
tica deliberata, quella della neutralità
attiva dell’Europa. Si dirà che ciò pre¬
suppone, a questo punto, proprio orga¬
ni, o almeno accordi generali comuni,
di politica estera. Niente da eccepire.
Non abbiamo sinora aderito al sistema
atlantico, che non è affatto una istitu¬
zione sovranazionale; che non è stato
mai « integrato » altro che per la pro¬
duzione di certi tipi di armamenti; e
che non ha mai inciso fino in fondo sul¬
la autonomia del diritto di ogni socio
(conforme all’articolo 51 della Carta
dell’ONU) di giudicare egli solo se
sussista, p)er avvenuta aggressione, un
casus belli. Se il Patto Atlantico, tanto
più serrato tuttavia, lasciava ai suoi
membri alcune libertà meno una, quel¬
la di considerarsi slegati dagli Stati Uni-
POMPIDOU
ti, perchè si dovrebbe respingere sin
d’ora come impossibile una politica
europeistica non atlantica?
Siamo i primi a riconoscere che pun¬
tiamo su un itinerario lungo e diffi¬
coltoso: forse la prolungata concessio¬
ne di nuove prerogative alla suprema¬
zia gollista (che consiste tutta nella
insostituibilità della Francia) lo ritar¬
derà ulteriormente. Ma nello stesso
tempo è anche probabile che venga an¬
cora riducendosi il contenuto, già sem¬
pre più scarso, della « speciale allean¬
za » fra Stati Uniti e Gran Bretagna.
In questo caso, non è poi una politica
per i nostri nipoti, ma forse già per t
figli, e ancora per alcuni tra i più gio¬
vani fra i dirigenti di oggi, quella che
Mendès propone in Francia, e che in
Italia intravvedono coloro che si siano
magari per altre vie incominciati a fami¬
liarizzare con la mentalità neutralisti-
ca. E’ la stessa, del resto, che li difen¬
derebbe sia da un odio giacobino con¬
tro la civiltà americana, sia da una
debolezza irrazionale verso il modello
collettivistico sovietico.
Non trascuriamo, però, che, secondo
i mendesiani, la condizione per una
politica estera del genere è una certa
politica interna: un certo socialismo, un
certo dirigismo. Noi siamo d’accordo.
Pensiamo anzi che solo l’Europa occi¬
dentale possa ancora esperire questo
tipo di società. E se, nel guardarci in¬
torno, siamo a volte indotti ad una ras¬
segna pessimistica delle forze politiche
che vi sarebbero interessate, dobbiamo
però rammentare loro che la condizione
di fatto, quella del crescente « isolazio¬
nismo europeo », avvicina da sola il
tempo di opzioni non più differibili.
SERGIO ANGELI *
24
Agenda internazionale
on era esattamente un parterre de
' ' rois, Gonfie al tempi del Congresso
di Vienna, quello che II vertice europeo
aveva riunito al Campidoglio per la
solenne celebrazione del decennale del
Trattato di Roma. Ma era comunque
una bella platea; sai capi di governo,
sei ministri degli esteri, tutti domi¬
nati dalla figura quasi ieratica ma con¬
discendente del gen. De Gaulle, ridotto
ad una dimensione umana dalla man¬
canza del chepf.
Capitava male questa celebrazione,
come se gli scoppi delle bombe su
Hanoi e gli egiziani in agguato ad
Aqaba ogni tanto raggelassero l'ottimi¬
smo di occasione, in questo quadro
oscuro ia storia e il bilancio della fati¬
cosa costruzione europea si riduceva
d’importanza e perdeva respiro. E tut¬
tavia I particolareggiato rapporto che
il Presidente Saragat faceva ai rappre¬
sentanti di questo Occidente europeo
conduceva gli ascoltatori ad alcune
conclusioni d’insieme politicamente
importanti come valutazione del lavoro
passato e delle reali possibilità di do¬
mani.
Non si sentiva in quel rapporto quale
era stata la primitiva Ispirazione e la
prima spinta della ideologia e del mo¬
vimento federalista. Risultarono Invece
chiari 1 lati positivi delle iniziative e
tappe dell'azione europeista, diventata
affare di governi, di cancelleria e di
partiti, e cioè l’accumulazione di effet¬
ti. e perciò l’utilità progressiva del la¬
voro comunitario, dell'abitudine al con¬
fronto od al vaglio reciproco; I progres¬
si dell'azione unificatrice, che pur at¬
traverso oscillazioni attriti e rinvii, so¬
no Il risultato oggettivo di un tal lavo¬
ro; la insostituibilità del metodo, ed
essendo ormai prossinno il compimen¬
to delle tappe previste p>er il mercato
comune, la necessità di affrontare la
seconda tappa Integratrice della co¬
struzione di base del MEC, su un livel¬
lo più organico di unificazione.
La seconda parte del rapporto, quel¬
la originale di Saragat. evitava la pole¬
mica diretta con l'« Europa delle pa¬
trie •. ma riproponeva, con la validità
della impostazione sopranazionale, la
necessità della unità europea su uno
sfondo storico e lirico alla adesione
dell’Inghilterra, esolloitamente postu¬
lata. si limitava praticamente Tamplla-
mento di orizzonti della Comunità.
Che cosa c’era di vero al fondo di
questo quadro ottimistico? Qualche
cosa che i critici facili della organizza¬
zione europiea e dell’europeismo non
devono dimenticare. Una crescente vi¬
cinanza di vita, una reale convergenza
d’interessi ed anche di destini che
obbliga a trovare forme adatte, ma
non statiche e sempre più aperte, di
organizzazione comune. Che cosa man-
De Gaulle
a Roma
cava nel quadro, e manca nei fatti?
Una base politica e sociale; un plafond
organizzativo superiore. Un controllo di
base di rappresentanze popolari quali¬
ficate, atte a contrastare I domini
aziendali, ed a garantire la democrazia
non delle forme ma degli Indirizzi. Un
coordinamento efficace della politica
economica.
Che cosa appariva Insufficiente? La
limitazione deH’ampliamento al proble¬
ma della Gran Bretagna. Le dimensio¬
ni di ieri sono superate. I continenti si
restringono. La diversità dei reginni
•Ieri poteva far considerare utopistici
legami organici con i paesi dell’Est:
oggi non più. La stessa unificazione
politica, ora confinata sul piano delle
aspirazioni, potrebbe — ed è sperabile
possa — trovar diverse soluzioni In un
nuovo quadro di Intese paneuropee.
Ma se dai sogni si torna alla realtà
Fanfani e Nenni
dell'Assemblea celebrativa di Roma le
ironie sull’arcaico nazionalismo di De
G 2 Hille si smorzano. Il binomio Francia-
Germania appariva dominante, e Kie-
singer ritornava dopo Adenauer l’Inter¬
locutore valido del Generale. Il solido
riawicinamento tra i due popoli di qua
e di là del Reno è ancor giudicato, al¬
meno dai francesi, il fatto storico più
Importante e determinante del dopo¬
guerra europeo. Ogni anno, secondo 11
calcolo di Parigi, circa 400.000 tede¬
schi soggiornano in Francia, condotti
da ragioni di turismo, di lavoro e di
studio; gli italiani ohe visitano la Fran¬
cia neiio stesso tempo sono circa 15
nrtia.
E tuttavia alla Famesi'na ed a Villa
Madama, finché lo sguardo non oltre¬
passava l colli retoricamente fatali di
Roma, ottimismo europeista ed euforia,
leggibili nei sorrisi del Ministro Fan¬
fani, animavano le delegazioni, in ef¬
fetto De Gaulie aveva mantenuto la
promessa di scongelamento fatta a
Fanfani, non aveva pronunciato l veti
temuti, cosicché le trattative per l'ac¬
cessione Inglese potranno presto co¬
minciare a Bruxelles. Non si sa natu¬
ralmente prevedere come e quando ter¬
mineranno. Lo stesso Generale appa¬
riva lieto del viaggia, soddisfatto della
accoglienza fatta alla sua raciniana
condiscendenza; od è davvero i'Outile
cercare quanto questa rettifica di rotta
si debba all'opposizione Interna od a
diverse vedute generali.
Si conta che le operazioni per la fu¬
sione dei tre Esecutivi possano anche
esse prendere prossimo inizio, appiana
annunciata la nomina del nuovo capo
chiamato a sostituire Halistein, ancor
rinviata non per ragioni tuttavia sostan¬
ziali. Cadute per ragioni di turno e di
opiportunltà le candidature tedesca e
francese — e quésta chiusura di pro¬
spettiva ha indotto Marfolln a ripren¬
dere -Il suo pmsto di professore in eco¬
nomia all’Università di Parigi — poteva
esser la volta di una candidatura Ita¬
liana. Ma, sia cortesia sia astuzia, l’of¬
ferta era stata fatta all’on. Colombo,
che la ha declinata (non risulta che
abbia detto; J'attends mon astro). Ed
è rimasta allora quella del Ministro
belga Rey, liberale con>e tinta politica,
preparato e stimato, ohe ha diretto co¬
me delegato generale della CEE le
trattative p>er II Kennedy round, con
soddisfazione di tutti essendo riuscito
a distribuire equamente II malcontento.
Non è detto peraltro che la riforma
del tre Esecutivi possa procedere sen¬
za intoppi, particolarmente quella del-
l’Euratom. non amato dal francesi, che
diventa urgente se sarà vicino l’accor¬
do per la non proliferazione. Almeno
in questo campio di tanta importanza
ormai di riprendere terreno, ed i due
anni malamente perduti con la crisi del
CNEN. E non parliamo di riforma del¬
l’Assemblea parlamentare della CEE. di
maggiori poteri e di subdoli odori di
sopranazionale. Il Generale scuote la
testa.
o. m
•-'astrolabio - 4 giugno 1967
25
Agenda internazionale
Costantino
6RECIA
puritani
per decreto
tei I n kebab per favore ». Sono se-
^ duto in una piccola trattoria di
Patrasso. Di fronte a me il Mediterra¬
neo, tanto calmo da sembrare senza
vita, e lucido di sole. E’ venerdì. « Un
kebab per favore » ripeto. L’oste, uno
dei tanti greci di mezz’età che ricorda¬
no ancora l’italiano essenziale appreso
per necessità durante l’dccupazione,
sembra non capire la mia richiesta. In¬
sisto ancora. Cerco di spiegarmi me¬
glio, di fargli capire che desidero quel¬
la sorta di piatto nazionale greco, uno
di quei saporiti spiedini fatti di piccoli
pezzi di maiale arrostito su brace viva
che è possibile acquistare per poche
dracme dai carrettini ambulanti ad ogni
angolo di via. « Non possibile — ri-
spKjnde — proibito ». « Proibito da
chi? » chiedo meravigliato. « Polizia »
fa con voce sussurrata, abbassandosi an¬
cora di più verso il mio tavolo, « poli¬
zia proibito per religione ». Mi spi^a
che i colonnelli hanno proibito tassati¬
vamente <ii vendere carne di maiale nei
giorni di vigilia. Quindi il venerdì
niente kebab. Mentre parla di questa
ridicola disposizione di polizia, scuote
la testa con aria sconsolata. Non mi ri¬
mane che terminare il bicchiere di uzo
ed alzarmi.
Questo non è che uno dei tanti aspet¬
ti (forse il più ridicolo, insieme all’ob-
bligo della messa domenicale per i mili¬
tari), della grigia realtà che opprime la
Grecia dei colonnelli putschisti. La « li¬
bertà disciplinata » alla quale fanno tan¬
to spesso riferimento i nuovi governanti
di Atene tocca con la sua stupidità an¬
che gli aspetti più piccoli della vita di
tutti i giorni. Il kebab proibito, la mes¬
sa obbligata, gonne pudicamente allun¬
gate, capelli dal corto taglio austero,
l’obbligo di denunciare il possesso di
una macchina da scrivere. Sono tutte
cose queste che testimoniano dell’abis¬
so di assurda stupidità in cui giorno do¬
po giorno, dalla notte del coljx) di forza
militare, la realtà greca si cala sempre
di più. Ovunque mi sono recato ho po¬
tuto sentire la sensazione quasi fisica,
della coltre di grettezza che fascia la
dimensione sia umana che politica dei
greci d’oggi, costretti a subire la logica
anacronistica dei colonnelli golpisti il
cui autoritarismo richiama con prepo¬
tenza alla mente gli aspetti più oscuri
dell’Italia staraciana.
Ma non è facile sorridere di fronte
a questi aspetti operettistici della dit¬
tatura militare che pesa da più di un
mese ormai sulla Grecia. Dietro il no
alla minigonna si fa luce con chiarezza
la tragedia di tutto un popolo. « Quan¬
ti sono i morti? ». E’ la domanda che
ho fatto con insistenza ai greci che at¬
traverso una catena semiclandestina di
amicizie, riuscivo ad avvicinare. La fac¬
ciata ufficiale del colpo di Stato ne elen¬
ca appena due. Sono molti di più. Si
parla di trecento vittime, di uomini
scomparsi senza lasciare traccia. Svaniti
nel buio più completo. E quelli che pos¬
sono morire? Come le donne incinte e
i malati racchiusi nell’isola di Yaros
senza nessuno che si prenda la briga
di curarli? O come Ilyas Ilyu, il presi¬
dente del gruppo parlamentare del-
l’EDA, malato di diabete e privo, mi
dicono, di qualsiasi cura. O come il di¬
rettore della libreria Themelion, Dimi¬
tri DesjX)tidis, affetto da una semipara¬
lisi e da lesioni al cervello riportate in
seguito ai maltrattamenti subiti duran¬
te i dieci anni di deportazione a Ma-
crossinis, il famigerato lager sorto per
imprigionare i resistenti comunisti nel
dopoguerra. E quelli dei quali non si
conosce più la sorte? I due leaders del-
l’EDA Manolis Glezos e Leonidas Kyr-
kos che sembra non siano più ospitati
nelle celle della polizia?
Una tomba per la vecchia demo¬
crazia. « La Grecia sta affogando nel
fascismo più brutale ». Chi mi dice que¬
ste parole è un avvocato di Atene. Un
anziano professionista iscritto, fino al
colpo di Stato, all’ERE (il partito della
destra storica) di Cannellopulos. Anche
lui temeva il « pericolo comunista ».
Oggi ricerca il contatto con i comuni¬
sti. Il braccio duro dei colonnelli sta
cercando di seppellire anche il suo mon¬
do, quello della « democrazia per be¬
ne », monarchica e priva di qualsiasi
tentazione verso sia pur piccole aper¬
ture a sinistra.
L’antiparlamentarismo del governo
putschista ha infatti toni sempre piò
striduli. La stampa di Atene esce con
grossi titoli che denunciano gli « sper¬
peri dei parlamentari ». UAthens News
del 14 maggio dedica il suo articolo di
apertura a questa subdola operazione
antiparlamentare e informa i lettori che
« ottantaquattro milioni e ottocento ot-
tantadue dracme rappresentano il costo
delle conversazioni telefoniche, dei te
legrammi, delle lettere non pagate dai
deputati del disciolto parlamento... »•
E questo è solo l’inizio del giro di vite
autoritario dei colonnelli greci. « Il gO;
verno militare non ha bisogno degli
uomini politici del vecchio regime. La
spada della rivoluzione ha spezzato
questo mondo corrotto e senza vitali¬
tà... ». Il generale Patakos con queste
parole cerca di seppellire, insieme ad
ogni speranza di futuro democratico per
la Grecia, anche il vecchio mondo del¬
l’avvocato ateniese. Per certo conserva¬
torismo greco, abituato sia pure ad una
democrazia malata come quella greca,
il putsch puzza troppo di avventura e
di disprezzo. Da questa constatazione
nasce il desiderio « frontista * di non
pochi uomini fino a ieri invischiati nel¬
la palude del più vieto anticomunismo.
E’ ancora un’aspirazione confusa. Solo
il tempo ci dirà se ne nascerà qualcosa
di valido. Per il momento la Grecia
può fare solo affidamento sulle inani
di giovani che tracciano a grandi lettere
sui muri delle città elleniche le parole
della riscossa: Zito i demokratia (Viva
la democrazia).
I. T. ■
26
Patakos e Totomis
NMM LAIDIZA
RIVOLUZIONE E LETTERATURA
Il primo Congresso degli scrittori sovietici del 1934
saggio introduttivo di Vittorio Strada
In prima traduzione assoluta i documenti fondamentali del congresso che
segna l'avvento del « realismo socialista »; relazioni e interventi di Bucha-
rin! Pasternak, Radek, Babel. Gorkij. Ehrenburg. Olesa, Zdanov, Fefer.
Kolcov, Aseev, Surkov, Fadeev e Skiovskij.
« Libri del tempo », pp. LXXII-340, L. 2.400
I MANOSCRITTI DEL MAR MORTO
traduzione e Introduzione di Franco Michelini Tocci
« Biblioteca di cultura moderna », pp. 412, rilegato con astuccio, L. 4.500
GIAMPAOLO PANSA
GUERRA PARTIGIANA TRA GENOVA E IL PO
« Storia e società », pp. XVI-544, L. 6.000
EUGENIO GARIN
LA CULTURA DEL RINASCIMENTO
« Universale Laterza », pp. 208, L. 900
GIUSEPPE SAMONÀ
L’URBANISTICA E L’AVVENIRE DELLA CITTÀ
« Universale Laterza », pp. 320, L. 900
BENEDETTO CROCE
LOGICA COME SCIENZA DEL CONCETTO PURO
« Opere di B. Croce in ediz. economica », pp. XXIV-368, L. 900
GENNARO SASSO
PASSATO E PRESENTE
NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA
« Piccola biblioteca filosofica Laterza », pp. 155, L. 600
FRANCO SCHETTINI
LA BASILICA DI SAN NICOLA
« Opere fuori collana », pp. 200 con 196 ili, formato 20x25, rilegato, L. 6.000
cronache italiane
« ...a Genova alcuni studenti fascisti mi
hanno assalito, la Questura mi ha tolto il
passaporto per l’estero...; ma c'è di peggio-,
avevo un giornale e me l’hanno soppresso;
avevo una cattedra e l’ho dovuta abbando¬
nare; avevo, come ho, un ideale e per di¬
fenderlo ho dovuto andare in galera; avevo
dei maestri, degli amici e me li hanno
uccisi ».
Carlo Rosselli - Dal « Processo
di Savona »
N el 1925 (anno III dei tempi esecra¬
bili) ero entrato come matricola alla
Facoltà di Economia e Commercio di
Genova. L’edificio sorgeva in Piazza Pam-
matone, di fronte alla statua di Balilla, allora
irregimentato come uno dei tanti numi del
regime. Si diceva però che l’inizio della
rivolta popolare, che portò alla cacciata degli
austriaci, fosse avvenuto in realtà in una
viuzza che immetteva nella piazza, forse così
chiamata in ricordo di qualche benefattore
che aveva finanziato la costruzione dell’ospe¬
dale che ivi sorgeva e chiudeva il cerchio
degli edifici, a destra dell’Università. Alcuni
vecchi repubblicani, numerosi a Genova, si
sforzavano tuttora di rintracciare sul selciato
della viuzza, per trame lieti auspici, i sol¬
chi tracciati dai cannoni austriaci; ma,
in genere, ciò avveniva quando usci¬
vano dalle numerose osterie del quar¬
tiere. Gli antichi mazziniani di stretta osser¬
vanza si riconoscevano dal cappellaccio nero
e dalla cravatta alla « vallière » : buone, in¬
nocue e simpatiche persone; alcuni, per ne¬
cessità di famiglia (P.N.F.) avrebbero dovuto
vieppiù annerire la loro divisa. Altri, po¬
chissimi in verità, tentarono in seguito di
conciliare la sognata democrazia teo-popolare
con la nuova ideologia e pratica del man¬
ganello. Tanto consente un mal digerito
romanticismoi
La Facoltà aveva sede in un maestoso
palazzo; due ampie scalee portavano alle
aule, che si susseguivano sotto tetto, in cer¬
ti lati ricoperte da spesse vetrate che facevano
pensare a calde serre del sapere. Lungo le
Kalee, molte nicchie con gigantesche statue,
orribili come fattura, di benefattori che lega¬
rono le loro sostanze a vantaggio dell’Opera
Pia; e di antichi padri della repubblica; e
così nelle aule. Spesso, studenti burloni si
nascondevano nel vasto andito dietro le sta¬
tue e, nei primissimi anni del fascismo, svil¬
laneggiavano i professori. Se passava il geo¬
grafo, un vocione da giudizio universale lo
chiamava : « Eliseo Reclusi ». Ed il geografo
CARLO ROSSELLI E LA PRESA DI POSSESSO
FASCISTA DELL’UNIVERSITÀ’ ITALIANA
Carlo Rosselli con la moglie Marion
LAGUmitt
M ORBACI
Il 9 giungo ricorre il 30 anniversario dell'uccisione di
Carlo Rosselli, e per l'occasione l'Astrolabio uscirà con
un numero speciale. Presentiamo intanto un ritratto
assai vivo di Rosselli tracciato da Giulio Pietranera,
che fu suo allievo all'università di Genova nel 1925.
Il racconto si sviluppa nel quadro turbolento del pro¬
cesso di fascistizzazione dell'università, I Gufi (cosi
venivano chiamati gli studenti dei GUF) spadroneggia¬
no, la cultura accademica si mette gli stivali. Rosselli
è uno dei pochi a dare esempio di coraggio morale e di
onestà intellettuale, ed il professore Pietranera lo acco¬
muna nel ricordo ad Attilio Cabiati e Ortu Carboni
Starace
SI guardava intorno stupefatto; e le altre
statue in coro : « Presuntuoso! » ; oppure,
quando saliva il professore d’Economia, lo
stesso vocionc urlava : « Adamo Smith! » e
cwi via, secondo i casi. Ultimi sprazzi di
vita goliardica non ancora soffocata dai Gufi
cicè dagli appartenenti ai « Gruppi Uni¬
versitari Fascisti » —, e da chi Ù mano-
ytava, in ispecie da queU’idca platonica di
■diota-furbastro-sbirro che ebbe nome Achille
Starace. Quei massi, quasi informi, mal scol-
Pftì sotto forme di statue, li avrei comunque
ritrovati, moltissimi anni dopo, e in quale
occasione!
^ statua di Ballila. Nel 1925, la Facoltà,
SI esclude la biblioteca di Economia, molto
turata sin dai tempi del Boccardo, non era
dotata di laboratori, di gabinetti di ricerca
t di attrezzature scientifiche consimili, oggi,
tome ognuno ben sa, magnificenza, ricchez¬
za e decoro dell’Università italiana. Ricchis¬
sima per contro di tutte quelle istituzioni
thè scaturiscono, come per miracolo, nei
pressi delle fonti vive della sapienza: caffè,
^terie, trattorie a poco prezzo, friggitorie
di frittelle e « farinau », latterie, rivendite di
*tqua fresca c di anguria e gelaterie (ce-
tbre fra gli studenti, quella di Fidone, un
Mediano; secondo una leggenda, un certo
‘’idone d’Argo sarebbe stato l’inventore della
anche immonde « tane » per prostitute che,
precorrendo i tempi, avessero il gusto del-
ì’artigianato e, con questo, la munificenza
della lue compresa nel prezzo.
Ora, tutto questo complesso e ben inte¬
grato organismo venne molti anni dopo, ai
primi bombardamenti della R.A.F., schianta¬
to, annientato, arso ed incenerito. Rimase
soltanto, di fronte allo scheletro dell’Univer¬
sità, la statua di Balilla, Mosè salvato dal
fuoco, come volesse testimoniare tangibil¬
mente la sua assoluta innocenza in quel¬
l’inferno.
Cose infiniumente peggiori accaddero poi
nel mondo, ma per alcuni studenti, soprav¬
vissuti a quegli anni favolosi di giovinezza
(io fra questi). Via Ettore Vemazza, Via San
Giuseppe, Via di Portoria, Salita e Piano
di Piccapietra rimasero nel ricordo come le
porte fatate di quella Troia combusta. Oggi,
in quei luoghi tutto è nuovissimo, moder¬
nissimo e razionale — e ciò è bene — ma se
qualcuno di quegU antichi studenti va a
« abbracciar Tume e interrogarle », non sem¬
pre è sospinto da motivi puramente senti¬
mentali e vuotamente nostalgici. Anzi, alcu¬
ni dei pochi sopravvissuti rievocano ancora
ricordi brucianti, sperando di ridare linfa e
sangue a care ombre trapassate.
E molte ombre vanno invero ricordate per
noi e per quelli che presto non potranno più
Mussolini e Bottai
JMoneta, molti secoli prima di Cristo; donde
•»zzi e richieste di consumazioni gratuite,
non di prestiti, al povero Fidone di Si-
■■zeusa, che s’infuriava ed esplodeva in con¬
tumelie nel suo colorito dialetto). Nei vicoli
adiacenti, aprivano ospitali porte tre o quat¬
tro casini o casotti (quesito questo che la-
M^'amo volentieri agli storici ed ai filologi) e
^■'astrolabio - 4 giugno 1967
ascoltarci.
Per quanto mi riguarda, l’anno accademico
1925-26 fu un periodo di ricerca di me stes¬
so. Avrei voluto studiare lettere e filosofia,
ma la dura necessità me lo aveva vietato.
Mi adattai allora alla realtà e feci un’accurata
scelta tra le materie d’insegnamento; accettai
quelle che definivo culturali : le scienze eco¬
nomiche in genere, la matematica e la sta¬
tistica (a queste aggiunsi la geografia econo¬
mica per l’eccellenza dell’insegnante e dei
corsi svolti; chi dimenticherà, fra gli stu¬
denti di quei tempi, le lezioni geopolitiche,
ma non affatto fasciste, di Bernardino Fre¬
scura sul problema della Ruhr e sulla que¬
stione cinese?). Per le altre discipline, decisi
stoicamente e razionalmente di accontentar¬
mi del puro diciotto.
Intanto, in quel primo anno accademico,
andato scolasticamente jserduto, avevo stu¬
diato filosofia e storia e mi ero ingozzato
di teorie, di musica e di « poètes maudits ».
Vivevo così per istinto sorretto da oscure
velleità; finche un ulteriore c decisiva spinta
allo studio scientifico delle materie economi¬
che mi venne, proprio in quel tempo, dalla
presenza e daU’inscgnamento di un nuovo
professore, incaricato di Economia politica
c di Storia delle dottrine economiche, non
ancora corporativizzate; e — quello che più
importa — mi si apersero gli occhi sulla
spaventosa durezza e degenerazione della
vita politica; proprio quando i vecchi mae¬
stri cominciavano — con qualche degnissima
eccezione che sarà ricordata — se non a
tacere a parlar basso.
Una matricola generosa. Il corso di Econo¬
mia Politica era stato aperto dal prof. Arias.
La teologia corporativa era ancora in for¬
mazione ed io cominciai ad appassionarmi e
ad avvertire l’importanza della scuola stori¬
ca, propugnata allora dall’Arias. Il prof. Arias
lasciò nei primi mesi del 1925 l’insegna¬
mento nella Facoltà di Genova; in seguito,
tentò di formulare in termini storicistici la
dogmatica economica fascista. Finì poi, sem¬
bra, proprio quando stava sviluppando la
sua concezione corporativa, più conservatrice
di ogni altra, nel Sud America sottraendosi
per tempo alla persecuzione razziale. Non
era affatto una cattiva persona e a me, allo¬
ra, parve un dotto. Perché non dirlo?
Venne sostituito dal nuovo incaricato, for¬
se chiamato dall’indimenticabile Preside di
Facoltà, il prof. Ortu Carboni, valente ma¬
tematico ed appassionato alle scienze eco¬
nomiche, specialmente nella formulazione
Walras-Pareto.
Il nuovo docente si presentò in modo
inconsueto. All’inizio della primavera del
1924, un giovanotto grassoccio, biondo e
miope, di media statura, con uno sguardo
fermo ma melanconico, sali lentamente lo
scalone della Facoltà, tenendo un libro sotto
il braccio. Erano ancora giorni di aperta
29
caccia alle matricole ed un gruppo bra¬
moso di anziani sì precipitò su quella che
sembrava così facile ed ingenua preda, tanto
bonario era l’aspetto di quel giovane dal¬
l’aria distratta. 11 nuovo venuto cedette sor¬
ridendo e fu una matricola quanto mai ar¬
rendevole e munifica. Inebriati dalle generose
libagioni offerte, gli studenti lo acclamarono
e scrissero il suo nome « ignoto » sul famoso
papiro. Il giovanotto festeggiò la sua entra¬
ta in Facoltà con divertita allegria e si ri¬
presentò il giorno dopo. Scoppiò allora la
bomba che fece fremere « anziani » e « fa¬
gioli ». Quella matrìcola non era un qualche
placido e agiato possidente di riviera, come
si era supposto, ma il nuovo incaricato di
Economia Politica e di Storia delle dottrine
economiche. Si chiamava Carlo Rosselli e
proveniva dalla « Bocconi ».
Dal lato politico, l’anno accademico 1924-
25 trascorse relativamente tranquillo per il
nuovo incaricato; non si sapeva bene chi
fosse Carlo Rosselli e i tempi marciavano an¬
cora lentamente. Ricordo ancora il suo inse¬
gnamento assiduo e profondo, dal quale, a
dire il vero, trassi poco profitto, immerso
come ero in un periodo di desolato pessi¬
mismo, che mi estraniava da ogni iniziativa
vitale. Comunque, Rosselli — udite! — ave¬
va rinunziato alle immancabili dispense, ove
talora il chiarissimo raccoglie i propri articoli
e libercoli, che propina alla massa ignara
degli studenti, digiuni dei primi fondamenti
della scienza. Per contro, gli studenti di
Rosselli si erano preparati su due testi e
su di essi aveva fatto lezione il profes¬
sore : i « Principi di Economica » di Alfre¬
do Marshall, per il primo corso, e la « Rifor¬
ma monetaria » di John Maynard Keynes, per
il secondo. Testi « duri », ma che riuscirono
a svegliare c a far ragionare molte menti;
chi scrive ritrovò, più tardi, in Marshall l’evo¬
luzionismo e l’alta considerazione per la
scuola storica, nonché l’eterna vitalità dei
classici, contaminata purtroppo dai margina-
listi psicologi; vi trovò anche preziosi spunti
per quella che Marshall chiamava la « teoria
socialista del valore ».
« Schiaffeggio il prof. Rosselli ». Rosselli
venne infine « scoperto ». I Gufi erano stati
informati dall’aito della Federazione. Molti
di loro, che avevano dapprima simpatizzato
per il nuovo incaricato, pur maledicendolo,
come tanti altri, per il pesante carico didat¬
tico, lo denunciarono nel loro libello « L’Ate¬
neo », come un pericoloso sovversivo. Si
obbediva ciecamente al Segretario federale,
un subuomo che passava ore ed ore sca¬
gliando pugnali contro tavole di legno sulle
quali scriveva democrazia, bolscevismo. Unio¬
ne Sovietica, Lenin e così via; ed esortava
certi fascisti « dotti » o « ragionatori », e per¬
tanto sospetti, a rispondere ad argomenta¬
zioni che avessero un’ombra di antifasci¬
smo, etico, filosofico, storico od economico
che fosse, tirando fuori e esibendo il mem¬
bro. Il che faceva spesso negli accesi « dibat¬
titi ideologici » che si svolgevano in federa¬
zione.
Rosselli contava su un esìguo numero di
amici e dì discepoli fra gli studenti; discu¬
teva con loro nei corridoi e probabilmente
si trovavano altrove. In quanto a me an¬
corché immerso nell’apatia, solidalizzavo con
il nuovo insegnante, il che non mi era dif¬
ficile anche perché ero antifascista dai sedici
anni (ché per esserlo non occorreva il pieno
uso della ragione; bastavano la vista, l’udito,
l’olfatto e, in genere, gli istinti animali).
Gli sciacalli fascisti di Facoltà comincia¬
rono a non dar tregua a Rosselli; si finì per
far lezione con i questurini alla porta per
proteggere dal manganello il professore e
i pochi coraggiosi uditori. Oso appena scri¬
verlo; in un certo giorno Rosselli fu dura¬
mente percosso e l’infame libello degli sbirri
universitari, « l’Ateneo », magnificò il gesto
con un « fondo » : « Schiaffeggio il prof. Ros¬
selli ». Egli era stato specialmente attaccato
per l’adozione del libro di Keynes in cui
si diceva che non avendo la lira italiana
budella da riempire di olio di ricino e testa
e spalle da bastonare, sarebbe stato un sog¬
getto poco arrendevole per la stabilizzazione.
Fra i percotitori di Rosselli, era una delle
peggiori canaglie dei Gufi : un mostricciat-
tolo fisico e morale, israelita per puro caso,
che imparò poi a sue spese che cosa fosse
il fascismo: accanito fumatore, finì per fu¬
mare se stesso in una qualche ciminiera in
terra tedesca o polacca. Epitaffio questo che
può parere, ed è, crudelissimo, ma io, inutile
dirlo, non avevo mai avuto idee razziste;
anzi ero in affettuosi rapporti con numerosi
amici israeliti che avrei anche aiutato, in
seguito, nei limiti del possìbile. Ma detto
mostricciatttJo consumò ben altre angherie,
alle quali si accennerà in pìccola parte in
queste note; e l’epitaffio quindi rimane. Chi
lo trovi disgustoso e troppo pesante, rilegga
quanto disse Amleto a proposito di Rosen-
crantz e Guildenstem, strumenti di morte
che lo portavano a morte e perirono invece
con le loro stesse mani (•).
Le successive vicende di Carlo Rosselli
sono notissime; costretto a lasciare la Facol¬
tà c, dopo l’espatrio di Turati, arrestato, pro¬
cessato e condannato. Il Preside della Fa¬
coltà, il prof. Ortu Carboni, lo difese a
Savona in tribunale, elogiando la sua probità,
la sua com[>etenza scientìfica e la sua cul¬
tura. Poco dopo l’onesta deposizione, il Pre¬
side fu dimesso dalla Presidenza e nel 1934
venne posto definitivamente a riposo. Ma con
la sua rettitudine e con la sua fortezza d’ani¬
mo aveva dato anche lui un esempio, uno
di quei rari esempi, che in tempi di codar¬
dia suonarono, e suonano ancora oggi, come
una voce animatrice.
L’inevitabile cerimonia dì saluto al vec¬
chio Maestro venne organizzata alla cheti¬
chella dal Magnifico e fascìstissìmo Rettore
di cui qui non si fa parola dato che da tem¬
po, con il suo degno genero, anche lui pr®;
fessure alla Facoltà, riposa sulle colline à\
Stagliene. Basti dire che fermava gli stu¬
denti nei corridoi, nello scalone ed anche
in piazza, urlando quando era il caso, 1"
tono caporalesco: « Perché non fa il saluto
romano? ». E lo voleva perfetto, rettifican¬
dolo al bisogno. Io non possiedo alcuna
nozione della disciplina che insegnava quel
Magnifico, ma sono convinto che la mano¬
vra del « braccio alzato in perfetto saluto »
fosse il suo maggior merito scientifico.
11 Rettore aveva pronunciato brevi parole
di saluto e di commiato in onore del Pr^
side di Facoltà uscente di carica e la ceri¬
monia sembrava concludersi senza incidenti
con la consegna della solita medaglia. Si
temeva tuttavìa, perché il giubilato era, olti*
che onestissimo uomo e valente scienziato, un
carattere indomabile ed un fervente liberale-
I balilla in Germania nel '35
Ed infatti un cerretano gufino ruppe 1 *
uova nel paniere e volle dir la sua : « Be®
venturato il Preside, a lasciar la scuola i®
quei tempi di eroismo mentre sorgevano
tante alme cose! Oh, come diverse le turbe
degli studenti di un tempo, dei tempi un®"
schinì... ».
Il vecchio Preside era scattato a queste
inopportune parole : « Ringrazio per ij
saluto, ma non posso lasciar insultare quei
tempi, i miei tempi. Generazioni di studenti
ebbi allora e mai la nostra Patria mi parve
più bella. E furono questi "ignavi”, quei
"meschini” che perirono a centinaia d*
migliaia e con essi caddero tre imperi di¬
spotici. E fra quelli, furono gli studenti
cui dedicai i miei "complementi di mate-
(•) Orazio : « E così Guildenstem e Roseti-
crantz veleggiarono verso la morte? ».
A mieto : « Ebbene, amico mio, sono stati
loro ad amoreggiare con questa missione. I»
non li ho sulla coscienza: perché han voluto
intromettersi nella faccenda?... ».
3 ff
'natica” ed i cui nomi splendono in quella
lipide che e alle vostre spalle e che vorrei
non inghiottisse altri simulacri di cadaveri,
p. essi furono grandi e belli e sacra mi è
« loro memoria! ».
Un fremito di ammirazione, appena re¬
presso, per il coraggio dimostrato dal vec¬
chio Maestro, passò fra le fila degli studenti
(esclusi naturalmente i caporioni dei Gufi)
c rallegrò certamente il cuore di molti pro¬
fessori. Chi impallidì, in un vero accesso
isterico, fu invece il Rettore tanto più che
non cessava di osservare il segretario fede¬
rale che, indignatissimo, portava già la mano
all’organo del suo pensiero e cioè alla bot¬
toniera dei calzoni.
11 Rettore tentò di chiudere la cerimonia
con ampi sorrisi, ma il vecchio Maestro par¬
lò ancora ; « Non so se io abbia avuto dei
meriti didattici e scientifici. Me ne vado co¬
munque e siccome sono un matematico e
non un oratore, mi limiterò a sperare di
essere stato sufficiente. Nessuno di noi è
necessario, d'altra parte. Un solo merito mi
riconosco ed è di natura morale : quello di
non aver mai mutato casacca ».
®^l«nza con la barba e scienza fascista.
Ricordi. Rosselli è oggi una cara ombra nel
pensiero di chi scrive. Alcuni frutti del suo
insegnamento, avrei dovuto ritrovarli nel
dolore e nel travaglio. Anzi, per anni fissai
sulla carta certe mie meditazioni « econo¬
miche », sperando di sottoporle a Rosselli
nllora all’estero, dopo la fuga. Poi, venne
1 eccidio mussoliniano di Bagnole sur l’Ome.
Intanto, i pochi veri maestri di vita e di
scienza se ne andavano ed uomini nuovi
entravano a frotte nell’Università. Ricordo
1® disgustosa prolusione di un incaricato:
« Noi non insegnamo la vecchia scienza con
la barba; noi insegnamo la nuova e vera
scienza fascista». E all’esame: « Cosa c’c
stato di imporunte in Sardegna quest an¬
no.’ ». Io tacevo pensando a qualche opera
del regime. No, mi sbagliavo; si trattava
del regime stesso : « Ma c è stato il Duce,
c’è stato il Duce! ». Venni approvato con
il minimo, come era, d’altra parte preven¬
tivato.
Rimanevano però in Facoltà — per i po¬
chissimi studenti che volessero ascoltarli co¬
me Maestri di dottrina ed imitarli nel rigore
morale — alcuni insegnanti ancora sfuggiti
aU’eliminazione, egualmente stupida e cie¬
ca, del fascismo e della morte. Primo fra
questi, anche per le persecuzioni che subì
ad opera del regime, Attilio Cabiati. Sul¬
l’opera di Cabiati, e sulla sua vita, altri scris¬
sero con equo giudizio e amore di disce¬
polo (« Attilio Cabiati : In memoriam » di
Luigi Federici e di Orlando D’Alauro; Ar¬
rigo Caiumi, « Ricordo di Cabiati », 1951).
In questa sede vorrei soltanto ricordare le im¬
pressioni soggettive di quella presenza e
di quell’insegnamento.
11 Cabiati (1872-1950), uno dei maggiori
economisti italiani òcH’indirfzzo liberale e
liberista, trasfondeva nei suoi scritti e nelle
sue lezioni il suo credo economico, il cui
impulso, oltre che dai classici, aveva tratto
dal Pareto del « Cours d’èconomie politi-
que », dal « Manuale di economia politica »
e dal « Manuel d’économie politiquc ». Ra¬
ramente si riferiva alla « Sociologia Gene¬
rale ».
Le lezioni di Cablati. Le lezioni sul cosmo
matematico dcH’cquilibrio economico, pre¬
sentato dal Cabiati con rigorosa « geome¬
tria », nel quale l’uomo non potrebbe porre
le mani se non rovinandone l’armonia crea¬
trice di ricchezza, mi abbagliarono in quei
lontani anni. E così la famosa teoria dei
costi comparati del Ricardo, immersa nel-
l’cquilibrio economico, alla cui csplicitazio-
ne il Cabiati dedicò tutta una vita, ricer¬
candone le più sottili applica^oni, nelle più
diverse contingenze delle vicende economi¬
che, mi appariva come una suprema legge¬
guida, una formula einsteiniana avant la
lettre che governava il mondo deH’economia.
Ma a dire tutto il vero, qualche bello
spirito, non per irriverenza verso il Mae¬
stro, ma come giovanile sfottimento della
teoria in cui tutto il mondo economico « si
teneva » matematicamente, mormorava fa¬
cezie come quella che segue : « Si abbassa
il saggio di sconto, il capostazione fischia,
le galline fanno l’uovo, il gallo canta, piove,
il gatto miagola c così via ».
Facezie queste di nessun conto; altre obie¬
zioni presero, molto più tardi, consistenza
all’esame retrospettivo dei vecchi studenti
specialmente dopio l’avvento di Hitler al
potere e la conseguente guerra catastrofica.
Cabiati tenne delle lezioni su « T he econo¬
mie consequences of thè peace » di Lord
Keynes, specialmente sul famoso problema
delle riparazioni tedesche praticamente ine¬
seguibili: la Germania cioè non avrebbe
potuto pagare le riparazioni di guerra con
un’eccedenza delle esportazioni sulle impor¬
tazioni, senza rovinare direttamente o indi¬
rettamente, l’economia del paese importato¬
re. Non pochi sono quelli che hanno riflet¬
tuto, durante e dopo la seconda guerra mon¬
diale, sul « problema del trasferimento »,
ma rari coloro che lessero quanto scrisse
Etiènne Mantoux (caduto in servizio attivo
il 25 aprile 1945); il quale dopo aver ricor¬
dato Tcnorme incremento della produzione
ottenuto m Germania, grazie agli sforzi del
regime nazista, all’adozione di alcune teori¬
che del keynesismo, aggiungeva : « Si ri¬
sponderà forse che l’argomento (l’incremen¬
to della produzione nazista) dice poco, e che
i quindici miliardi di marchi spesi annual¬
mente dalla Germania per il riarmo fin dal
1939 non danno la misura della sua capa¬
cità di pagare, perche i prodotti non pote¬
vano essere trasferiti all’estero »; ma il pro¬
blema è appunto questo! e Mantoux conti¬
nuava : « Sarebbe interessante chiedere ai
cittadini di Varsavia, Rotterdam, Belgrado,
Londra e Coventry... che cosa ne pensino di
un argomento simile! Tutti hanno assag¬
giato a sufficienza la quantità e la qualità
dei prodotti tedeschi! ».
Parole queste che implicitamente poggia¬
no sulla premessa del concetto di impe¬
rialismo, mentre Keynes e Cabiati, seppur
con profonda convinzione morale, conferi¬
vano, in quel caso, corpo quasi ipostatico
a teorie perfette solo per il pensiero econo-
i
*■’ASTROLABIO - 4 giugno 1967
31
cronache italiane
tnico, indctenninato e matematico.
Ma tutto ciò non tangeva, e non poteva
tangere allora, il mio giovanile entusiasmo:
tradurre nella feccia di Romolo quella divina
città di Platone mi sembrava sempre l’im¬
presa più degna, anche se più ardua. Comun¬
que, in quegli anni di dilagante interventi¬
smo, di corporativismo proliferante e di mi¬
stica dell’azione cieca e violenta, il Cablati
difendeva la forza e ' dignità della ragio¬
ne; di una ragione che non si abbassava, non
si sminuiva, non si prostituiva. Da parte mia
e dell’esiguo gruppo di studenti che si sco¬
prirono antifascisti, seguivamo con rispetto
e godimento le sue lezioni, ripetendoci e
ripetendo ad amici e conoscenti, le non
velate allusioni e le argute, e talora feroci,
puntate che il Cablati non risparmiava di
fronte alla quotidiana « betise » dei provve¬
dimenti economici corporativi.
Il folto gruppo degli studenti irrimedia¬
bilmente gufini, tentava spesso di distur¬
bare le lezioni, ma non si osava interrom¬
perle od inveire contro il Maestro. In fin
dei conti, anch’essi erano fatti a somiglianza
di uomo. Si limitavano a mormorare, a de¬
ridere e a sghignazzare. Soltanto una volu
uno sgherro del Guf, sorretto da una per¬
sonale, superba e asinina ignoranza, e por¬
tato dall’ondata di stupidità dei sutM segua¬
ci, cicche talpe di fronte ad ogni ragiona¬
mento economico, si era alzato in piedi,
dopo che il Cablati aveva criticato un prov¬
vedimento del regime, ed aveva inveito:
« Queste affermazioni sono in contrasto
inamissibile con le nuove verità corporative
espresse dal genio del Duce; sono anti¬
quate, ultrasorpassatc; bisogna che io le
confutil ». Al che Cablati aveva cortese¬
mente invitato lo studente a sedersi e a
ragionar con lui. Ma il gufino non si era
seduto ed aveva urlato con forza, arrossen¬
do come un tacchino in foia : « Non è vero!
Non è vero! Non è vero! Tutte balle! Viva
il Duce! » ed era uscito dall’aula sbattendo
la porta : parodia miserrima e grottesca delle
velleità del sarto manzoniano dinnanzi al
Cardinale Federico.
Corporativismo e scienza econontica. La
lotta contro il sovversivo, il cosiddetto rudere
del passato, venne allora iniziata in altro
modo e condotta a fondo. Verso il 1924, si
tentò la corruzione. A Cabiati, Mussolini
offerse condizioni finanziariamente eccezio¬
nali perchè scrivesse sul « Popolo di Roma ».
Dopo il rifiuto, venne il peggio: Cabiati
collaborava ad un grande giornale del Nord
e percepiva un compenso annuo di settan-
tamila lire (1926) per i suoi articoli; e pro¬
prio nel 1926, gli fu proposto di apportar
ritocchi ai suoi elaborati e dopo il nuovo
rifiuto, venne dispensato dall’incarieo di
commentatore economico-finanziario con il
pretesto che « non era iscritto al partito na¬
zionale fascista ». Cabiati tuttavia non lasciò
la cattedra e prestò giuramento di fedeltà al
governo; egli rimase nell’Università, forse
per certe ragioni che Zangrandi (« Il lungo
viaggio attraverso il fascismo ») ha così ben
illustrato; volle, in una parola — non si
può dubitare del contrario — conservare ad
ogni costo il suo posto di batuglia come
educatore. Si è anche detto che Cabiati, co¬
me altri, venne consigliato da un insigne
giurista che gli assicurò che un giuramento
così coattivamente estorto non aveva alcun
valore legale. Ma la sua fine accademica
andava avvicinandosi. Famosa — passò di
bocca in bocca — la sua risposta ad un
certo Bottai, allora Ministro dell’Educazione
nazionale, quando questi io esortò a intro¬
durre nel suo insegnamento la dottrina cor¬
porativa : « Non mi è possibile accontentare
l’E. V. essendo io insegnante di Economia
Politica ».
Nell’aprile del 1939 infine fu « dispensato
dall’insegnamento », molto prima dei limiti
d’età, per aver espresso in una lettera pri¬
vata indirizzata al Ministro Thaon de Revel
la sua opposizione alle leggi razziali. Tale
lettera venne a conoscenza di accesi elementi
fascisti, prima che allo stesso Ministro. E
Thaon de Revel dovette procedere alla de¬
fenestrazione del Cabiati, si dice, a malin¬
cuore. Forse per una certa ammirazione
personale per lo scienziato; forse perchè al¬
cuni fascisti più avveduti, più accorri e pre¬
saghi dell’avvenire, sentivano il vuoto intorno
a sè e, ncH’angoscia di quella solitudine, si
preoccupavano del baratro in cui stava per
precipitare non solo il loro gruppo ma l’in¬
tero paese. Tanto è vero che se non c’è
un’opposizione, bisogna inventarla. Incomin¬
ciava, in ogni modo, il doppio gioco.
Oggi, ricordo, fra i tanti, due episodi del¬
la presenza e dell’insegnamento di Cabiati:
il suo motto, che egli ripeteva agli studenti
gufini rumoreggianti, durante le lezioni:
« Io non ho paura di nulla e di nessuno »;
e, forse nei momenti in cui la sua solitaria
amarezza traboccava, non mancava di ripe¬
tere che l’uomo è un animale nato con due
gambe per camminare in posizione eretta
e non per strisciare. E in altri giorni, nel
1933, quando l’economia italiana suva per
sfasciarsi, allorché intervennero i noti prov¬
vedimenti che istituirono l’l.R.I. c l’I.M.I.
(profitti privati, ma perdite pubbliche, aveva
scritto da tempo Pareto), Cabiati aveva di¬
scusso lungamente la situazione in classe,
criticando a fondo quel naufragio dell’eco¬
nomia fascista; e sottolineando che le leggi
economiche cacciate dalla porta rientrano
dalla finestra.
Da parte mia — che quantunque laureato
continuavo a seguire le lezioni di Cabiati —
e con Vincenzo mio intimo amico, non
iscritto al P.N.F., eravamo convinti che il
maestro non avesse potuto dire tutto su quel
mostruoso fallimento dell’economia italiana,
« risanato » a spese del contribuente. Fu al¬
lora che incontrammo, in Galleria Mazzini,
Cabiati e il compianto Prof. Moretti, ine*"
ricato di Storia Economica e di Economi*
Politica, al posto di Carlo Rosselli, dopo che
questi aveva dovuto lasciare la cattedra (e
del quale, come docente coscienzioso e illu¬
minato, aveva riconfermato i programmi e
i testi). Cabiati e Moretti passeggiavano, di¬
scutendo animatamente, certo del « fattac¬
cio ». L’ardente curiosità mi spinse, con Vin¬
cenzo e pochi altri a pedinarli, a turno; *
fiancheggiarli per afferrare qualche parola
significativa. Purtroppo, non sapemmo imi'
tare la tecnica degli « occhi di lince » Of
spie del regime nel gergo antifascista p"'
colto; mentre popolarmente eran detti « bec-
cheletri », forse dal manzoniano michelctu,
rifuso con beccamorti; sicché un questort
dei tempi più biechi del fascismo si ebbe
addirittura il nomignolo di San Michele
Arcangelo). Ma la tecnica degli improvvisati
« occhi di lince » era rudimentale, sicché
riuscirono ad afferrare solo alcune smozzi"
cate parole : « conseguenza ineluttabile »',
«capitalismo di stato»; «preparazione alla
guerra ». Comunque gli amici si riunirono
la sera al « Caffè del Genio », nei presfl
dell’Università, o al « Vero Frascati », e nt
dissero di ogni specie, tutti d’accordo peri
che con quella nuova situazione si iniziavi
un periodo che avrebbe dovuto concludersi
tragicamente. Furono poi illuminati da uno
scritto del Cabiati stesso, in cui discutendo
gli interventi del governo a favore delle in¬
dustrie pericolanti, ebbero modo di leggere:
« Anche nella vita economica la morale ha
un peso, e lo ha rintclligenza. La libera
concorrenza si distingue dal libero brigan-
raggio appunto perchè presuppone, pel suo
]air play, queste due qualità » (La Riforma
sociale, 1933).
L'illusione del liberismo. In quanto a Ca¬
biati, sopravvisse alla guerra, ma non pO"
tette tornare ad insegnare in quella cattedra
dell’Università di Genova dalla quale era
stato allontanato. Morì a Torino, a settantot¬
to anni, già morto purtroppo alla scienza
da qualche tempo. Una malattia aveva cru¬
delmente accelerato c ingigantito in lui il
decorso della umana senescenza, immergen¬
dolo in un oblio delle cose terrene che, se
valse a conferirgli una perfetta serenità ài
spirito, lo sottrasse peraltro ai suoi studi
preferiti.
E forse, per lui, « non veder non udir fu
gran ventura ». Egli fu, comunque, non
soltanto un liberale di sinistra, ma forse, nel
senso migliore del termine, un « utopista ».
ehe si sforzava, seppur con signorile scetti¬
cismo, di attuare nel caotico e sordo mondo
umano la bella armonìa delle leggi econo¬
miche pure. E ciò quando già dal 1891-1899.
Pareto — forse il suo maestro fra maestri
— andava consumando, per così dire, il
« mito lìbero scambista assoluto » che ispi-
32
^'Annunzio a fiume
fava l’attività dell’aristocratica « Soaetà
Adamo Smith » di Firenze, della quale Pa¬
reto era membro influente. L’urto continuo
il suo « mito » subiva nei confronti del¬
la realtà concreta, e delle più realistiche
concezioni scientifiche che via via acquisiva,
spinsero Pareto, come è noto, a raccogliersi
c a meditare su questo contrasto tra fede e
scienza c ad affrontare la sociologia. Pareto
lamentò infatti ripetutamente, con l’amico
^antaleoni, la caduta di una grande e nobile
sllusione giovanile: il liberismo per l’econo-
rrua italiana. Per contro, Cabiati, così mi
sembra oggi, si irrigidì, ad onta del suo
vivo senso della realtà, nel vecchio « mito »,
malgrado la sua origine socialista « all’acqua
di rosa » e al suo impegno politico, che si
potrebbe anche dire « laburista ». Comun-
^ue, a Cabiati che faceva notare al Maestro
tl suo conservatorismo antiproletario, il Pa-
ceto rispose con una nota lettera che vale tut¬
tavia la pena di essere riletta:
« Io non so dove lei ha trovato che io
tono ferocemente avverso agli operai. Non
sono ni nemico, ni amico loro. Non voglio,
tjuando mi occupo di scienze, avere nessuna
Ude. Adorare Giove, la Vergine Maria, o
'I dio operaio, o democratico, per me i tut-
^ttno. Ma non cerco menomamente di indur-
te gli altri a fare come me. Anzi reputo che
fede ì il fattore principale del progredire
delle società umane. Io la studio dal di fuori,
tome un uomo può studiare l'automobilismo
senza mai andare in automobile. Non avendo
Nessun Panteon non ci posso mettere dentro
la solidarietà, ni tante altre belle cose.
^el resto si può, come il Pasteur, avere la
Ude e studiare la scienza, ma occorre dire
c fare come lui quando si esprimeva così:
Pour entree dans mon oratoire, je ferme
U porte de mon laboratoire". C'è un orato-
'So umanitario e democratico, come c'è un
oratorio cattolico; io rispetto chi entra in
Questo e in quello, ma mi fermo sull'uscio,
t rimango nel laboratorio ».
Da tale cieco positivismo e da tale scon¬
solato pessimismo, nacque laboriosamente la
“ Sociologia Generale », un indirizzo pur¬
troppo che, travasato in menti incolte, tor-
bide e feroci, contribuì aH’ideolc^a del fa¬
scismo.
^ Babele del fascismo. Ma altri incita¬
menti colpirono me e il mio gruppo di ami¬
ci, oltre che il comportamento morale c il
classico insegnamento del Cabiati. Egli ave¬
va bensì più volte ripetuto che «la teoria
liberista parte da premesse rigorose e ha
un fondo pratico falso; la teoria socialista
prende le mosse da premesse scientifiche
false, e ha un fondo di osservazione veris¬
simo », ma aveva anche spinto la sua inda¬
gine, sia pure con conclusioni negative per
l’economia socialista, ai nuovi problemi sulla
possibile razionalità del socialismo, inseren¬
dosi nel «Simposio» aperto da Hall, Von
Miscs, Dickinson, Cassel e soprattutto da
Oskar Lange. Tutti germi fecondi che, a
contatto con quelli copiosamente seminati
da Carlo Rosselli, mi fecero, in modo molto
confuso, intravedere, la possibilità di una
società socialista in cui le ambivalenti « cate¬
gorie borghesi » (prezzo; profitto; interesse;
rendita; mercato ccc.) potessero scindersi,
perdendo il loro aspetto negativo collegato
all’appropriazione privata, per assum^e
quello del tutto positivo di nuovi «indici¬
guida », razionali per la produzione e la
distribuzione sociali, in un regime di pro¬
prietà socialista, avente a sua base imprese
sociali di proprietà collettiva, imprese sociali
autonome.
Io avevo avuto la ventura di sostenere la
mia tesi sì in tempi fascisti, ma ancora in
camicia bianca, e cioè non in divisa. Nel
mio modesto lavoro, avevo cercato di sinte¬
tizzare gli indirizzi della cosiddetta scuola
economica della finanza (per esempio Einau-
ai e De Viti de Marco) con quelli della
scuola politica, allora naturalmente prevalen¬
te e fascistizzata. Il relatore, ex «socialista
della cattedra », ordinari»!», in jn’altra città e
temporaneamente invric?'^ a Genova, mi
aveva piuttosto maltrattato, accusandomi di
essere addirittura un seguace del materialismo
storico, semplicemente perchè sottolineavo
come le più pesanti coazioni politiche in
campo finanziario dovevano fare inuelut-
tabilmcnte i conti con l’economia; e mi
aveva attaccato aspramente perchè non ave¬
vo seguito le sue idee (naturalmente la scuo¬
la politica rinnovata dal genio del Duce).
Avevo così dovuto lavorare da solo — senza
l’aiuto di alcun maestro — e credevo, e
credo tuttora, di aver fatto qualcosa di pas¬
sabilmente buono. Uscii comunque dall’aula
ccn un insperato centosei e fui felice di dare
addio a quelle aule. Felicissimo delle calo¬
rose inaspetute congratulazioni che mi fece
in privato il Professore di ragioneria, la mia
bestia nera : « Bravo dottore! Lasci che co¬
struiscano la loro torre di Babele. Odierà.
Bravo dottore! ».
La laurea di Vincenzo. Ma non è di questa
laurea che si vuole qui discorrere, bensì di
quella del mio amico Vincenzo, figlio di
uno scaricatore del porto e compagno di
ideali, di studi, di disperazione e di rinuncie.
Più giovane di me doveva osservare, ancor¬
ché non iscritto al Guf, la disposizione che
imponeva nella cerimonia delle lauree la
camicia nera e il saluto romano. Molti anni
dopo la mia laurea, seguivo i lavori prepa¬
ratori di quella di Vincenzo, nell’imminenza
della sessione del luglio 1936.
Vincenzo aveva trovato il bandolo del suo
tema finanziario e lavorava con passione ed
audacia; scriveva cartelle su cartelle, cer¬
cando di dimenticare il peggio. Oramai tutte
le lauree in scienze economiche e ptolitiche
erano — con qualche rara eccezione — saggi
di prostituzione littoria, in cui i laureandi
coscientemente, o trascinati da quella como-
d.t espressione che si dice « lo spirito dei
tempi », gareggiavano. Già il tema di Vin¬
cenzo, prettamente scientifico, costituiva un
grande ostacolo. Fra tutte quelle camicie nere,
egli sarebbe stato un fantasma bianco, non
già del tempo passato, ma dell’avvenire. Nel¬
l’imminenza dello « scandalo », già risaputo
dai gufi, gli sbirri che capeggiavano l’asso¬
ciazione studentesca lo avevano convocato,
r mostricciattolo, di cui si è purtroppo già
fatto parola, lo aveva dapprima adulato, van¬
tandolo come giovane di grande ingegno
e giurando che veramente lo stimava, anche
perchè figlio di operai, ceto che il Duce
altamente prediligeva. Gli aveva anzi offerto
di « mettersi in regola », specialmente dopo
che la conquista deH’impero, aveva definiti¬
vamente cancellato le vecchie divisioni fa¬
ziose, fondendo in un unico e indissolubile
fascio tutti gli iuliani.
Vincenzo aveva rifiutato e si era allora
passati alla maniera forte, facendogli sussur¬
rare da conoscenti che si sarebbe inscenata
una manifestazione di protesta il giorno del¬
la sua laurea e poi sarebbero venute « le
botte, sempre botte... ». E dopo ancora l’im¬
possibilità pratica di un qualunque lavoro.
Anche il valente Professore, che doveva
essere relatore della dissertazione, si era
preoccupato della sua responsabilità. Aveva
parlato a quattr’occhi con Vincenzo: am¬
metteva la sua capacità e la validità della
tesi, ma via che non si ostinasse; era ormai
una formalità necessaria. Gli parlò vaga¬
mente della fatale caduta dei ceti medi, por¬
tatori delle idee di libertà; ammise che si
era caduti in un nuovo medioevo; gli citò
passi dalla solita « Sociologia Generale » del
Pareto, gli promise addirittura un assi-
stentato.
Vincenzo lo lasciò parlare e si limitò a
ricordargli l’immortale detto di Ibsen : « An¬
che se noi fossimo ciechi, ciò non escludereb¬
be l’idea della luce »; e rifiutò con ferma
cortesia ogni proposta.
Con queste belle prospettive, egli lavorava
giorno e notte, riempiendo di attività la breve
vigilia; lavorava nella sua povera camera,
all’ultimo piano di un vìcolo, avvolto nei
suoi stinti vestiti da operaio.
L'ASTROLABIO - 4 giugno 1967
cronache itaUane
italiane
e
s
«
è
Si avvicinava il giorno della laurea e si
addensavano le minacce; si diceva che il
Guf era mobilitato al completo; si preannun¬
ciavano manifestazioni di disprezzo e peggio.
Mentre diversi amici antifascisti e chi
scrive queste note stavano discutendo sulla
« eterna » situazione nel solito bar, capitò
Vincenzo, pallido e stravolto; sembrava farsi
forza per poter parlare : « Non preoccupa¬
tevi; non sarà nulla, ma ho saputo stamat¬
tina che in questura c’è una denuncia contro
di me perche mi avrebbero visto più volte
stracciare il "Popolo d’Italia”! Siamo pru¬
denti. Nessuno assista al simbolico rogo del¬
la mia laurea ».
Gli amici tacquero. Soltanto un vecchio
professore di liceo che talora li frequentava
sbottò nel suo sdegno : « Così si perseguita
un giovane! Ai miei tempi, una laurea era
una festa; i professori gareggiavano nel-
l’aiutare gli studenti meritevoli; i giornali
le annunziavano e non solo per ragioni di
cassetta. Si era lieti del dibattito delle idee
e degli spunti originali. Ora, questi maledetti
affossatori di noi e di loro stessi! E tutto
questo per soffocare l’opposizione; ma a che
cosa.' Almeno la Inquisizione difendeva i
dogmi di un’antica e alta dottrina, ma
questi scarafaggi hanno un patrimonio di idee
che non arriva al Manuale del Caporalel ».
Le urla dei gufi. Alle quattro del pomerig¬
gio, Vincenzo entrava in Facoltà. Mi trovavo
ad attenderlo e lo vidi apparire in fondo al
lungo corridoio che immetteva nell’Aula
Magna e subito mi balzò agli occhi la ca¬
micia candidissima con il collctto inamidato,
alla moda dcH’cpoca. Vincenzo veniva a
cafx) alto con il suo volumetto sotto il
braccio, quasi per darsi forza. Camminava
con passo stanco c strascicato, tanto simile
a quello del padre c del nonno che avevano
sempre lavorato sulle banchine del porto.
Stava così per concludere la sua vita di stu¬
dio e di sacrificio, per la quale il padre
aveva sudato e la madre economizzato sul
povero desco; c il giovane rinunziato a tutto
ciò che fa bello e fulgido il nome stesso di
giovinezza.
Fischiavano e urlavano con le loro ben
curate facce da maiali coronate dal lezzo
dei capelli lunghi e impomatati; orridi, inam¬
missibili per la ragione; uscivano in espres¬
sioni di insultante bestialità; ributtanti nei
loro abiti costosi e nella camicia di seta nera
fuori ordinanza. Spesso figli dei ladri c degli
assassini delle federazioni e delle confedera¬
zioni e di lutti i feudi di stato, fischiavano
e urlavano, stretti in gruppo. Volevano pre¬
munirsi contro qualsiasi cenno di approva¬
zione. La maggior parte degli studenti non
si unì al coro e forse per questo i caporioni
del Guf non osarono percuotere. Vincenzo
passò dignitoso e si mantenne impassibile in
mezzo a quelle grida ignobili. Alla sua
dissertazione di laurea, era preceduta quella
di un ricco agrario di Sanremo che studiava
questioni geografiche e specialmente orogra¬
fiche riguardanti la frontiera, in vista della
guerra con la Francia, e soffiava ad ogni
pagina bellicose rivendicazioni. Il relatore,
cranio calvo e povero in ogni senso, non si
stancava di elogiare il laureando, e il grosso
contadino arricchito, in perfetta divisa, espo¬
neva i suoi piani. Ebbe centodieci, la lode e
la pubblicazione. Alla proclamazione fu ap¬
plaudito freneticamente dai tristi confratelli;
si ardeva ancora di entusiasmo per l’impero
e la « vittoria sui cinquantadue stati », e il
neodottore, uscendo dall’aula gridò ad altis¬
sima voce : « Cosa fa la Francia ? ».
« Schifo! Schifo! » — rispose il coro dei
« neri » e approfittò dell’occasione per una
nuova fischiata a Vincenzo.
La discussione della sua tesi fu però ac¬
compagnata da un inaspettato colpo di sce¬
na. Il rettore, creatura completamente ven¬
duta al fascismo, guardava Vincenzo con due
occhi in cui sembrava che si torcessero vi¬
pere; non poteva staccare lo sguardo dalla
camìcia bianca, arrossiva e sì agitava sul suo
seggio, non rassegnato a quella vista. Per
contro il relatore, uno scienziato puro, poco
simpatico, ma ammirevole nella sua specia¬
lità, superò se stesso. Lodò incondiziona¬
tamente il lavoro e si rivolse a Vincenzo
parlando come un suo pari; disse che, dopo
tutto quello che si era scrìtto sulla vastissima
materia, quel lavoro era quanto di meglio
potesse attendersi; lo qualificò « una tesi
classica » e si dichiarò lieto di aver potuto
per la prima volta, imparare qualcosa da
un discente. Invitò soltanto Vincenzo a di¬
scutere amichevolmente un punto contro¬
verso della dottrina.
Il giovane, rinfrancato, si appoggiò al ta¬
volo e, coprendosi il volto con le mani per
non vedere l’orrido aspetto del rettore e dei
gufini, rispose con calma e precisione. Nessun
gufo osò interromptere la discussione; tanto
la cervellotica minaccia di essere « fregati »
all’esame superava ancora l’amor di « patria ».
La discussione fra gli esaminatori dovette
essere lunga e laboriosa. Vincenzo ed io
attendemmo in un angolo con altri
due studenti, un ebreo rumeno, finito poi
ad Auschwitz, ed un jugoslavo: tutti lontani
dalla patria in quel luogo: « mes chers
camérades, nous sommes Ics sans patrie ».
Molti altri studenti sostavano nel corridoio
con un’aria incerta e timida di simpatia, ma
nessuno osava avvicinarsi, sotto l’occhio delle
spie. Queste si erano raccolte a loro volta in
un angolo, frementi di rabbia: certo pen¬
savano di già alle vendette e alle denunzie
contro il professore.
Venne infine il giudizio: Vincenzo cr*
approvato con ottantotto su centodieci. Un
urlo di trionfo, appena sedato, accolse la
proclamazione c si rinnovarono le fischiate.
Noi uscimmo sputando sulla soglia e sullo
scalone della Facoltà, stringendo i denti,
fatti per colpa altrui sìmili a quelli delle
belve e sognando e augurandosi la future
stragi dell’unica via di salvezza : la guerra
liberatrice. In uno dei vicoletti che portavano
alla casa del laureato, in Portoria, ci raggiun¬
se una figura nota, un vecchio bidello. Era
un ometto pìccolo e vivace, con grandi baffo¬
ni spioventi, c uno sguardo mite e rasse¬
gnato. Vincenzo credette di essersi dimenti¬
cato la mancia, ma quello rifiutò arrossen¬
do : « Signor Dottore, io ne ho sentite delle
tesi, ma una come la sua, in queste condi¬
zioni, mai! Centodieci e la pubblicazione
doveva meritare e dieci anni di galera a quel
porco maledetto di rivierasco che vuole la
guerra con la Francia! Ma non abbia paura
di nulla! Io so che è figlio di un lavoratore
e conosco suo padre; abbiamo bevuto insienae
tante volte dalla "Brigida". Non si scorag¬
gi: "Uccidete me, ma l’idea che è in me
non l’ucciderete mai!” — lo ha detto Mat¬
teotti! Beati voi che siete giovani e vedrete
"quel giorno”! E, se non si offende, mi
permetta, come a un f>overo vecchio, mi per¬
metta dì offrirle da bere, per festeggiare il
suo titolo ». Non potevano e non dovevano
rifiutare. Bevvero all’osteria e sentirono che
queil’uomo rappresentava le genuine ono¬
ranze accademìdie dell’anno XIV, sentivano
nella stretta delle sue mani tremule la sicura
promessa del giorno, del grande giorno, di
« quel giorno ».
La statua del navigatore. Molti, molti anni
trascorsero. Cadde il fascismo e con esso
caddero anche molte speranze. Vincenzo,
laureato ma non iscritto al fascio, aveva cam¬
pato una vita grama, facendo il commesso
di negozio e dando lezioni private; adesso
stava morendo all’ospedale per un male in¬
guarìbile. Io lo visitavo ogni giorno per
aiutarlo a morire. Dalla finestra della came¬
retta di dolore e di morte si dominava un
vasto spiazzo incolto, dove — spaventosa
vista — erano stati ammonticchiati frammen¬
ti, tronconi, ruderi, pezzi combusti di quei
benefattoti e di quei padri della repubblica,
che per anni i due amici, allora giovani,
avevano incontrato in effige, scherzandoci
sopra e beffeggiandoli. Spettri, ora, nient’al-
tro che spettri, che pochi sarebbero riusciti a
rivestire deH’antiche sembianze. Era quello
l’ultimo giorno in cui avrei fatto vi¬
sita a Vincenzo, deceduto il giorno dopo.
Non avevamo ormai più niente da dirci pri¬
ma del silenzio ma, per vincere quell’imba¬
razzo più insostenibile di ogni altro, ci spor¬
gevamo alla finestra, vicino alla quale ave-
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trascinato Vincenzo, e discutevamo, per
tJtr qualcosa ncJl’ora tremenda del tramonto,
!*ull identità di quegli orribili mostri, che
•n'cvano presieduto alla nostra giovinezza.
Infine, dop<j l’ultimo abbraccio, scesi nel
cortile e a fatica riconobbi il simulacro sul
Suale si era particolarmente discusso: fatto
3 pezzi, camuso e vischioso di muffa. Eppure
lo ravvisai come Cristoforo Colombo. Con
grandi cenni del capo e delle mani cercai di
comunicare con Vincenzo che, sorretto dal-
■nfermicra, mi salutava dalla finestra. Fui
sicuro di essere capito e di aver trasmesso
’* Hìcssaggio.
Certo, le nostre vite erano state angariate,
avvilite, umiliate e offese, ma qucH’cnorme
e rozza statua del navigatore, abbattuta, in-
Iranta e semisepolta fra innumeri erbacce,
sarebbe certamente risorta come un inesora-
ilc M festin de picrre » per assicurare al mon-
o pace, giustizia e libertà; e magari per
distruggere quanto aveva scoperto. Tutto
era buio, ma quella era l’unica nostra dispe¬
rata luce simbolica:
E poi noi sappiamo!
L odio omtro la bassezza
Stravolge la faccia.
•■Vnche l’ira per l’ingiustizia
Ecnde roca la voce, .\himc noi
Che volevamo preparare il terreno per
la benevolenza
Non potevamo essere benevoli.
^la voi, quando l’ora verrà
Che l’uomo sarà un aiuto per l’iiomo,
Pensate a noi
Con indulgenza.
GIULIO PIETRANERA ■
Ringrazio il prof. Oscar Ciannesini, il
P^nj. Orlando D'Alanro, e il doti. Aroldo
Meliga che mi hanno aiutato nel reperire
‘ '"nteriale su cui si basa il presente scritto.
PER LE OPERE DI
ERNESTO ROSSI
Nuovi contributi per la pubbli¬
cazione. ristampa e diffusio¬
ne degli scritti di
ERNESTO ROSSI
Guido Calogero, Carmelo Car-
bone, Enrico Deeleva, Giorgio
Levi Della Vida, Manlio Ma-
9ini, J. W. Salvadorì, Ernesto
Sestan, Altiero Spinelli, Au¬
gusto Torre,
per L. 242.602
La cifra finora raccolta am¬
monta a L. 1.966.402.
DE DOMINE
CENTRO DI RICERCA PER LE SCIENZE MORALI E SOCIALI
ISTITUTO DI FILOSOFIA DELLA UNIVERSITÀ’ DI ROMA
G. e. SANSONI EDITORE
N. 19-20 - Dicembre 1966 - pp. 408:
tin Buher
Maurice Friedman
P-
3
Il problema dei giudizi di valore in Max
Weber
Rene Konig
P-
1 /
Il senso della storia
Karl Lowith
P-
27
Karl Marx e la futura società senza
classi
(ring Fetscher
P-
43
Etica protestante e 'spirito’ del capi-
talismo
.Mano Miegge
P-
75
L’orfano di Bismarck
Franco Ferrarotti
P-
93
Calvino e il suo contributo alla forma-
zione del pensiero moderno
Franco Lombardi
P-
101
La sociologia di Adorno e Horkheimer
Franco Ferrarotti
P-
143
Feuerbach 1842: Necessità di un cam-
biamento
Necessità di un cambiamento 1942/43
Carlo Ascheri
P-
147
[Notwendigkeit einer Verandening
1842/431
Ludwig Feuerbach
P-
256
Rassegna bibliografica ....
295
Cronache .
Volumi entrati a far parte della Biblioteca dell'Istituto di Fi-
P-
359
losofia dell’Università di Roma nell'
'anno 1966 .
P-
370
Di questo volume .
P-
385
Indice dei nomi . P- 387
Indice dei volumi recensiti . P- 404
Indice dei numeri precedenti . p. 406
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