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Full text of "L'Astrolabio 1967 n° 23"

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La guerra dì Belocbio, di Palma e di Badoglio 




Jia.hi Jcl wle 


ADDIORRDRE 


A ava « f. teccar^ C. •saia. T. Savi. Cm la caBitamlaai di Maw Faaalwni. 
VNtono S awa MI (MocMa). Maria Fa c dw i S. SparaiMto Carrara. CwalUara Sartafc. 
Folievpa lawl. AdoHe Nem. Maria FanoccMo. SrwM fONtraaSa. Amarao D’Aariea, 
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CANTI E TESTIMONIANZE 

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rastrolabio 

Domenica 4 Giugno ] 967 


Direttore 

Ferruccio Farri 

Comitato di Redazione 

Ercole Bonacina, Lamberto Borghi, Tristano Codignola, Alessan¬ 
dro Galante Garrone, Antonio Giolitti, Gian Paolo Nitti, Leopoldo 
Riccardi, Paolo Sylos Labini, Nino Valeri, Aldo Visalberghi 

Vice Direttore Responsabile 

Luigi Ghersi 




Ferruccio Farri: Sull’orlo della guerra. 




4 


sommario 

P.: Economia: Carli al quadro di controllo. 

6 



Giuseppe Loteta: La rissa per Israele. 

7 



G. M.: La commedia dei fitti. 

8 



Antigono Donati: Kennedy Round: il mercante atlantico (in- 
tervista) . 

8 


a vita politica 

G. M.: Parlamento: l’occhio della minoranza. 

11 



Giampaolo Calchi Nevati: Medio Oriente: occhio per occhio . 

14 



Federico Artusio: Tempesta sulla coesistenza. 

18 



Sergio Angeli: Un’Europa isolazionista?. 

22 



D.: De Gaulle a Roma. 

25 

agenda intemazionale 

1. T.: Grecia: puritani per decreto. 

26 



Giulio Pietranera: Carlo Rosselli e la presa di possesso fascista 



cronache italiane 

dell’università italiana: la cultura in orbace .... 

28 

L'Astrolabio è In vendita ogni sabato. Direzione, Redaz. e Amminlstraz., Via di Torre Argentina, 18, Roma, Tel. 565881, 

651257. Pubblicità: L. 200 al mm. giustezza 1 colonna sulla base di 3 colonne a pag. Tariffe di abbonanoento: Italia; 
annuo L. 6.000; semestrale L. 3.100; sostenitore L. 10.000; estero; annuo L. 10.000; semestrale L. 5.100. Una copia 

L. 150; arretrata L. 250. Le richieste devono essere Indirizzate a: Astrolabio Amministrazione, Via di Torre Argenti¬ 
na 18, Roma accompagnate dal relativo Importo o con versamento sul c/c n. 1/40736 Intestato all'Astrolabio. Editore 
« Il Seme >. Registrazione del Tribunale di Roma del 18 maggio 1966. Distributore: Società Diffusione Periodici 
(SO.DI.P.) Via Zurettl, 25 - Milano - Tel. 6884251. Stampa: Graphocolor s^J.a. - Roma. Sped. in abb. postale gruppo II. 


^■'astrolabio - 4 giugno 1967 


3 













































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1 



Oiamo sull’orlo scivoloso di 
ultimatum a lunga scaden¬ 
za che gli umori bellicosi dei guer¬ 
riglieri siriani o le impazienze di 
un Moshe Dayan possono far pre¬ 
cipitare nella guerra, sotto l’incu- 
bo di un rischio mal calcolato 
poiché il complesso e intricato gio¬ 
co dei fattori litigiosi ne rendono 
più che incerto il controllo. Unico 
elemento relativamente positivo 
l’azione frenante delle grandi po¬ 
tenze, timorose del crash irrepa¬ 
rabile. Ma il pessimismo manife¬ 
stato da U Thant reduce dal Cairo 
è ammonitore. 

Non si vede infatti come supe¬ 
rare le posizioni rigide ed appa¬ 
rentemente irriducibili che sono 
al primo piano della contesa, cioè 
il blocco marittimo d’Israele al 
quale Nasser aveva dovuto con¬ 
sentire lo sbocco ad Aqaba a com¬ 
penso della chiusura del Canale 
di Suez, e la strenua opposizione 
d’Israele a tornare alla condizione 
di assediata cui aveva reagito con 
l’infausta offensiva di Porto Said. 


Ma in secondò piano, quasi in ag¬ 
guato, dietro la minacciata distru¬ 
zione d’Israele sta la brama nas- 
seriana di una profonda revisione 
territoriale della zona. 

I paesi arabi contermini han¬ 
no interessi diversi ed una na¬ 
turale diffidenza verso l’invaden¬ 
za nazionalista di Nasser, ma una 
guerra santa contro Israele non 
potrebbe non trascinarli tutti. 

Le vie del negoziato. Difesa 
della gente ebrea e difesa del 
sionismo sono due cose diverse. 
Ma quali siano gli errori della po¬ 
litica d’Israele e le sue responsa¬ 
bilità verso i profughi, l’Europa 
non può ammettere la condanna 
della mirabile, quasi eroica co¬ 
struzione di una nuova patria che 
è elemento vivo della civiltà occi¬ 
dentale. L’Europa ha sulla coscien¬ 
za lo sterminio del popolo ebraico 
e deve salvare la risposta che a 
Tel Aviv essa ha dato ad Ausch¬ 
witz. E’ vero che Israele è costata 
un duro sacrificio alla gente ara¬ 


ba. E’ a questa, se mai, che una 
riparazione va data. 

Ma che può fare tra l’urto del 
due blocchi maggiori questa Euro¬ 
pa che il federalismo aveva so¬ 
gnato come una terza forza me¬ 
diatrice? E’ un’Europa diversa ed 
incerta, alla quale tuttavia le tre¬ 
mende esperienze del passato di 
distruzione danno una certa, istin¬ 
tiva unità di reazione che fini' 
sce per richiamare anche i comu¬ 
nisti, pur contrari alle posizioni 
politiche appoggiate daU’Àmerica: 
si veda la degna ed esplicita di¬ 
chiarazione della federazione ro¬ 
mana del PCI. E’ già questo un 
modo serio di intervento. Non 
molto più efficaci possono riuscire 
le raccomandazioni che ogni ca¬ 
pitale rivolge ai contendenti. 

Quelle che avrebbero la forza 
di portare al negoziato sono bloc¬ 
cate sulla via dell’intesa dagli in¬ 
dirizzi di base della rispettiva po¬ 
litica mondiale. L’Unione Sovieti¬ 
ca non può mollare Nasser che è 
la sua posizione di forza nel mon- 


i 


4 


À 



















do arabo. Gli Stati Uniti alla pal¬ 
la al piede del Viet Nam aggiun- 
gono una seconda costante, sem¬ 
pre presente e spesso decisiva, che 
è la difesa degli sfruttamenti pe¬ 
troliferi. Le novità che si annuncia¬ 
no in qualche paese come Tirale 
possono portare complicazioni e 
contraddizioni nella politica ame¬ 
ricana. 

Politica con i paraocchi. Com¬ 
plicato ed imbarazzato gioco a 


scacchi, reso esitante dalla consa¬ 
pevolezza di legami e comuni in¬ 
teressi che è dannoso per tutti 
rompere, dall’attesa di mosse ri¬ 
solutive. Supponendo che gli Sta¬ 
ti Uniti siano il centro del gioco, 
come lo sono, la mossa di Nasser 
nel momento di più pericoloso 
impegno nel Viet Nam potrebbe 
parer calcolata per lo scacco fina¬ 
le al re. 

Ma non vi è bisogno di suppor¬ 
re ricatti di questo genere, o d’im¬ 
maginar complotti ancor più in¬ 
consistenti degli Stati Uniti per 
imbarazzare i Soviet, per ricono¬ 
scere ancora una volta che indi- 
visibilità della pace significa che 
la pace non si aggiusta a toppe. 

Il discorso ritorna dunque al 
Viet Nam , intendendo questa 
guerra sciagurata come il prodot¬ 
to di una politica imperiale che 
persegue con intransigente coe¬ 
renza nel Pacifico e in Asia un suo 
disegno di blocco della Cina co¬ 
munista e di controllo conseguen¬ 
te delle appendici peninsulari del¬ 


la Corea e dell’Indocina. E’ que¬ 
sta la responsabilità primaria del¬ 
la politica americana. La esca¬ 
lation che conosce solo la logica 
dello schiacciamento dell’avversa¬ 
rio ne è la proiezione necessaria. 

Politica con i paraocchi che an¬ 
nulla, paralizza, mina possibilità 
e trattative di distensione, risve¬ 
glia diffidenze e resistenze, fa ma¬ 
turare nuovi incidenti, apre la 
strada ed accresce le voglie di tut¬ 
ti i nazionalismi inquieti. E così 
si allarga la rottura, si complica 
la partita, della quale tra i due 
grandi litiganti unico beneficiario 
che può, per modo di dire, gode¬ 
re del logoramento gratuito dei¬ 
avversario, è la Cina, sin quando 
non sia travolta essa stessa dal 
vortice. 

Le nuove minacce che si aprono 
in nuovi settori dimostrano che è 
ad una pace generale che bisogne¬ 
rebbe mirare, quella che attraver¬ 
so una verifica ed una conclusione 
d’insieme può riportare agli accor- 


l-'ASTROLABIO - 4 giugno 1967 


5 

















politica 


di di distensione e di disarmo. E’ 
una logica deduzione di questa 
constatazione la consultazione pro¬ 
posta dal gen. De Gaulle. E’ ve¬ 
ramente una logica zoppa, non 
tanto perchè inserisce la Francia 
fra i quattro grandi quanto per¬ 
chè esclude la Cina. Fatale errore 
anche questo che si inscrive nel 
quadro di quella responsabilità 
primaria su denunciata, condivisa 
anche dalla passiva politica ita¬ 
liana. 

Non servono le invocazioni di 
Paolo VI e quelle di tutto il mon¬ 
do sin quando non si riesca a 
colpire nella coscienza dei popoli 
le radici delle politiche di potenza 
e di crociata. Sta in questo spi¬ 
rito di crociata il nuovo pericolo 
che pesa sulla pace del mondo e 
sulla nostra. Vi è una polarizza¬ 
zione di contrasti per la quale 


America e Russia sovietica diven¬ 
tano la patria ideale che ha sem¬ 
pre e comunque ragione. Dice¬ 
vano gli inglesi al tempo della 
regina Vittoria: righi or tvrong, 
my country, la patria ha sempre 
ragione. 

Questo non è democrazia, che 
è prima di tutto indipendenza di 
spirito. Questo è contro il valore 
morale della Resistenza, che è 
sempre stata prima di tutto lotta 
di liberazione. Questo non sia 
soprattutto nei giovani, che non 
credano di risolvere nelle dimo¬ 
strazioni e nelle invettive il pro¬ 
blema della libertà, come conqui¬ 
sta piena, integrale di un sistema 
di organizzazione civile e sociale, 
del quale è espressione la nuova 
politica internazionale della sini¬ 
stra italiana. 

FERRUCCIO FARRI ■ 



. LACIMniCITE 
, A C[TTE 
CUER mST 


Comunicato 


Il Comitato per la pubbli¬ 
cazione e la diffusione degli 
scritti di Ernesto Rossi in¬ 
forma che l’editore Laterza 
pubblicherà una larga scel¬ 
ta delle lettere di Rossi dal 
carcere e ristamperà vari 
suoi scritti riguardanti pro¬ 
blemi economici e finanzia¬ 
ri, polemiche politiche e i 
rapporti fra Stato e Chiesa. 

I fondi già raccolti dal Co¬ 
mitato e quelli che affluiran¬ 
no successivamente, ver¬ 
ranno destinati alla distribu¬ 
zione su scala più ampia 
possibile delle opere di Er¬ 
nesto Rossi ai circoli di cul¬ 
tura, alle biblioteche scola¬ 
stiche e popolari, ed alla 
pubblicazione e diffusione 
di una bibliografia sistema¬ 
tica, nonché alla eventuale 
pubblicazione di altri inediti. 


ECONOMIA 

Carli al quadro 
di controllo 


L a relazione annuale della Banca 
d’Italia per illustre e consolidata 
tradizione, già anteriore ai tempi di 
Menichella, è uno dei documenti es¬ 
senziali per la conoscenza e lo studio 
della nostra condizione economica. Era 
praticamente il solo panorama annuale 
redatto con serietà scientifica fin quan¬ 
do per invito del Parlamento non si 
iniziò la pubblicazione della Relazione 
generale, annuale sulla economia del 
paese. Si è allora specializzata soprat¬ 
tutto nei campi che le sono più propri 
della moneta, del credito e della finan¬ 
za, giovandosi dell’opera di un ufficio 
studi tenuto sempre ad alto livello. Ma 
sono soprattutto le considerazioni ge¬ 
nerali con le quali il Governatore la 
presenta all’Assemblea dei partecipanti 
ed al paese che sono attese ogni anno 
con interesse sempre ugualmente vivo. 

Il dott. Carli è un tecnico, non un 
politico. Ma è uomo di forte persona¬ 
lità, mosso perciò inevitabilmente da 
una retrostante filosofia che è, in gros¬ 
so, il più efficiente ed insieme equili¬ 
brato funzionamento del nostro siste¬ 
ma economico e sociale. Non sono 


spesso d’accordo con le sue vedute gC' 
nerali gli scrittori dcWAstrolabio quan¬ 
do hanno le lune di traverso con que¬ 
sta società italiana scombinata e truf- 
faldina. Ma fanno sempre tanto di cay 
pello alla qualità rara della sua intelli¬ 
genza armata di estremo rigore logico, 
preoccupata della precisione dell’anali¬ 
si, ricondotta sempre a visioni globali 
degli equilibri economici con una capa¬ 
cità di lucida sintesi ch’è suo privile¬ 
gio, onorabile da tutti perchè riposa su 
una profonda coscienza civile e sempre 
vigile senso dello Stato. 

Salvaguardare la capacità compe¬ 
titiva. Si immaginavano facilmente 
quali potevano essere alcuni dei temi 
che avrebbe quest’anno sottoposto al¬ 
l’opinione pubblica sul piano intema¬ 
zionale e nazionale. E’ merito del Carli 
l’efficac’c, deciso contributo alla « spro¬ 
vincializzazione » dell’economia italiana 
ed alla sua inserzione quanto meno 
condizionata possibile nel mercato 
aperto. Linea coerente di liberalizzazio¬ 
ne che ha come principio l’accordo di 
tutti, ma che può importare, se acce¬ 
lerata, costi sociali dei quali i tecnici 
attenti a salvaguardare gli equilibri 
economici spesso non si preoccupano. 
Carli, come il suo direttore generale 
dott. Baffi, sono anche antichi ed atti¬ 
vi fautori, su questo filo di politica 
generale, della integrazione europea: 
troppo ottimisti peraltro e poco critici 


6 

















La 


del modo come questa politica è stata 
intesa ed applicata dai Governi italia¬ 
ni. Ma leggete per questa parte di eco¬ 
nomia esterna le poche pagine dedicate 
all’antica e non ancora risolta questio¬ 
ne della riforma e governo della liqui¬ 
dità internazionale: avrete una sinteti¬ 
ca ed insieme chiara ed esauriente in¬ 
formazione. 

Piena inserzione nel mercato inter¬ 
nazionale significa salvaguardia della 
capacità competitiva e quindi di un pa¬ 
rallelo incremento di produttività. 
Vecchia solfa, e chi può contestare la 
necessità di non cedere alla obsole¬ 
scenza economica e sociale? Ma son si¬ 
luri i tecnici di misurare le toUerabi- 
fità dei costi in una economia diversa- 
niente squilibrata nel territorio e nei 
settori di attività? E’ un discorso lun¬ 
go, già fatto e da riprendere. 

Le novità'che forse colpiranno di 
più m questa relazione sono contenute 
nei capitoli relativi al « credito agevo- 
J?^o », alla condizione del mercato 
finanziario, alla strutturazione del siste¬ 
ma bancario, alla finanza pubblica. Si 
tratta di lagnanze in parte note e pa- 
cifache: ma — sempre col linguaggio 
misurato e proprio del Carli — in par¬ 
te scoprono interessanti altarini. Si 
parla anche di banche, ma gli altarini 
sono principalmente governativi, non 
solo per il pericolo di un tipo di age¬ 
volazioni che « incentiva » lo spreco, la 
spensieratezza e l’irresponsabilità. le¬ 
gete contro luce qualche periodo su 
t^rti crediti per l’industrializzazione del 
mezzogiorno o l’esportazione. Vi è un 
atto del processo necessario alla nostra 
classe politica. Anche questo è un di¬ 
scorso da riprendere. 

Diavolo di un Carli! Non è facile 
trovare il modo di parlare male dei 
suoi rapporti. Proveremo a farlo più 
che non possa questo primo resoconto 

sommario. 

P. ■ 



La rissa per Israele 


P er la stampa benpensante del no¬ 
stro paese la crisi del Medio Orien¬ 
te è stata un terno al lotto. Come giu¬ 
dicare diversamente la possibilità of¬ 
ferta in questi giorni al Secolo, al Tem¬ 
po, al Messaggero, al Giornale d'Italia, 
al Corriere della Sera di contrapporre 
le prese di posizione a favore di Isra^ 
le a quelle • comuniste » sul Vietnam, 
la « spontaneità » della veglia di do¬ 
menica al Portico d’Ottavia alla « reto¬ 
rica » della manifestazione svoltasi 
poche sere prima a Piazza Navona? 
Difficilmente una contrapposizione po¬ 
trebbe risultare più fastidiosa e falsa. 
Fastidiosa perchè a scoprirsi improv¬ 
visamente una vocazione filo-israelita 
e anti-razzista sono i medesimi gior¬ 
nali e gli stessi uomini politici che 
non si sono mai eccessivamente scan¬ 
dalizzati per le torture francesi In Al¬ 
geria, l'apartheid sudafricano, la que¬ 
stione negra negli Stati Uniti e la na- 
paknizzazione del bambini vietnamiti. 
Falsa perchè la doverosa solidarietà 
con Israele. l'Incondizionato riconosci¬ 
mento del suo diritto alla vita non 
possono e non debbono andare di¬ 
sgiunti dall'altrettanto doverosa soli¬ 
darietà con la dura e giusta lotta del 
popolo vietnamita, dalla condanna del- 
ì'interverrto e dell'escalation america¬ 
ne nel sud-est asiatico. Dispiace In par¬ 
ticolare che la contrapposizione sia 
stata fatta propria anche dalla Voce 
Repubblicana, per una volta dimentica 
che le battetglle di libertà sono ovun¬ 
que tali e ovunque vanno giudicate e 
sostenute con lo stesso spirito liber¬ 
tario. 

Un passo falso. Detto ciò, non si può 
però non rilevare come i nunterl del 
terno siano stati gli stessi comunisti 
a fornirli. E soprattutto l'Unità che si 
è 'immedlatantente allineata, con una 
prontezza irriflessiva di memoria stali¬ 
nista, alla politica di potenza ohe 
l]Unione Sovietica — non diversamen¬ 
te dagli Stati Uniti — sta conducendo 
nel Medio Oriente. Anche se il sotto¬ 
fondo dell'attuale crisi dei rapporti tra 
Israele e i paesi arabi risultava obiet¬ 
tivamente poco chiaro ed era reso 
estremamente drammatico dalle minac¬ 
ce e dalle iniziative egiziane, l'Unftà 
non aveva alcuna esitazione. E river¬ 
sava per intero la responsabilità del- 
l'aggravarsi della situazione su • I com¬ 
plotti e 1 plani aggressivi di Israele e 
di Washington ». esaltava la fermezza 
di Nasser, giustificava 11 blocco di 
Aqaba e perfino accusava la CIA di 
aver fatto fHJbblicare « dal giornale 
dell'esercito », In Arabia settentriona¬ 
le, • un articolo antireligioso di carat¬ 


tere volgarissimo, ispirato al tipico 
linguaggio dell'anticlericalismo borghe¬ 
se europeo e ottocentesco ». 

Solo negli ultimi giorni, 'l'adesione 
della federazione romana del PCI alla 
veglia per israele e più meditati inter¬ 
venti di Amendola e di bongo hanno 
lasciato Intravedere 1 primi sintomi di 
un ripensamento o. quanto meno, di un 
giudizio meno avventato e acritico. Ma 
non basta. Non si possono esaltare il 
poHcentrlsnrto, le vie nazionali al socia- 
iismo, l'autonomia di giudizio di ogni 
partito comunista e poi seguire la 
URSS (I cui motivi non di potenza so¬ 
cialista ma di potenza tout court pos¬ 
sono anche essere con>prensibiM) In 
tutte le complicate mosse del perico¬ 
loso giuoco medio-orientale. Nè tanto 
meno si può spacciare Nasser per un 
pacìfico statista d'ispirazione socialista 
• dedicato da undici anni alla costru¬ 
zione del suo paese », quando è noto 
che J'ex colonnello abbia sbattuto in 
galera tutti 'I comunisti egiziani, reclu¬ 
ti da anni scienziati e 'Istruttori militari 
ex nazisti, sostenga — almeno verbal¬ 
mente — la necessità della completa 
distruzione dello Stato d'Israele. 

E Intanto, ia politica di allineamento 
del PCI, non meno di quella del PCF, 
ha già dato 'il poco lusirtghiero risultato 
di spaccare la sinistra sul problema del 
Medio Oriente. Più grave In Francia, 
dove l'alleanza faticosamente raggiun¬ 
ta sul terreno deH'opposIzione al gol¬ 
lismo appare oggi fortemente incrina¬ 
ta: da un lato Waldeck Rochet su posi¬ 
zioni rigidamente filosovietiche e dal¬ 
l'altro Mendes Franco, Mitterrand, Guy 
Mollet che condannano l'atteggiamen¬ 
to egiziano, Sartre che sottoscrive il 
manifesto degli intellettuali francesi in 
cui si giudica > Inconaprensibile l'iden¬ 
tificazione di Israele con un campqrfm- 
periallsta ed aggressivo ». MerK) grave, 
ma non per questo meno deprecabile 
in Italia, dove la sinistra continua ad 
essere divisa dallo spartiacque gover¬ 
nativo e da non pochi temi di fondo. 
Dove perfino un’Iniziativa giusta ed op¬ 
portuna come ia veglia al Portico d'Ot- 
tavia finisce per trasformarsi in una 
manifestazione prevalentemente anti- 
conumista pervia di quegli oratori che, 
fingendo di fraintendere gli intenti de¬ 
gli organizzatori, hanno fatto a gara 
nel contrapporre gratuitamente il sud¬ 
est asiatico al Medio Oriente, i kibbuz 
ai koikos, la rivoluzione americana alla 
rivoluzione sovietica, nell’esaltare gli 
Stati Uniti come la potenza che difen¬ 
de e tutela le minoranze di tutto il 
mondo. 

GIUSEPPE LOTETA ■ 


L'astrolabio - 4 giugno i967 


7 














^ffiica 



FITTI 

la commedia 
del blocco 


sicuro so solo che adesso è sera, 
quanto al problema dei fitti, il cui 
blocco scade al 30 giugno, non posso che par¬ 
lare al condizionale e me ne dispiace. E’ da 
marzo che abbiamo messo a punto il nuovo 
provvedimento di legge e la relativa relazio¬ 
ne: da allora qualcosa poteva essere fatta, in¬ 
vece finiremo col prendere una decisione solo 
a ridosso deU'ultima scadenza, alla fine di 
questo mese » E’ il de Breganze, responsa¬ 
bile della commissione per la legge sui fitti 
che parla, la frase è stata pronunciata al ter¬ 
mine deU'ultima breve riunione che ancora 
una volta, avrebbe dovuto prendere in consi¬ 
derazione la decisione definitiva e non l’ha 
presa. Che altro aggiungere alle sue parole? 

Gli appartamenti abitati in Italia sono in 
questo momento 13 milioni 353 mila: otto 
milioni 522 mila di proprietà di chi vi di¬ 
mora, il resto in fitto. A fitto Ubero due 
milioni 224 mila, a fitto sbloccato per rinun¬ 
cia deH’inquilino un milione 286 mila a fitto 
concordato tra le parti 375 mila e finalmente 
925 mila (il 7 per cento del totale) a fitto 
ancora bloccato parte nel 1947 e parte nel 
novembre del 1963. Secondo il progetto di 
legge governativo messo a punto dalla com¬ 
missione Breganze al 30 giugno si sarebbe 
dovuto liberalizzare un primo scaglione di 
480 mila fitti bloccati (negozi compresi) e 
tra un anno il secondo scaglione di 700 mila 
contratti. 

I socialisti ora avvertono che non si può 
procedere in questo senso perchè nel frat¬ 
tempo non si è ancora provveduto a costrui¬ 
re case popolari, appanamenti non specula¬ 
tivi. Nel gruppo dei due blocchi vi sono 328 
mila appartamenti goduti da pensionati, 294 
mila da lavoratori dipendenti, 123 mila da 
lavoratori in proprio, 73 mila da impiegati, 
4 mila da coadiuvanti e infine 104 mila da 
professionisti. 

Si sblocchino dicono i socialisti, gli ap¬ 
partamenti di coloro che possono effettiva¬ 
mente pagare : « questo è obbligo morale ». 
Lo è davvero? Con siffatti redditi probabil¬ 
mente oggi non si riesce a poter fittare una 
casa, ai prezzi di mercato che corrono, senza 
fare gravi sacrifici. E poi in tal modo quanti 
sono gli appartamenti liberati? Un numero 
che certamente non giusdfica tutte le liti 
giudiziarie che per l’applicazione di questo 
limitato sblocco si aprirebbero. E poi, se si 
è in tema di morale, perchè non sbloccare i 
fitti dei locali adibiti a negozio? Perchè que¬ 
sto non è chiesto da quei de che pensano 
ai voti della destra. E così via. La soia cosa 
che era da farsi, accelerare i programmi di 
edilizia, non vien fatta e intanto si procede 
a tentoni e per compromessi. Il compromes¬ 
so, più sui principi — il che è peggio — 
che sulle fette di realtà intaccate, è come 
sempre il solo porto d’approdo di questa 
maggioranza. 

G. M. ■ 



I mercante 



L'intesa del Kennedy Round si è concretata solo dopo una serie di reciproche con¬ 
cessioni tra i paesi del GATT e dopo la perdita dell'iniziale fisionomia di unione atlan¬ 
tica sopranazionale. Nel 1968 l'economia Italiana subirò un doppio scossone, per 
l'abbattimento dell'ultimo diaframma doganale esistente all’Interno del MEC ed in 
seguito aH’inizio degli effetti del Kennedy Round. Una efficace terapia d’urto oppure 
un pericoloso salto nei buio? Per fare il punto sulla situazione pubblichiamo qui l'in¬ 
tervista del prof. Antigono Donati, Presidente dell'Istituto per il commercio con l'estero. 


D.: - Il commercio internazionale de¬ 
gli Stati Uniti ha un peso relativamente 
modesto sull'economia americana. La 
politica del Kennedy Round a quali 
direttive generali è ispirata? Accresce¬ 
re la influenza di un volano stabilizza¬ 
tore? Vi è la sicurezza di un maggior 
saldo positivo della bilancia mercantile 
che possa migliorare le condizioni della 
bilancia americana dei pagamenti? Vi è 
il proposito di introdurre un incentivo 
concorrenziale del quale i responsabili 
della economia americana sentono la 


necessità? La "filosofia” con la quale 
Kennedy impostò il suo piano è an¬ 
cora la stessa nel 1967? 

R.: - Non vi è dubbio che p)er gli 
Stati Uniti il commercio con l’estero 
ha un peso relativamente modesto nel¬ 
l’economia del Paese (circa il 7 per 
cento siJ prodotto nazionale lordo, 
contro 27 per cento per l’Italia), spe¬ 
cie se paragonato a queUo di alcuni 
piccoli paesi industrializzati europei 
per i quali le attività economiche ne- 


8 









La VI 





ccssariamente si fondano su una in¬ 
tensa proiezione verso l’esterno (Bel- 
8*0 e Paesi Bassi circa 73 per cento). 
Liò è d’altronde naturale per un mer¬ 
cato così vasto e dotato di enorme po¬ 
tenzialità di produzione e consumo 
^ttale è quello statunitense. 

Questo fatto non toglie però che 
anche gU U.SA. sentano la necessità 

promuovere un più ampio sviluppo 
dei loro traffici con l’estero nell’in¬ 
tento di consolidare e potenziare la 
‘Oro vasta rete di interessi economici 
Mondiali e di assicurare sempre più 
adeguati sbocchi alle loro crescenti 
produzioni nel campo industriale non 
teeno che in quello agricolo. Da ciò 
Jc direttive generali che, da un punto 
di vista economico, hanno ispirato la 
proposta del negoziato multilaterale 
ooto con il nome di "Kennedy Round”. 

Evidentemente, attraverso il poten¬ 
ziamento degli scambi conseguente ad 
*^iia massiccia rimozione degli ostacoli 
agli stessi su piano mondiale, gli Stati 
*-^niti si proponevano e si propongono 
anche di accrescere l’influenza stabiliz¬ 
zatrice sull’economia nazionale che i 
rapporti commerciali con l’esterno pos¬ 
sono esercitare, come pure di miglio- 
tere la loro bilancia dei pagamenti, la 
situazione deficitaria dipende pe¬ 
raltro soprattutto da operazioni di na¬ 
tura extra-commerciale. E non può 
Escludersi che essi abbiano mirato an- 
Ehe ad introdurre uno sprone concor- 

*-’ASTR0LABI0 - 4 giugno 1967 


renziale per taluni loro settori indu¬ 
striali maggiormente protetti. Ma nella 
ispirazione della politica che sta al¬ 
l’origine del Kennedy Round questi 
proponimenti, pure importanti, sem¬ 
brano rivestire un interesse seconda¬ 
rio e collaterale rispetto alle finalità 
generali sopra ricordate. 

Nella concezione originaria di detta 
politica, fondata su un’ampia ed aperta 
visione dei problemi mondiali, tali fi¬ 
nalità superavano il puro aspetto eco¬ 
nomico per assumere un più ampio si¬ 
gnificato politico: quello della costitu¬ 
zione di una effettiva partner-ship 
atlantica. Col profondo mutamento in¬ 
tervenuto negli ultimi anni nello stato 
dei rapporti tra i paesi interessati al 
di qua e al di là dell’Atlantico, questo 
più largo significato è andato perdendo 
gradualmente di vigore, talché il nego¬ 
ziato ha finito con l’assumere un va¬ 
lore prevalentemente commerciale. 

D.: L'accordo stipulato a Ginevra tu¬ 
tela l'esportazione europea e italiana 
dai molti vincoli e condizioni (commer¬ 
ciali, sanitarie, ecc.) che hanno sempre 
servito ad apporre un diagramma proi¬ 
bizionista, variabile secondo le pres¬ 
sioni delle categorie dei produttori? 



Antigono Donati 


R.: - E’ risaputo che negli Stati Uniti 
esistono — più che in Europa — di¬ 
sposizioni e sistemi vari extra-tariffari 
(criteri di valutazione in dogana del 
valore, misure sanitarie e di altro ge¬ 
nere, ecc.) che accrescono notevolmen¬ 
te il livello della protezione tariffaria 
pura e semplice fino a determinare tal¬ 
volta per alcuni settori effetti proibi¬ 
zionisti. 

Sotto questo aspetto il risultato cui 
si è giunti con la conclusione del Ken¬ 
nedy Round non sembra notevole. Tut¬ 
tavia in un settore, quello della chi¬ 
mica, il compromesso raggiunto, se por¬ 
terà effettivamente all’abolizione da 
parte del Congresso americano del- 
r« American Selling Price », potrà 
aprire maggiori possibilità di afferma¬ 
zione delle produzioni chimiche euro¬ 


pee, e quindi anche italiane, sul mer¬ 
cato statunitense. 

D.: - In qual senso gli accordi pos¬ 
sono servire ad aiutare le economie dei 
paesi sottosviluppati? A quali di que¬ 
sti gruppi di paesi viene estesa la ta¬ 
riffa ridotta? 

R.: - I risultati più sostanziali rag¬ 
giunti a Ginevra vertono più sul set¬ 
tore industriale che su quello agricolo. 
Sotto questo aspetto essi sembrano 
pertanto interessare più i paesi indu¬ 
strializzati che quelli in via di svi¬ 
luppo. 

Tuttavia le riduzioni tariffarie con¬ 
cordate riguardano svariati prodotti, 
dell’uno e dell’altro settore, che rien¬ 
trano negli scambi anche dei paesi in 
via di sviluppo, i quali per effetto del 
gioco della dausola della nazione più 
favorita, ne vengono automaticamente 
a beneficiare senza, inoltre, sottostare 
ad un preciso obbligo di reciprocità. 

Va poi aggiunto che i principali 
paesi industrializzati si sono dichiarati, 
in linea di massima, disposti ad appli¬ 
care in anticipo, cioè senza diluizione 
nei 5 anni, nei confronti dei paesi in 
via di sviluppo le riduzioni, con ciò 
stabilendo, quanto meno temporanea¬ 
mente, un trattamento preferenziale 
nei loro riguardi. 

Essi hanno inoltre assunto formale 
impegno di ricercare i mezzi più idonei 
atti ad accrescere le importazioni di 
prodotti tropicali nei loro mercati. 

Un altro accordo raggiunto a Gine¬ 
vra che si risolve in favore dei paesi 
in via di sviluppo, specie di quelli che 
versano in difficoltà di ordine alimen¬ 
tare, è poi quello relativo al program¬ 
ma internazionale di aiuti alimentari, 
che prevede la fornitura, a titolo gra¬ 
tuito, di 4,5 milioni di tonnellate an¬ 
nue di cereali da parte dei paesi indu¬ 
strializzati (di cui U.S.A. 42 per cento 
e CEE 23 per cento). 

D.: - Quali produzioni agricole ita¬ 
liane possono essere colpite e quali 
favorite? Vi è l'impressione che per i 
produttori italiani, non per i consu¬ 
matori, il probabile danno sia mag¬ 
giore del vantaggio. E' vero? 

R.: - Come già accennato, l’esito del 
negoziato di Ginevra risulta, per ovvie 
ragioni, sensibilmente inferiore nel 
campo agricolo rispetto a quello indu¬ 
striale. Si calcola che le riduzioni ta¬ 
riffarie concordate per i prodotti agri¬ 
coli non cerealicoli si aggirino in me¬ 
dia sul 17/20 per cento contro un 
33/35 per cento per i prodotti indu¬ 
striali. 


9 














tjòlìtica 


Naturalmente, anche in campo agri¬ 
colo le concessioni sono reciproche ed 
è difficile stendere un bilancio tra van¬ 
taggi e svantaggi. 

E’ da ritenersi che alcune conces¬ 
sioni fatte dalla CEE su taluni pro¬ 
dotti — in particolare su conserve di 
pollo e di altri volatili, frattaglie, le¬ 
gumi secchi, tabacco grezzo e sigaret¬ 
te — potranno favorire un più agevole 
collocamento sul mercato italiano delle 
rispettive produzioni dei paesi terzi. 
Ma è certo altresì che notevoli con¬ 
cessioni sono state ottenute da parte 
dei vari paesi (specie USA, Inghilterra, 
Svizzera, Paesi Scandinavi). Esse po¬ 
tranno avvantaggiare le possibilità con¬ 
correnziali di taluni nostri tipici pro¬ 
dotti di esportazione agricolo-alimen- 
tari: così è a dirsi per le conserve di 
pomidoro e pomidoro pelati, per il 
formaggio pecorino, salumi, vermut e 
alcuni tipi di vini, marsala e spumanti, 
agrumi e ortofrutticoli. 

Va altresì aggiunto che la politica 
agricola comunitaria esce dal negoziato 
sostanzialmente immutata nei suoi mec¬ 
canismi e sistemi di difesa. Ed è nel 
contesto di tale politica che rimane 
per l’agricoltura italiana il problema 
deirammodernamento strutturale e 
commerciale che ne consenta un più 
valido inserimento tra le agricolture 
degli altri membri della Comunità. 

D.: - Perchè i prodotti chimici han¬ 
no rappresentato l’ostacolo forse mag¬ 
giore al successo delle trattative? La 
nostra petrolchimica non verrà posta 
in condizioni difficili? 

R.: - Effettivamente il settore chimico 
è stato quello che fino all’ultimo ha 
rischiato di far fallire le trattative. 

Ciò è dipeso, com’è noto, dal- 
r« American Selling Price » (ASP), si¬ 
stema di valutazione in dogana vigente 
in USA e basato, anziché sul prezzo 
d’origine, sul prezzo, generalmente 
più elevato, del mercato americano. Il 
sistema trova la sua applicazione so¬ 
prattutto nel settore dei prodotti chi¬ 
mici, particolarmente per quelli della 
chimica organica, dei coloranti e delle 
materie plastiche, col risultato di por¬ 
tare a volte per taluni prodotti la pro¬ 
tezione USA a livelli pressoché proi¬ 
bitivi. 

Con fondamento, da parte della CEE 
l’estensione delle riduzioni tariffarie al 
settore veniva subordinata all’abolizio¬ 
ne dell’ASP. Un compromesso é stato 
alla fine raggiunto nei seguenti ter¬ 
mini: riduzione incondizionata del 50 
per cento da parte USA, con impegno 
inoltre di singoli dazi non superiori al 
20 per cento; riduzione in due tappe 

10 


da parte CEE e Regno Unito, una pri¬ 
ma del 20 per cento incondizionata e 
una seconda del 30 per cento subordi¬ 
nata alla soppressione dell’ASP da 
parte del Congresso americano. Il com¬ 
promesso non riguarda i coloranti, per 
i quali valgono invece le seguenti ridu¬ 
zioni: USA dal 48 per cento al 30 per 
cento, CEE dal 15 per cento al 10 per 
cento. Regno Unito dal 33 per cento 
al 15 per cento. 

Il risultato così raggiunto appare 
nel complesso soddisfacente per la 
CEE, la quale ha ottenuto nel settore 
delle concessioni sostanziali, sjiecie se 
r« American Selling Price », verrà ef¬ 
fettivamente soppresso, mentre quelle 
accordate non appaiono tali da pregiu¬ 
dicare le industrie chimiche europee, 
ivi compresa la petrolchimica. 

D.: - Quali previsioni si fanno per la 
esportazione di automobili americane 
in Italia e in Europa? I produttori ita¬ 
liani ed europei hanno possibilità di 
reazione e difesa? 

R.: - Nel settore automobilistico il ri¬ 
sultato conseguito a Ginevra coincide 
quasi interamente con l’obiettivo mas¬ 
simo di partenza: riduzione daziaria 
del 50 per cento da parte di tutti i 
paesi industrializzati, ad eccezione della 
Norvegia in cui essa é limitata al 30 
per cento. 

Per la CEE ciò significa che il li¬ 
vello della tariffa esterna concessa 
scenderà dal 22 per cento all’ll per 
cento, il che rappresenta un indubbio 
vantaggio per i produttori USA che 
vedranno ampliarsi le loro possibilità 
di vendita sui mercati europei. Va però 
osservato che le diverse preferenze dei 
due mercati — quello europeo e quello 
americano — in fatto di tipi e cilindrate 
di macchine, e quindi i differenti orien¬ 
tamenti produttivi, già costituiscono un 



elemento di difesa per i produttori eu¬ 
ropei, i quali poi troveranno un ulte¬ 
riore fattore nello stesso senso in un 
più intenso stimolo a quelle intese in¬ 
teraziendali che rappresentano una ten¬ 
denza caratteristica nel formarsi di pw 
ampi mercati aperti ed integrati. Ciò 
vale particolarmente per l’Italia che in 
questo, come in altri settori industriali, 
ha sufficientemente dimostrato, nel con 
so del progressivo abbassamento del 
livello di protezione conseguente alla 
instaurazione del Mercato Comune, di 
sapersi validamente difendere dalla 
concorrenza altrui. 

D’altra parte non va dimenticato 
che vantaggi concorrenziali di analoga 
proporzione si apriranno alle industrie 
automobilistiche europee, e quindi an¬ 
che italiane, nel mercato nordamericano 
il quale, specie nel campo delle piccole 
e medie cilindrate, offre sempre amp| 
margini di assorbimento suscettibili di 
sfruttamento. 

D.: - Quali altri gruppi di industrie 
trasformatrici sono stati fortemente in¬ 
teressati dai negoziati? 

R.: - Oltre all’industria chimica, i set¬ 
tori industriali che fino all’ultimo pi^ 
hanno dato luogo a divergenze sono 
stati, in particolare, quello siderurgico, 
quello metallurgico (per l’alluminio) c 
quello cartario. 

Nel settore siderurgico, era il siste¬ 
ma daziario inglese per l’acciaio —• cO" 
stituito da dazi specifici e ad valoreffl 
che il Regno Unito si rifiutava di t^' 
care — a sollevare le maggiori diW' 
coltà. Un accordo é alla fine interve¬ 
nuto nel senso di una riduzione dri 
20 per cento della tariffa inglese, sta 
specifica che ad valorem, contro una 
diminuzione dal 9 per cento al 5,7 per 
cento (cioè dal 37 per cento circa) 
del dazio CEE ed un allineamento 
sullo stesso livello di quello USA. 

Per l’alluminio, che interessa parti¬ 
colarmente i paesi nordici, la Comu¬ 
nità, pur mantenendo intatta sul 9 per 
cento la sua tariffa, ha consentito ad 
un contingente tariffario di 130.000 
tonnellate a dazio ridotto del 5 per 
cento. 

Per il settore cartario, infine, la Co¬ 
munità, per venire incontro alle richie¬ 
ste dei Paesi Scandinavi che altrimenti 
minacciavano di ritirare loro impor¬ 
tanti concessioni specie nel settore della 
meccanica, ha acconsentito a ridurre 
dal 16 per cento al 12 per cento (cioè 
del 25 per cento) la sua tariffa, impe¬ 
gnandosi inoltre ad un contingente ta¬ 
riffario di 625.000 tonnellate a dazio 
nullo. 

ANTIGONO DONATI ■ 


A 











La bouvette di Montecitorio 


^ a varie parti, ultimamente, si 
sono levate autorevoli voci (ricor¬ 
do fra le altre quelle di Leopoldo Pie- 
cardi, su Astrolabio, e di Ottomano, 
sidla Voce repubblicana) per riproporre 
l’idea — già da tempo avanzata — 
di sottrarre al dominio della maggio¬ 
ranza la decisione di effettuare le in¬ 
chieste parlamentari. Grosso modo il 
discorso che viene fatto è il seguente: 
la funzione di controllo costituisce la 
essenza del sistema parlamentare; per- 
quando la collusione fra maggio¬ 
ranza e Governo riesce ad impure 
che vengano disposte delle inchieste 
parlamentari, le quali rappresentano 
strumenti indispensabili per l’esercizio 
del controllo, il sistema stesso è tra¬ 
dito e messo a repentaglio; di qui la 
n«essità che le inchieste possano ve¬ 
nire disposte dalla minoranza nonof- 
stante la contraria volontà della mag¬ 
gioranza: « quando si tratta di deli- 
^^rare, il principio della maggioranza 
s’impone: finora non si è trovato di 
•neglio. Ma sapere, devono sapere 
tutti... ». 

Devo confessare che un siffatto ra¬ 
gionamento mi lascia alquanto per¬ 
plesso. 

La minoranza in stallo. Il controllo 
parlamentare, come tutta l’attività del 
Parlamento (salvo quella di ammini¬ 
strazione interna), ha carattere politi- 


PARLAMEinO 


L’OCCHIO 

oaiA 

I MIHORANZA 

!_____ 

co; esso comprende quindi la pronun¬ 
cia di un giudizio politico su un atto 
od un comportamento del Governo (o 
comunque a lui imputabile) e l’ado¬ 
zione di una misura, anch’essa poli¬ 
tica, nei confronti del medesimo. Nes¬ 
suno contesta che tutto ciò — ed in 
particolare la misura politica, che in 
casi estremi può essere la revoca della 
fiducia — rientri in quel « deliberare » 
in cui è inevitabile far capo al princi¬ 
pio della maggioranza. Il controllo tut¬ 
tavia implica una fase precedente a 
quella del giudizio e della misura, la 
quale consiste nell’acquisizione — ad 


esempio attraverso un’inchiesta — 
delle conoscenze, dei dati di fatto, de¬ 
gli elementi necessari al giudizio. Ed 
è appunto lì, in quella fase, che si 
vorrebbe attribuire un peso maggiore 
anzi decisivo alla minoranza. 

Senonchè, per rimanere al caso del¬ 
l’inchiesta, non va dimenticato che è 
la stessa Costituzione ad esigere, al¬ 
l’articolo 82, che l’apposita Commis¬ 
sione sia composta in proporzione dei 
vari gruppi parlamentari. E siccome 
l’aver deliberato un’inchiesta non si¬ 
gnifica ovviamente averla realizzata, 
ma soltanto avere istituito un organo 
con certi compiti e certi poteri di in¬ 
dagine, ne consegue che l’andamento 
deU’inchiesta stessa, e quindi i suoi 
effetti concreti, restano affidati all’or¬ 
gano che la condurrà: e cioè alle di¬ 
rettrici dell’indagine, ai poteri di fatto 
esercitati, alla volontà — in una pa¬ 
rola — di « andare in fondo ». E que¬ 
sta resta sempre quella della maggio¬ 
ranza. 

Finora, le Commissioni d’inchiesta 
che hanno agito in periodo repubbli¬ 
cano sono sempre state approvate — 
sia pure sotto la spinta dell’opposi¬ 
zione — da parte della maggioranza. 
Ciò malgrado, non direi che le oppo¬ 
sizioni siano state particolarmente sod¬ 
disfatte dallo svolgimento dei loro la¬ 
vori: cosa potrebbe dunque attendersi 


L’astrolabio - 4 giugno 1967 


11 


















Opinioni 


l’opposizione da un’inchiesta parlamen¬ 
tare imposta alla maggioranza, ma da 
questa in fin dei conti diretta? 

Ho l’impressione che l’attribuire alla 
minoranza da sola il potere di delibe¬ 
rare inchieste, mentre non le arreche¬ 
rebbe che un illusorio vantaggio, po¬ 
trebbe invece produrre gravi inconve¬ 
nienti — come la paralisi, o il disor¬ 
dine, o il discredito generico sull’atti¬ 
vità dello Stato — qualora il Governo 
fosse tenuto continuamente, anche se 
platonicamente, sotto accusa. Vero è 
che si suggeriscono al riguardo diversi 
correttivi: o prevedere che p>er delibe¬ 
rare un’inchiesta occorra un quorum 
così elevato da esigere una coalizione 
di minoranze, oppure stabilire la pos¬ 
sibilità di chiamare ad arbitra dell’even¬ 
tuale dissidio fra maggioranza e mino¬ 
ranza la Corte Costituzionale, ovvero 
ancora riservare alle minoranze un nu¬ 
mero limitato di inchieste da svolgere 
— ma con poteri reali — durante la 
legislatura. Tuttavia il primo, se non 
sbaglio, è solo un apparente rimedio 
al temuto comportamento di minoranze 
faziose che intendessero abusare del 
potere loro riconosciuto: dal solo fatto 
di dover diventare bicolore o multico¬ 
lore l’abuso non sarebbe nè impedito 
nè gran che ostacolato. Il secondo ri¬ 
medio, poi, oserei dire che «embra 
peggiore del male, perchè dannegge- 
rebbe la Corte invischiandola chissà 
quanto frequentemente in controversie 
politiche col risultato di farla scendere 
troppo nel vivo di esse, e dannegge- 
rebbe il Parlamento il quale alla lunga 
finirebbe col sembrare (od essere) un 
minore sotto tutela. Il terzo, infine, 
con tutto il suo seducente empirismo, 
in effetti rappresenterebbe ben più di 
un rimedio: sarebbe la soluzione, la 
meta da raggiungere; ma per arrivarvi, 
da noi, se non occorrerà un’evoluzione 
tanto lunga quanto quella attraverso 
cui è passato il Parlamento dal quale 
tale soluzione viene mutuata (quello 
inglese), direi che comunque bisogna 
che intervenga ancora una certa matu¬ 
razione. 

La funzione del governo. Non è qui 

il caso di discutere se sarebbe o meno 
ammissibile, tenuto conto di una di¬ 
rettiva costituzionale del genere, che 
la maggioranza attraverso una norma 
regolamentare o la prassi, si autoli- 
mitasse in modo da rimettere sostan¬ 
zialmente all’opposizione la conduzione 
dell’inchiesta: certo è che allo stato 
attuale dei rapporti fra le forze poli¬ 
tiche ciò appare abbastanza inverosi¬ 
mile. E lo si può comprendere: addur¬ 
re il carattere « neutro » o « strumen¬ 
tale » od « oggettivo » dell’acquisizio¬ 


ne a fini di controllo per sollecitare 
e giustificare una deroga al principio 
della maggioranza, è più suggestivo che 
convincente. La verità è che fare o 
non fare un’inchiesta e successivamente 
scegliere tra i vari modi possibili di 
condurla a termine riveste il più delle 
volte un preciso e non dissimulabile 
carattere politico; di fronte al quale 
è ben difficile che la maggioranza ri¬ 
nunci a poter esercitare tutti i propri 
diritti, e che il Governo rifugga dal 
porre la questione di fiducia quando 
veda posti in pericolo determinati in¬ 
teressi reputati — sia pure a torto, 
come talora è accaduto — preminenti. 

D’altra parte l’inchiesta parlamentare 
in quanto comporta che il Parlamento 
eserciti poteri spettanti all’autorità giu¬ 
diziaria, costituisce di per sè, indipen¬ 
dentemente dal suo oggetto, un evento 
dinanzi alla cui rilevanza il Governo 
non può restare indifferente, ma deve 
assumere una posizione responsabile; 
e così facendo, anziché interferire in 
una sfera che non gli appartiene, adem¬ 
pie ad un dovere: anche se il suo atteg¬ 
giamento costituirà, al momento di vo¬ 
tare nella proposta d’inchiesta, una 
pressione sulla maggioranza. 

Si parla a questo proposito di « col¬ 
lusione » fra maggioranza e Governo, 
nell’intento di sottrarre quest’ultimo 
al controllo parlamentare. Direi che è 
questione di misura. Certo, la solida¬ 
rietà che deve sussistere fra maggio¬ 
ranza e Governo, esasperata fino al¬ 
l’eccesso, traligna in collusione e co¬ 
stituisce un notevole pericolo, anche 
se minore rispetto a quello che ver¬ 
rebbe da un’esagerazione opposta (tipo 
quarta Repubblica francese). Ma il ri¬ 
medio di fondo a questo male non si 
trova in Parlamento, e sopratutto non 
sta nel piegare in modo innaturale il 
funzionamento delle Camere basato sul¬ 
la decisione della maggioranza. Il ri¬ 
medio (o il contrappeso) risiede in una 
altra istituzione del sistema, in quella 
che anzi va conside/ata come primaria 
c preminente, ossia nel corpo eletto¬ 
rale. 

Non mi nascondo quanto può appa¬ 
rire ingenuo puntare sul nostro corpo 
elettorale, nè lunghezza di una simile 
strada; ma dubito assai che vi siano 
delle vere scorciatoie e non, piuttosto, 
delle alternative dall’incerto traguardo. 

Peraltro il Parlamento potrebbe con¬ 
tribuire validamente ad accelerare il 
cammino sulla strada anzidetta qualora 
si dedicasse di più ed organicamente 
alla funzione di controllo, anche per¬ 
chè ciò a poco a poco concorrerebbe 
a provocare quella sensibilizzazione 
dell’opinione pubblica nella quale ri¬ 
siede in ultima analisi la conditio sine 


qua non dell’efficienza del controllo po¬ 
litico. Oggi alle Camere, oberate come 
sono dal lavoro legislativo, manca an¬ 
zitutto il tempo da destinare al con¬ 
trollo ed in secondo luogo mancano 
le procedure. Cosicché solo sporadica¬ 
mente e senza un disegno organico in 
Parlamento hanno luogo discmssioni di 
controllo su pochi argomenti, che sono 
poi quelli sui quali il dissenso è più 
profondo fra le forze politiche; discus¬ 
sioni che, in quanto appaiono o sono 
impostate e condotte aprioristicamente, 
hanno sull’opinione pubblica una presa 
inversamente proporzionale al clamore 
che suscitano fra i politici. Occorrereb¬ 
be viceversa dilatare le cxrcasioni del 
controllo parlamentare, ed allora, in 
un più vasto ambito, probabilmente 
si verificherebbero (l’esperienza dell’at¬ 
tività legislativa insegna) non rare con¬ 
vergenze fra maggioranza ed opposi¬ 
zione, suscettibili di avere effetti posi¬ 
tivi non solo nei casi in cui la conver¬ 
genza si realizzasse — ma anche — 
quanto meno ai fini della « ricezione » 
da parte della opinione pubblica — 
nei casi in cui la convergenza stessa 
non avesse luogo. E tale dilatazione 
è tutt’altro che impossibile. 

La funzione di controllo del Parla¬ 
mento infatti non si esaurisce nelle 
mozioni e nelle inchieste: c’è una 
quantità di materiale che già oggi (® 
domani potrebbe essere ancora aumen¬ 
tato) perviene alle Camere ad illustra¬ 
zione e spiegazione dell’attività svolta 
dai pubblici poteri nei più disparati 
settori e che in teoria rappresenta I 2 
base per sistematici dibattiti di con¬ 
trollo, ma che in pratica a tal fine 
non viene utilizzato. Se per tutto que¬ 
sto materiale venisse istituzionalizzata 
una procedura d’esame, che si conclu¬ 
desse in Assemblea dopo esser passata 
in Commissione, comprendendo anche 
la p>ossibilità in quest’ultima fase di 
approfondimenti ottenuti non attraver¬ 
so inchieste ma attraverso semplici 
udienze, nelle quali fossero invitati 
esperti, funzionari, rappresentanti di 
Enti e associazioni ecc.; se tutto ciò 
venisse realizzato. Parlamento e Go¬ 
verno comincerebbe a fare l’abitudine 
al controllo il che, sdrammatizzandolo, 
contribuirebbe a rendere operante la 
funzione. E forse, attraverso un’oppor¬ 
tuna pubblicità dei lavori parlamentari, 
anche i cittadini finirebbero con l’acqui¬ 
stare qualche interesse a concreti pro¬ 
blemi dibattuti continuativamente e 
quindi con possibilità di riscontri e dif¬ 
ficoltà di evasioni verbali. 

La nazionalizzazione parlamentare. 

Certo questa procedura istituzionale 
per il controllo, che tra l’altro, var- 


12 








rebbe a superare le ragioni per le quali 
si è proposto di attribuire efficacia de¬ 
cisoria alle iniziative della minoranza, 
non garantirebbe in tutti i casi una 
a^uisizione completa ed approfondita, 
giacché un’opposta volontà della mag- 
poranza sarebbe comunque insupera¬ 
bile. Per la maggioranza, tuttavia, sa¬ 
rebbe a lungo andare pericolosa una 
sistematicità di dinieghi; mentre d’al¬ 
tronde il ricorso ad esperti scelti di 
comune accordo fra le parti politiche, 
oltreché il sussidio degli ausiliari isti¬ 
tuzionali del Parlamento (come la Corte 
dei Conti), potrebbe servire a smus¬ 
sare parecchi angoli, a far tacere reci¬ 
proci timori. In questo quadro, infine, 
c lecito supporre che non pochi degli 
argomenti su cui maggioranza e mino¬ 
ranza finiscono oggi con lo scontrarsi 
frontalmente sul terreno di mozioni o 
di proposte d’inchiesta potrebbero es¬ 
sere affrontati prima di divenire troppo 
scottanti e di rendere inevitabile così 
lo scontro frontale. 

Si tratterebbe in altri termini di 
assoggettare il Governo ad un controllo 
costante, senza trascinarlo ad ogni pas¬ 
so sul banco degli imputati. Ma per 
arrivare a tanto occorrerebbe che le 
Camere riuscissero a procurarsi un am¬ 
pio margine di tempo, perchè l’assi¬ 
duo controllo parlamentare qui ipotiz¬ 
zato richiederebbe un impegno non 
niolto minore rispetto a quello neces¬ 
sario per fronteggiare il fabbisogno le¬ 
gislativo, in uno Stato interventista 
come il nostro. Secondo me, il Parla¬ 
mento sarebbe bensì in grado di tro¬ 
vare il tempo per l’esercizio della fun¬ 
zione di controllo, ma solo a patto di 
■razionalizzare la propria attività e di 
mettere a partito la propria articola¬ 
zione bicamerale: vale quanto dire, a 
condizione di procedere in via di prassi 
ad una specializzazione funzionale dei 
lavori parlamentari, nel senso di fare 
® una Camera la sede prevalente del¬ 
l’attività legislativa e dell’altra la sede 
prevalente del controllo, salvo restando 
f ciascuna l’esercizio della funzione di 
indirizzo politico. Ad una specializza¬ 
zione, cioè, della quale da noi potrebbe 
forse considerarsi un sintomo l’esame 
intrapreso in Senato delle relazioni 
della Corte dei Conti sugli Enti sov 
venzionati, e verso la quale d’altronde 
si sta orientando qualche Parlamento 
straniero come quello belga. 

E’ con mezzi di questo genere, piut¬ 
tosto che mediante lesioni del princi¬ 
pio di maggioranza, che potrebbe a 
mio parere avviarsi un miglioramento 
del controllo parlamentare e così pre¬ 
pararsi il terreno verso forme « bri¬ 
tanniche » di convenienza politica. 

G. M. 



Nella collana 


Nuova biblioteca di cultura 


Louis Althusser 

PER MARX 

Nota introduttiva di Cesare Luporini 
pp. 244 L. 1.500 

Uno dei libri più discussi dell’attuale ricerca filosofica 
marxista. Una analisi del pensiero di Marx dagli scritti 
giovanili alle opere della maturità. 

Michal Kaleckì 

TEORIA DELLO SVILUPPO DI 
UNA ECONOMIA SOCIALISTA 

A cura di Domenico Mario Nuti 
pp. 160 L. 1.800 

I problemi teorici delia pianificazione affrontati da uno 
dei più grandi economisti europei alla luce delle più 
avanzate ricerche della scienza economica. 

Antonio Banfi 

PRINCIPI DI UNA 
TEORIA DELLA RAGIONE 

pp. 484 L. 3.200 

II problema della struttura teoretica e razionale della 
filosofia in un’opera fondamentale del pensiero ban- 
fiano, da tempo divenuta introvabile. 



L’astrolabio - 4 giugno ise? 


13 





















interftairionaie 


Se si crede neli’inamovibiiità delio Stato ebraico, solo Israele 
può "vincere” nella controversia del Medio Oriente, ribadendo 
il proprio diritto di esistere e dissuadendo gli arabi dal minac¬ 
ciarla con il terrorismo e gli altri mezzi in loro possesso. Sa¬ 
rebbe però una sventura se gli israeliani continuassero a fidare 
nella superiorità militare per congelare una situazione innatu¬ 
rale, evitando di impostare il problema della convivenza 
con gli arabi nei suoi reali termini politici. 



Cairo: il saggio ginnico 


S i parla del Vietnam e dello show- 
down missilistico di Cuba, si evoca 
con monotona approssima 2 Ìone !’« om¬ 
bra » di Monaco, ma gli unici prece¬ 
denti con cui sia possibile stabilire un 
parallelo non immaginario sono la 
guerra del 1948-49 in Palestina e la 
campagna del Sinai del 1956. Come 
allora, anche nella nuova crisi che si 
è andata sviluppando nel Medio Orien¬ 
te, sono di fronte arabi e israeliani: 
a parole, per decidere con le armi 
l’esistenza o meno dello Stato ebraico; 
Q di fatto, per obiettivi diversi, non 
^ imp>orta se più limitati o più generali, 
JJ se circoscritti alla regione medio- 
^ orientale o di portata mondiale. Sono 
^ cambiate, però, a parte il clima mon- 
Q diale, che non si concilia con una « tu- 

14 


tela » congiunta russo-americana, resa 
inverosimile o equivoca dalla guerra 
in corso nel Vietnam e dall’isolamento 
della Cina, le alleanze internazionali. 
E sono proprio gli schieramenti delle 
grandi potenze a rivelare quale sia — 
al di là dei motivi più immediati del 
contrasto arabo-isradiano — la « po¬ 
sta » del conflitto che ha avuto negli 
ultimi vent’anni il Medio Oriente co¬ 
me teatro. 

Come si spiegano in effetti gli spo¬ 
stamenti registratisi aU’intemo del 
blocco atlantico se non con lo sforzo 
costante dell’Occidente di preservare il 
castello della propria influenza nel 
Medio Oriente, giudicato da sempre 
un’area « riservata », per gli ingenti 
interessi che vi fanno capo? Nel 1948, 


quando la nascita dello Stato d’Israele, 
prodotto sia pure contaminato del pio¬ 
nierismo sionista e della resistenza anti¬ 
coloniale, parve minacciare l’equilibrio 
instabile retto sulle corrotte monarchie 
arabe e sulle compagnie petrolifere, 
la Gran Bretagna non esitò ad armare 
ed a sostenere discretamente i paesi 
della Lega araba. Nel 1956, l’avventura 
militare di Francia e Gran Bretagna 
a fianco di Israele per « ridimensiona¬ 
re * Nasser, con un occhio al Canale 
di Suez e il cuore all’Algeria o al pe- 








Abba Eban 

medio oriente 




trolio, rischiò di travolgere nella 
disfatta le superstiti posizioni d’influen¬ 
za del mondo occidentale e gli Stati 
Uniti furono pronti a dissociarsi, tro¬ 
vando una facile convergenza con 
l’URSS al servizio del contenimento. 
Le stesse considerazioni non sono più 
yalide nel 1967: gli Stati Uniti sono 
incondizionatamente dalla parte di 


Nasser e U Thant 


Israele (con cui 1 solidale anche la Gran 
Bretagna, mentre la Francia cerca di 
preservare un’impossibile « neutrali¬ 
tà ») e l’Unione Sovietica, come nel 
1956 alleata degli arabi, difende que¬ 
sta volta la loro causa m aperta op¬ 
posizione agli Stati Uniti. 

Da Karlovy Vary ad Aqaba. Il carat¬ 
tere di « confronto » fra URSS e Stati 
Uniti assunto dalla crisi ha suggerito 
il sospetto di una macchinazione fra 
Il Cairo e Mosca per mettere in diffi¬ 
coltà il governo americano in un mo¬ 
mento delicato, per il contemporaneo 
aggravamento della guerra nel Viet¬ 
nam, con il sottinteso di strappare agli 
Stati Uniti, in una specie di « pacchet¬ 
to », delle concessioni nel sud-est 
asiatico in cambio di un ttppcosctnent 
nel Medio Oriente. L’ipotesi potrebbe 
trovare un principio di prova nelle con¬ 
clusioni della conferenza di Karlovy 
Vary, in cui, non senza sorpresa, si 
mise drasticamente l’accento sul di¬ 
sturbo recato alla distensione dalle 
manovre della VI flotta. La VI flotta, 
o meglio la rimozione della VI flotta 
dai porti del Mediterraneo, è però la 
sola richiesta concreta che l’URSS può 
avanzare in quest’area nei confronti 
degli Stati Uniti, che, dal canto loro, 
potrebbero ricavare dalla crisi più 
vantaggi che svantaggi: a cominciare 
dalla distrazione dell’opinione pubblica 
mondiale dal 17® parallelo. Per non 
dire della possibile tentazione di espe- 
rimentare l’efficacia della forza anche 
in questo scacchiere. La « presenza » 
americana, e più generalmente occi¬ 
dentale, nel Medio Oriente, infatti, è 
legata allo statu quo, territoriale e 
ideologico, ma richiede forse — nella 




Gli israeliani nel Neghev 


situazione creatasi nello Yemen, nella 
penisola arabica e nella stessa Siria — 
un riassestamento che contrasti con 
più vigore il naturale rafforzamento, 
malgrado gli sforzi di Feisal, dell’alter¬ 
nativa radicale. 

Il discorso ripropone la questione 
dell’influenza occidentale in tutta la 
regione, complicando le valutazioni 
sulla politica della RAU e di Israele, 
sui loro obiettivi ultimi se non sulle 
rispettive responsabilità, che la stampa 
italiana ha creduto di liquidare river¬ 
sando sul presidente egiziano tutte le 
colpe, con una leggerezza che è proba¬ 
bilmente la sintesi di un inconscio 
razzismo anti-arabo e della cattiva 
coscienza di un anti-semitismo mal di¬ 
menticato, ma anche della consapevo¬ 
lezza degli interessi che la prova di 
forza può coinvolgere. 

Lo « scudo » americano. Le guerre 
del 1948 c del 1956 sono stati due 
episodi della lotta per riaffermare, in 
forma diversa, la presa dell’egemonia 
pccidentale nel Medio Oriente. Vittime 
dell’assurda teoria del « non ricono¬ 
scimento », i governi arabi di oggi, 
soprattutto quelli progressisti- che de¬ 
vono il loro potere al fallimento ma¬ 
teriale e morale dei governi che scate¬ 
narono nel 1948 la guerra contro 
Israele, hanno il torto di non aver ca¬ 
pito la lezione. D’altra parte, le recenti 
testimonianze dell’ex^ottosegretario al 
Foreign Office Anthony Nutting e 
dello storico Hugh Thomas sulla lunga 
e accurata preparazione dell’aggressio¬ 
ne contro l’Egitto nel 1956 fra gli 
anglo-francesi e il governo israeliano 
dimostrano a sufficienza quale sia o 
sia stata la spr^udicata correlazione 
fra l’aspirazione di Israele ad avere 
un’esistenza più sicura, che dovrebbe 


15 
















Agenda internazionale 


essere fuori discussione, e rmsofferen 2 a 
dei governi occidentali per l’aspirazio¬ 
ne di Nasser a riempire con il nazio¬ 
nalismo arabo il presunto « vuoto di 
potere » nella regione: insofferenza 
che nel 1956 era comune anche agli 
Stati Uniti, nonostante la loro azione 
diplomatica contro la guerra tripartita, 
se è vero che Eisenhower si affrettò 
ad enunciare dopo la fine delle ostilità 
quella « dottrina » che si riprometteva 
appunto di dare al vacuum lasciato 
dal colonialismo europeo im assetto 
più rispondente air« ordine » imper¬ 
sonato dagli interessi occidentali. 

Il trionfo diplomatico del Cairo, do¬ 
po la sconfitta militare nel deserto del 
Sinai, doveva rappresentare il tramon¬ 
to definitivo della « p>olitica delle can¬ 
noniere », ma non tutti evidentemente 
si erano rassegnati. Nè in Occidente, 
nè in Israele, coloro che osservano 
con compiacimento che le portaerei 
della VI flotta americana dovrebbero 
bastare ad intimidire gli arabi, anche 
se il più moderato dei governi arabi 
(quello di Beirut) non ha potuto evitare 
nei giorni scorsi di chiedere ai coman¬ 
danti americani di tenere lontane le 
loro navi dai porti libanesi, non com¬ 
prendono che è precisamente quella 
« forza », retaggio di un sistema d’op¬ 
pressione, a fornire a Nasser le sue ra¬ 
gioni più legittime, fossero pure le 
sole. Tanto più quando Israele dà l’im¬ 
pressione di vantare lo « scudo » che 
quella forza gli garantisce o addirit¬ 
tura di invocarla come « spada » per 
sbloccare il golfo di Aqaba, con le 
implicazioni che finirebbe per avere 
sul futuro delle relazioni arabo-israe¬ 
liane, dopo il trauma del 1956, uno 
sbarco dei marines a Sharm-el-Sheikh. 

Per tutto il decennio seguito all’of¬ 
fensiva nel Sinai, la politica di Israele 
ha basato le sue mosse sull’umiliazione 
militare patita da Nasser. sulla sostan¬ 
ziale prudenza della sua politica, sul 
bluff del suo panarabismo e della sua 
dedizione alla causa palestinese. E’ in 
questa ottica distorta che si colloca la 
poco realistica ostinazione con cui Israe¬ 
le ha cercato di ignorare, esasperando 
la già scarsa collaborazione dei governi 
arabi, il drammatico problema dei pro¬ 
fughi arabo-palestinesi, che nessun 
governo arabo può ragionevolmente 
trascurare, a pena di mettere immedia¬ 
tamente in pericolo la sua sopravviven¬ 
za, come provano le periodiche scosse 
del regime giordano in concomitanza 
con lo scadimento del militantismo di 
re Hussein. E’ un problema per il qua¬ 
le non sono possibili soluzioni di 
astratta e semplicistica giustizia, essen¬ 
do impensabile il ritorno dei profughi 
nelle loro terre dof>o la distruzione del-. 


10 Stato di Israele ed essendo del pari 
assurdo proporre il riassorbimento di 
una minoranza cosi cospicua (più di im 
milione di uomini) e così radicalmente 
ostile in una nazione così piccola. 

Per questo però le soluzioni di com¬ 
promesso vanno ricercate attraverso 
uno sforzo reciproco, che tuttavia né 
Israele né gli stati arabi sembrano di¬ 
sposti a tentare. In questa situazione 
esplosiva tutti gli eccessi di reazione 
difensiva compiuti da Israele finiscono 
per assumere agli occhi degli arabi 

l’aspetto di una volontà d’aggressione. 
E’ il caso dei due raids di rappresaglia 
dell’esercito israeliano in Giordania (13 
novembre 1966) e in Siria (7 aprile 
1967), delle improvvide dichiarazioni 
contro la Siria, coronate dalle manifesta¬ 
zioni che accompagnarono il 14 maggio 
scorso le celebrazioni dell’anniversario 
dell’indipendenza, svoltesi a Gerusa¬ 
lemme con una ostentazione che non 
poteva non apparire agli arabi come 
una « provocazione ». Si capisce come 
in questo clima abbia potuto prender 
corpo il fantasma di un piano israelia¬ 
no di aggressione della Siria, che era 

11 « nemico » più aggressivo e che, fos¬ 
se o no una coincidenza, era diventato 



Aref 


anche il caposaldo più vistoso della pe¬ 
netrazione sovietica nel Medio Oriente, 
e screditando la RAU. 

Il fantapiano di Nasser. La convin¬ 
zione espressa da Nasser che lo Stato 
d’Israele avesse già predisposto un pia¬ 
no per colpire con un attacco massiccio 
la Siria il 17 maggio è stata smentita, 
fra l’altro dal rapporto presentato al- 


I 



l’ONU da U Thant, ma l’atmosfera che 
si era diffusa sui confini fra la Siria ed 
Israele, prima per gli atti di sabotaggio 
delle organizzazioni arabe e poi per i 
«moniti » emessi da Israele, faceva ef¬ 
fettivamente temere il peggio: come 
annotò !’« Economist », « il rumore 
proveniente da Israele è meno bellicoso 
di quello che proviene da un mondo 
arabo mobilitato, ma, in modo più 
tranquillo, è più minaccioso ». Sarebbe 
superficiale individuare nel governo 
della Siria il solo « capo espiatorio »> 
con la pretesa di esaurire così l’intri¬ 
cata situazione: politicamente, perchè 
la Siria non può sconfessare i propositi 
di massima dei commandos di « Al- 
Fatah » e delle altre organizzazioni dei 
profughi; praticamente perchè è sempre 
più diffìcile per la Siria e la Giordania, 
se non per l’Egitto, tenere sotto con¬ 
trollo la massa degli arabo-palestinesi 
e l’inquietudine dei loro raf^resentanti 
ora che l’attesa per il « ritorno » si è 
trasformata in una frustrazione senza 
speranza e che la politicizzazione delle 
giovani generazioni a contatto con il 
travaglio della nazione araba offre mo¬ 
tivi più diretti ai piani di « liberazio¬ 
ne » interpretati dall’OLP di Ahmed 
Shukeiry. 

L’intervento dell’Egitto nella « sfi¬ 
da » fra Israele e Siria aveva verosimil- 
ntente in origine una duplice finalità: 
ricordare ai dirigenti israeliani le in¬ 
combenze oltre che gli oneri del suo 
ruolo di primus inter pares nella fami¬ 
glia dei paesi arabi e adeguare la poli¬ 
tica degli uomini del Baath al potere 
a Damasco alla sua strategia a lungo 
termine, che pospone lo scontro con 
Israele alla vittoria finale del naziona¬ 
lismo contro Timperialismo diretto 
(nella penisola arabica) e indiretto (per 


16 








Agenda internazionale 



il tramite degli ultimi esponenti della 
classe dirigente tradizionale formatasi 
3 I tempo dei mandati). Nato come ri- 
•nedio a due estremismi, esso ha però 
finito per allineare la RAU al « passo » 
della Siria portandola in prima fila. Ad 
Una simile riaffermazione della leader- 
^hip egiziana spingeva anche la propa¬ 
ganda anti-nasseriana impiegata dai go¬ 
verni arabi rivali: ad ogni ritorsione di 
Israele contro un suo vicino, Tunisia, 
Giordania e Arabia Saudita si chiedono 
« dove siano gli egiziani *, mentre, co¬ 
nte informa Eric Rouleau, nello Yemen 
1 « realisti » arrivano a rimproverare a 
Nasser di collusione con il sionismo, al 
riparo dei « caschi bleu », per poter 
tneglio organizzare le sue spedizioni 
* espansionistiche ». 


Nasser vince il primo round. Offren¬ 
do la sua protezione alla Siria, il gover¬ 
no del Cairo non ha solamente distolto 
Israele — se, come peraltro non sem¬ 


bra probabile, tm piano esisteva — 
dall’attaccare la Siria, ma ha riportato 
improvvisamente al vertice il suo pre¬ 
stigio in tutto il mondo arabo, mobili¬ 
tando in suo favore anche i governi 
più tiepidi. Qualche riserva era possi¬ 
bile per la Giordania, ma il regime di 
Hussein potrebbe essere un obiettivo 
« minore » dell’azione siro-egiziana. 
Per tacitare ogni ulteriore insinuazione, 
Nasser chiese allora l’evacuazione del¬ 
le truppe dell’UNEF, di stanza nel 
Sinai dd 1956: la richiesta è avvenuta 
in circostanze singolari, che avallano 
l’ipotesi di una successione estranea al¬ 
le intenzioni dello stesso presidente 
egiziano. Anche la pronta accettazione 
di U Thant, che ha rinunciato ad una 
maggiore ponderazione, ha meravigliato 
e ha fatto pensare ad un mezzo di pres¬ 
sione. E’ probabile in realtà che U 
Thant, deluso della perdita di ascen¬ 
dente dell’ONU, tormentato dalle que¬ 
stioni finanziarie, seriamente preoccu¬ 
pato ò. 3 \Vescalation in Asia, abbia ap¬ 
profittato della richiesta di Nasser, pe¬ 
raltro ineccepibile sul piano dei principi, 
per far giungere un avvertimento alle 
grandi potenze, ed in particolare agli 
Stati Uniti, richiamandole alle loro 
responsabilità davanti all’ONU e alla 
pace del mondo. 

Sull’orlo della guerra. Imponendo il 
ritiro dell’UNEF, la RAU, che aveva 
già vinto, si trovò nell’incomoda con¬ 
dizione di stravincere, perchè ritornava 
a presidiare con le sue truppe il golfo 
di Aqaba, senza poter più giustificare 
il transito delle navi israeliane con la 
presenza dei « caschi bleu »: quella che 
era stata forse un’esigenza di chiarezza, 
con un’implicita dichiarazione di sfidu¬ 
cia nelle capacità delle Nazioni Unite 
di risolvere l’imbroglio medio-orientale, 
si era tradotta in una miccia per l’intera 
regione, dato che Israele aveva sempre 



definito un casus belli il blocco del 
porto di Eilath, attraverso cui passano 
i suoi rifornimenti di petrolio. Lascian¬ 
do p>er di più ad Israele lo svantaggio 
di dover prendere l’iniziativa di un 
atto di guerra in senso proprio. In que¬ 
ste condizioni, le argomentazioni giuri¬ 
diche sul buon diritto dell’Egitto a con¬ 
trollare la navigazione di unità appar¬ 
tenenti ad una potenza con cui è teori¬ 
camente in stato, di guerra in un braccio 
di mare che è certamente parte delle 
sue acque territoriali, così come le 
discussioni sul valore della dichiarazio¬ 
ne del 1957 circa la libertà del transito 
negli stretti di Tiran (mai riconosciuta 
dal Cairo e da Mosca), cedevano di 
fronte alla prosf>ettiva di una confla¬ 
grazione, che potrebbe avere conse¬ 
guenze irreparabiU. L’imperativo di 
salvare la pace divenne pregiudiziale e 
si mosse la diplomazia internazionale. 

L’intervento delle grandi potenze e 
delle Nazioni Unite, la missione di U 
Thant al Cairo, il tentativo della Fran¬ 
cia di far uscire la vertenza dalla con¬ 
sueta contrapposizione russo-americana, 
non hanno contribuito in misura deci¬ 
siva a sciogliere la tensione, che è del 
resto il frutto di un cumulo di riven¬ 
dicazioni e di contrasti che risale molto 
indietro nel tempo. L’intransigente ri¬ 
conferma da parte egiziana di tutti gli 
obiettivi massimalistici della politica 
anti-israeliana non ha certo agevolato 
una schiarita. Nonostante la meritoria 
pazienza di Israele, contrario comunque 
ad accettare il « fatto compiuto » del 
blocco del golfo di Aqaba, la cui aper¬ 
tura era stata il solo successo della 
campagna del 1956, la guerra, a meno 
di un ritorno di tutti alla ragione, fini¬ 
va quasi per apparire come « fatale », 
eventualmente limitata dalla disponibi¬ 
lità delle parti a regolare — dopo un 
primo scambio e il cessate-il-fuoco im¬ 
posto dall’ONU — le proprie contro¬ 
versie dalle nuove basi. Se si crede nel¬ 
l’inamovibilità dello Stato ebraico, è 
in fondo solo Israele che può « vince¬ 
re » la guerra, ribadendo la propria 
esistenza e dissuadendo per altri cinque 
o dieci anni gli arabi dal minacciarla 
con il terrorismo e gli altri mezzi in 
loro possesso, ma sarebbe una sventu¬ 
ra se Israele continuasse a fidare nella 
superiorità militare per congelare una 
situazione innaturale, evitando di im¬ 
postare il problema della sua convi¬ 
venza con gli arabi nei suoi termini 
politici, che sono i soli che possano 
offrire uno sbocco duraturo e confor¬ 
me all’autonomia del Medio Oriente. 

GIAMPAOLO CALCHI NOVATI | 















Alessandria: la sfilata dei pionieri 


L a polemica è aperta: i sovietici 
hanno sospinto la Siria e la RAU 
a provocare Israele, o ne sono stati 
essi stessi sorpresi? Il risvolto di poli¬ 
tica interna che la polemica ha assunto 
in Italia e in Francia, dopo l’allinea¬ 
mento dei partiti comunisti in coda 
all’accusa antisraeliana, ha notevolmen¬ 
te intorbidato la visione dei dati ob¬ 
biettivi della situazione. Nondimeno, a 
noi sembra che stiano in piedi nello 
stesso tempo ambedue le diagnosi, ine¬ 
stricabilmente intrecciate fra loro. E’ 
dal 1956 che l’URSS ha inserito la sua 
presenza nel Medio Oriente; che vi ha 
sostituito gli Stati Uniti nella più one¬ 
rosa impresa di assistenza tecnica, quel¬ 
la della diga di Assuan; che favorisce 
i governi siriani di sinistra, e la loro 
congiunzione con la RAU e possibil¬ 
mente con rirak; che riversa arma¬ 
menti (per una somma che si calcola 
fra i 1200 e i 1500 miliardi di lire) 
su tutti gli stati della zona, ma ancora, 
in modo speciale, su RAU e Siria. 
Nello stesso tempo, l’URSS ha da sem¬ 
pre definito Israele come il punto di 
fPPoggio dell’imperialismo americano 
in Medio Oriente. Non ha dunque ini¬ 
ziato da oggi un contrasto, di cui non 
nasconde di voler essere lei stessa pro¬ 
tagonista. Vale piuttosto la pena di 
domandarsi se l’URSS non abbia giu¬ 


stificazioni precise per un’azione del 
genere. 

La logica dell’URSS. Gliene troviamo 
due, come accade per lo più quando 
si analizzano le mosse di politica estera 
sovietica. La prima è che l’URSS non 
può sottrarsi dal sostenere i paesi in 
sviluppo. La RAU, che pure ha una 
fama raramente eguagliata di persecu- 
trice di comunisti, vive su importazioni 
dairURSS di beni di consumo per circa 
700 milioni di dollari annui di viveri. 
Un’assistenza minore, ma non meno 
deliberata, va alla Siria e all’Irak, an¬ 
che se accompagnata da mosse contra¬ 
stanti (come la difesa che l’URSS, ha 
sempre sostenuto, e lodevolmente, dei 
curdi). 

Ma secondo noi conta in modo più 
immediato il secondo motivo. Piaccia 
o non piaccia, pur procedendo nella 
distensione, l’URSS non ha cessato di 
dover spiegare uno sforzo di rottura 
nei confronti del cordone sanitario 
americano. E’ uno sforzo lento, che ha 
trovato negli ultimi anni un primo suc¬ 
cesso nella riconciliazione economica, in 
Asia orientale, col Giappone, e, sul 
continente, col Pakistan, l’Iran, e più 
in qua con la Turchia. Ma mentre a 
nord l’attenzione americana nell’Artico 
non è sventata, e, mentre d’altra parte 



La crisi del Medio Oriente ò il termine ^ 
punta di un processo di raffreddamento 
della distensione, che ha solo la sua 
più clamorosa nel Vietnam. Ma è anch* 
la dimostrazione del fatto che la politica o* 
coesistenza non regge se non procede ^ 
due linee Insieme opposte e convergenn! 
la politica di pace e accordi Intemazionali 
da un lato, la politica di antitesi di slstei^ 
in un progressivo confronto di libertà ofi" 
mocratiche e sociali dall'dtro. Mentre à 
questa logica il crescente aiuto che l’UR^ 
conferisce ad Hanoi, la mossa nel Medin 
Oriente contraddice alla prima e non ^ 
va alia seconda delle due componenti dell* 
coesistenza. 


18 













Agenda internazionale 


tutta l’altra frontiera ostile è premuta 
dalla Cina, è abbastanza comprensibile 
che l’URSS cerchi una porta aperta a 
Sud, verso il Mediterraneo: dunque, 
attraverso gli stretti e attraverso la 
Siria. Parliamo qui dell’URSS come 
grande potenza. Crediamo sia capitato 
^che a noi, come ad altri osservatori 
di politica internazionale, di subire il 
rimprovero di non saperci elevare ad 
una considerazione meramente ideolo¬ 
gica della politica estera sovietica, e di 
rimetterci al vecchio criterio realpoliti- 
co dell’equilibrio di potenza. Ma a noi 
sembra altrettanto miope la velleità 
propagandistica di denegare all’URSS 
un’ottica da potenza planetaria. Quan¬ 
do si tratta, del resto, di metterla sul 
piedestallo di custode e garante della 
j^ce, allora tutta la strumentazione po¬ 
litico-militare dello stato sovietico vie¬ 
ne esaltata per la sua efficienza. Se vo¬ 
gliamo dunque smettere le ipocrisie, ri¬ 
conosciamo che la politica di potenza 
dcll’URSS si intreccia inevitabilmente 
cw scelte ed alleanze ideologicamente 
giustificanti o concomitanti. Ma sicco¬ 
me la politica della coesistenza è sino¬ 
ra una politica di equilibrio di potenza, 
non scandalizziamoci se l’URSS, che 
1 ha inventata, sappia poi anche prati¬ 
carla. 



Notiamo subito due altre cose. Per 


Vietnam: l'interrogatorio 


(guanto in questi giorni la stampa e le 
dichiarazioni sovietiche in sede ufficiale 
(l’ONU) abbiano sempre confermato 
l’impegno della difesa araba, mai esse 
sono trascese ad una minaccia di guer¬ 


ra. In secondo luogo, se avessimo fatto 
più attenzione al testo della risoluzione 
di Karlovy Vary, avremmo dovuto sot¬ 
tolinearvi l’insistenza nel richiedere lo 
sgombero, dal Mediterraneo, della Se¬ 
sta Flotta americana. 

E’ indubbio che, con quell’allusione, 
l’URSS ha parlato assai prima di Nas- 
ser: e ha, con un semplice accenno, am¬ 
monito a lasciar operare quest’ultimo 


continui a riversare su Israele con uno 
spirito di guerra santa, non si giustifi¬ 
ca ma è notorio; che l’URSS faccia pe¬ 
sare su Israele la sua contestazione del¬ 
lo sfruttamento capitalistico anglosasso¬ 
ne del petrolio e della presenza nel Me¬ 
diterraneo della Sesta Flotta, questo è 
puramente un ordigno strumentale. Mo¬ 
sca poteva scegliere un altro momento 
e un altro modo di sollevare il proble- 



ViETNAM: inizia l'attacco 


secondo il proprio criterio della libertà 
dei transiti marittimi. Quanto alla accu¬ 
sa ad Israele di « aggeggio dell’imperia¬ 
lismo », questo è un discorso che si 
può, sul piano della propaganda, tirare 
avanti aU’infinito, senza cavarne poi 
molto. Lo stato d’Israele è nato grazie 
alla rivolta durissima contro il protetto- 
rato britannico. E’ vero che gli israelia¬ 
ni hanno trovato, nel mondo occiden¬ 
tale dove vivevano dispersi, appoggi 
finanziari iniziali di enorme agevolazio¬ 
ne nel loro rapido processo di indu¬ 
strializzazione e di trasformazione della 
natura; ma è anche vero che essi han¬ 
no realizzato sul loro territorio, attra¬ 
verso il kibbuz e la proprietà industria¬ 
le dei sindacati, esperimenti sociali che 
qualunque stato socialista dovrebbe 
considerare con interesse. 

E’ vero nello stesso tempo, che esat¬ 
tamente a partire dal 1950 le frontiere 
di Israele sono garantite dagli Stati Uni¬ 
ti, e oggi solo da questi, che hanno del 
tutto rimpiazzato, in Medio Oriente, la 
presenza politica anglofrancese. E’ falso 
però che Israele sia immischiato, secon¬ 
do un modulo capitalistico, nello sfrut¬ 
tamento dei paesi arabi: della loro uni¬ 
ca ricchezza, il petrolio, Israele non ne 
possiede o ne sfrutta neanche ima goc¬ 
cia: deve comprare tutto il suo fabbi¬ 
sogno nell’Iran. Che l’odio arabo si 


ma; avrebbe anche potuto non sollevar¬ 
lo afiFatto, se non vi fosse stata indotta 
dalla utilità di aprire un secondo fron¬ 
te, non militare certo, ma diplomatico, 
contro gli Stati Uniti, non potendo 
fronteggiare abbastanza efficacemente 
questi ultimi nel Vietnam. Ma non cre¬ 
diamo di essere del tutto lontani dal 
vero, pensando che nè Mosca vuole la 
fine di Israele, nè desidera le violenze 
verbali di Nasser; che tuttavia sta per¬ 
fettamente al gioco perchè vi era pron¬ 
ta, e perchè, da un incidente locale o 
almeno da una prolungata tensione, può 
raccogliere intorno a Nasser tutto il 
mondo arabo facendone tacere le in¬ 
terne divisioni, e mettere Washington 
nelle condizioni di dover scegliere tra 
una politica di abdicazione o una di 
rischio non calcolato, in una zona in 
cui l’URSS è in vantaggio per allean¬ 
ze, per collegamenti logistici, e per lun¬ 
gimirante penetrazione. 

Ritorna la guerra fredda? Non ab¬ 
biamo nessun motivo per assolvere sen¬ 
za riserve i circoli della destra israelia¬ 
na: ma continuiamo a pensare che, in 
primo luogo, non sono loro a dirigere 
oggi la politica di Gerusalemme; in se¬ 
condo che, nel caso specifico, c’è 
un salto dalla rappresaglia dei « Mira- 


L'ASTROLABIO - 4 giugno 1967 


19 





















Agenda internazionale 


PRIMO 

SCAFFALE 


porta i ragazzi 
alle grandi letture 


TOMASI 

DI LAMPEDUSA 
IL 

GATTOPARDO 

A cura di Riccardo Marchese 
L. 1000 


PASTERNÀK 
IL DOTTOR 
ZIVAGO 

A cura di Mario Visani 
L. 1000 


MANN 

CANE 

E PADRONE 

A cura di Sergio Checconi 
L. 600 


TOLSTOJ 
I QUATTRO 
LIBRI 

DI LETTURA 

A cura di Tina 
e Lucia Tornasi. L. 650 


D’AZEGLIO 
ETTORE 
FIERAMOSCA 

A cura di Silvana Boschetti 
L. 850 


IL RACCONTO 
POLIZIESCO 

Poe» Doyle, Borgès, 
Chesterton, Simenon» 

A cura di Alberto del Monte 
’ L.. 600 


LA NUOVA 
ITALIA 


ge » su Damasco, e il blocco del golfo 
di Aqaba. Rammentiamo, nello stesso 
tempo, che da un pezzo gli Stati Uniti 
sono venuti tentando a loro volta una 
politica di buona assistenza così verso 
gli arabi come verso gli ebrei, dopo 
essersi resi conto dell’errore di DuUes, 
quando tagliò a Nasser i fondi per la 
diga di Assuan. 

Ma questo non toglie che il rappor¬ 
to privilegiato di Israele con Washing¬ 
ton sia iscritto nella garanzia delle fron¬ 
tiere; e che la Sesta flotta si trovi nel 
Mediterraneo con una mira di potere e 
di « presenza » che è simmetrica, se non 
ideologicamente identica, al sostegno 
sovietico della Siria. La Sesta Flotta è 
composta di cinquanta navi (più tre 
sottomarini atomici, che fanno parte 
della NATO) che pattugliano il Medi- 
terraneo con diversi incarichi, uno dei 
quali è proprio quello di un interven¬ 
to di emergenza nel Medio Oriente. Se 
anche questo sinora non si è verifi¬ 
cato, si deve al fatto che probabilmen¬ 
te, in modo segreto ma probabilmente 
sicuro, Washington e Mosca mantengo¬ 
no un dialogo destinato ad evitare uno 
scontro od un appiglio, che possa far 
degenerare la tensione in una guerra 
guerreggiata. 

A questo punto, nel quale siamo i 
primi a definire in funzione imperialisti¬ 
ca la guardia al petrolio della Sesta 
Flotta (sebbene si debba tener conto 
che il petrolio va perdendo una parte 
del suo valore strategico: e dopo tutto, 
se i paesi arabi lo presentono, se guar¬ 
dano in prospettiva di qui a trent’anni, 
si capisce che cerchino briga ad Israele 
per impadronirsi brutalmente di un ter¬ 
ritorio ad avanzato livello di industria 
di trasformazione) — è impossibile non 
rendersi conto che la crisi del Medio 
Oriente è il termine di punta di un 
processo di raffreddamento della di¬ 
stensione, che ha solo la sua base più 
clamorosa nel Vietnam. 

La tempesta sta infatti scoppiando 
ora sulla distensione, ma dopo un lun¬ 
go annuvolamento, di cui si potrebbero 
elencare le macchie di crescente intensi¬ 
tà. Da quando l’ambasciatore Thomp¬ 
son è andato a Mosca per rinverdire e 
intensificare la coesistenza, tutto è an¬ 
dato in senso decisamente opposto. Co¬ 
me rileva il Times di dieci giorni fa, 
Thompson manda rapporti dai quali ri¬ 
sulta: che la moratoria degli impianti 
antimissili è un discorso abbandonato; i 
trattati consolari e per l’uso pacifico 
degli spazi non vengono ratificati. Re¬ 
sta il terreno così tormentato del nego¬ 
ziato antiproliferazione. Sappiamo solo 
che Roschin ha dichiarato al collega 
Foster che non ha la minima intenzio¬ 
ne di cedere intorno al punto del con¬ 


trollo, che la Repubblica Federale tede¬ 
sca vorrebbe, almeno a termine, affidato 
all’Euratom, e l’URSS (senza obbiezioni 
in proprio degli Stati Uniti) all’Agenzia 
atomica di Vienna. Comunque tutto è 
ora fermo in materia di non prolif^ 
razione, tanto che a Ginevra i disalli¬ 
neati dimostrano la loro irritazione esi¬ 
gendo di essere chiamati a partecipare 
anch’essi ad una stesura di progetto. 

Il prezzo della contraddizione. Noi 

non prevediamo per questo che URSS 
e USA intendano passare alla guerra 
guerreggiata, sebbene la riflessione di 
Raymond Aron, che la rinunzia all’uso 
di armi nucleari favorisca le guerre mi¬ 
nori e convenzionali, non sia del tutto 
da accantonare. In questo caso, baste¬ 
rebbe un’imprudenza di Nasser per ren¬ 
dere possibile airURSS di infastidire 
direttamente gli Stati Uniti nel Medi- 
terraneo, obbligandoli a tenere due 
fronti e portando Johnson dinanzi al 
giudizio di un’opinione pubblica, quella 
americana, che potrebbe nello stesso 
tempo rimproverargli la sua lunga debo¬ 
lezza verso l’URSS, e l’impegno di una 
doppia impresa militare che certamen¬ 
te farebbe sentire il suo peso anche sul¬ 
la vita quotidiana degli americani, come 
ancora non è avvenuto per il solo ma¬ 
neggio del Vietnam. 

Quali sono intanto le conseguenze 
prime della tempesta scoppiata suUa 
distensione? Per ora è disagevole deci- 


borse di studio 
sui problemi europei 

L'Istituto universitario di studi euro- 
p)el di Torino — direttore il prof. Silvio 
Romano, segretario generale il dott. 
Gustavo Malan — bandisce un concor¬ 
so per 30 borse di studio aperte a 
giovani di qualsiasi nazionalltà, provve¬ 
duti di un titolo di studio corrispon¬ 
dente alla nostra laurea e di sufficiente 
conoscenza deila ilngua francese. I 
borsisti godranno di vitto ed alloggio 
che consenta la frequenza dei corsi 
regolari per un anno, ed eventualmente 
per un secondo di perfezionamento e 
ricerca, i corsi, tenuti dal novembre 
1967 al maggio 1968 da universitari di 
varie nazioni ed esF>erti di organizza¬ 
zioni Internazionali, vertono sui pro¬ 
blemi centrali, economici giuridici so¬ 
ciali e storici, della società europea 
contemporanea ed intendono fornire 
una preparazione professionale ed ac¬ 
cademica, sanzionata dai titoli rilasciati 
alla fine dei due corsi. 

Le domande per -il concorso-borse 
devono essere presentate alia Segre¬ 
teria dell’Istituto (Torino, corso Vittorio 
Emanuele, 83) entro il 30 giugno 1967. 
Le domande d'iscriziorie ai corsi di 
altri candidati devono pervenire entro 
il 30 settembre 1967. 


20 






















Agenda internazionale 


Ararle. Abbiamo detto che ci rendiamo 
perfettamente conto delle istanze di 
potenza che sospingono l’URSS ad una 
vigilanza sul Mediterraneo orientale; 
vogliamo anche accreditarle una certa 
politica di assistenza (ma anche di riar¬ 
do) verso paesi in sviluppo. Però, in 
linea immediata, l’URSS è riuscita a 
dividere il fronte della protesta anti¬ 
americana, perchè gran parte dell’opi¬ 
nione democratica e non comunista più 
accesamente avversa agli Stati Uniti 
considera Israele aggredito, e i comu¬ 
nisti, che gli danno torto, mancipii del¬ 
ia politica estera sovietica, quasi non 
avessero appreso nulla dal policentri- 
smo, dalla politica di non interferenza, 
dalla discussione, che si dovrebbe rite- 


nere aperta, intorno alla opportunità di 
allearsi a regimi che aprono e chiudono 
3 loro pieno arbitrio il pugno sulla te¬ 
sta del comuniSmo. Per esempio in 
Francia il problema del Medio Oriente 
incrina la faticosa costruzione del co¬ 
mune programma delle sinistre. In Ita¬ 
lia, conferisce una buona carta al PSU 
Wntro la inabile propaganda del PCI. 
Quando leggiamo su Nouvelle Obser- 
vateur che gl’istruttori dei comman¬ 
dos siriani sono probabilmente i cinesi, 
01 viene fatto di crederci, tanto sa¬ 
rebbe plausibile un’astuzia destinata a 
*c}ualifìcare la politica comunista di ap¬ 
proccio, o di spinta a tergo, delle so¬ 
cialdemocrazie. 

Ma questo è solo il minore dei dàn- 
^ — e probabilmente potrebbe essere 
superato senza eccessive astuzie. Il de- 


rrimento più grave è un altro. E’ che la 
politica di coesistenza non regge se non 
procede su due linee insieme opposte e 
convergenti: la politica della pace e 
degli accordi internazionali, da un lato; 
^3 politica di antitesi di sistema, in un 
progressivo confronto di libertà demo¬ 
cratiche e sociali dall’altra. Ebbene, 
utentre è in questa seconda logica il 
crescente aiuto che l’URSS conferisce 
2 Hanoi, la mossa nel Medio Oriente 
contraddice alla prima e non giova alla 
seconda delle due componenti della 
coesistenza. Allo stato attuale, bisogna 
deplorare che ciò ingeneri una perico¬ 
losa confusione ideologica, difficile a 
districare anche solo nella propaganda. 
Ui fatto, o l’URSS accetta la dottrina 
cinese, e allora giustifica su una pura 
base ideologica l’assistenza al Vietnam 
c quella (molto meno plausibile, ma po¬ 
liticamente battagliabile) ai paesi arabi; 
oppure si attiene alla norma di circo¬ 
scrivere i campi di attrito; di assumerli 
2 motivo determinante della sospensio¬ 
ne della diplomazia distensiva — ma 
non spinge più avanti un’azione che 
potrebbe portarla ingiustificatamente 
lontano dal suo stesso tipo di pacifismo. 


I-’ASTROLABIO - 4 giugno 1967 


Il dilemma sovietico. Resta, natural¬ 
mente, aperta anche la terza ipotesi, 
cui abbiamo accennato. 

L’URSS pensa di battere Johnson sul 
suo stesso terreno, quello della sicu¬ 
mera con la quale afferma di salvare 
tutto insieme il burro e i cannoni — 
l’onore e gl’interessi mondiali ameri¬ 
cani. Ma per arrivare a questo risul¬ 
tato non basta fare la voce grossa, oc¬ 
corre adoperare il nodoso bastone. Oc¬ 
corre non solo la fine della distensione 
— il suo deterioramento — il capovol¬ 
gimento di una politica che supponeva 
di passare dalla semplice non interfe¬ 
renza ad alcune forme di cooperazione 
attiva. Occorre una guerra, e occorre 
che i sovietici la facciano con estrema 
iniziativa. Ora ciò è contro i loro inte¬ 
ressi; ma soprattutto è contro i loro 
principi!, e noi siamo i primi a dare 
atto all’URSS di avere sempre evitato, 
anche sotto Stalin, una iniziativa di 
guerra aperta. L’estremo filo della coe¬ 
renza socialista, in URSS, sta forse an¬ 
che oggi più nella lettera del pacifismo, 
che nella sostanza del riscatto dall’alie¬ 
nazione. 

Ma supponiamo infine che gli Stati 
Uniti decidano di forzare il blocco del 
golfo di Aqaba, impresa che costerebbe 
loro poche ore di fuoco: che farebbe 
rURSS? Non si può sollevare la tem¬ 
pesta sulla coesistenza, senza tener 
conto del fatto, che gli Stati Uniti han¬ 
no imparato a vivere « soli » nel cer¬ 
chio della diplomazia mondiale, men¬ 
tre l’URSS ha solo questo vantaggio 
(o ne ha saputo godere sinora in modo 
crescente) — quello di meritarsi la lode 
di una politica estera aperta, e, per 
quanto decisa nel modo più oligarchico, 
più capace di offerta verso lo stesso 
mondo di influenza americana. II Viet¬ 
nam è un episodio formidabile perchè 
dimostra che gli Stati Uniti sanno e 
possono volere la guerra, mentre i co¬ 
munisti possono sopportarla ma non 
provocarla. Se I’URSS non replicasse 
agli USA, come salverebbe il suo cre¬ 
dito? E se gli USA le chiedessero di 
salvare la pace, come terrebbero, loro, 
aperto lo spiraglio di Aqaba? Come cer¬ 
cheranno di ricuperare il terreno per¬ 
duto della coesistenza? Come invente¬ 
ranno, essi stessi, una maniera per reim¬ 
porne la pratica agli americani? 

Abbiamo molta stima della bravura 
diplomatica sovietica: ma questo arco¬ 
baleno, che dovrebbe adesso dipingere 
lei stessa in un cielo che è anche quello 
dell’Europa (soprattutto, anzi, quello 
dell’Europa) sembra richiedere la ma¬ 
no di un demiurgo di grande statura: 
Breznev, Kossighin — o già qualche 
altro dietro la svolta di Aqaba? 

FEDERICO ARTUSIO ■ 



APRILE 1967 

Numero speciale 
dedicato a Ernesto Ross! 
scritti di: Riccardo Bauer; San¬ 
dro Galante Garrone; Aldo Ga¬ 
rose!; Massimo Mila. Lettere 
inedite di Ernesto Rossi. 


Jna copta L. 75. Abbonamento annuo 
L. 600. Per richieste di numeri di saggio 
e per abbonamenti rivolgersi aU'Am- 
mlnl 8 tra 2 lone di RESISTENZA Torino 
Casella postate n. 100. I versamenti 
vanno effettuati sul c/c n. 2/33166. 


Filmcritica 


Aprile 1967 

V J 



filmaitica 

lustrata — - ...- 


A 

In questo numero scritti di: 
Umberto Barbaro; Edoardo Bru¬ 
no; Serena D'Arbela; Romano 
Scavolini; Massimo ^cigalupo; 
Riccardo Ghione; Michael Me 
Giure; Stan Brahage; Renato 
Tomastno; Vittorio Gelmetti; 
Alfredo Leonardi; Paolo Castal- 
dinl; Nuccio Lodato; Giampaolo 
Sodano; Giuseppe Turrorri; An¬ 
tonio Castaldi; Alfredo IlardI. 



21 






































L a formula è d’invenzione ameri¬ 
cana. La definisce Theodor Geiger, 
direttore della « International Studies 
of thè National Planning Association », 
in un libro che già dal titolo entra su¬ 
bito in medias res, « The Ending of 
an Era of Atlantic Policy ». 

Geiger parte dalla constatazione che 
gli europei sono oggi risaliti ad un li¬ 
vello di prosperità e di iniziativa econo¬ 
mica tali da renderli autonomi dagli 
Stati Uniti. Nello stesso tempo, i pro¬ 
blemi di espansionismo planetario degli 
americani li lasciano vieppiù indifferen¬ 
ti. E’ questa duplice forma di distacco, 
che Geiger definisce isolazionismo. Gli 
europei, inoltre, si sentono sempre più 
assorbiti dai loro problemi: non guasta, 
oltre tutto, che avvertano, all’Est, la 
fine di una temuta marcia di usurpa¬ 
zione. Gli Stati Uniti hanno la loro par¬ 
te di responsabilità in questa nuova 
« Stimmung » europea? 

Conviene parlarne oggi, che abbiamo 
appena assistito alla stretta di mano fra 
Saragat e De GauUe: im uomo che con¬ 
tinua a puntare moralmente sull’Eurc^ 
unita, sovranazionale, aperta, un altro 


che la preferisce intenta a crescere in 
intensità, ma con le sbarre abbassate ai 
confini, soprattutto nella direzione del¬ 
l’Inghilterra. Cessata, dopo le celebra¬ 
zioni romane, l’ambivalenza della com¬ 
memorazione, riacceso il 19 giugno il 
difficile colloquio diretto, a Parigi, tra 
Wilson e De GauUe, che vale il di¬ 
scorso di Theodor Geiger? E’ una dia¬ 
gnosi cerveUotica; oppure c’è in essa U 
nucleo di uno sviluppo, magari diverso 
da queUo che egli viene poi delinean¬ 
do, io sviluppo di un’Europa che ven¬ 
ga almeno embrionalmente politicizzan¬ 
dosi, ma progressivamente staccandosi 
daU’atlantismo? Anche questa non è 
una ipotesi indegna di considerazione; 
la viene insinuando, con la consueta 
lucidità, il politico certo più rispettato 
deU’Europa a Sei, Pierre Mendès-Fran- 
ce; è iscritta nel programma del PSU, 
e ritraduce sotto U termine « neutrali¬ 
smo » queUo che Theodor Geiger chia¬ 
ma isolazionismo. 

I verdi pascoli dei federalismo. Se¬ 
guiamo anzitutto U ragionamento che 
concerne i rapporti America-Europa, 



Kiesinger 


strettamente in relazione al crescere 
deU’isolazionismo europeo. Ci aiuta una 
aqalisi puntigliosa deUa Neue Zuerchef 
Zeitung. Gli americani, ricorda il gior¬ 
nale, grazie ad alcuni grossi operatori 
politicoeconomici come Paul Hof¬ 
mann, iniziarono, col piano MarshaU, 
una tendenza che voleva portare fran¬ 
camente aU’unità europea. Ciò avrebbe 


22 


A 











Agenda internazionale 




Il capitale americano. Perchè irri¬ 
tata? Anche questo fatto sembra para¬ 
dossale. Che gli europei scordino così 
volentieri i bCTefici ricevuti al tempo 
della loro disgrazia si spiega solo per 
l’infame consuetudine di odiare coloro 
cui si deve riconoscenza. Ma non c’è 
solo questa ragione. C’è il fatto, che gli 
americani, distaccati per molti aspetti 
da noi sul piano della politica; in grave 
imbarazzo nella loro fondamentale stra¬ 
tegia, che resta pur ancora quella del¬ 
l’intesa diretta con l’URSS, ma anche 
sicuri che noi non li possiamo aiutare a 
ricuperare lo spazio perduto dal Viet¬ 
nam al Medio Oriente — possiedono 
però in Europa occidentale puntelli di 
una importanza rilevante, che aggiungo¬ 
no, alla nostra ingratitudine, un senso 
molesto di irritazione. Il Financial 
Times riferiva, nel gennaio scorso, che 
interrogato ai Comuni, il ministro del¬ 
la Tecnologia era appena uscito in que- 


permesso sia di dare organicità agli aiuti 
Marshall, sia di creare una lega euro¬ 
peo-americana di efEcace vigilanza nei 
confronti della deprecata minaccia so¬ 
vietica. Uomini di alto spirito profe 
dco, come Jean Monnet, avviarono 
dirigenti americani verso i verdi pa 
scoli dell’isola federalista. Oggi un os 
servatore come Henry Kissinger è mol 
io franco nel riconoscere che la credu 
lità americana nel miracolo di una ite 
razione federalistica in Europa fu un’in 
genuità, giustificabile allora solo dal 
1 evidente mortificazione nazionale degli 
stati europei, e della loro ricerca alme¬ 
no provvisoria di un succedaneo. 

Adesso gli americani sono i primi ad 
essersi liberati da quella visione. Primo, 
1 Europa unita non è divenuta il ba¬ 
stione militare sperato (prima di De 
Gaulle, ci ha pensato Mendès nel ’54: 
e ora ringraziamo la buona sorte, per¬ 
chè altrimenti avremmo una Germania 
con ventiquattro divisioni invece che 
dodici). In secondo luogo, gli ameri¬ 
cani stessi tirano il fiato dinanzi alla 
n^sistenza di una Comunità europea di 
difesa, che sarebbe un intralcio perma- 
nmte ai loro rapporti con l’URSS, nella 
■ttisura almeno in cui ha senso ancora 
(non disperiamo del tutto) la formula 
della coesistenza. Terzo ed ultimo, 
1 Europa federale non solo non la vo¬ 
gliono in Francia nè i gollisti nè i co- 
ttiunisti; ma non la vuole seriamente 
neanche la Germania, che, messa nel¬ 
l’angolo dagli Stati Uniti, non desidera 
staccarsi da una permanente collabora¬ 
zione con la Francia. In breve: gli ame- 
ticani hanno errato per idealismo e per 
quello scambio, che la logica tradizio¬ 
nale ha sempre indicato come l’errore 
dei principianti — lo scambio di imma¬ 
gini e concetti — al punto che oggi si 
ritrovano un’Europa che non assume in 
proprio nessuna delle finalità america¬ 
ne; che può fare a meno degli Stati 
Uniti; che è anzi, irritata con gli Stati 
Uniti. 


Mendes Frange 
•-'ASTROLABIO - 4 giugno 1967 

iiUL. _ 


Brandt 


sto riconoscimento: « Mi duole con¬ 
fessare che, nella produzione di mac¬ 
chine da scrivere, la nostra industria 
è indipendente solo per il 20 per cen¬ 
to; e che anche questa quota è la più 
arretrata e incapace di competitività in¬ 
ternazionale ». Si capisce che l’SO per 
cento è in mani americane. « Non passa 
settimana che una ditta inglese grande 
o piccola non passi sotto capitale USA; 
ma lo stesso avviene sul Continente ». 
Tra il 1965 e il ’66 — secondo il Di¬ 
partimento americano del Commercio 
— gl’investimenti americani sono au¬ 
mentati del 40 per cento nell’area 
MEC, e del 16 per cento in Gran Bre¬ 
tagna. Qui il mercato déll’auto è domi¬ 
nato da loro per metà; per un quarto, 
nel MEC. 


Ma non è un argomento sul quale 
vogliamo fermarci analiticamente, bensì 
solo per ricordare che sono di capitale 
americano i settori che condizionano 
(come l’elettronica) in modo generale 
gl’incrementi industriali di tutte le 
branche più avanzate. Nell’insieme gli 
investimenti europei degli Stati Uniti 
ammontano a 14 miliardi di dollari, di 
cui 5 miliardi in Gran Bretagna. Non 
vi sono segni di rallentamento: segni 
di insofferenza europea, certo. Ne han¬ 
no dati, in modo che parve sconve¬ 
niente, i ministri di De Gaulle; ma an¬ 
che il giubilato Erhard non li soppor¬ 
tava, negli ultimi tempi, con equo 
animo. 

Se riassumiamo i tratti dell’Europa a 
dieci anni dall’inizio del MEC, trovia¬ 
mo dunque: una unione doganale in 
avanzatissima realizzazione; la messa in 
frigorifero del federalismo, in parte per 
la sua catastrofica deficienza di piatr«- 
forma sociale, in parte per l’ostilità, da 
nessuno seriamente affrontata, della 
Francia gollista; il ritorno, quindi, a 
una presunzione di sufficienza delle po¬ 
litiche « nazionali », che è poi smentita 
dalla impossibilità di sviluppare lo stes¬ 
so mercato comune senza un minimo 
di unità politica, sia pure almeno attra¬ 


WlLSON 

verso forme interstatali, progressiva¬ 
mente implicanti però decisioni a mag¬ 
gioranza, e compensazioni per le mino¬ 
ranze (come accade già del resto per 
alcuni settori, da adesso). Nello stesso 
tempo, si è aperta la consapevolezza che 
l’Europa a Sei ha interessi politici sem¬ 
pre più discrepanti o indifferenti a quel¬ 
li degli Stati Uniti. Europeismo senza 
atlantismo, Europa neutralista, queste 

23 















Agenda intemazionale 


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In edizione francese 
o inglese 
o spagnolo. 


formule mendesiane, vengono acqui¬ 
stando un significato sempre più con¬ 
creto, non negli ideali europei (qui sono 
pochi ancora che ci pensano) — ma nel¬ 
le cose stesse. 

La prospettiva mendesista. Aveva 
dunque ragione De Gaulle? Non per 
una antica simpatia, ma per una vici¬ 
nanza mentale che ci persuade — lo 
confessiamo — da due decenni, la tesi 
mendesiana ci pare quella giusta, e fal¬ 
sa quella gollista. AÌiche Mendès non 
intende precipitarsi nelle spire federa¬ 
listiche, che importerebbero una imme¬ 
diata soluzione della qualificazione mi¬ 
litare della Repubblica Federale. Al 
contrario p>oi di De Gaulle, il neutrali¬ 
smo europeo di Mendès mira alla aper¬ 
tura del MEC ai paesi dell’EFTA, e 
quindi ad un’area economica così am¬ 
pia e potente, da non temere nè con¬ 
fronti nè assorbimenti da parte di quel¬ 
la sovietica, e da potersi, in un tempo 
non eccessivamente lungo, esimert dalla 
tutela americana nei settori tecnologi¬ 
camente più raffinati e costosi. La tesi 
mendesiana ci appare la più persuasiva 
non solo perchè mette in ritirata il na¬ 
zionalismo gollista, ma perchè tende a 
trasformare l’isolazionismo europeo, 
che è una tendenza di fatto, in una poli¬ 
tica deliberata, quella della neutralità 
attiva dell’Europa. Si dirà che ciò pre¬ 
suppone, a questo punto, proprio orga¬ 
ni, o almeno accordi generali comuni, 
di politica estera. Niente da eccepire. 
Non abbiamo sinora aderito al sistema 
atlantico, che non è affatto una istitu¬ 
zione sovranazionale; che non è stato 
mai « integrato » altro che per la pro¬ 
duzione di certi tipi di armamenti; e 
che non ha mai inciso fino in fondo sul¬ 
la autonomia del diritto di ogni socio 
(conforme all’articolo 51 della Carta 
dell’ONU) di giudicare egli solo se 
sussista, p)er avvenuta aggressione, un 
casus belli. Se il Patto Atlantico, tanto 
più serrato tuttavia, lasciava ai suoi 
membri alcune libertà meno una, quel¬ 
la di considerarsi slegati dagli Stati Uni- 




POMPIDOU 

ti, perchè si dovrebbe respingere sin 
d’ora come impossibile una politica 
europeistica non atlantica? 

Siamo i primi a riconoscere che pun¬ 
tiamo su un itinerario lungo e diffi¬ 
coltoso: forse la prolungata concessio¬ 
ne di nuove prerogative alla suprema¬ 
zia gollista (che consiste tutta nella 
insostituibilità della Francia) lo ritar¬ 
derà ulteriormente. Ma nello stesso 
tempo è anche probabile che venga an¬ 
cora riducendosi il contenuto, già sem¬ 
pre più scarso, della « speciale allean¬ 
za » fra Stati Uniti e Gran Bretagna. 
In questo caso, non è poi una politica 
per i nostri nipoti, ma forse già per t 
figli, e ancora per alcuni tra i più gio¬ 
vani fra i dirigenti di oggi, quella che 
Mendès propone in Francia, e che in 
Italia intravvedono coloro che si siano 
magari per altre vie incominciati a fami¬ 
liarizzare con la mentalità neutralisti- 
ca. E’ la stessa, del resto, che li difen¬ 
derebbe sia da un odio giacobino con¬ 
tro la civiltà americana, sia da una 
debolezza irrazionale verso il modello 
collettivistico sovietico. 

Non trascuriamo, però, che, secondo 
i mendesiani, la condizione per una 
politica estera del genere è una certa 
politica interna: un certo socialismo, un 
certo dirigismo. Noi siamo d’accordo. 
Pensiamo anzi che solo l’Europa occi¬ 
dentale possa ancora esperire questo 
tipo di società. E se, nel guardarci in¬ 
torno, siamo a volte indotti ad una ras¬ 
segna pessimistica delle forze politiche 
che vi sarebbero interessate, dobbiamo 
però rammentare loro che la condizione 
di fatto, quella del crescente « isolazio¬ 
nismo europeo », avvicina da sola il 
tempo di opzioni non più differibili. 

SERGIO ANGELI * 



24 






















Agenda internazionale 


on era esattamente un parterre de 
' ' rois, Gonfie al tempi del Congresso 
di Vienna, quello che II vertice europeo 
aveva riunito al Campidoglio per la 
solenne celebrazione del decennale del 
Trattato di Roma. Ma era comunque 
una bella platea; sai capi di governo, 
sei ministri degli esteri, tutti domi¬ 
nati dalla figura quasi ieratica ma con¬ 
discendente del gen. De Gaulle, ridotto 
ad una dimensione umana dalla man¬ 
canza del chepf. 

Capitava male questa celebrazione, 
come se gli scoppi delle bombe su 
Hanoi e gli egiziani in agguato ad 
Aqaba ogni tanto raggelassero l'ottimi¬ 
smo di occasione, in questo quadro 
oscuro ia storia e il bilancio della fati¬ 
cosa costruzione europea si riduceva 
d’importanza e perdeva respiro. E tut¬ 
tavia I particolareggiato rapporto che 
il Presidente Saragat faceva ai rappre¬ 
sentanti di questo Occidente europeo 
conduceva gli ascoltatori ad alcune 
conclusioni d’insieme politicamente 
importanti come valutazione del lavoro 
passato e delle reali possibilità di do¬ 
mani. 

Non si sentiva in quel rapporto quale 
era stata la primitiva Ispirazione e la 
prima spinta della ideologia e del mo¬ 
vimento federalista. Risultarono Invece 
chiari 1 lati positivi delle iniziative e 
tappe dell'azione europeista, diventata 
affare di governi, di cancelleria e di 
partiti, e cioè l’accumulazione di effet¬ 
ti. e perciò l’utilità progressiva del la¬ 
voro comunitario, dell'abitudine al con¬ 
fronto od al vaglio reciproco; I progres¬ 
si dell'azione unificatrice, che pur at¬ 
traverso oscillazioni attriti e rinvii, so¬ 
no Il risultato oggettivo di un tal lavo¬ 
ro; la insostituibilità del metodo, ed 
essendo ormai prossinno il compimen¬ 
to delle tappe previste p>er il mercato 
comune, la necessità di affrontare la 
seconda tappa Integratrice della co¬ 
struzione di base del MEC, su un livel¬ 
lo più organico di unificazione. 

La seconda parte del rapporto, quel¬ 
la originale di Saragat. evitava la pole¬ 
mica diretta con l'« Europa delle pa¬ 
trie •. ma riproponeva, con la validità 
della impostazione sopranazionale, la 
necessità della unità europea su uno 
sfondo storico e lirico alla adesione 
dell’Inghilterra, esolloitamente postu¬ 
lata. si limitava praticamente Tamplla- 
mento di orizzonti della Comunità. 

Che cosa c’era di vero al fondo di 
questo quadro ottimistico? Qualche 
cosa che i critici facili della organizza¬ 
zione europiea e dell’europeismo non 
devono dimenticare. Una crescente vi¬ 
cinanza di vita, una reale convergenza 
d’interessi ed anche di destini che 
obbliga a trovare forme adatte, ma 
non statiche e sempre più aperte, di 
organizzazione comune. Che cosa man- 


De Gaulle 
a Roma 


cava nel quadro, e manca nei fatti? 
Una base politica e sociale; un plafond 
organizzativo superiore. Un controllo di 
base di rappresentanze popolari quali¬ 
ficate, atte a contrastare I domini 
aziendali, ed a garantire la democrazia 
non delle forme ma degli Indirizzi. Un 
coordinamento efficace della politica 
economica. 

Che cosa appariva Insufficiente? La 
limitazione deH’ampliamento al proble¬ 
ma della Gran Bretagna. Le dimensio¬ 
ni di ieri sono superate. I continenti si 
restringono. La diversità dei reginni 
•Ieri poteva far considerare utopistici 
legami organici con i paesi dell’Est: 
oggi non più. La stessa unificazione 
politica, ora confinata sul piano delle 
aspirazioni, potrebbe — ed è sperabile 
possa — trovar diverse soluzioni In un 
nuovo quadro di Intese paneuropee. 

Ma se dai sogni si torna alla realtà 



Fanfani e Nenni 


dell'Assemblea celebrativa di Roma le 
ironie sull’arcaico nazionalismo di De 
G 2 Hille si smorzano. Il binomio Francia- 
Germania appariva dominante, e Kie- 
singer ritornava dopo Adenauer l’Inter¬ 
locutore valido del Generale. Il solido 
riawicinamento tra i due popoli di qua 


e di là del Reno è ancor giudicato, al¬ 
meno dai francesi, il fatto storico più 
Importante e determinante del dopo¬ 
guerra europeo. Ogni anno, secondo 11 
calcolo di Parigi, circa 400.000 tede¬ 
schi soggiornano in Francia, condotti 
da ragioni di turismo, di lavoro e di 
studio; gli italiani ohe visitano la Fran¬ 
cia neiio stesso tempo sono circa 15 
nrtia. 

E tuttavia alla Famesi'na ed a Villa 
Madama, finché lo sguardo non oltre¬ 
passava l colli retoricamente fatali di 
Roma, ottimismo europeista ed euforia, 
leggibili nei sorrisi del Ministro Fan¬ 
fani, animavano le delegazioni, in ef¬ 
fetto De Gaulie aveva mantenuto la 
promessa di scongelamento fatta a 
Fanfani, non aveva pronunciato l veti 
temuti, cosicché le trattative per l'ac¬ 
cessione Inglese potranno presto co¬ 
minciare a Bruxelles. Non si sa natu¬ 
ralmente prevedere come e quando ter¬ 
mineranno. Lo stesso Generale appa¬ 
riva lieto del viaggia, soddisfatto della 
accoglienza fatta alla sua raciniana 
condiscendenza; od è davvero i'Outile 
cercare quanto questa rettifica di rotta 
si debba all'opposizione Interna od a 
diverse vedute generali. 

Si conta che le operazioni per la fu¬ 
sione dei tre Esecutivi possano anche 
esse prendere prossimo inizio, appiana 
annunciata la nomina del nuovo capo 
chiamato a sostituire Halistein, ancor 
rinviata non per ragioni tuttavia sostan¬ 
ziali. Cadute per ragioni di turno e di 
opiportunltà le candidature tedesca e 
francese — e quésta chiusura di pro¬ 
spettiva ha indotto Marfolln a ripren¬ 
dere -Il suo pmsto di professore in eco¬ 
nomia all’Università di Parigi — poteva 
esser la volta di una candidatura Ita¬ 
liana. Ma, sia cortesia sia astuzia, l’of¬ 
ferta era stata fatta all’on. Colombo, 
che la ha declinata (non risulta che 
abbia detto; J'attends mon astro). Ed 
è rimasta allora quella del Ministro 
belga Rey, liberale con>e tinta politica, 
preparato e stimato, ohe ha diretto co¬ 
me delegato generale della CEE le 
trattative p>er II Kennedy round, con 
soddisfazione di tutti essendo riuscito 
a distribuire equamente II malcontento. 

Non è detto peraltro che la riforma 
del tre Esecutivi possa procedere sen¬ 
za intoppi, particolarmente quella del- 
l’Euratom. non amato dal francesi, che 
diventa urgente se sarà vicino l’accor¬ 
do per la non proliferazione. Almeno 
in questo campio di tanta importanza 
ormai di riprendere terreno, ed i due 
anni malamente perduti con la crisi del 
CNEN. E non parliamo di riforma del¬ 
l’Assemblea parlamentare della CEE. di 
maggiori poteri e di subdoli odori di 
sopranazionale. Il Generale scuote la 
testa. 

o. m 


•-'astrolabio - 4 giugno 1967 


25 












Agenda internazionale 



Costantino 


6RECIA 


puritani 
per decreto 


tei I n kebab per favore ». Sono se- 

^ duto in una piccola trattoria di 
Patrasso. Di fronte a me il Mediterra¬ 
neo, tanto calmo da sembrare senza 
vita, e lucido di sole. E’ venerdì. « Un 
kebab per favore » ripeto. L’oste, uno 
dei tanti greci di mezz’età che ricorda¬ 
no ancora l’italiano essenziale appreso 
per necessità durante l’dccupazione, 
sembra non capire la mia richiesta. In¬ 
sisto ancora. Cerco di spiegarmi me¬ 
glio, di fargli capire che desidero quel¬ 
la sorta di piatto nazionale greco, uno 
di quei saporiti spiedini fatti di piccoli 
pezzi di maiale arrostito su brace viva 
che è possibile acquistare per poche 
dracme dai carrettini ambulanti ad ogni 
angolo di via. « Non possibile — ri- 
spKjnde — proibito ». « Proibito da 
chi? » chiedo meravigliato. « Polizia » 
fa con voce sussurrata, abbassandosi an¬ 
cora di più verso il mio tavolo, « poli¬ 
zia proibito per religione ». Mi spi^a 
che i colonnelli hanno proibito tassati¬ 
vamente <ii vendere carne di maiale nei 
giorni di vigilia. Quindi il venerdì 
niente kebab. Mentre parla di questa 
ridicola disposizione di polizia, scuote 
la testa con aria sconsolata. Non mi ri¬ 
mane che terminare il bicchiere di uzo 
ed alzarmi. 

Questo non è che uno dei tanti aspet¬ 
ti (forse il più ridicolo, insieme all’ob- 
bligo della messa domenicale per i mili¬ 
tari), della grigia realtà che opprime la 
Grecia dei colonnelli putschisti. La « li¬ 
bertà disciplinata » alla quale fanno tan¬ 
to spesso riferimento i nuovi governanti 
di Atene tocca con la sua stupidità an¬ 


che gli aspetti più piccoli della vita di 
tutti i giorni. Il kebab proibito, la mes¬ 
sa obbligata, gonne pudicamente allun¬ 
gate, capelli dal corto taglio austero, 
l’obbligo di denunciare il possesso di 
una macchina da scrivere. Sono tutte 
cose queste che testimoniano dell’abis¬ 
so di assurda stupidità in cui giorno do¬ 
po giorno, dalla notte del coljx) di forza 
militare, la realtà greca si cala sempre 
di più. Ovunque mi sono recato ho po¬ 
tuto sentire la sensazione quasi fisica, 
della coltre di grettezza che fascia la 
dimensione sia umana che politica dei 
greci d’oggi, costretti a subire la logica 
anacronistica dei colonnelli golpisti il 
cui autoritarismo richiama con prepo¬ 
tenza alla mente gli aspetti più oscuri 
dell’Italia staraciana. 

Ma non è facile sorridere di fronte 
a questi aspetti operettistici della dit¬ 
tatura militare che pesa da più di un 
mese ormai sulla Grecia. Dietro il no 
alla minigonna si fa luce con chiarezza 
la tragedia di tutto un popolo. « Quan¬ 
ti sono i morti? ». E’ la domanda che 
ho fatto con insistenza ai greci che at¬ 
traverso una catena semiclandestina di 
amicizie, riuscivo ad avvicinare. La fac¬ 
ciata ufficiale del colpo di Stato ne elen¬ 
ca appena due. Sono molti di più. Si 
parla di trecento vittime, di uomini 
scomparsi senza lasciare traccia. Svaniti 
nel buio più completo. E quelli che pos¬ 
sono morire? Come le donne incinte e 
i malati racchiusi nell’isola di Yaros 
senza nessuno che si prenda la briga 
di curarli? O come Ilyas Ilyu, il presi¬ 
dente del gruppo parlamentare del- 
l’EDA, malato di diabete e privo, mi 
dicono, di qualsiasi cura. O come il di¬ 
rettore della libreria Themelion, Dimi¬ 
tri DesjX)tidis, affetto da una semipara¬ 
lisi e da lesioni al cervello riportate in 
seguito ai maltrattamenti subiti duran¬ 
te i dieci anni di deportazione a Ma- 
crossinis, il famigerato lager sorto per 
imprigionare i resistenti comunisti nel 
dopoguerra. E quelli dei quali non si 
conosce più la sorte? I due leaders del- 
l’EDA Manolis Glezos e Leonidas Kyr- 
kos che sembra non siano più ospitati 
nelle celle della polizia? 

Una tomba per la vecchia demo¬ 
crazia. « La Grecia sta affogando nel 
fascismo più brutale ». Chi mi dice que¬ 
ste parole è un avvocato di Atene. Un 
anziano professionista iscritto, fino al 
colpo di Stato, all’ERE (il partito della 
destra storica) di Cannellopulos. Anche 
lui temeva il « pericolo comunista ». 
Oggi ricerca il contatto con i comuni¬ 
sti. Il braccio duro dei colonnelli sta 
cercando di seppellire anche il suo mon¬ 
do, quello della « democrazia per be¬ 


ne », monarchica e priva di qualsiasi 
tentazione verso sia pur piccole aper¬ 
ture a sinistra. 


L’antiparlamentarismo del governo 
putschista ha infatti toni sempre piò 
striduli. La stampa di Atene esce con 
grossi titoli che denunciano gli « sper¬ 
peri dei parlamentari ». UAthens News 
del 14 maggio dedica il suo articolo di 
apertura a questa subdola operazione 
antiparlamentare e informa i lettori che 
« ottantaquattro milioni e ottocento ot- 
tantadue dracme rappresentano il costo 
delle conversazioni telefoniche, dei te 
legrammi, delle lettere non pagate dai 
deputati del disciolto parlamento... »• 
E questo è solo l’inizio del giro di vite 
autoritario dei colonnelli greci. « Il gO; 
verno militare non ha bisogno degli 
uomini politici del vecchio regime. La 
spada della rivoluzione ha spezzato 
questo mondo corrotto e senza vitali¬ 
tà... ». Il generale Patakos con queste 
parole cerca di seppellire, insieme ad 
ogni speranza di futuro democratico per 
la Grecia, anche il vecchio mondo del¬ 
l’avvocato ateniese. Per certo conserva¬ 
torismo greco, abituato sia pure ad una 
democrazia malata come quella greca, 
il putsch puzza troppo di avventura e 
di disprezzo. Da questa constatazione 
nasce il desiderio « frontista * di non 
pochi uomini fino a ieri invischiati nel¬ 
la palude del più vieto anticomunismo. 
E’ ancora un’aspirazione confusa. Solo 
il tempo ci dirà se ne nascerà qualcosa 
di valido. Per il momento la Grecia 
può fare solo affidamento sulle inani 
di giovani che tracciano a grandi lettere 
sui muri delle città elleniche le parole 
della riscossa: Zito i demokratia (Viva 
la democrazia). 

I. T. ■ 



26 


Patakos e Totomis 












NMM LAIDIZA 


RIVOLUZIONE E LETTERATURA 

Il primo Congresso degli scrittori sovietici del 1934 

saggio introduttivo di Vittorio Strada 

In prima traduzione assoluta i documenti fondamentali del congresso che 
segna l'avvento del « realismo socialista »; relazioni e interventi di Bucha- 
rin! Pasternak, Radek, Babel. Gorkij. Ehrenburg. Olesa, Zdanov, Fefer. 
Kolcov, Aseev, Surkov, Fadeev e Skiovskij. 

« Libri del tempo », pp. LXXII-340, L. 2.400 


I MANOSCRITTI DEL MAR MORTO 

traduzione e Introduzione di Franco Michelini Tocci 

« Biblioteca di cultura moderna », pp. 412, rilegato con astuccio, L. 4.500 


GIAMPAOLO PANSA 

GUERRA PARTIGIANA TRA GENOVA E IL PO 

« Storia e società », pp. XVI-544, L. 6.000 


EUGENIO GARIN 

LA CULTURA DEL RINASCIMENTO 

« Universale Laterza », pp. 208, L. 900 


GIUSEPPE SAMONÀ 

L’URBANISTICA E L’AVVENIRE DELLA CITTÀ 

« Universale Laterza », pp. 320, L. 900 


BENEDETTO CROCE 

LOGICA COME SCIENZA DEL CONCETTO PURO 

« Opere di B. Croce in ediz. economica », pp. XXIV-368, L. 900 


GENNARO SASSO 

PASSATO E PRESENTE 

NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA 

« Piccola biblioteca filosofica Laterza », pp. 155, L. 600 


FRANCO SCHETTINI 

LA BASILICA DI SAN NICOLA 

« Opere fuori collana », pp. 200 con 196 ili, formato 20x25, rilegato, L. 6.000 




















cronache italiane 


« ...a Genova alcuni studenti fascisti mi 
hanno assalito, la Questura mi ha tolto il 
passaporto per l’estero...; ma c'è di peggio-, 
avevo un giornale e me l’hanno soppresso; 
avevo una cattedra e l’ho dovuta abbando¬ 
nare; avevo, come ho, un ideale e per di¬ 
fenderlo ho dovuto andare in galera; avevo 
dei maestri, degli amici e me li hanno 
uccisi ». 

Carlo Rosselli - Dal « Processo 
di Savona » 

N el 1925 (anno III dei tempi esecra¬ 
bili) ero entrato come matricola alla 
Facoltà di Economia e Commercio di 
Genova. L’edificio sorgeva in Piazza Pam- 
matone, di fronte alla statua di Balilla, allora 
irregimentato come uno dei tanti numi del 
regime. Si diceva però che l’inizio della 
rivolta popolare, che portò alla cacciata degli 
austriaci, fosse avvenuto in realtà in una 
viuzza che immetteva nella piazza, forse così 
chiamata in ricordo di qualche benefattore 
che aveva finanziato la costruzione dell’ospe¬ 
dale che ivi sorgeva e chiudeva il cerchio 
degli edifici, a destra dell’Università. Alcuni 
vecchi repubblicani, numerosi a Genova, si 
sforzavano tuttora di rintracciare sul selciato 
della viuzza, per trame lieti auspici, i sol¬ 
chi tracciati dai cannoni austriaci; ma, 
in genere, ciò avveniva quando usci¬ 
vano dalle numerose osterie del quar¬ 
tiere. Gli antichi mazziniani di stretta osser¬ 
vanza si riconoscevano dal cappellaccio nero 
e dalla cravatta alla « vallière » : buone, in¬ 
nocue e simpatiche persone; alcuni, per ne¬ 
cessità di famiglia (P.N.F.) avrebbero dovuto 
vieppiù annerire la loro divisa. Altri, po¬ 
chissimi in verità, tentarono in seguito di 
conciliare la sognata democrazia teo-popolare 
con la nuova ideologia e pratica del man¬ 
ganello. Tanto consente un mal digerito 
romanticismoi 

La Facoltà aveva sede in un maestoso 
palazzo; due ampie scalee portavano alle 
aule, che si susseguivano sotto tetto, in cer¬ 
ti lati ricoperte da spesse vetrate che facevano 
pensare a calde serre del sapere. Lungo le 
Kalee, molte nicchie con gigantesche statue, 
orribili come fattura, di benefattori che lega¬ 
rono le loro sostanze a vantaggio dell’Opera 
Pia; e di antichi padri della repubblica; e 
così nelle aule. Spesso, studenti burloni si 
nascondevano nel vasto andito dietro le sta¬ 
tue e, nei primissimi anni del fascismo, svil¬ 
laneggiavano i professori. Se passava il geo¬ 
grafo, un vocione da giudizio universale lo 
chiamava : « Eliseo Reclusi ». Ed il geografo 



CARLO ROSSELLI E LA PRESA DI POSSESSO 
FASCISTA DELL’UNIVERSITÀ’ ITALIANA 



Carlo Rosselli con la moglie Marion 

LAGUmitt 

M ORBACI 

Il 9 giungo ricorre il 30 anniversario dell'uccisione di 
Carlo Rosselli, e per l'occasione l'Astrolabio uscirà con 
un numero speciale. Presentiamo intanto un ritratto 
assai vivo di Rosselli tracciato da Giulio Pietranera, 
che fu suo allievo all'università di Genova nel 1925. 

Il racconto si sviluppa nel quadro turbolento del pro¬ 
cesso di fascistizzazione dell'università, I Gufi (cosi 
venivano chiamati gli studenti dei GUF) spadroneggia¬ 
no, la cultura accademica si mette gli stivali. Rosselli 
è uno dei pochi a dare esempio di coraggio morale e di 
onestà intellettuale, ed il professore Pietranera lo acco¬ 
muna nel ricordo ad Attilio Cabiati e Ortu Carboni 


Starace 














SI guardava intorno stupefatto; e le altre 
statue in coro : « Presuntuoso! » ; oppure, 
quando saliva il professore d’Economia, lo 
stesso vocionc urlava : « Adamo Smith! » e 
cwi via, secondo i casi. Ultimi sprazzi di 
vita goliardica non ancora soffocata dai Gufi 
cicè dagli appartenenti ai « Gruppi Uni¬ 
versitari Fascisti » —, e da chi Ù mano- 
ytava, in ispecie da queU’idca platonica di 
■diota-furbastro-sbirro che ebbe nome Achille 
Starace. Quei massi, quasi informi, mal scol- 
Pftì sotto forme di statue, li avrei comunque 
ritrovati, moltissimi anni dopo, e in quale 
occasione! 

^ statua di Ballila. Nel 1925, la Facoltà, 
SI esclude la biblioteca di Economia, molto 
turata sin dai tempi del Boccardo, non era 
dotata di laboratori, di gabinetti di ricerca 
t di attrezzature scientifiche consimili, oggi, 
tome ognuno ben sa, magnificenza, ricchez¬ 
za e decoro dell’Università italiana. Ricchis¬ 
sima per contro di tutte quelle istituzioni 
thè scaturiscono, come per miracolo, nei 
pressi delle fonti vive della sapienza: caffè, 
^terie, trattorie a poco prezzo, friggitorie 
di frittelle e « farinau », latterie, rivendite di 
*tqua fresca c di anguria e gelaterie (ce- 
tbre fra gli studenti, quella di Fidone, un 
Mediano; secondo una leggenda, un certo 
‘’idone d’Argo sarebbe stato l’inventore della 


anche immonde « tane » per prostitute che, 
precorrendo i tempi, avessero il gusto del- 
ì’artigianato e, con questo, la munificenza 
della lue compresa nel prezzo. 

Ora, tutto questo complesso e ben inte¬ 
grato organismo venne molti anni dopo, ai 
primi bombardamenti della R.A.F., schianta¬ 
to, annientato, arso ed incenerito. Rimase 
soltanto, di fronte allo scheletro dell’Univer¬ 
sità, la statua di Balilla, Mosè salvato dal 
fuoco, come volesse testimoniare tangibil¬ 
mente la sua assoluta innocenza in quel¬ 
l’inferno. 

Cose infiniumente peggiori accaddero poi 
nel mondo, ma per alcuni studenti, soprav¬ 
vissuti a quegli anni favolosi di giovinezza 
(io fra questi). Via Ettore Vemazza, Via San 
Giuseppe, Via di Portoria, Salita e Piano 
di Piccapietra rimasero nel ricordo come le 
porte fatate di quella Troia combusta. Oggi, 
in quei luoghi tutto è nuovissimo, moder¬ 
nissimo e razionale — e ciò è bene — ma se 
qualcuno di quegU antichi studenti va a 
« abbracciar Tume e interrogarle », non sem¬ 
pre è sospinto da motivi puramente senti¬ 
mentali e vuotamente nostalgici. Anzi, alcu¬ 
ni dei pochi sopravvissuti rievocano ancora 
ricordi brucianti, sperando di ridare linfa e 
sangue a care ombre trapassate. 

E molte ombre vanno invero ricordate per 
noi e per quelli che presto non potranno più 



Mussolini e Bottai 




JMoneta, molti secoli prima di Cristo; donde 
•»zzi e richieste di consumazioni gratuite, 
non di prestiti, al povero Fidone di Si- 
■■zeusa, che s’infuriava ed esplodeva in con¬ 
tumelie nel suo colorito dialetto). Nei vicoli 
adiacenti, aprivano ospitali porte tre o quat¬ 
tro casini o casotti (quesito questo che la- 
M^'amo volentieri agli storici ed ai filologi) e 

^■'astrolabio - 4 giugno 1967 


ascoltarci. 

Per quanto mi riguarda, l’anno accademico 
1925-26 fu un periodo di ricerca di me stes¬ 
so. Avrei voluto studiare lettere e filosofia, 
ma la dura necessità me lo aveva vietato. 
Mi adattai allora alla realtà e feci un’accurata 
scelta tra le materie d’insegnamento; accettai 
quelle che definivo culturali : le scienze eco¬ 


nomiche in genere, la matematica e la sta¬ 
tistica (a queste aggiunsi la geografia econo¬ 
mica per l’eccellenza dell’insegnante e dei 
corsi svolti; chi dimenticherà, fra gli stu¬ 
denti di quei tempi, le lezioni geopolitiche, 
ma non affatto fasciste, di Bernardino Fre¬ 
scura sul problema della Ruhr e sulla que¬ 
stione cinese?). Per le altre discipline, decisi 
stoicamente e razionalmente di accontentar¬ 
mi del puro diciotto. 

Intanto, in quel primo anno accademico, 
andato scolasticamente jserduto, avevo stu¬ 
diato filosofia e storia e mi ero ingozzato 
di teorie, di musica e di « poètes maudits ». 
Vivevo così per istinto sorretto da oscure 
velleità; finche un ulteriore c decisiva spinta 
allo studio scientifico delle materie economi¬ 
che mi venne, proprio in quel tempo, dalla 
presenza e daU’inscgnamento di un nuovo 
professore, incaricato di Economia politica 
c di Storia delle dottrine economiche, non 
ancora corporativizzate; e — quello che più 
importa — mi si apersero gli occhi sulla 
spaventosa durezza e degenerazione della 
vita politica; proprio quando i vecchi mae¬ 



stri cominciavano — con qualche degnissima 
eccezione che sarà ricordata — se non a 
tacere a parlar basso. 


Una matricola generosa. Il corso di Econo¬ 
mia Politica era stato aperto dal prof. Arias. 
La teologia corporativa era ancora in for¬ 
mazione ed io cominciai ad appassionarmi e 
ad avvertire l’importanza della scuola stori¬ 
ca, propugnata allora dall’Arias. Il prof. Arias 
lasciò nei primi mesi del 1925 l’insegna¬ 
mento nella Facoltà di Genova; in seguito, 
tentò di formulare in termini storicistici la 
dogmatica economica fascista. Finì poi, sem¬ 
bra, proprio quando stava sviluppando la 
sua concezione corporativa, più conservatrice 
di ogni altra, nel Sud America sottraendosi 
per tempo alla persecuzione razziale. Non 
era affatto una cattiva persona e a me, allo¬ 
ra, parve un dotto. Perché non dirlo? 

Venne sostituito dal nuovo incaricato, for¬ 
se chiamato dall’indimenticabile Preside di 
Facoltà, il prof. Ortu Carboni, valente ma¬ 
tematico ed appassionato alle scienze eco¬ 
nomiche, specialmente nella formulazione 
Walras-Pareto. 

Il nuovo docente si presentò in modo 
inconsueto. All’inizio della primavera del 
1924, un giovanotto grassoccio, biondo e 
miope, di media statura, con uno sguardo 
fermo ma melanconico, sali lentamente lo 
scalone della Facoltà, tenendo un libro sotto 
il braccio. Erano ancora giorni di aperta 


29 













caccia alle matricole ed un gruppo bra¬ 
moso di anziani sì precipitò su quella che 
sembrava così facile ed ingenua preda, tanto 
bonario era l’aspetto di quel giovane dal¬ 
l’aria distratta. 11 nuovo venuto cedette sor¬ 
ridendo e fu una matricola quanto mai ar¬ 
rendevole e munifica. Inebriati dalle generose 
libagioni offerte, gli studenti lo acclamarono 
e scrissero il suo nome « ignoto » sul famoso 
papiro. Il giovanotto festeggiò la sua entra¬ 
ta in Facoltà con divertita allegria e si ri¬ 
presentò il giorno dopo. Scoppiò allora la 
bomba che fece fremere « anziani » e « fa¬ 
gioli ». Quella matrìcola non era un qualche 
placido e agiato possidente di riviera, come 
si era supposto, ma il nuovo incaricato di 
Economia Politica e di Storia delle dottrine 
economiche. Si chiamava Carlo Rosselli e 
proveniva dalla « Bocconi ». 

Dal lato politico, l’anno accademico 1924- 
25 trascorse relativamente tranquillo per il 
nuovo incaricato; non si sapeva bene chi 
fosse Carlo Rosselli e i tempi marciavano an¬ 
cora lentamente. Ricordo ancora il suo inse¬ 
gnamento assiduo e profondo, dal quale, a 
dire il vero, trassi poco profitto, immerso 
come ero in un periodo di desolato pessi¬ 
mismo, che mi estraniava da ogni iniziativa 
vitale. Comunque, Rosselli — udite! — ave¬ 
va rinunziato alle immancabili dispense, ove 
talora il chiarissimo raccoglie i propri articoli 
e libercoli, che propina alla massa ignara 
degli studenti, digiuni dei primi fondamenti 
della scienza. Per contro, gli studenti di 
Rosselli si erano preparati su due testi e 
su di essi aveva fatto lezione il profes¬ 
sore : i « Principi di Economica » di Alfre¬ 
do Marshall, per il primo corso, e la « Rifor¬ 
ma monetaria » di John Maynard Keynes, per 
il secondo. Testi « duri », ma che riuscirono 
a svegliare c a far ragionare molte menti; 
chi scrive ritrovò, più tardi, in Marshall l’evo¬ 
luzionismo e l’alta considerazione per la 
scuola storica, nonché l’eterna vitalità dei 
classici, contaminata purtroppo dai margina- 
listi psicologi; vi trovò anche preziosi spunti 
per quella che Marshall chiamava la « teoria 
socialista del valore ». 

« Schiaffeggio il prof. Rosselli ». Rosselli 
venne infine « scoperto ». I Gufi erano stati 
informati dall’aito della Federazione. Molti 
di loro, che avevano dapprima simpatizzato 
per il nuovo incaricato, pur maledicendolo, 
come tanti altri, per il pesante carico didat¬ 
tico, lo denunciarono nel loro libello « L’Ate¬ 
neo », come un pericoloso sovversivo. Si 
obbediva ciecamente al Segretario federale, 
un subuomo che passava ore ed ore sca¬ 
gliando pugnali contro tavole di legno sulle 
quali scriveva democrazia, bolscevismo. Unio¬ 
ne Sovietica, Lenin e così via; ed esortava 
certi fascisti « dotti » o « ragionatori », e per¬ 
tanto sospetti, a rispondere ad argomenta¬ 
zioni che avessero un’ombra di antifasci¬ 
smo, etico, filosofico, storico od economico 


che fosse, tirando fuori e esibendo il mem¬ 
bro. Il che faceva spesso negli accesi « dibat¬ 
titi ideologici » che si svolgevano in federa¬ 
zione. 

Rosselli contava su un esìguo numero di 
amici e dì discepoli fra gli studenti; discu¬ 
teva con loro nei corridoi e probabilmente 
si trovavano altrove. In quanto a me an¬ 
corché immerso nell’apatia, solidalizzavo con 
il nuovo insegnante, il che non mi era dif¬ 
ficile anche perché ero antifascista dai sedici 
anni (ché per esserlo non occorreva il pieno 
uso della ragione; bastavano la vista, l’udito, 
l’olfatto e, in genere, gli istinti animali). 

Gli sciacalli fascisti di Facoltà comincia¬ 
rono a non dar tregua a Rosselli; si finì per 
far lezione con i questurini alla porta per 
proteggere dal manganello il professore e 
i pochi coraggiosi uditori. Oso appena scri¬ 
verlo; in un certo giorno Rosselli fu dura¬ 
mente percosso e l’infame libello degli sbirri 
universitari, « l’Ateneo », magnificò il gesto 
con un « fondo » : « Schiaffeggio il prof. Ros¬ 
selli ». Egli era stato specialmente attaccato 
per l’adozione del libro di Keynes in cui 
si diceva che non avendo la lira italiana 
budella da riempire di olio di ricino e testa 
e spalle da bastonare, sarebbe stato un sog¬ 
getto poco arrendevole per la stabilizzazione. 
Fra i percotitori di Rosselli, era una delle 
peggiori canaglie dei Gufi : un mostricciat- 
tolo fisico e morale, israelita per puro caso, 
che imparò poi a sue spese che cosa fosse 
il fascismo: accanito fumatore, finì per fu¬ 
mare se stesso in una qualche ciminiera in 
terra tedesca o polacca. Epitaffio questo che 
può parere, ed è, crudelissimo, ma io, inutile 
dirlo, non avevo mai avuto idee razziste; 
anzi ero in affettuosi rapporti con numerosi 
amici israeliti che avrei anche aiutato, in 
seguito, nei limiti del possìbile. Ma detto 
mostricciatttJo consumò ben altre angherie, 
alle quali si accennerà in pìccola parte in 
queste note; e l’epitaffio quindi rimane. Chi 
lo trovi disgustoso e troppo pesante, rilegga 
quanto disse Amleto a proposito di Rosen- 
crantz e Guildenstem, strumenti di morte 
che lo portavano a morte e perirono invece 
con le loro stesse mani (•). 

Le successive vicende di Carlo Rosselli 
sono notissime; costretto a lasciare la Facol¬ 
tà c, dopo l’espatrio di Turati, arrestato, pro¬ 
cessato e condannato. Il Preside della Fa¬ 
coltà, il prof. Ortu Carboni, lo difese a 
Savona in tribunale, elogiando la sua probità, 
la sua com[>etenza scientìfica e la sua cul¬ 
tura. Poco dopo l’onesta deposizione, il Pre¬ 
side fu dimesso dalla Presidenza e nel 1934 
venne posto definitivamente a riposo. Ma con 
la sua rettitudine e con la sua fortezza d’ani¬ 
mo aveva dato anche lui un esempio, uno 
di quei rari esempi, che in tempi di codar¬ 
dia suonarono, e suonano ancora oggi, come 
una voce animatrice. 

L’inevitabile cerimonia dì saluto al vec¬ 
chio Maestro venne organizzata alla cheti¬ 


chella dal Magnifico e fascìstissìmo Rettore 
di cui qui non si fa parola dato che da tem¬ 
po, con il suo degno genero, anche lui pr®; 
fessure alla Facoltà, riposa sulle colline à\ 
Stagliene. Basti dire che fermava gli stu¬ 
denti nei corridoi, nello scalone ed anche 
in piazza, urlando quando era il caso, 1" 
tono caporalesco: « Perché non fa il saluto 
romano? ». E lo voleva perfetto, rettifican¬ 
dolo al bisogno. Io non possiedo alcuna 
nozione della disciplina che insegnava quel 
Magnifico, ma sono convinto che la mano¬ 
vra del « braccio alzato in perfetto saluto » 
fosse il suo maggior merito scientifico. 

11 Rettore aveva pronunciato brevi parole 
di saluto e di commiato in onore del Pr^ 
side di Facoltà uscente di carica e la ceri¬ 
monia sembrava concludersi senza incidenti 
con la consegna della solita medaglia. Si 
temeva tuttavìa, perché il giubilato era, olti* 
che onestissimo uomo e valente scienziato, un 
carattere indomabile ed un fervente liberale- 



I balilla in Germania nel '35 


Ed infatti un cerretano gufino ruppe 1 * 
uova nel paniere e volle dir la sua : « Be® 
venturato il Preside, a lasciar la scuola i® 
quei tempi di eroismo mentre sorgevano 
tante alme cose! Oh, come diverse le turbe 
degli studenti di un tempo, dei tempi un®" 
schinì... ». 

Il vecchio Preside era scattato a queste 
inopportune parole : « Ringrazio per ij 

saluto, ma non posso lasciar insultare quei 
tempi, i miei tempi. Generazioni di studenti 
ebbi allora e mai la nostra Patria mi parve 
più bella. E furono questi "ignavi”, quei 
"meschini” che perirono a centinaia d* 
migliaia e con essi caddero tre imperi di¬ 
spotici. E fra quelli, furono gli studenti 
cui dedicai i miei "complementi di mate- 

(•) Orazio : « E così Guildenstem e Roseti- 
crantz veleggiarono verso la morte? ». 

A mieto : « Ebbene, amico mio, sono stati 
loro ad amoreggiare con questa missione. I» 
non li ho sulla coscienza: perché han voluto 
intromettersi nella faccenda?... ». 


3 ff 

















'natica” ed i cui nomi splendono in quella 
lipide che e alle vostre spalle e che vorrei 
non inghiottisse altri simulacri di cadaveri, 
p. essi furono grandi e belli e sacra mi è 
« loro memoria! ». 

Un fremito di ammirazione, appena re¬ 
presso, per il coraggio dimostrato dal vec¬ 
chio Maestro, passò fra le fila degli studenti 
(esclusi naturalmente i caporioni dei Gufi) 
c rallegrò certamente il cuore di molti pro¬ 
fessori. Chi impallidì, in un vero accesso 
isterico, fu invece il Rettore tanto più che 
non cessava di osservare il segretario fede¬ 
rale che, indignatissimo, portava già la mano 
all’organo del suo pensiero e cioè alla bot¬ 
toniera dei calzoni. 

11 Rettore tentò di chiudere la cerimonia 
con ampi sorrisi, ma il vecchio Maestro par¬ 
lò ancora ; « Non so se io abbia avuto dei 
meriti didattici e scientifici. Me ne vado co¬ 
munque e siccome sono un matematico e 
non un oratore, mi limiterò a sperare di 
essere stato sufficiente. Nessuno di noi è 
necessario, d'altra parte. Un solo merito mi 
riconosco ed è di natura morale : quello di 
non aver mai mutato casacca ». 

®^l«nza con la barba e scienza fascista. 
Ricordi. Rosselli è oggi una cara ombra nel 
pensiero di chi scrive. Alcuni frutti del suo 
insegnamento, avrei dovuto ritrovarli nel 
dolore e nel travaglio. Anzi, per anni fissai 
sulla carta certe mie meditazioni « econo¬ 
miche », sperando di sottoporle a Rosselli 
nllora all’estero, dopo la fuga. Poi, venne 
1 eccidio mussoliniano di Bagnole sur l’Ome. 

Intanto, i pochi veri maestri di vita e di 
scienza se ne andavano ed uomini nuovi 
entravano a frotte nell’Università. Ricordo 
1® disgustosa prolusione di un incaricato: 


« Noi non insegnamo la vecchia scienza con 
la barba; noi insegnamo la nuova e vera 
scienza fascista». E all’esame: « Cosa c’c 
stato di imporunte in Sardegna quest an¬ 
no.’ ». Io tacevo pensando a qualche opera 
del regime. No, mi sbagliavo; si trattava 
del regime stesso : « Ma c è stato il Duce, 
c’è stato il Duce! ». Venni approvato con 
il minimo, come era, d’altra parte preven¬ 
tivato. 

Rimanevano però in Facoltà — per i po¬ 
chissimi studenti che volessero ascoltarli co¬ 
me Maestri di dottrina ed imitarli nel rigore 
morale — alcuni insegnanti ancora sfuggiti 
aU’eliminazione, egualmente stupida e cie¬ 
ca, del fascismo e della morte. Primo fra 
questi, anche per le persecuzioni che subì 
ad opera del regime, Attilio Cabiati. Sul¬ 
l’opera di Cabiati, e sulla sua vita, altri scris¬ 
sero con equo giudizio e amore di disce¬ 
polo (« Attilio Cabiati : In memoriam » di 
Luigi Federici e di Orlando D’Alauro; Ar¬ 
rigo Caiumi, « Ricordo di Cabiati », 1951). 
In questa sede vorrei soltanto ricordare le im¬ 
pressioni soggettive di quella presenza e 
di quell’insegnamento. 

11 Cabiati (1872-1950), uno dei maggiori 
economisti italiani òcH’indirfzzo liberale e 
liberista, trasfondeva nei suoi scritti e nelle 
sue lezioni il suo credo economico, il cui 
impulso, oltre che dai classici, aveva tratto 
dal Pareto del « Cours d’èconomie politi- 
que », dal « Manuale di economia politica » 
e dal « Manuel d’économie politiquc ». Ra¬ 
ramente si riferiva alla « Sociologia Gene¬ 
rale ». 

Le lezioni di Cablati. Le lezioni sul cosmo 
matematico dcH’cquilibrio economico, pre¬ 
sentato dal Cabiati con rigorosa « geome¬ 


tria », nel quale l’uomo non potrebbe porre 
le mani se non rovinandone l’armonia crea¬ 
trice di ricchezza, mi abbagliarono in quei 
lontani anni. E così la famosa teoria dei 
costi comparati del Ricardo, immersa nel- 
l’cquilibrio economico, alla cui csplicitazio- 
ne il Cabiati dedicò tutta una vita, ricer¬ 
candone le più sottili applica^oni, nelle più 
diverse contingenze delle vicende economi¬ 
che, mi appariva come una suprema legge¬ 
guida, una formula einsteiniana avant la 
lettre che governava il mondo deH’economia. 

Ma a dire tutto il vero, qualche bello 
spirito, non per irriverenza verso il Mae¬ 
stro, ma come giovanile sfottimento della 
teoria in cui tutto il mondo economico « si 
teneva » matematicamente, mormorava fa¬ 
cezie come quella che segue : « Si abbassa 
il saggio di sconto, il capostazione fischia, 
le galline fanno l’uovo, il gallo canta, piove, 
il gatto miagola c così via ». 

Facezie queste di nessun conto; altre obie¬ 
zioni presero, molto più tardi, consistenza 
all’esame retrospettivo dei vecchi studenti 
specialmente dopio l’avvento di Hitler al 
potere e la conseguente guerra catastrofica. 
Cabiati tenne delle lezioni su « T he econo¬ 
mie consequences of thè peace » di Lord 
Keynes, specialmente sul famoso problema 
delle riparazioni tedesche praticamente ine¬ 
seguibili: la Germania cioè non avrebbe 
potuto pagare le riparazioni di guerra con 
un’eccedenza delle esportazioni sulle impor¬ 
tazioni, senza rovinare direttamente o indi¬ 
rettamente, l’economia del paese importato¬ 
re. Non pochi sono quelli che hanno riflet¬ 
tuto, durante e dopo la seconda guerra mon¬ 
diale, sul « problema del trasferimento », 
ma rari coloro che lessero quanto scrisse 
Etiènne Mantoux (caduto in servizio attivo 
il 25 aprile 1945); il quale dopo aver ricor¬ 
dato Tcnorme incremento della produzione 
ottenuto m Germania, grazie agli sforzi del 
regime nazista, all’adozione di alcune teori¬ 
che del keynesismo, aggiungeva : « Si ri¬ 
sponderà forse che l’argomento (l’incremen¬ 
to della produzione nazista) dice poco, e che 
i quindici miliardi di marchi spesi annual¬ 
mente dalla Germania per il riarmo fin dal 
1939 non danno la misura della sua capa¬ 
cità di pagare, perche i prodotti non pote¬ 
vano essere trasferiti all’estero »; ma il pro¬ 
blema è appunto questo! e Mantoux conti¬ 
nuava : « Sarebbe interessante chiedere ai 
cittadini di Varsavia, Rotterdam, Belgrado, 
Londra e Coventry... che cosa ne pensino di 
un argomento simile! Tutti hanno assag¬ 
giato a sufficienza la quantità e la qualità 
dei prodotti tedeschi! ». 

Parole queste che implicitamente poggia¬ 
no sulla premessa del concetto di impe¬ 
rialismo, mentre Keynes e Cabiati, seppur 
con profonda convinzione morale, conferi¬ 
vano, in quel caso, corpo quasi ipostatico 
a teorie perfette solo per il pensiero econo- 


i 


*■’ASTROLABIO - 4 giugno 1967 


31 


cronache italiane 









tnico, indctenninato e matematico. 

Ma tutto ciò non tangeva, e non poteva 
tangere allora, il mio giovanile entusiasmo: 
tradurre nella feccia di Romolo quella divina 
città di Platone mi sembrava sempre l’im¬ 
presa più degna, anche se più ardua. Comun¬ 
que, in quegli anni di dilagante interventi¬ 
smo, di corporativismo proliferante e di mi¬ 
stica dell’azione cieca e violenta, il Cablati 
difendeva la forza e ' dignità della ragio¬ 
ne; di una ragione che non si abbassava, non 
si sminuiva, non si prostituiva. Da parte mia 
e dell’esiguo gruppo di studenti che si sco¬ 
prirono antifascisti, seguivamo con rispetto 
e godimento le sue lezioni, ripetendoci e 
ripetendo ad amici e conoscenti, le non 
velate allusioni e le argute, e talora feroci, 
puntate che il Cablati non risparmiava di 
fronte alla quotidiana « betise » dei provve¬ 
dimenti economici corporativi. 

Il folto gruppo degli studenti irrimedia¬ 
bilmente gufini, tentava spesso di distur¬ 
bare le lezioni, ma non si osava interrom¬ 
perle od inveire contro il Maestro. In fin 
dei conti, anch’essi erano fatti a somiglianza 
di uomo. Si limitavano a mormorare, a de¬ 
ridere e a sghignazzare. Soltanto una volu 
uno sgherro del Guf, sorretto da una per¬ 
sonale, superba e asinina ignoranza, e por¬ 
tato dall’ondata di stupidità dei sutM segua¬ 
ci, cicche talpe di fronte ad ogni ragiona¬ 
mento economico, si era alzato in piedi, 
dopo che il Cablati aveva criticato un prov¬ 
vedimento del regime, ed aveva inveito: 
« Queste affermazioni sono in contrasto 
inamissibile con le nuove verità corporative 
espresse dal genio del Duce; sono anti¬ 
quate, ultrasorpassatc; bisogna che io le 
confutil ». Al che Cablati aveva cortese¬ 
mente invitato lo studente a sedersi e a 
ragionar con lui. Ma il gufino non si era 
seduto ed aveva urlato con forza, arrossen¬ 
do come un tacchino in foia : « Non è vero! 
Non è vero! Non è vero! Tutte balle! Viva 
il Duce! » ed era uscito dall’aula sbattendo 
la porta : parodia miserrima e grottesca delle 
velleità del sarto manzoniano dinnanzi al 
Cardinale Federico. 

Corporativismo e scienza econontica. La 
lotta contro il sovversivo, il cosiddetto rudere 
del passato, venne allora iniziata in altro 
modo e condotta a fondo. Verso il 1924, si 
tentò la corruzione. A Cabiati, Mussolini 
offerse condizioni finanziariamente eccezio¬ 
nali perchè scrivesse sul « Popolo di Roma ». 
Dopo il rifiuto, venne il peggio: Cabiati 
collaborava ad un grande giornale del Nord 
e percepiva un compenso annuo di settan- 
tamila lire (1926) per i suoi articoli; e pro¬ 
prio nel 1926, gli fu proposto di apportar 
ritocchi ai suoi elaborati e dopo il nuovo 
rifiuto, venne dispensato dall’incarieo di 
commentatore economico-finanziario con il 
pretesto che « non era iscritto al partito na¬ 
zionale fascista ». Cabiati tuttavia non lasciò 


la cattedra e prestò giuramento di fedeltà al 
governo; egli rimase nell’Università, forse 
per certe ragioni che Zangrandi (« Il lungo 
viaggio attraverso il fascismo ») ha così ben 
illustrato; volle, in una parola — non si 
può dubitare del contrario — conservare ad 
ogni costo il suo posto di batuglia come 
educatore. Si è anche detto che Cabiati, co¬ 
me altri, venne consigliato da un insigne 
giurista che gli assicurò che un giuramento 
così coattivamente estorto non aveva alcun 
valore legale. Ma la sua fine accademica 
andava avvicinandosi. Famosa — passò di 
bocca in bocca — la sua risposta ad un 
certo Bottai, allora Ministro dell’Educazione 
nazionale, quando questi io esortò a intro¬ 
durre nel suo insegnamento la dottrina cor¬ 
porativa : « Non mi è possibile accontentare 
l’E. V. essendo io insegnante di Economia 
Politica ». 

Nell’aprile del 1939 infine fu « dispensato 
dall’insegnamento », molto prima dei limiti 
d’età, per aver espresso in una lettera pri¬ 
vata indirizzata al Ministro Thaon de Revel 
la sua opposizione alle leggi razziali. Tale 
lettera venne a conoscenza di accesi elementi 
fascisti, prima che allo stesso Ministro. E 
Thaon de Revel dovette procedere alla de¬ 
fenestrazione del Cabiati, si dice, a malin¬ 
cuore. Forse per una certa ammirazione 
personale per lo scienziato; forse perchè al¬ 
cuni fascisti più avveduti, più accorri e pre¬ 
saghi dell’avvenire, sentivano il vuoto intorno 
a sè e, ncH’angoscia di quella solitudine, si 
preoccupavano del baratro in cui stava per 
precipitare non solo il loro gruppo ma l’in¬ 
tero paese. Tanto è vero che se non c’è 
un’opposizione, bisogna inventarla. Incomin¬ 
ciava, in ogni modo, il doppio gioco. 

Oggi, ricordo, fra i tanti, due episodi del¬ 
la presenza e dell’insegnamento di Cabiati: 
il suo motto, che egli ripeteva agli studenti 
gufini rumoreggianti, durante le lezioni: 

« Io non ho paura di nulla e di nessuno »; 
e, forse nei momenti in cui la sua solitaria 
amarezza traboccava, non mancava di ripe¬ 
tere che l’uomo è un animale nato con due 
gambe per camminare in posizione eretta 
e non per strisciare. E in altri giorni, nel 
1933, quando l’economia italiana suva per 
sfasciarsi, allorché intervennero i noti prov¬ 
vedimenti che istituirono l’l.R.I. c l’I.M.I. 
(profitti privati, ma perdite pubbliche, aveva 
scritto da tempo Pareto), Cabiati aveva di¬ 
scusso lungamente la situazione in classe, 
criticando a fondo quel naufragio dell’eco¬ 
nomia fascista; e sottolineando che le leggi 
economiche cacciate dalla porta rientrano 
dalla finestra. 

Da parte mia — che quantunque laureato 
continuavo a seguire le lezioni di Cabiati — 
e con Vincenzo mio intimo amico, non 
iscritto al P.N.F., eravamo convinti che il 
maestro non avesse potuto dire tutto su quel 
mostruoso fallimento dell’economia italiana, 

« risanato » a spese del contribuente. Fu al¬ 


lora che incontrammo, in Galleria Mazzini, 
Cabiati e il compianto Prof. Moretti, ine*" 
ricato di Storia Economica e di Economi* 
Politica, al posto di Carlo Rosselli, dopo che 
questi aveva dovuto lasciare la cattedra (e 
del quale, come docente coscienzioso e illu¬ 
minato, aveva riconfermato i programmi e 
i testi). Cabiati e Moretti passeggiavano, di¬ 
scutendo animatamente, certo del « fattac¬ 
cio ». L’ardente curiosità mi spinse, con Vin¬ 
cenzo e pochi altri a pedinarli, a turno; * 
fiancheggiarli per afferrare qualche parola 
significativa. Purtroppo, non sapemmo imi' 
tare la tecnica degli « occhi di lince » Of 
spie del regime nel gergo antifascista p"' 
colto; mentre popolarmente eran detti « bec- 
cheletri », forse dal manzoniano michelctu, 
rifuso con beccamorti; sicché un questort 
dei tempi più biechi del fascismo si ebbe 
addirittura il nomignolo di San Michele 
Arcangelo). Ma la tecnica degli improvvisati 
« occhi di lince » era rudimentale, sicché 
riuscirono ad afferrare solo alcune smozzi" 
cate parole : « conseguenza ineluttabile »', 

«capitalismo di stato»; «preparazione alla 
guerra ». Comunque gli amici si riunirono 
la sera al « Caffè del Genio », nei presfl 
dell’Università, o al « Vero Frascati », e nt 
dissero di ogni specie, tutti d’accordo peri 
che con quella nuova situazione si iniziavi 
un periodo che avrebbe dovuto concludersi 
tragicamente. Furono poi illuminati da uno 
scritto del Cabiati stesso, in cui discutendo 
gli interventi del governo a favore delle in¬ 
dustrie pericolanti, ebbero modo di leggere: 
« Anche nella vita economica la morale ha 
un peso, e lo ha rintclligenza. La libera 
concorrenza si distingue dal libero brigan- 
raggio appunto perchè presuppone, pel suo 
]air play, queste due qualità » (La Riforma 
sociale, 1933). 

L'illusione del liberismo. In quanto a Ca¬ 
biati, sopravvisse alla guerra, ma non pO" 
tette tornare ad insegnare in quella cattedra 
dell’Università di Genova dalla quale era 
stato allontanato. Morì a Torino, a settantot¬ 
to anni, già morto purtroppo alla scienza 
da qualche tempo. Una malattia aveva cru¬ 
delmente accelerato c ingigantito in lui il 
decorso della umana senescenza, immergen¬ 
dolo in un oblio delle cose terrene che, se 
valse a conferirgli una perfetta serenità ài 
spirito, lo sottrasse peraltro ai suoi studi 
preferiti. 

E forse, per lui, « non veder non udir fu 
gran ventura ». Egli fu, comunque, non 
soltanto un liberale di sinistra, ma forse, nel 
senso migliore del termine, un « utopista ». 
ehe si sforzava, seppur con signorile scetti¬ 
cismo, di attuare nel caotico e sordo mondo 
umano la bella armonìa delle leggi econo¬ 
miche pure. E ciò quando già dal 1891-1899. 
Pareto — forse il suo maestro fra maestri 
— andava consumando, per così dire, il 
« mito lìbero scambista assoluto » che ispi- 


32 










^'Annunzio a fiume 


fava l’attività dell’aristocratica « Soaetà 
Adamo Smith » di Firenze, della quale Pa¬ 
reto era membro influente. L’urto continuo 
il suo « mito » subiva nei confronti del¬ 
la realtà concreta, e delle più realistiche 
concezioni scientifiche che via via acquisiva, 
spinsero Pareto, come è noto, a raccogliersi 
c a meditare su questo contrasto tra fede e 
scienza c ad affrontare la sociologia. Pareto 
lamentò infatti ripetutamente, con l’amico 
^antaleoni, la caduta di una grande e nobile 
sllusione giovanile: il liberismo per l’econo- 
rrua italiana. Per contro, Cabiati, così mi 
sembra oggi, si irrigidì, ad onta del suo 
vivo senso della realtà, nel vecchio « mito », 
malgrado la sua origine socialista « all’acqua 
di rosa » e al suo impegno politico, che si 
potrebbe anche dire « laburista ». Comun- 
^ue, a Cabiati che faceva notare al Maestro 
tl suo conservatorismo antiproletario, il Pa- 
ceto rispose con una nota lettera che vale tut¬ 
tavia la pena di essere riletta: 

« Io non so dove lei ha trovato che io 
tono ferocemente avverso agli operai. Non 
sono ni nemico, ni amico loro. Non voglio, 
tjuando mi occupo di scienze, avere nessuna 
Ude. Adorare Giove, la Vergine Maria, o 
'I dio operaio, o democratico, per me i tut- 
^ttno. Ma non cerco menomamente di indur- 
te gli altri a fare come me. Anzi reputo che 
fede ì il fattore principale del progredire 
delle società umane. Io la studio dal di fuori, 
tome un uomo può studiare l'automobilismo 
senza mai andare in automobile. Non avendo 
Nessun Panteon non ci posso mettere dentro 
la solidarietà, ni tante altre belle cose. 
^el resto si può, come il Pasteur, avere la 
Ude e studiare la scienza, ma occorre dire 
c fare come lui quando si esprimeva così: 

Pour entree dans mon oratoire, je ferme 
U porte de mon laboratoire". C'è un orato- 
'So umanitario e democratico, come c'è un 
oratorio cattolico; io rispetto chi entra in 
Questo e in quello, ma mi fermo sull'uscio, 
t rimango nel laboratorio ». 

Da tale cieco positivismo e da tale scon¬ 
solato pessimismo, nacque laboriosamente la 
“ Sociologia Generale », un indirizzo pur¬ 
troppo che, travasato in menti incolte, tor- 
bide e feroci, contribuì aH’ideolc^a del fa¬ 
scismo. 


^ Babele del fascismo. Ma altri incita¬ 


menti colpirono me e il mio gruppo di ami¬ 
ci, oltre che il comportamento morale c il 
classico insegnamento del Cabiati. Egli ave¬ 
va bensì più volte ripetuto che «la teoria 
liberista parte da premesse rigorose e ha 
un fondo pratico falso; la teoria socialista 
prende le mosse da premesse scientifiche 
false, e ha un fondo di osservazione veris¬ 
simo », ma aveva anche spinto la sua inda¬ 
gine, sia pure con conclusioni negative per 
l’economia socialista, ai nuovi problemi sulla 
possibile razionalità del socialismo, inseren¬ 
dosi nel «Simposio» aperto da Hall, Von 
Miscs, Dickinson, Cassel e soprattutto da 
Oskar Lange. Tutti germi fecondi che, a 
contatto con quelli copiosamente seminati 
da Carlo Rosselli, mi fecero, in modo molto 
confuso, intravedere, la possibilità di una 
società socialista in cui le ambivalenti « cate¬ 
gorie borghesi » (prezzo; profitto; interesse; 
rendita; mercato ccc.) potessero scindersi, 
perdendo il loro aspetto negativo collegato 
all’appropriazione privata, per assum^e 
quello del tutto positivo di nuovi «indici¬ 
guida », razionali per la produzione e la 
distribuzione sociali, in un regime di pro¬ 
prietà socialista, avente a sua base imprese 
sociali di proprietà collettiva, imprese sociali 
autonome. 

Io avevo avuto la ventura di sostenere la 
mia tesi sì in tempi fascisti, ma ancora in 
camicia bianca, e cioè non in divisa. Nel 
mio modesto lavoro, avevo cercato di sinte¬ 
tizzare gli indirizzi della cosiddetta scuola 
economica della finanza (per esempio Einau- 
ai e De Viti de Marco) con quelli della 
scuola politica, allora naturalmente prevalen¬ 
te e fascistizzata. Il relatore, ex «socialista 
della cattedra », ordinari»!», in jn’altra città e 
temporaneamente invric?'^ a Genova, mi 
aveva piuttosto maltrattato, accusandomi di 
essere addirittura un seguace del materialismo 
storico, semplicemente perchè sottolineavo 
come le più pesanti coazioni politiche in 
campo finanziario dovevano fare inuelut- 
tabilmcnte i conti con l’economia; e mi 
aveva attaccato aspramente perchè non ave¬ 
vo seguito le sue idee (naturalmente la scuo¬ 
la politica rinnovata dal genio del Duce). 
Avevo così dovuto lavorare da solo — senza 
l’aiuto di alcun maestro — e credevo, e 
credo tuttora, di aver fatto qualcosa di pas¬ 
sabilmente buono. Uscii comunque dall’aula 
ccn un insperato centosei e fui felice di dare 
addio a quelle aule. Felicissimo delle calo¬ 
rose inaspetute congratulazioni che mi fece 
in privato il Professore di ragioneria, la mia 
bestia nera : « Bravo dottore! Lasci che co¬ 
struiscano la loro torre di Babele. Odierà. 
Bravo dottore! ». 

La laurea di Vincenzo. Ma non è di questa 
laurea che si vuole qui discorrere, bensì di 
quella del mio amico Vincenzo, figlio di 
uno scaricatore del porto e compagno di 
ideali, di studi, di disperazione e di rinuncie. 


Più giovane di me doveva osservare, ancor¬ 
ché non iscritto al Guf, la disposizione che 
imponeva nella cerimonia delle lauree la 
camicia nera e il saluto romano. Molti anni 
dopo la mia laurea, seguivo i lavori prepa¬ 
ratori di quella di Vincenzo, nell’imminenza 
della sessione del luglio 1936. 

Vincenzo aveva trovato il bandolo del suo 
tema finanziario e lavorava con passione ed 
audacia; scriveva cartelle su cartelle, cer¬ 
cando di dimenticare il peggio. Oramai tutte 
le lauree in scienze economiche e ptolitiche 
erano — con qualche rara eccezione — saggi 
di prostituzione littoria, in cui i laureandi 
coscientemente, o trascinati da quella como- 
d.t espressione che si dice « lo spirito dei 
tempi », gareggiavano. Già il tema di Vin¬ 
cenzo, prettamente scientifico, costituiva un 
grande ostacolo. Fra tutte quelle camicie nere, 
egli sarebbe stato un fantasma bianco, non 
già del tempo passato, ma dell’avvenire. Nel¬ 
l’imminenza dello « scandalo », già risaputo 
dai gufi, gli sbirri che capeggiavano l’asso¬ 
ciazione studentesca lo avevano convocato, 
r mostricciattolo, di cui si è purtroppo già 
fatto parola, lo aveva dapprima adulato, van¬ 
tandolo come giovane di grande ingegno 
e giurando che veramente lo stimava, anche 
perchè figlio di operai, ceto che il Duce 
altamente prediligeva. Gli aveva anzi offerto 
di « mettersi in regola », specialmente dopo 
che la conquista deH’impero, aveva definiti¬ 
vamente cancellato le vecchie divisioni fa¬ 
ziose, fondendo in un unico e indissolubile 
fascio tutti gli iuliani. 

Vincenzo aveva rifiutato e si era allora 
passati alla maniera forte, facendogli sussur¬ 
rare da conoscenti che si sarebbe inscenata 
una manifestazione di protesta il giorno del¬ 
la sua laurea e poi sarebbero venute « le 
botte, sempre botte... ». E dopo ancora l’im¬ 
possibilità pratica di un qualunque lavoro. 

Anche il valente Professore, che doveva 
essere relatore della dissertazione, si era 
preoccupato della sua responsabilità. Aveva 
parlato a quattr’occhi con Vincenzo: am¬ 
metteva la sua capacità e la validità della 
tesi, ma via che non si ostinasse; era ormai 
una formalità necessaria. Gli parlò vaga¬ 
mente della fatale caduta dei ceti medi, por¬ 
tatori delle idee di libertà; ammise che si 
era caduti in un nuovo medioevo; gli citò 
passi dalla solita « Sociologia Generale » del 
Pareto, gli promise addirittura un assi- 
stentato. 

Vincenzo lo lasciò parlare e si limitò a 
ricordargli l’immortale detto di Ibsen : « An¬ 
che se noi fossimo ciechi, ciò non escludereb¬ 
be l’idea della luce »; e rifiutò con ferma 
cortesia ogni proposta. 

Con queste belle prospettive, egli lavorava 
giorno e notte, riempiendo di attività la breve 
vigilia; lavorava nella sua povera camera, 
all’ultimo piano di un vìcolo, avvolto nei 
suoi stinti vestiti da operaio. 



L'ASTROLABIO - 4 giugno 1967 



cronache itaUane 














italiane 


e 

s 

« 

è 




Si avvicinava il giorno della laurea e si 
addensavano le minacce; si diceva che il 
Guf era mobilitato al completo; si preannun¬ 
ciavano manifestazioni di disprezzo e peggio. 

Mentre diversi amici antifascisti e chi 
scrive queste note stavano discutendo sulla 
« eterna » situazione nel solito bar, capitò 
Vincenzo, pallido e stravolto; sembrava farsi 
forza per poter parlare : « Non preoccupa¬ 
tevi; non sarà nulla, ma ho saputo stamat¬ 
tina che in questura c’è una denuncia contro 
di me perche mi avrebbero visto più volte 
stracciare il "Popolo d’Italia”! Siamo pru¬ 
denti. Nessuno assista al simbolico rogo del¬ 
la mia laurea ». 

Gli amici tacquero. Soltanto un vecchio 
professore di liceo che talora li frequentava 
sbottò nel suo sdegno : « Così si perseguita 
un giovane! Ai miei tempi, una laurea era 
una festa; i professori gareggiavano nel- 
l’aiutare gli studenti meritevoli; i giornali 
le annunziavano e non solo per ragioni di 
cassetta. Si era lieti del dibattito delle idee 
e degli spunti originali. Ora, questi maledetti 
affossatori di noi e di loro stessi! E tutto 
questo per soffocare l’opposizione; ma a che 
cosa.' Almeno la Inquisizione difendeva i 
dogmi di un’antica e alta dottrina, ma 
questi scarafaggi hanno un patrimonio di idee 
che non arriva al Manuale del Caporalel ». 

Le urla dei gufi. Alle quattro del pomerig¬ 
gio, Vincenzo entrava in Facoltà. Mi trovavo 
ad attenderlo e lo vidi apparire in fondo al 
lungo corridoio che immetteva nell’Aula 
Magna e subito mi balzò agli occhi la ca¬ 
micia candidissima con il collctto inamidato, 
alla moda dcH’cpoca. Vincenzo veniva a 
cafx) alto con il suo volumetto sotto il 
braccio, quasi per darsi forza. Camminava 
con passo stanco c strascicato, tanto simile 
a quello del padre c del nonno che avevano 
sempre lavorato sulle banchine del porto. 
Stava così per concludere la sua vita di stu¬ 
dio e di sacrificio, per la quale il padre 
aveva sudato e la madre economizzato sul 
povero desco; c il giovane rinunziato a tutto 
ciò che fa bello e fulgido il nome stesso di 
giovinezza. 

Fischiavano e urlavano con le loro ben 
curate facce da maiali coronate dal lezzo 
dei capelli lunghi e impomatati; orridi, inam¬ 
missibili per la ragione; uscivano in espres¬ 
sioni di insultante bestialità; ributtanti nei 
loro abiti costosi e nella camicia di seta nera 
fuori ordinanza. Spesso figli dei ladri c degli 
assassini delle federazioni e delle confedera¬ 
zioni e di lutti i feudi di stato, fischiavano 


e urlavano, stretti in gruppo. Volevano pre¬ 
munirsi contro qualsiasi cenno di approva¬ 
zione. La maggior parte degli studenti non 
si unì al coro e forse per questo i caporioni 
del Guf non osarono percuotere. Vincenzo 
passò dignitoso e si mantenne impassibile in 
mezzo a quelle grida ignobili. Alla sua 
dissertazione di laurea, era preceduta quella 
di un ricco agrario di Sanremo che studiava 
questioni geografiche e specialmente orogra¬ 
fiche riguardanti la frontiera, in vista della 
guerra con la Francia, e soffiava ad ogni 
pagina bellicose rivendicazioni. Il relatore, 
cranio calvo e povero in ogni senso, non si 
stancava di elogiare il laureando, e il grosso 
contadino arricchito, in perfetta divisa, espo¬ 
neva i suoi piani. Ebbe centodieci, la lode e 
la pubblicazione. Alla proclamazione fu ap¬ 
plaudito freneticamente dai tristi confratelli; 
si ardeva ancora di entusiasmo per l’impero 
e la « vittoria sui cinquantadue stati », e il 
neodottore, uscendo dall’aula gridò ad altis¬ 
sima voce : « Cosa fa la Francia ? ». 

« Schifo! Schifo! » — rispose il coro dei 
« neri » e approfittò dell’occasione per una 
nuova fischiata a Vincenzo. 

La discussione della sua tesi fu però ac¬ 
compagnata da un inaspettato colpo di sce¬ 
na. Il rettore, creatura completamente ven¬ 
duta al fascismo, guardava Vincenzo con due 
occhi in cui sembrava che si torcessero vi¬ 
pere; non poteva staccare lo sguardo dalla 
camìcia bianca, arrossiva e sì agitava sul suo 
seggio, non rassegnato a quella vista. Per 
contro il relatore, uno scienziato puro, poco 
simpatico, ma ammirevole nella sua specia¬ 
lità, superò se stesso. Lodò incondiziona¬ 
tamente il lavoro e si rivolse a Vincenzo 
parlando come un suo pari; disse che, dopo 
tutto quello che si era scrìtto sulla vastissima 
materia, quel lavoro era quanto di meglio 
potesse attendersi; lo qualificò « una tesi 
classica » e si dichiarò lieto di aver potuto 
per la prima volta, imparare qualcosa da 
un discente. Invitò soltanto Vincenzo a di¬ 
scutere amichevolmente un punto contro¬ 
verso della dottrina. 

Il giovane, rinfrancato, si appoggiò al ta¬ 
volo e, coprendosi il volto con le mani per 
non vedere l’orrido aspetto del rettore e dei 
gufini, rispose con calma e precisione. Nessun 
gufo osò interromptere la discussione; tanto 
la cervellotica minaccia di essere « fregati » 
all’esame superava ancora l’amor di « patria ». 

La discussione fra gli esaminatori dovette 
essere lunga e laboriosa. Vincenzo ed io 
attendemmo in un angolo con altri 
due studenti, un ebreo rumeno, finito poi 
ad Auschwitz, ed un jugoslavo: tutti lontani 
dalla patria in quel luogo: « mes chers 
camérades, nous sommes Ics sans patrie ». 
Molti altri studenti sostavano nel corridoio 
con un’aria incerta e timida di simpatia, ma 
nessuno osava avvicinarsi, sotto l’occhio delle 
spie. Queste si erano raccolte a loro volta in 
un angolo, frementi di rabbia: certo pen¬ 


savano di già alle vendette e alle denunzie 
contro il professore. 

Venne infine il giudizio: Vincenzo cr* 
approvato con ottantotto su centodieci. Un 
urlo di trionfo, appena sedato, accolse la 
proclamazione c si rinnovarono le fischiate. 

Noi uscimmo sputando sulla soglia e sullo 
scalone della Facoltà, stringendo i denti, 
fatti per colpa altrui sìmili a quelli delle 
belve e sognando e augurandosi la future 
stragi dell’unica via di salvezza : la guerra 
liberatrice. In uno dei vicoletti che portavano 
alla casa del laureato, in Portoria, ci raggiun¬ 
se una figura nota, un vecchio bidello. Era 
un ometto pìccolo e vivace, con grandi baffo¬ 
ni spioventi, c uno sguardo mite e rasse¬ 
gnato. Vincenzo credette di essersi dimenti¬ 
cato la mancia, ma quello rifiutò arrossen¬ 
do : « Signor Dottore, io ne ho sentite delle 
tesi, ma una come la sua, in queste condi¬ 
zioni, mai! Centodieci e la pubblicazione 
doveva meritare e dieci anni di galera a quel 
porco maledetto di rivierasco che vuole la 
guerra con la Francia! Ma non abbia paura 
di nulla! Io so che è figlio di un lavoratore 
e conosco suo padre; abbiamo bevuto insienae 
tante volte dalla "Brigida". Non si scorag¬ 
gi: "Uccidete me, ma l’idea che è in me 
non l’ucciderete mai!” — lo ha detto Mat¬ 
teotti! Beati voi che siete giovani e vedrete 
"quel giorno”! E, se non si offende, mi 
permetta, come a un f>overo vecchio, mi per¬ 
metta dì offrirle da bere, per festeggiare il 
suo titolo ». Non potevano e non dovevano 
rifiutare. Bevvero all’osteria e sentirono che 
queil’uomo rappresentava le genuine ono¬ 
ranze accademìdie dell’anno XIV, sentivano 
nella stretta delle sue mani tremule la sicura 
promessa del giorno, del grande giorno, di 
« quel giorno ». 

La statua del navigatore. Molti, molti anni 
trascorsero. Cadde il fascismo e con esso 
caddero anche molte speranze. Vincenzo, 
laureato ma non iscritto al fascio, aveva cam¬ 
pato una vita grama, facendo il commesso 
di negozio e dando lezioni private; adesso 
stava morendo all’ospedale per un male in¬ 
guarìbile. Io lo visitavo ogni giorno per 
aiutarlo a morire. Dalla finestra della came¬ 
retta di dolore e di morte si dominava un 
vasto spiazzo incolto, dove — spaventosa 
vista — erano stati ammonticchiati frammen¬ 
ti, tronconi, ruderi, pezzi combusti di quei 
benefattoti e di quei padri della repubblica, 
che per anni i due amici, allora giovani, 
avevano incontrato in effige, scherzandoci 
sopra e beffeggiandoli. Spettri, ora, nient’al- 
tro che spettri, che pochi sarebbero riusciti a 
rivestire deH’antiche sembianze. Era quello 
l’ultimo giorno in cui avrei fatto vi¬ 
sita a Vincenzo, deceduto il giorno dopo. 
Non avevamo ormai più niente da dirci pri¬ 
ma del silenzio ma, per vincere quell’imba¬ 
razzo più insostenibile di ogni altro, ci spor¬ 
gevamo alla finestra, vicino alla quale ave- 


34 











trascinato Vincenzo, e discutevamo, per 
tJtr qualcosa ncJl’ora tremenda del tramonto, 
!*ull identità di quegli orribili mostri, che 
•n'cvano presieduto alla nostra giovinezza. 

Infine, dop<j l’ultimo abbraccio, scesi nel 
cortile e a fatica riconobbi il simulacro sul 
Suale si era particolarmente discusso: fatto 
3 pezzi, camuso e vischioso di muffa. Eppure 
lo ravvisai come Cristoforo Colombo. Con 
grandi cenni del capo e delle mani cercai di 
comunicare con Vincenzo che, sorretto dal- 
■nfermicra, mi salutava dalla finestra. Fui 
sicuro di essere capito e di aver trasmesso 
’* Hìcssaggio. 

Certo, le nostre vite erano state angariate, 
avvilite, umiliate e offese, ma qucH’cnorme 
e rozza statua del navigatore, abbattuta, in- 
Iranta e semisepolta fra innumeri erbacce, 
sarebbe certamente risorta come un inesora- 
ilc M festin de picrre » per assicurare al mon- 
o pace, giustizia e libertà; e magari per 
distruggere quanto aveva scoperto. Tutto 
era buio, ma quella era l’unica nostra dispe¬ 
rata luce simbolica: 

E poi noi sappiamo! 

L odio omtro la bassezza 
Stravolge la faccia. 

•■Vnche l’ira per l’ingiustizia 
Ecnde roca la voce, .\himc noi 
Che volevamo preparare il terreno per 
la benevolenza 

Non potevamo essere benevoli. 

^la voi, quando l’ora verrà 
Che l’uomo sarà un aiuto per l’iiomo, 
Pensate a noi 
Con indulgenza. 

GIULIO PIETRANERA ■ 

Ringrazio il prof. Oscar Ciannesini, il 
P^nj. Orlando D'Alanro, e il doti. Aroldo 
Meliga che mi hanno aiutato nel reperire 
‘ '"nteriale su cui si basa il presente scritto. 


PER LE OPERE DI 
ERNESTO ROSSI 

Nuovi contributi per la pubbli¬ 
cazione. ristampa e diffusio¬ 
ne degli scritti di 

ERNESTO ROSSI 
Guido Calogero, Carmelo Car- 
bone, Enrico Deeleva, Giorgio 
Levi Della Vida, Manlio Ma- 
9ini, J. W. Salvadorì, Ernesto 
Sestan, Altiero Spinelli, Au¬ 
gusto Torre, 
per L. 242.602 

La cifra finora raccolta am¬ 
monta a L. 1.966.402. 


DE DOMINE 


CENTRO DI RICERCA PER LE SCIENZE MORALI E SOCIALI 
ISTITUTO DI FILOSOFIA DELLA UNIVERSITÀ’ DI ROMA 
G. e. SANSONI EDITORE 

N. 19-20 - Dicembre 1966 - pp. 408: 


tin Buher 

Maurice Friedman 

P- 

3 

Il problema dei giudizi di valore in Max 

Weber 

Rene Konig 

P- 

1 / 

Il senso della storia 

Karl Lowith 

P- 

27 

Karl Marx e la futura società senza 

classi 

(ring Fetscher 

P- 

43 

Etica protestante e 'spirito’ del capi- 

talismo 

.Mano Miegge 

P- 

75 

L’orfano di Bismarck 

Franco Ferrarotti 

P- 

93 

Calvino e il suo contributo alla forma- 

zione del pensiero moderno 

Franco Lombardi 

P- 

101 

La sociologia di Adorno e Horkheimer 

Franco Ferrarotti 

P- 

143 

Feuerbach 1842: Necessità di un cam- 

biamento 

Necessità di un cambiamento 1942/43 

Carlo Ascheri 

P- 

147 

[Notwendigkeit einer Verandening 

1842/431 

Ludwig Feuerbach 

P- 

256 

Rassegna bibliografica .... 



295 

Cronache . 

Volumi entrati a far parte della Biblioteca dell'Istituto di Fi- 

P- 

359 

losofia dell’Università di Roma nell' 

'anno 1966 . 

P- 

370 

Di questo volume . 


P- 

385 


Indice dei nomi . P- 387 

Indice dei volumi recensiti . P- 404 

Indice dei numeri precedenti . p. 406 


DE HOMINE esce trimestralmente con fascicoli di almeno pagine 
160. L’abbonamento è annuo, ma può essere fatto per 4 numeri a 
partire dall’ultimo uscito: Italia L. 4.000, estero L. 5.000 o $ 8.50, 
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o $ 2.50. Prezzo dei fascicoli arretrati, rispettivamente L. 1.750 e 
L. 1.800 o $ 3.00. Salvo i numeri speciali. L’abbonamento, se non di¬ 
sdetto tempestivamente per raccomandata, si intende rinnovato. 1 ver¬ 
samenti vanno fatti sul c.c.p. 1/39776 intestato al « Centro di ricerca 
per le scienze morali e sociali. Istituto di filosofia della Università 
di Roma », o con assegno bancario, parimenti intestato, o con ogni 
altro mezzo e trasmissione, indirizzando sempre a « De homine », presso 
l’Istituto di filosofia della Università, Città Universitaria, Roma. Allo 
stesso indirizzo è da inviare anche ogni altra corrispondenza. Non si 
accettano articoli se non richiesti. 


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