la posta in gioco per il 1977
Un mutamento significativo
nel quadro politico
di Luigi Anderlini
• Le previsioni economiche per il
’77 sono tra le più fosche dalla fine
della guerra in poi. A parte quelli
che Giovanni XXIII chiamerebbe i
"profeti di sventura’’ e che per il
prossimo febbraio prevedono 600
mila disoccupati in più, sta di fatto
che il vincolo esterno della bilan¬
cia dei pagamenti (16 miliardi di
dollari di indebitamento) e quello
interno dei vari deficit pubblici che
si sono venuti accumulando (100
mila miliardi di lire) pesano sulle
spalle di una economia gracile, squi¬
librata, cosparsa da una serie di pu¬
rulente sacche di rendita, solcata —-
come nessun’altra in Europa — da
tensioni sociali territoriali e setto¬
riali (agricoltura), in maniera tale
da rendere difficile intravedere
l’uscita dal lungo tunnel della crisi.
Esplodono intanto le tensioni nel
paese: dalla delinquenza — orga¬
nizzata e non — che spesso, non a
caso, tenta di darsi un volto po¬
litico, da quel che succede nelle
carceri, alle polemiche che agitano
il mondo femminile e giovanile. Ci ‘
sono poi le tensioni, i problemi che
ncn esplodono e non perché non
vi siano ragioni di rabbia o di risen¬
timento ma perché essi si collo¬
cano in una zona dove si è superata
in negativo la capacità di manife¬
starsi e siamo già oltre la soglia del
collasso (penso all’agricoltura, al
sud, alle mille disfunzioni dell’appa¬
rato statale).
Su tutto questo galleggia da cin¬
que mesi un governo azzoppato co¬
me quello di Andreotti, che si reg¬
ge sulla non sfiducia e che deve
sfidare (ogni giorno ormai) i con¬
trasti che nascono nel suo interno
tra Pandolfi e Stammati, tra la An¬
seimi e Donat Cattin. Talvolta con
uno sforzo di semplificazione sem¬
bra che il contrasto sia tra chi cre¬
de che una possibile buona combi¬
natoria tra le variabili disponibili
(— salari, + produttività, ~ tasse,
esportazioni, — consumi, + rie¬
quilibrio della bilancia dei pagamen¬
ti, — disoccupazione, + fiscalizza¬
zione, + Friuli, + costi della speda-
lizzazione) con una equa distribu¬
zione dei sacrifici possa risolvere il
grosso dei problemi, e chi — te¬
mendo che tutto questo porti ad un
ingresso dei comunisti nell’area go¬
vernativa — non riesce a frenare
l’impazienza ed è tentato di but¬
tare tutto all’aria magari motivando
con ottime ragioni il suo gesto (i
600 disoccupati di Donat Cattin, o
l’asfissia delle imprese a causa de¬
gli alti tassi di interesse di cui parla
Andreatta). E sono certamente ra¬
gioni serie quelle di Pandolfi che
non vuole imboccare di nuovo la
perniciosa strada della revisione
precipitosa delle aliquote fiscali in
un momento in cui il gettito va au¬
mentando a un ritmo di oltre il 35
per cento all’anno e le forze vanno
concentrate nella lotta contro l’eva¬
sione, come sono buone ragioni
quelle di Stammati che non vuole
impegnare il Tesoro in nuove spese
senza contropartite di entrata (risu¬
scita l’ombra dell’art. 81 della Co¬
stituzione di einaudiana memoria).
Ottime — direi — le ragioni dei
sindacati schierati a difesa della sca¬
la mobile anche nei suoi meccanismi
meno plausibili, soprattutto dopo
che hanno acconsentito ad una ridu¬
zione del costo del lavoro (abolizio¬
ne ponti e ferie, scale mobili anoma¬
le e scarico delle indennità di liqui¬
dazione, calo dell’assenteismo) che
stime serie considerano vicina al 15
per cento.
Quel che l’italiano medio non rie¬
sce talvolta a capire è come, aven¬
do tutti almeno una parte di ragio¬
ne, non si trovi la maniera di de¬
finire una piattaforma comune ac¬
cettabile. Il fatto è che a questo
punto la decisione, la mediazione,
non può non essere politica e di cor¬
responsabilità politica delle forze de¬
cisive del paese. Come è noto' è
proprio questo l’ostacolo che osti¬
natamente la Democrazia Cristiana si
rifiuta di affrontare.
L’astrologia è — come è noto —
una scienza che ha poco a che fare
con la politica anche se — ad ini¬
zio d’anno — sono molti i polito¬
logi che indulgono a qualche estra¬
polazione in direzione del futuribile.
Appare tuttavia legittimo che anche
in Italia — come nella stragrande
maggioranza dei paesi del mondo —
un qualche interrogativo su quel che
ci aspetta nel ’77 venga posto. Vero
è'-che, per quella specie di comples¬
sa nebulosa politica che è l’Italia,
da noi le previsioni sono molto più
difficili che altrove. E tuttavia pro¬
prio le difficoltà di una previsione
dovrebbero essere di stimolo per ca¬
pire almeno le ragioni della nostra
imprevedibilità, rispetto al "tempo
che ci si apparecchia”.
La prima ragione della imprevedi¬
bilità è data appunto dalla nebulo¬
sità della nostra struttura politico¬
partitica. Alla prossima trasmissione
radiotelevisiva sull’aborto (20 gen¬
naio) saranno 11 i rappresentanti
delle varie formazioni politiche pre¬
senti in parlamento, con quali risul¬
tati per il livello professionale (o
di gradimento) della trasmissione è
facile immaginare.
Ognuno vuole mantenere il pic¬
colo o grande spazio che si è con¬
quistato mettendo di fatto in discus¬
sione il principio che sta alla base
di ogni democrazia moderna, che
cioè sono i partiti e le forze politi¬
che che debbono servire il paese
e non viceversa e che quando un
ruolo politico è esaurito è bene che
chi ne è portatore abbia per primo
il coraggio di affermarlo. Secondo la
logica di alcuni esponenti dei nostri
partiti minori l’Inghilterra, la Ger¬
mania e Francia dove, per ragioni
diverse, si è arrivati alle soglie del
bipartitismo e l’America dove il bi¬
partitismo è quasi assoluto, non do¬
vrebbero essere considerati paesi
pienamente democratici perché « le
forze intermedie sono state di fat¬
to distrutte dal rapporto preferen
ziale anche se antagonistico dei due
L'Astrolabio Quindicinale - n. 1 - 14 gennaio ^77
1
___ "n
la posta in gioco per il 1977
parti ri o raggruppamenti maggiori »
E dire che proprio i partiti minori
di cui stiamo parlando sono, in
Italia, i più severi sostenitori del
la democraticità pressoché perfetta
dei sullodati sistemi politici.
Lungi da me, si badi, l’idea di
voler sopprimere o condizionare
(con una variante alla legge eletto¬
rale, ad esempio) la vita delle for¬
mazioni minori. Quello che vorrei
che si capisse è che si può fare po¬
litica (e come!) anche senza essere
partiti, anche senza inserirsi (e spes¬
so a livelli meschini) nel gioco di po¬
tere quale necessariamente si confi¬
gura nel rapporto tra le formazioni
più propriamente partitiche.
Dal generale al caso specifico. La
nebulosità di cui si è parlato e la
instabilità che ne deriva si configu¬
rano in termini concreti a questa
maniera: riusciranno il PSI o il
PRI o — al limite — il PSDI con
un’azione autonoma o congiunta a
far cadere il governo Andreotti an¬
che contro la volontà dei comunisti?
Detto in termini ancora più concre¬
ti: le delusioni provocate dal dopo-
elezioni troveranno nei partiti inter¬
medi la forza di coagulazione in
positivo per forzare la mano ai co¬
munisti e rimuoverli dalla loro stra¬
tegia di consapevole prudenza?
Ancora: riuscirà all’interno della
DC 1 operazione di coagulazione a
destra di forze sufficienti per far
cadere, per mano del partito della
svalutazione, il governo Andreotti?
E sarà una caduta al buio? O assi¬
steremo, ancora una volta, a una
crisi che servirà solo a cambiare al¬
cuni uomini, per ottenere una dila¬
zione rispetto a certe scadenze e
per ricominciare come prima? Di¬
rei che quest’ultima ipotesi (a
parte il fatto della sostituzione di
Donat Cattin per la quale non sa¬
rebbe necessaria una crisi di gover¬
no) è tra le peggiori.
Una crisi di governo a breve ter¬
mine e al buio, con le scadenze che
attendono la lira, non può che ser¬
vire incondizionatamente il partito
della svalutazione. E lo sanno bene i
sindacati che, pur tenendo ferme
tutte le loro posizioni, si guardano
bene dall’assumersi le responsabili¬
tà di una crisi al buio.
Al di là di queste considerazioni
vale la pena di dare una valutazione
della reale posta in gioco per que¬
sto nostro 77. Si tratterà forse —
come teme Donat Cattin — dell’an¬
no in cui i comunisti spingendo a
fondo il pedale della recessione e
azzerando tutti i conti economici
delle nostre aziende vorranno aprir¬
si il varco, attraverso un’Italia ridot¬
ta a macerie, verso il socialismo?
O sarà, come magari auspica la par¬
te più retriva della confindustria,
l’anno in cui stringendo la classe
operaia nella morsa della crisi il pa¬
dronato riuscirà finalmente ad ave¬
re la rivincita del ’68 e del 75, ri¬
mettendo in pari i suoi conti e
dando alla classe operaia la basto¬
nata che si merita?
Ecco due ipotesi limite che io
mi sentirei abbastanza tranquilla¬
mente di scartare. Direi che se c’è
una intesa tra DC e PCI essa per
ora è solo e nel senso di evitare que¬
ste due ipotesi estreme.
Per il resto la partita è quanto
mai aperta. Se da Washington ver¬
rà in primavera luce verde all’in¬
gresso dei comunisti nella maggio¬
ranza avremo forse una crisi non
inutile di governo. Se la luce verde
non dovesse venire sarà la DC e i
problemi che il paese e i sindacati
le porranno, a dover fare i conti
con la concezione americana della
sovranità limitata.
La reale posta in gioco — al di
là di tutte queste che sono scherma¬
glie della polemica politica quotidia¬
na — è di sapere se riusciremo nel
77 a creare le premesse perche
1 Italia diventi un paese moderno
all’altezza delle democrazie progre¬
dite dell’occidente o se esso debba
scivolare verso soluzioni sudameri¬
cane. Il raggiungimento di un obiet¬
tivo di questo genere passa attra
verso un mutamento significativo
dell’attuale quadro politico anche se
bisogna fare attenzione al fatto che
non tutti coloro che chiedono il più
rapido possibile mutamento del qua¬
dro politico, sono poi disposti a fa¬
re quanto è necessario perché il qua¬
dro politico muti realmente.
Non di fare il socialismo si tratta
né di restaurare il capitalismo che
— allo stato puro — forse in Ita¬
lia non è mai esistito. Si tratta di
raccogliere quel che c’è di meglio
nella nostra storia recente e meno
recente, di liberarci del populismo
salvando i valori popolari della no¬
stra tradizione, di tagliare le radici
del clientelismo per permettere una
reale partecipazione, di smetterla col
consumismo senza abolire anzi
espandendo i consumi essenziali e
sociali, di cancellare l’immagine del¬
le imprese di stato come carrozzoni
in perdita salvando la presenza lar
ga e significativa della mano pub¬
blica nella nostra economia, di ri
dimensionare le propensioni nazio
nali per il folclore e l’improvvisa¬
zione senza dimenticare che l’inven¬
tiva personale e il gusto sono non
solo una qualità positiva del vivere
ma anche un modo per essere pre¬
senti nel mondo della produzione.
Detto in poche parole si tratta di
portare l’Italia — non astrattamen
te, non per come La Malfa vorrebbe
che essa fosse ma per come essa
realmente è — dalle sue condizioni
attuali, al livello delle democrazie
più progredite dell’occidente, sal¬
vandola dallo scivolamento verso
lidi sudamericani.
A decidere sarà ancora una volta
non tanto l’abilità dei politici di
vertice, la loro maggiore o minore
capacità di manovra, di convinzione
o di mistificazione, quanto la pres¬
sione che nella direzione giusta eser¬
citerà la coscienza di milioni e mi¬
lioni di uomini e di donne che
hanno acquisito la consapevolezza
della posta in gioco. L. A.
2
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 197’
Pei e i grandi
problemi
del momento
intervista a Paolo Bufallni
Come vedi il 1977, in generale, per
l’Italia e per il mondo?
Guardo al 1977 come a un anno che sarà
molto difficile, con la preoccupazione suscitata
dalla gravità dei problemi e delle contraddizio¬
ni presenti nella situazione italiana, ed anche
in quella internazionale, ma nel tempo stesso
con la fiducia che deriva dall’avanzata del mo¬
vimento operaio e democratico in Italia, e in
altri Paesi dell’Europa e del mondo, e in parti¬
colare con la fiducia che ho nella politica e
nella forza del nostro partito.
Quali ti sembrano i problemi più
grossi ed acuti aperti nella situazione
internazionale?
Sul piano internazionale, il problema tra
tutti preminente mi sembra sia quello che si
riesca a mandare avanti il processo della disten¬
sione, e a mandarlo avanti nei fatti: il che,
concretamente, innanzitutto significa realizza¬
re obiettivi di bilanciata e graduale riduzione
degli armamenti. Non sarà superfluo ricordare
che, nel nostro XIV congresso, al primo posto
nella nostra, strategia e linea politica abbiamo
messo proprio 1 obiettivo della distensione in¬
ternazionale, della riduzione degli armamenti
e della destinazione delle immense risorse, oggi
gettate nel pozzo senza fondo della gara degli
armamenti, alla soluzione degli immani proble¬
mi che affliggono l’umanità, quali quelli del
sottosviluppo, della fame, dell’inquinamento e
della rottura degli equilibri ecologici, delle cre¬
scenti difficoltà e crisi anche delle economie
dei paesi industriali più sviluppati. Per salvare
1 umanità dalla catastrofe e per avviare a solu¬
zione problemi di questa portata, sono assolu¬
tamente necessari la pacifica collaborazione e
una cooperazione economica programmata fra
Stati e popoli, la fine della corsa agli arma¬
menti, prpgressi consistenti sulla via del di¬
sarmo.
Non sarà superfluo ricordare che cardine del¬
la nostra politica è il principio che la ridu-
ziorte degli armamenti debba avvenire in modo
bilanciato e contemporaneo da parte delle due
superotenze e dei principali blocchi militari.
Infatti, noi siamo per una politica che sia at¬
tivamente rivolta a mandare avanti un proces¬
so che porti al superamento dei blocchi con-
Bufalini
frapposti; ma pensiamo che a questo scopo non
gioverebbero tentativi di alterare il rapporto
di forze esistente, perché ogni tentativo di que¬
sto genere non favorirebbe, bensì ostacolereb¬
be la distensione internazionale. Il superamen¬
to dei blocchi non può essere un obiettivo che
si raggiunge di colpo; ma può e deve essere un
concreto processo che va avanti di pari passo
con la distensione intemazionale, una giusta so¬
luzione dei conflitti aperti, la riduzione degli
armamenti, e, nel tempo stesso, con 1’affermarsi
della autonoma iniziativa nazionale dei diversi
Stati e popoli dall'interno delle diverse allean¬
ze: si intende, naturalmente, di un’iniziativa
nazionale rivolta a favorire il consolidamento
della pace e la cooperazione intemazionale e,
per questa via, la effettiva e giusta difesa de
gli interessi nazionali di ogni Paese.
Come giudichi la politica delle due
superpotenze, della NATO e del Pat¬
to di Varsavia, in rapporto a questi
obiettivi?
Coerentemente con una tale visione e im
postazione, noi non abbiamo più rivendicato
l'uscita dell’Italia dall’Alleanza atlantica, men¬
tre rivendichiamo una maggiore iniziativa au
tonoma di politica estera dell’Italia nella linea
sopra accennata. Agli inizi del 1977, noi ci au-
L AstrolaUio quindicinale - n. 1 . 14 gennaio 1977
Paola Agosti
•-
il pei e i grandi
problemi del momento
guriamo che, con l’avvento al governo degli
Stati Uniti d’America della nuova amministra¬
zione Carter, l’attuale situazione di stallo nelle
trattative per il disarmo possa essere sbloc¬
cata. Bisogna però anche apertamente denun¬
ciare la estrema gravità e pericolosità del fatto
che non si sia riusciti ad arrestare la corsa agli
armamenti. Sembra a me siano necessari, l’al¬
larme, la vigilanza, la pressione di tutti coloro
che vogliono la pace, dell'opinione pubblica de¬
mocratica, dei popoli, per imporre che si im¬
bocchi la via del disarmo.
D'altra parte — dopo avere ricordato le nostre
limpide e realistiche impostazioni contrarie a
spostamenti nell’equilibrio delle forze e a mu¬
tamenti unilaterali dei blocchi esistenti — vo¬
glio aggiungere che ritengo che le campagne
sulle presunte minacce dell’Unione Sovietica al¬
la pace del mondo sono del tutto infondate,
storicamente e nella realtà di oggi. E’ vero, in¬
vece, che l’Unione Sovietica ha sempre perse¬
guito la pace, la pacifica coesistenza, la ridu¬
zione degli armamenti, negli interessi supremi
dell umanità e per gli stessi vitali interessi di
sviluppo dei suoi popoli.
Il PCI è sempre favorevole all'uni¬
ficazione politica dell’Europa occi¬
dentale, e in particolare all'elezione
diretta del Parlamento europeo?
Nel quadro di tale concezione della situa¬
zione mondiale — e dei grandi scopi della di¬
stensione, della pace e della cooperazione in¬
ternazionale — noi abbiamo compiuto e con¬
fermiamo la nostra scelta europeistica. Riba¬
diamo, anzi, che noi siamo a favore dell'elezio¬
ne diretta del Parlamento europeo. Certo, sap¬
piamo bene che l'unità europea attraversa una
crisi profonda, e che, finora, nel mercato co¬
mune e negli sviluppi della vita comunitaria
hanno prevalso gli interessi dei grandi mono-
poli. Ma questo è un motivo di più per volere
e promuovere un più diretto e deciso inter¬
vento della classe operaia, delle masse popo¬
lari, delle loro organizzazioni, dei partiti espres¬
sione dei movimenti operai, nella vita dell’Eu¬
ropa occidentale e nella battaglia per una nuova
unità europea: e cioè per una Europa antifa¬
scista, democratica, pacifica, non più dominata
dai grandi monopoli, capace di svolgere una ef¬
ficace iniziativa internazionale per la distensio¬
ne e la cooperazione, fattore nuovo di equili¬
brio, di pace, di sicurezza.
Tanto più vivo è perciò il nostro augurio, e
tanto più grande il nostro impegno di solida¬
rietà, perché nella Spagna si instauri subito un
vero regime democratico. Se guardiamo al Por¬
togallo, alla Spagna, allTtalia, alla Francia, al¬
la stessa Germania occidentale, costatiamo che
— nonostante la presenza e l’azione ostinata e
minacciosa di forze conservatrici e reazionarie
ancora potenti — le forze antifasciste, operaie,
democratiche e progressiste hanno realizzato
grandi avanzate e compiuto passi notevoli nel¬
la direzione di un loro avvicinamento. E’ que¬
sta, dunque, una situazione nuova per l'Europa
occidentale, una grande occasione che non deve
essere perduta.
Pensi che il 1977 e i prossimi anni
vedranno uno sviluppo dell'« euro¬
comunismo »?
Non sarà male ripetere che l’espressione
« eurocomunismo » non è nostra. In realtà, an¬
che tra i partiti comunisti dell’Europa occiden¬
tale vi sono notevoli differenze di linea poli¬
tica, di impostazioni ideologiche e di tradizioni
culturali, oltre che di situazioni oggettive: vi
è però anche il fatto nuovo che sono maturati
e venuti in evidenza alcuni elementi comuni di
grande rilievo. I documenti più significativi
sono ben noti e riguardano soprattutto il PCI,
il PCF e il PCE. I tratti centrali comuni consi¬
stono:
I
a) nella ricerca di vie nuove, originali, di avan¬
zata al socialismo e nella stessa configurazione
di una società nuova, socialista, e
b) nella congiunta affermazione di un nesso
inscindibile tra democrazia politica (con al cen¬
tro la pluralità dei partiti e la loro libera dia¬
lettica) e le trasformazioni socialiste delle strut¬
ture economiche e della società, con la riaffer¬
mazione del « concetto che non vi è socialismo
se non nel più ampio e conseguente sviluppo
del carattere democratico dello Stato e della
vita democratica delle masse »• (Togliatti).
E’ evidente che questi tratti comuni dell'impe¬
gno politico, della ricerca e della elaborazione
di alcuni grandi partiti comunisti dell’Europa
occidentale costituiscono un dato politico mol¬
to importante nei rapporti (nella ricerca delle
collaborazioni, delle intese, dell’unità) tra i par-
4
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
'N
titi comunisti, i partiti socialisti, le forze so¬
cialdemocratiche e democratiche più avanzate,
e le correnti cattoliche e cristiane di ispirazione
socialista o progressista. Ma, proprio per que¬
sto, è un fattore che potrà esercitare una in¬
fluenza assai grande su un duplice piano. Sul
piano del promovimento di una nuova unità
e di una nuova funzione di una Europa sottrat¬
ta al predominio dei monopoli, democratica
e pacifica. Sul piano della realizzazione di modi
nuovi di trasformazione socialista di Paesi in¬
dustrialmente sviluppati, con caratteristiche po¬
litiche e culturali che più direttamente scaturi¬
scono da tradizioni, pur tra loro diverse, di ti¬
po liberal-democratico. In questi Paesi, e in par¬
ticolare nel nostro, una trasformazione in sen¬
so socialista e di una piena ed effettiva demo¬
crazia della società è storicamente matura e
oggettivamente improrogabile. La classe operaia,
le forze del lavoro, devono ormai accedere alla
direzione di questi Paesi. Ciò è particolarmente
evidente per l’Italia. La crisi economica dell’Ita¬
lia — e la più generale crisi della società italia¬
na e dei suoi ordinamenti, in tutti i campi — è
bensì grave; ma le possibilità di recupero, le
potenzialità di crescita ed espansione sono gran¬
di. Ci si può avviare rapidamente alla ripresa e
al rinnovamento, ma ad una condizione politi¬
ca fondamentale e decisiva: la condizione, ap¬
punto, che la classe operaia e le masse lavora¬
trici e popolari — in forme che possono essere
diverse — vengano messe in condizione di as¬
solvere alla loro funzione nazionale dirigente
ed esplicare tutte le proprie energie creative.
Non pensi che la concezione di
una società socialista fondata su una
piena democrazia politica, sul plura¬
lismo e la libera dialettica dei partiti
e sulla affermazione di tutte le liber¬
tà civili e politiche venga in realtà
contraddetta dalle persistenti limita¬
zioni e dalle misure repressive del
dissenso in molti Paesi socialisti?
Il problema del « dissenso » nei Paesi so¬
cialisti è certamente arduo, drammatico e com¬
plesso. Anche in questo, oltre a tratti comuni,
vi sono differenze da Paese a Paese. Per quanto
riguarda, in particolare, la situazione cecoslo-
vacca, abbiamo ripetutamente espresso — e lo
abbiamo fatto anche in questi giorni — il no¬
stro pensiero.
Su un aspetto — che certamente non esaurisce
la portata e complessità delle questioni ma ha
un valore pregiudiziale — vorrei tornare: l’esi¬
genza che il Partito comunista cecoslovacco e
il Governo di quel Paese non affrontino un pro¬
blema grave — la frattura politica verificatasi
nel 1968 — con i metodi della repressione, o
disciplinari o amministrativi, ma lo affrontino
come un problema politico delicato e profon¬
do, con la volontà di risanare una cosi grave
lacerazione del partito e nazionale. Questa è
la prima esigenza che noi fermamente solle¬
viamo, ed è il nostro sincero augurio.
Più in generale, noi siamo convinti che, là do¬
ve, come nell’Unione Sovietica, sono state get¬
tate le basi di una società nuova, egualitaria
— là dove è stato abolito lo sfruttamento di
classe, e sono state realizzate conquiste gran¬
di — esistono le condizioni e vi è la esigenza,
sempre più profonda, di uno sviluppo pieno
della democrazia e della libertà: naturalmente,
in forme adeguate alle situazioni oggettive, e
quindi in forme condizionate da una storia di
oltre mezzo secolo, in forme che possono esse¬
re diverse da quelle che noi concepiamo e vo¬
gliamo per il nostro Paese, ma in ogni caso
tali da garantire un progressivo e sostanziale
sviluppo democratico. Io credo che questo sia
il periodo storico nuovo che sta dinanzi a quel¬
la parte del mondo in cui, prima, è stata spez¬
zata la catena del capitalismo e dell’imperia-
lismo e sono state liquidate, con lo sfruttamen¬
to dell’uomo sull’uomo, la fame e l’analfabeti¬
smo di moltitudini immense e l’arretratezza.
Il compito principale, però, che spetta a noi è
soprattutto quello di lottare per la distensio¬
ne, la pace e la cooperazione intemazionale, e,
insieme, per avanzare noi, nel nostro paese e
nell’Europa occidentale, sulla via della demo¬
crazia e del socialismo. Qui — in una lotta che
sappia congiungere gli obiettivi della giustizia
e del rinnovamento sociale, della democrazia
politica, del socialismo e della libertà — è il
banco di prova non solo di noi, comunisti ita¬
liani, ma di tutte le forze operaie e di tutte le
forze progressiste che operano in Italia e in Eu¬
ropa. ■
L'Astrolabio quindicinale • n 1 - 14 gennaio 1977
5
Adriano Mordenti
Dopo rincontro
i sindacati
si muovono
e il governo no
di Ercole Bonacina
• Due temi hanno dominato la
discussione fra governo e sindacati
nell’incontro del 5 gennaio: la lotta
all’inflazione e il contenimento del
costo del lavoro o, meglio, del suo
saggio di aumento. Era naturale che
fosse così, dal momento che i due
temi prevalgono oggettivamente su
tutti gli altri e anzi tutti gli altri
ne sono condizionati. Diversamente
dalle cronache scritte a caldo, non
diremmo che il maggior risultato
dell incontro sia stato la constata¬
zione del disaccordo fra le due parti
intorno al secondo dei temi e, in
particolare, intorno alla modifica o
alla conferma del meccanismo di
scala mobile. La constatazione più
importante, invece, è che.il gover¬
no e i sindacati sono stati concordi
nel giudicare la lotta all’infla¬
zione e il contenimento del saggio
di aumento del costo di lavoro come
i due problemi più gravi ed urgenti
e che tutto il resto, dalla difesa del¬
l’occupazione alla ripresa degli in¬
vestimenti, fosse il contorno, obbli¬
gato ma sempre contorno, della so¬
luzione dei problemi stessi.
Non meno importante è la con¬
statazione che i sindacati, giunti al
punto dolente della scala mobile,
non abbiano tentato di tirarsi indie¬
tro o di menare il can per l’aia, ma
abbiano invece contrapposto propo¬
ste a proposte, elaborazioni a elabo¬
razioni, tutte preparate con alto sen¬
so di responsabilità, quanta ce ne
vuole per affrontare il grande impe¬
gno della lotta all’inflazione e dei
sacrifici connessi senza compromet¬
tere il quadro politico, senza dimen¬
ticare gli interessi dell’intera comu¬
nità nazionale e senza tradire l’at¬
tesa o l’ansia dei lavoratori, dei pen¬
sionati, delle classi più povere.
Una differenza di valutazioni
Il dissenso non c’è stato nem¬
meno sul quanto di riduzione oc¬
corra apportare al saggio di aumen¬
to del costo del lavoro. In sostanza,
ambedue le parti si sono dimostrate
convinte che il recupero di competi¬
ti/ità, necessario per incrementare
le esportazioni e in ultima analisi
per difendere la moneta, è condizio¬
nato dall’avvicinamento del nostro
costo per unità di prodotto a quel¬
lo delle economie concorrenti e, in
ogni caso, dal /fatto che il nostro
tasso di aumento previsto o ammis¬
sibile per l’anno in corso non su¬
peri i tassi altrui.
Un ulteriore punto all’attivo del¬
l’incontro, e lo registriamo non già
per fare gli imbonitori di maniera
ma per un semplice dovere di cro¬
nisti, è che il governo ha compiuto
un nuovo passo in direzione di un
confronto con i sindacati non pu¬
ramente accademico e rituale ma se¬
riamente impegnato, come si convie¬
ne ad un autentico pluralismo in
cui ciascuna forza democratica fa
la propria parte e riconosce alle al¬
tre la loro, rispettando poi la re¬
sponsabilità finale del. parlamento
di comporre il tutto in una sintesi
politica rappresentativa al più alto
grado della volontà popolare. E’ co¬
sì che sono stati resi manifesti i
conti della finanza pubblica, i pro¬
grammi di investimenti realizzabili e
6
(.'Astrolabio quindicinale • n. I • 14 gennaio 1977
non, le prospettive certe o eventua¬
li di nuovi giri di vite, le condi¬
zioni i vincoli gli obiettivi e i tem¬
pi della nostra ripresa.
L’interesse di queste constatazio¬
ni non è sminuito dalla pur vera
considerazione che il governo non
aveva e non avrà altra scelta se
non la trattativa sempre più parita¬
ria e aperta con le forze sociali, e
dei lavoratori in ispecie, e con le
forze politiche democratiche: sem¬
mai, l’interesse ne è confermato,
non fosse altro perché, bon gré mal
gré, l’ottusa presunzione dell’auto¬
sufficienza di un tempo, dietro lo
scudo di una maggioranza addome¬
sticata e docile, è stata fatta crol¬
lare.
Dov’é che il dissenso registrato
nell’incontro del 5 si è dimostrato
profondo e, allo stato delle cose,
apparentemente insuperabile? Nella
manovra dei fattori di aumento del
costo del lavoro, il governo si è
arroccato nella richieste (prendere o
lasciare) della diluizione temporale
degli scatti; i sindacati hanno con¬
troproposto interventi più articolati,
che da un canto lasciassero integra
la sostanza del meccanismo di indi¬
cizzazione salariale e dall’altro con¬
seguissero gli stessi obiettivi di
quantità considerati necessari dal
governo. L’intoppo è venuto al mo¬
mento dei calcoli: il governo dimo¬
strava che la proposta sindacale da¬
va molto meno del necessario; il
sindacato dimostrava il contrario. E
su questa differenza di valutazioni,
le parti si sono lasciate restando
divise dalla stessa distanza di quan¬
do si erano incontrate. Il nocciolo
della riunione del 5 gennaio ci sem¬
bra tutto qui.
A questo punto, tornano oppor¬
tune alcune considerazioni. La pri¬
ma è che l’intoppo è emerso su una
questione tecnica e non già su una
questione politica, come invece sa¬
rebbe stato se i sindacati si fosse¬
ro dichiarati indisponibili a discu¬
tere qualunque aspetto della scala
mobile. E’ pura tecnica, infatti, ac¬
certare se la controproposta sinda¬
cale ha un effetto uguale, minore o
maggiore della proposta del governo
sul contenimento del tasso di cre¬
scita del costo del lavoro. Se le
erse stanno cosi, risulterebbero non
meditate a sufficienza sia l’eventua¬
le decisione del governo di risolve¬
re il problema con un colpo dì forza
quale sarebbe l’emanazione di un
decreto legge, sia l’eventuale deci¬
sione del sindacato di passare imme¬
diatamente alla lotta.
Il rischio di uno
scontro frontale
La cronaca dell’incontro del 5
gennaio ha raccontato che, a un cer¬
to punto, i sindacalisti da una parte
e i ministri dall’altra si sono messi
ad accertare con proprie calcolatrici
tascabili chi dei due sbagliava i con¬
ti. Ci auguriamo che questo sia sta¬
to un pezzo di colore aggiunto dai
cronisti. A un vertice di quella fat¬
ta che doveva discutere problemi co¬
sì squisitamente politici, non era e
non è lecito impantanarsi in opera¬
zioni artimetiche. Vera o non vera
che sia, la circostanza suggerisce una
seconda considerazione: ed è che
mai come in un caso come questo,
la funzione « ausiliaria » del CNEL
(l’aggettivo è usato dalla Costituzio¬
ne) sarebbe tornata utile: e non
già perché il CNEL avrebbe dovuto
fare esso il contabile, ma perché,
una volta composto da lavoratori
imprenditori ed esperti autorevol¬
mente rappresentativi, ben avrebbe
potuto essere incaricato di mettere
a punto proposte idonee e ridurre
il tasso di crescita del costo del
lavoro, dopo che in sede politica o
di incontro con i sindacati fossero
stati convenuti il tasso massimo am¬
missibile e gli intenti politici e sin¬
dacali ai quali le proposte si sareb¬
bero dovute conformare.
Un terza considerazione, più squi¬
sitamente politica, è la seguente. I
sindacati, dimostrando molto più
fantasia e duttilità del governo, han¬
no convocato l’assemblea nazionale
dei delegati all’indomani dell’incon¬
tro e hanno subito prenotato contat¬
ti collegiali con i partiti dell’arco
costituzionale per discutere la situa¬
zione, difendere le proprie ragioni
e tastare il polso delle forze politi¬
che. Niente, invece, ha detto il go¬
verno su ciò che intende fare, salvo
i sibillini accenni alla volontà di de¬
cidere e di uscire dall’« impasse ».
« Assumersi le proprie responsabili¬
tà », come qualche governante
avrebbe esortato a fare, per poi an¬
dare subito al confronto parlamen¬
tare, appare la più ovvia e salomo¬
nica, ma anche la più pericolosa del¬
le decisioni possibili. Essa avrebbe
un solo significato: quello di un en¬
nesimo atto di soggezione del gover¬
no ai rifiuti opposti dalla DC con¬
tro qualunque consultazione dei par¬
titi della non-sfiducia, anche se un
tale atto potrebbe far correre il ri¬
schio di uno scontro frontale con i
sindacati prima e con i partiti poi,
ncn solo della sinistra tradizionale.
Non crediamo che Andreotti non
abbia calcolato questo grave rischio
e non si rifiuti di correrlo. Tra le
misure annunciate, ce ne sono anco¬
ra di quelle che, per essere assunte,
hanno bisogno del più largo con¬
senso politico e sindacale, pena lo
sfascio generale. Chi lavora per que¬
sto obiettivo? Non certo i sindacati
e nemmeno i partiti della sinistra.
La risposta, dunque, deve essere cer¬
cata nel versante democristiano e
anche in una parte di quello gover¬
nativo. Del resto, non per niente
Donat Cattin si è assunta la par¬
te dello sceriffo a difesa di una
diligenza, che non è propriamente
quella dei lavoratori e dei democra¬
tici.
l'Astrolabio quindicinale - n. 1 ■ Il gennaio '977
7
Un anno da
guardare in
una prospettiva
storica
di Federico Caffè
• Un autorevole periodico stranie¬
ro ha posto l’interrogativo: « chi
crede ormai più in coloro che ela¬
borano previsioni »? Non posso e-
scludere che lo scetticismo corrosi¬
vo (ampiamente documentato) di
questo interrogativo sia alla base del
mio convincimento che l’anno che
ora si apre abbia maggiori elementi
di guida dagli eventi di un passato
relativamente lontano, che non dai
tentativi di prevedere il futuro.
Trent’anni or sono, il 1947, fu un
anno carico di eventi. Fu l’anno in
cui le forze politiche di sinistra ven¬
nero allontanate dal governo. Esse
avevano dato un contributo impo¬
nente alla rinascita civile e politica
del Paese. Vennero tuttavia scaccia¬
te da quell’anticamera della « stanza
dei bottoni » in cui erano state man¬
tenute, malgrado non avessero de¬
terminato nulla di particolarmente
« rivoluzionario » o di incisivamente
« riformistico ». Si trattò semplice-
mente della rinuncia a ciò che avreb¬
be potuto costituire una politica po¬
polare, anche nei riflessi economici,
e della scelta di una politica orien¬
tata nel senso di favorire in modo
pressoché esclusivo i ceti medi. Per
fornire un esempio di immediata
evidenza della differenza tra le due
politiche, è sufficiente dire che la
. prima avrebbe portato a una intensa
costruzione di case popolari, e sol¬
tanto di quelle; la seconda ha con¬
dotto a quel sovvenzionamento di
edilizia residenziale che ha lasciata
ancora irrisolti, a distanza di un
trentennio, i problemi di una abita¬
zione non eccessivamente costosa per
i meno abbienti.
Il 1947 fu l’anno in cui venne
considerata lodevole l’agevolazione
del rimpatrio dei capitali esportati
clandestinamente, creando il prece¬
dente al quale si è largamente fatto
richiamo in una recente analoga
occasione, dimostrando quanto poco
cambi, nel tempo, l’inclinazione na¬
zionale a uno spregiudicato machia¬
vellismo di bassa lega.
Carli e Agnelli
Fu l’anno in cui « fattorini e dat¬
tilografe » vennero autorevolmente
invitati a non tentare spericolate av¬
venture in borsa, che prima o poi
avrebbero finito per volatizzare i
loro risparmi. Se la immotivata desi¬
gnazione delle due benemerite cate¬
gorie destò scalpore ( qualche pubbli¬
cista non esitò a qualificarla di tipo
razzista), il monito aveva comunque
il merito di porre in guardia nei
confronti di una istituzione che già
allora si riconosceva bisognosa di
un profondo riassetto. Ed è una
esigenza che tuttora perdura, a di¬
stanza di un trentennio.
Il 1947 fu l’anno in cui venne
conseguito l’arresto dell’inflazione,
mediante la manovra « classica » del¬
le restrizioni creditizie. Un economi¬
sta svedese di alto prestigio, Bertil
Ohlin, ha affermato in un suo vo¬
lume: « ciò che fece le banche cen¬
trali così potenti prima del 1914 era
il fatto che esse avevano il potere
di creare la depressione ». Nel 1947,
la banca centrale italiana si riappro¬
priava di questo potere, gestendolo
con incontrovertibile capacità tecni¬
ca, ma senza poter evitare gli in¬
convenienti che sono connaturali al¬
l’esercizio di questo discutibile po¬
tere. Ed è anche questa una storia
che ancora continua.
Ciò che riesce particolarmente
istruttivo, nel rivolgere lo sguardo
al passato al quale mi sono somma¬
riamente richiamato, è la costatazio¬
ne immediata che se ne trae circa
ciò che rappresenta l’elemento ca¬
ratterizzante della politica economi¬
ca italiana. Essa è, intrinsecamente,
una « politica economica del tempo
perduto », aliena cioè dall’affrontare
problemi essenziali non dello svilup¬
po economico (che, malgrado tutto,
c’è stato), ma di una durevole cre¬
scita civile. Di continuo, questa è
posta a repentaglio dal potere di al¬
cuni centri interni, o di alcuni con¬
dizionamenti esterni, di « creare de¬
pressione ». In qual modo l’incertez¬
za del futuro ingeneri il conformi¬
smo, origini la caccia all’« inserimen¬
to », rivaluti gli screditati idoli del¬
la saggezza convenzionale, in nessun
luogo è possibile verificarlo come
nell’attività di insegnamento. Si trat¬
ta di una involuzione di cui ciascu¬
no di noi, senza crearsi falsi alibi o
comodi capri espiatori, è largamen¬
te corresponsabile. È per aver trop¬
po poco illustrato, documentato, cri¬
ticato, le svolte decisive di queste*
non lontano passato, a cominciare da
quella fatale del 1947, che il nostro
Paese sembra destinato a ripeterne
gli errori.
8
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
crisi economicajoccupazione
e lavoro improduttivo
Quando il salario
è un sussidio
di disoccupazione
di Alessandro Roncaglia
• Conviene alla collettività che
qualcuno sia pagato per scavar bu¬
che per terra e poi riempirle? o,
più in generale, per lavorare senza
produrre niente di utile? Il proble¬
ma è vecchio, ma questo non vuol
dire che sia facile risolverlo, specie
in una situazione come l’attuale in
cui coesistono disoccupazione, infla¬
zione e passivo della bilancia com¬
merciale.
È noto che quando vi siano ri¬
sorse inutilizzate e lavoratori disoc¬
cupati, come accade oggi in Italia,
una spesa pubblica, qualunque sia
la sua destinazione, ha un effetto di
stimolo all’attività produttiva. An¬
che scavar buche, come ricordava
Keyties; e come hanno verificato,
con metodi particolarmente sofisti¬
cati e incivili, gli americani con
la guerra del Vietnam. Benemeriti
dell’economia, dunque, dovrebbero
essere considerati in Italia l’on. Na¬
tali, con il suo buco sotto il Gran
Sasso, il trio Piccoli-Rumor-Bisaglia
con la loro autostrada veneto-triden¬
tina, e tutti i grandi e piccoli orga¬
nizzatori dell’occupazione assistita,
dai responsabili dell’Egam ai difen¬
sori del più piccolo e assurdo fra
gli enti inutili. Perché allora tan¬
to vituperio nei loro confronti?
Il fatto è che bene o male,- in
un modo o nell’altro, chi lavora sen¬
za produrre niente di utile, esatta¬
mente come chi è disoccupato, cam¬
pa sulle spalle di chi produce. Con
una differenza: che il disoccupato
sta comunque peggio di chi lavora,
mentre il lavoratore improduttivo
sta spesso meglio del lavoratore
produttivo. Ma quando la base pro¬
duttiva è troppo esigua, il prezzo
che essa deve sopportare può es¬
sere tale da rendere impossibile di
sostenere la concorrenza estera, sui
mercati internazionali se non su
quelli interni che possono godere di
un qualche grado di protezione, e
la bilancia commerciale finisce in
rosso. È noto, ad esempio, che i
costi del lavoro in Italia sono alti
non tanto per i soldi che il lavora¬
tore porta effettivamente a casa,
quanto soprattutto per gli oneri so¬
ciali, cioè il prezzo dei carrozzoni
assistenziali.
Un po’ come il cancro, il lavoro
improduttivo si è lentamente dif¬
fuso nell’economia italiana, deva¬
stando uno dopo l’altro alcuni cen¬
tri vitali per il buon funzionamento
dell’apparato produttivo. Nel ven¬
tennio fascista la piccola borghesia
ha trovato uno sbocco nell'ammini¬
strazione pubblica, gonfiando oltre
misura la burocrazia ministeriale.
Come quando dieci contadini devo¬
no zappare un metro di terra, e fi¬
nisce che nove stanno a guardare
quello che lavora, così nei ministe¬
ri si è diffusa un’abitudine al non¬
lavoro programmatico, mentre lo ze¬
lo dei volenterosi non ha fatto che
complicare le cose, moltiplicando
inutilmente il lavoro richiesto per
ogni pratica, ed eliminando di fat¬
to, proprio grazie all’eccesso di con¬
trolli formali, ogni controllo e re¬
sponsabilità reale. L’amministrazio¬
ne pubblica ne è uscita distrutta, ir¬
riformabile se non con metodi dra¬
coniani, insopportabili sia per il go¬
verno sia per i sindacati.
Nel trentennio democristiano, la
stessa sorte hanno subito gli enti
locali e gli enti assistenziali. Chi non
riusciva ad essere assunto, poteva
sempre sperare in una pensione di
invalidità (rendendo così impossibi¬
le un’assistenza efficace per chi ne
ha veramente bisogno). L’istruzione
di massa ha poi peggiorato le cose:
il diplomato assunto come spazzino
o tranviere riesce ben presto, con
gli stessi appoggi che gli hanno
fruttato l’assunzione, ad imboscarsi
negli uffici, generando così l’assur¬
do di enti con costi insopportabili
di personale, e tuttavia non in gra¬
do di adempiere efficientemente ai
propri compiti istituzionali. Questo
fenomeno, assieme all’esosità dei
medici italiani, spiega ad esempio
la tragica situazione degli enti ospe¬
dalieri, incapaci di fornire un servi¬
zio decente nonostante i costi che
sono fra i più alti del mondo.
Allo stesso tempo, cospicue sac¬
che di lavoro improduttivo sono ve¬
nute ad appesantire i costi dell’in¬
termediazione commerciale e di
quella finanziaria. Nel commercio,
leggi e regolamenti hanno favorito
il permanere di una struttura ecces¬
sivamente frammentata; la concor¬
renza fra gli operatori, poi, ha fatto
sì che a costi eccessivi (pagati dai
consumatori in termini di alti prezzi
al minuto) corrispondessero redditi
tutt’altro che elevati, in media, per
gli operatori stessi. Viceversa le ban¬
che, trovandosi ad operare in un
mercato oligopolistico ben difeso
dall’ingresso di nuovi concorrenti,
sono state in grado di trasmettere
integralmente sui prezzi dei loro
servizi le alte remunerazioni conces¬
se anche a personale inutile rispetto
agli effettivi bisogni.
Infine, il lavoro improduttivo si
è diffuso anche nelle imprese indu¬
striali, per quanto la cosa possa ap¬
parire paradossale a chi è abituato
alla distinzione smithiana, che iden¬
tifica il lavoro produttivo proprio
con il lavoro industriale e agricolo.
Anche nell’industria, infatti, vi sono
lavoratori inutili al cui impiego non
corrisponde un aumento del prodot¬
to, e che costituiscono perciò un
inutile aggravio per i costi azien¬
dali.
Per Smith questo non poteva ac¬
cadere: l’imprenditore • privato è
spinto dalla sua stessa convenienza,
e costretto dalle forze della concor¬
renza, ad evitare qualsiasi costo inu¬
tile. Ma la realtà odierna è più com¬
plicata della teoria smithiana. Una
prima breccia all’ingresso del lavoro
improduttivo nell’industria è rap¬
presentata dal diffondersi delle im¬
prese pubbliche, meno legate di
quelle private a un rigido controllo
dei costi, e guidate da dirigenti di
nomina politica, sensibili a pressio-
L'Astrolabio quindicinale • n. 1 • 14 gennaio 1977
9
~~~ '• " \
crisi economica, occupazione
e lavoro improduttivo
ni clientelar!. Inoltre, l’istituto tipi¬
camente italiano della « raccoman¬
dazione » spesso fa sì, nell’impresa
privata come in quella pubblica, che
per far fronte a necessità effettive
vengano assunti lavoratori incapaci
— dattilografe lente come lumache,
ingegneri inetti —, con il risultato
che occorre continuare ad assumere
finché non si trovano le persone
adatte, e l’impresa si carica di per¬
sonale inutile nel tentativo di assu¬
mere lo stretto necessario. Il feno¬
meno è tipico dei lavori non manua¬
li (cioè delle cosiddette "nuove clas¬
si medie”) ed è agravato, ancora
una volta, dallo sfacelo della scuo¬
la secondaria superiore e dell’uni¬
versità. Anche per l’impresa priva¬
ta, poi, sono possibili molte forme
di condizionamento pubblico; non
è raro che, per ottenere un po’ di
credito agevolato, sia necessario as¬
sumere qualche impiegato inutile, e
comunque inutilizzabile. Infine, la
strenua difesa sindacale del posto
di lavoro là dove si trova, impeden¬
do il trasferimento a nuovi compiti
di lavoratori divenuti inutili nella
vecchia funzione per mutamenti tec¬
nologici o nella domanda di merca¬
to, fa sì che lo sviluppo stesso
del sistema economico crei continua-
mente nuove sacche di lavoro im¬
produttivo.
È inutile nascondersi che, per
quanto individualmente benefiche,
queste forme di occupazione assisti¬
ta rappresentano uno spreco di ri¬
sorse destinabili allo sviluppo con
conseguenze negative nel lungo pe¬
riodo per quanto riguarda lo stesso
problema della disoccupazione. In
una crisi come l’attuale, noi consta¬
tiamo che la scarsa competitività del
sistema economico italiano, con tut¬
ti i problemi connessi di deficit
commerciale e di necessità di frena¬
re lo sviluppo per evitare deficit
maggiori, dipende dall’inefficienza
generale del sistema, cioè dalla dif¬
fusione ormai assunta dal fenome¬
no del lavoro improduttivo, molto
più che da carenze tecnologiche spe¬
cifiche delle industrie che produ¬
cono per l’esportazione.
Queste riflessioni sono presenti a
tutti noi quando, come accade in
questi giorni (e come è ripetutamen¬
te accaduto negli ultimi tempi) ci
troviamo ad affrontare alcuni bub¬
boni esemplari, come l’Egam. Ma
dobbiamo constatare che di fronte
al problema concreto, specie se di
notevoli dimensioni, entra in moto
un meccanismo garantistico: con un
po’ di schizofrenia, le stesse persone
che disquisiscono sugli sprechi del
sistema si rifiutano di riconoscere
che tagliare i rami secchi vuol dire
eliminare un certo numero di sus¬
sidi di disoccupazione mascherati da
salari e stipendi.
D’altra parte è vero che difen¬
dere un posto di lavoro certo, per¬
ché esistente, è più sicuro che ac¬
cettarne la soppressione in cambio
di promessee, specie in un paese co¬
me l’Italia, con aree consistenti di
miseria e sottosviluppo. È prevedi¬
bile perciò che i sindacati seguiran¬
no la vecchia strada garantistica, fin
quando non saranno veramente cor¬
responsabili dell’attuazione di nuo¬
ve politiche di sviluppo. Ma le for¬
ze di 'governo oggi non sembrano
avere coraggio sufficiente per muo¬
versi su questa strada: il regime
democristiano non può decretare la
propria fine, sacrificando le proprie
clientele da un lato, e concedendo
potere alle forze di sinistra dall’al¬
tro in cambio della loro quota di
sacrifici.
Il problema del lavoro improdut¬
tivo, perciò, difficilmente sarà af¬
frontato fin quando non si verifi¬
cherà un radicale mutamento del
quadro politico. Fino ad allora, sa¬
remo continuamente chiamati a pa¬
gare i conti, grandi e piccoli, di chi
pretende di tirare avanti a spese del¬
la società, senza contribuire in alcun
modo al buon funzionamento del si¬
stema produttivo.
Politica estera
italiana:
un ruolo
«ripensato»
di Raniero La Valle
Il risultato elettorale del 20
giugno assume un parti¬
colare significato per la po¬
litica estera del nostro
Paese. Il maggiore e più
largo coinvolgimento popo¬
lare nelle scelte di politica
estera postula un maggiore
impegno dell’Italia per i
grandi obiettivi della disten¬
sione ed a sostegno di tut¬
te le istanze di riscatto, di
libertà, di indipendenza
politica ed economica che
sono emergenti nel mondo.
• La discussione sul bilancio del
Ministero degli esteri, che non è so¬
lo discussione su una spesa, ma è
discussione sulla politica estera fi¬
nanziata da tale spesa, è avvenuta,
per la prima volta, dopo che si sono
prodotti due fatti di grandissima im¬
portanza, che non possono non in¬
fluire profondamente sulla politica
estera del nostro Paese. Influire nel
senso di richiedere, nella continuità
delle scelte fatte dall’Italia, una pro¬
fonda rimctivazione di tali scelte e
perciò una rifinalizzazione di tale
politica.
Quali sono i fatti, a mio parere
così decisivi? Il primo di questi
si è prodotto nell’ordine interno del¬
la vira politica italiana, il secondo
nell’ordine internazionale, ed è il
lcro concorso che apre prospettive
nuove e assai interessanti per la po¬
litica estera dell’Italia.
Il fatto interno è il risultato elet¬
torale del 20 giugno scorso che as¬
sume particolare significato per la
politica estera del nostro Paese che
ha la possibilità oggi (e vorrei sotto-
lineare « possibilità » perché non si
creda che tutto sia già acquisito) di
fondarsi su un consenso molto più
ampio nel Paese di quello di cui
ha potuto godere in passato. Questo
dtriva da Vari fattori: deriva dal¬
lo
L Astrolabio quindicinale • n. 1 - la gennaio 1977
l’evoluzione positiva che ha avuto
in questi anni la linea di politica in¬
temazionale del movimento operaio,
in particolare del partito comunista;
deriva dai toni nuovi che i Governi
a direzione democristiana hanno gra¬
dualmente dato alle posizioni inter¬
nazionali dell’Italia, superando in
più di un caso una interpretazione
mitica e puramente subalterna della
Alleanza atlantica e di un europei¬
smo ristretto nei limiti di una pic¬
cola Europa capitalistica ancora trop¬
po tributaria di Yalta; deriva infine
dagli sviluppi più distesi che, alme¬
no nei rapporti tra le grandi poten¬
ze, ha avuto tutta la situazione in¬
ternazionale.
Che cosa ciò comporti per la ri¬
motivazione e rifinalizzazione della
politica estera italiana, cercherò di
dirlo più avanti, dopo aver accenna¬
to all’altro fatto importante a cui
mi riferivo, prodottosi questo nel¬
l’ordine internazionale e dopo il
quale la situazione non può più es¬
sere quella di prima: è la fine del¬
l’età di Kissinger. Parlo di età di
Kissinger per dire che quello che
accadrà in questi giorni in America
non sarà il semplice avvicendamento
di un Segretario di Stato, ma sarà
la conclusione di un ciclo della po¬
litica estera americana; una politi¬
ca estremamente coerente nella sua
filosofia e nelle sue attuazioni pra¬
tiche, che è riuscita a segnare pro¬
fondamente la storia del mondo in
questi dieci anni ma che, a mio giu¬
dizio, ha avuto dei costi altissimi
per l’Europa, per l’America Latina e
per molti popoli del Terzo Mondo
in lotta per la liberazione.
L’età di Kissinger è stata l’età del¬
la restaurazione, o meglio di un
tentativo estremamente spregiudica-
tc\ degli Stati Uniti di restaurare un
ordine mondiale la cui caratteristi¬
ca fosse di avere negli Stati Uniti
la pietra angolare e il vertice com¬
paginante del sistema; un ordine nel
quale però gli Stati Uniti esercitas¬
Amerita exports corruption
lo thè entire free wnrld!
«
Da « Public Bicentennal Cominittee »
Copenaghen
sero questo ruolo non come sempli¬
ce potenza dominante in virtù della
forza, secondo la vecchia formula
dell’imperialismo delle cannoniere,
ma come potenza legittimata e dun¬
que con un consenso più o meno
esplicito e più o meno estorto delle
altre maggiori potenze del sistema,
a cominciare dall’Unione Sovietica.
Nel tentativo di restaurare o di
instaurare questo ordine, contestato
da un lato dalla non assimilabilità in
esso del mondo socialista, minaccia¬
to dall’altro dalle spinte di libera¬
zione provenienti dal Terzo Mon¬
do, Kissinger aveva in mente, come
è noto, il modello metternichiano
della restaurazione dell’ordine euro¬
peo del secolo XIX, « un ordine di
cui bisogna stupirsi — scriveva Kis¬
singer nella sua veste di storiografo,
prima di giungere ai fasti della dire¬
zione della politica estera america¬
na — non di quanto fosse reaziona¬
rio, secondo le ipotesi e la teoria
della storiografia del secolo XIX, ma
bisogna stupirsi di quanto fosse equi¬
librato ».
Io credo, invece, che noi dobbia¬
mo continuare a stupirci di quanto
quest’ordine, che Kissinger si è
sforzato di trasporre nel mondo di
questo scórcio del secolo XX, sia
reazionario e soprattutto pericoloso
perché strumentalizza la distensione
a profitto di una sola delle potenze
del sistema e rischia di accumulare
una tale carica di repressione e di
violenza che alla fine il pericolo
stesso di un conflitto mondiale, esor¬
cizzato dalla distensione, potrebbe
tornare ad essere incombente.
Un ordine fondato
sulla legittimità
Quali sono le due caratteristiche
qualificanti di questo ordine che si
è cercato di instaurare in questo de¬
cennio? La prima è che questo or¬
dine deve essere fondato sulla legit¬
timità, non sulla giustizia; vale a
dire che non è importante risolvere
secondo giustizia i problemi che so¬
no all’origine delle crisi, ma è im¬
portante legittimare le crisi e le loro
soluzioni, anche ingiuste, irretendole
in una trama di accordi il cui con¬
tenuto non è l’equità, ma il consenso
da realizzare convenzionalmente tra
le potenze interessate o, ancor più
spesso, tra le potenze non interessa¬
te. La seconda è che esso non esclu¬
de le guerre, ma vuole semplicemen¬
te che le guerre siano combattute
in nome dell’ordine esistente per rin¬
saldare e non per mettere in gioco
l’« ordine » vigente.
Si possono fare degli esempi sia
di questa legitttimità, sia di guerre
combattute in nome' di tale ordine.
Esempio di ricerca di una legittimi¬
tà senza vera giustizia è stato, alme¬
no nel modo in cui è stato condotto
da una delle parti, il negoziato di
Parigi per il Vietnam che non dove¬
va servire a risolvere i problemi,
ma piuttosto a legittimare la divi¬
sione del Paese e l’illegittimo protet¬
torato americano nel Sud; legittima¬
zione che è toccato poi alle forze di
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
11
politica estera italiana
liberazione vietnamite di far saltare.
Altro esempio di legittimazione
dell’ingiustizia è stato la destabiliz¬
zazione e il successivo riconoscimen¬
to politico del governo golpista in
Cile.
Esempio di guerra combattuta in
nome dell’ordine da conservare e
restaurare, invece, è stata la guerra
del Kippur, rigorosamente program¬
mata e controllata perché desse tutti
e solo i risultati che doveva dare.
Sicché, prima gli arabi sono stati in¬
coraggiati a combattere, poi Israele
è stato aiutato a difendersi e infine,
quando questa difesa stava diventan¬
do eccessiva perché il generale Sha-
ron stava arrivando al Cairo e ciò
avrebbe sovvertito tutto l’ordine esi¬
stente, il Segretario di Stato ameri¬
cano lo fermò per telefono, come è
stato rivelato, se la memoria non mi
inganna, da Morghentau, dicendo
agli israeliani che, se non si ferma¬
vano, la prossima guerra se la sareb¬
bero fatta da soli.
Ma molte altre cose sono rien¬
trate in questo disegno di restaura¬
zione proprio dell’età di Kissinger
che qui, per brevità, si possono so¬
lo citare per campione: l’attacco al¬
le economie europea e giapponese
con le misure protezionistiche ameri¬
cane dell’agosto 1971, la partecipa¬
zione americana alla manovra dei
prezzi del petrolio risoltasi nel ren¬
dere competitive le industrie estrat¬
tive americane e le fonti alternative
di energia, il colpo di stato a Cipro,
la dottrina Sonnenfeldt che venne
proclamata a Londra e così via.
La pesante eredità
di Kissinger
A me sembra che questa restau¬
razione, questo ordine, mentre ten¬
dono ad assicurare una certa stabili¬
tà del quadro generale mondiale, e
perciò contemplano rapporti più tol¬
leranti, più distesi con le altre gran¬
di potenze mondiali, in particolare
l’Unione Sovietica e la Cina, sono
però fonte di grande disordine nelle
politiche regionali e comportano la
compressione e spesso la repressio¬
ne delle istanze di liberazione, di
autonomia politica, di sviluppo eco¬
nomico di gran parte dei popoli del
mondo. Ora non credo, e non mi
illudo, che l’avvicendamento, l’usci¬
ta di Kissinger dalla scena, significhi
un cambiamento, una riqualificazio¬
ne profonda della politica estera a-
mericana. C’è il rischio che l’età di
Kissinger sopravviva a Kissinger, an¬
che perché egli non è venuto fuori
per caso, ma ha interpretato degli
interessi e delle esigenze strutturali
della potenza imperiale americana.
Perché si possa avere una politica
estera veramente diversa non do¬
vrebbe cambiare solo un Segretario
di Stato, dovrebbe un po’ cambia¬
re l’America. Tuttavia credo che il
dopo Kissinger comporterà comun¬
que delle revisioni significative, an¬
che perché in definitiva il bilancio
di questa gestione è stato assai in¬
feriore alle sue promesse. In ogni
caso è molto difficile che la nuova
amministrazione americana possa se¬
guire, con la stessa pervicacia, con
la stessa sicurezza anche intellettua¬
le e presunzione di forza, questa via
che è stata propria dell’amministra¬
zione precedente.
Del resto, le prime notizie che
vengono dall’ambiente di Carter
sembrano preconizzare un parziale
cambiamento di prospettiva della po¬
litica estera americana che non sa¬
rebbe più rigidamente polarizzata
sul bipolarismo russo-americano, ma
risulterebbe da una maggiore inte¬
grazione dei rapporti Est-Ovest con
i rapporti Nord-Sud, con una mag¬
giore attenzione ad altri centri emer¬
genti di potere mondiale, come la
Cina in Asia e il Brasile e il Giap¬
pone nell’area occidentale; ciò che
peraltro renderebbe ancor più mar¬
ginale l’Europa e avrebbe sempre,
beninteso, l’obiettivo di armonizzare
in modo stabile un certo controllo
mondiale, con gli Stati Uniti in fun¬
zione dominante.
Una scelta a favore
delle lotte di liberazione
In che modo allora la politica este¬
ra italiana dovrebbe aggiornarsi, te¬
nendo conto dei nuovi fattori insor¬
ti nella situazione interna italiana e
nella situazione internazionale. Biso¬
gna chiedersi, innanzi tutto, in che
modo può giocare l’apporto che alla
politica estera italiana viene dal nuo¬
vo rapporto tra le forze politiche
italiane, e in particolare dalla nuova
posizione del partito comunista e
dalle corresponsabilità che esso vie¬
ne assumendo nell’indirizzo generale
della politica del Paese. Pongo que¬
sta domanda, perché credo che le
virtualità della situazione attuale,
per quanto essa sia anomala per la
mancanza di una vera maggioranza
in Parlamento, dovrebbero essere
pienamente apprezzate e sviluppate.
Non so cosa il futuro ci riserva dopo
questa fase del Governo delle asten¬
sioni, non so se si andrà avanti o se
si regredirà a forme di contrapposi¬
zione e di scontro, una cosa però mi
pare che si possa dire e cioè che, no¬
nostante l’Italia attraversi uno dei
momenti più difficili e dolorosi del¬
la sua storia economica, è questo
anche uno dei momenti più ricchi e
più fecondi della sua storia politica.
Non è vero che l’incontro tra i
due maggiori partiti stia producendo
un’eclissi della politica e una sorta
di stallo del dibattito politico, anzi
mi pare che proprio lo scongelarsi
dei ruoli rigidamente e quasi ritual¬
mente definiti di maggioranza e op¬
posizione stia restituendo alla poli¬
tica una dinamica nuova e permetta
un approccio molto più realistico ai
12
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
k>
r
problemi concreti, con molto minore
nominalismo e con molta maggiore
evidenza della ricerca del bene comu¬
ne essendo questo il solo criterio ca¬
pace di orientare le scelte dei parti¬
ti quando vengano meno le pregiu¬
diziali preconfezionate e assolute.
Questo consente di fare una poli¬
tica più moderna, più relativa se vo¬
gliamo, più aderente ai problemi, più
aderente alle situazioni reali, piy
preoccupata di guadagnarsi momento
per momento il consenso del Paese.
Perciò, contro le apparenze a me
pare che questo sia un momento in
cui si possono fare grandi cose. E
dunque si possono fare grandi cose
anche in politica estera.
Che cosa porta di suo il nuovo
consenso che alla politica estera del
Paese può venire dall’apporto del
movimento operaio ed, in particola¬
re, del Partito comunista? Non si
tratta di fare una sintesi o un com¬
promesso tra l’occidentalismo della
Democrazia Cristiana e l’internazio¬
nalismo proletario del Partito Comu¬
nista. Né, mi pare, che il Partito
Comunista proponga un rapporto
privilegiato con il mondo socialista.
Mi pare, piuttosto, che un maggiore
e più largo coinvolgimento popolare
nelle scelte di politica estera del Pae¬
se postuli un maggiore impegno
dell’Italia non solo per i grandi
obiettivi della distensione, del disar¬
mo, della pace ma anche — in que¬
sto quadro — un maggiore impe¬
gno dell’Italia a sostegno di tutte le
istanze di riscatto, di libertà, di in¬
dipendenza politica ed economica
che sono emergenti nel mondo; un
rapporto più solidale e fraterno con
i popoli più sofferenti, più espro¬
priati, una scelta a favore delle lot¬
te di liberazione ovunque in atto,
siano esse nazionali, borghesi o pro¬
letarie.
La linea della politica estera ita¬
liana, nella continuità delle allean¬
ze e delle scelte di fondo, deve ten¬
dere ad un rovesciamento dei postu¬
lati in atto: non la legittimità come
surrogato della giustizia, ma la ri¬
cerca della giustitzia come fonte, di
una nuova legittimità; non le guer¬
re ammesse purché combattute in
nome dell’ordine esistente, ma il
superamento di un ordine che può
essere difeso solo con il deterrente,
con la repressione e con la forza,
per fare della pace un bene che sia
veramente interesse di tutti difen¬
dere.
Che questa sia la domanda del
Paese non vi è dubbio. Se noi pen¬
siamo quali sono state in questi ul¬
timi anni le occasioni internazionali
che hanno provocato le maggiori
emozioni e la maggiore mobilitazio¬
ne popolare in Italia ne troviamo
tre: il Vietnam, il Cile (con tutto
il problema connesso della tortura
nell’America Latina documentato
dalle sessioni del Tribunale Russell),
i palestinesi dopo la strage di Tali
el Zaatar. Tre cause di libertà, tre
spinte alla solidarietà con popoli op¬
pressi Ma di fronte a queste tre
cause non sempre il Governo italia¬
no ha assunto lo stesso atteggiamen¬
to.
Noi crediamo invece che con mol¬
ta maggiore decisione e coerenza
l’Italia debba rappresentare la por¬
zione dell’occidente e dell’Europa
che si fa solidale con i popoli in
lotta per la loro liberazione, per la
loro autonomia, per la loro sufficien¬
za economica.
Fiducia nella stabilità
della democrazia italiana
Su questa linea alcuni impegni
concreti si potrebbero segnalare per
la politica estera italiana: innanzi¬
tutto, poiché quello che si vuole per
gli altri lo si deve volere anche per
se stessi, l’impegno di difendere e
garantire la libertà, per il nostro Pae¬
se, di fare le scelte di politica in¬
terna che esso ritiene utile e neces¬
sario fare, e che sono in armonia con
la volontà popolare; non si può es¬
sere assenteisti di fronte ad intimi-
dazioni come quelle uscite da Por¬
torico e ad interferenze minatorie
come quelle espresse, anche nei con¬
fronti de! nostro Paese, dall’ammini¬
strazione Ford. Si tratta qui di raf¬
forzare la fiducia degli alleati nella
stabilità della democrazia italiana,
facendo loro capire che della sua
difesa abbiamo noi piena ed intera
responsabilità, e che solo a noi com¬
pete il giudizio politico sui mezzi
migliori per rafforzarla ed esten¬
derla.
In secondo luogo, se il nostro
impegno nella Comunità europea e
neil’Àlleanza atlantica ci avvicina ai
Paesi dell’area più ricca e potente
del mondo, il nostro impegno al-
l’ONU e nei rapporti bilaterali deve
metterci in sempre più stretto rap¬
porto con i Paesi dell’area più po¬
vera, più esposta e più debole, ma
che possono diventare Paesi assai
consistenti e forti nel futuro.
In questa luce dovrebbe essere
molto valorizzato il ruolo dell’Ita¬
lia alle Nazioni Unite, accentuando
il rapporto tra Parlamento e Gover¬
no a questo fine, anche con un flus¬
so di informazioni regolari.
Terzo punto. Sui rapporti con i
Paesi del mondo socialista mi sof¬
fermo solo per confermare che do¬
vremmo continuare ad estendere i
rapporti bilaterali nello spirito della
distensione. Ma mi pare si debba di¬
re che verso uno di questi Paesi, il
Vietnam, noi abbiamo dei particola¬
ri doveri poiché la storia di questi
anni ci ha resi tutti debitori nei
confronti di questo Paese. A me non
risulta che ci siano stati genocidi nel
Vietnam dopo l’unificazione, sappia¬
mo ben poco della Cambogia ma,
certamente, l’unico genocidio di cui
abbiamo notizia che sia avvenuto in
L'Astrolabio quindicinale • n 1 • 14 gennaio 1977
13
___ N
politica estera italiana
Vietnam è quello che per anni —
con l’omertà, con il silenzio di tutto
l’Occidente — è stato perpetrato
durante la guerra di aggressione con¬
tro il Vietnam.
La progettata visita di un mem¬
bro del Governo italiano ad Hanoi
dovrebbe realizzarsi senza ulteriori
indugi, anche per attivare l’inter¬
scambio tra i due Paesi.
Quarto punto. Riguarda il pro¬
blema medio-orientale e quello pa¬
lestinese che ne costituisce il vero
nodo irrisolto. In questo campo non
posso che appellarmi agli orienta¬
menti già espressi dal Governo;
vorrei solo aggiungere che i tempi si
vanno stringendo e che, oramai, va
posto con estrema necessità ed ur¬
genza l’obiettivo della Costituzione
di uno Stato palestinese, distinto dal
Regno giordano, nei territori occu¬
pati in Cisgiordania ed a Gaza, con
una sovranità anche nella parte - ara¬
ba di Gerusalemme, pur nella salva-
guardia della unità amministrativa
della città.
A questa soluzione l’Italia do¬
vrebbe collaborare eventualmente
studiando la possibilità di una ini¬
ziativa comune con la Francia, an¬
che essa come noi rispettosa di
Israele, sensibile al problema pale¬
stinese e interessata all’instaurazio¬
ne della pace nell’area mediterranea.
Quinto punto. Una iniziativa par¬
ticolare chiederei per l’Argentina;
si direbbe che dopo il Brasile, dopo
il Cile e l’Uruguay, oggi l’Argentina
sia diventata la capitale della tor¬
tura.
« Rifinalizzare la politica
estera nel nostro paese »
Penso che tutta la politica italia¬
na verso l’America Latina debba es¬
sere riconsiderata, assumendo come
specifici contenuti la difesa e l’affer¬
mazione dei diritti dell’uomo, alme¬
no nella stessa misura in cui ven¬
gono assunti i contenuti degli inte¬
ressi economici.
Sulla Comunità Europea ci sareb¬
be da dire come tutta l’Europa dei
Nove, che proprio dalla concezione
kissingeriana è stata ridotta ad un
ruolo puramente regionale, con il
rischio di omologarsi alla condizione
subalterna dell’America Latina, do¬
vrebbe riprendere l’iniziativa per co¬
gliere l’opportunità insita nel trapas¬
so dall’una all’altra amministrazione
americana.
Dunque è questo il tempo pro¬
pizio per rimotivare e rifinalizzare
la politica estera nel nostro Paese,
pur nella continuità che ogni politica
estera seria deve avere. Con l’avver¬
tenza che se noi non . dobbiamo pre¬
sumere nulla dal nostro ruolo sulla
scena internazionale, ruolo che non
è sostenuto né dalla potenza, né dal¬
le armi, né da una economia più che
mai fragile, inclusi come siamo in
un’Europa incerta della sua identità,
sempre più spinta verso posizioni
periferiche, non ci è lecita però nes¬
suna forma di rinunciatarismo o com¬
plesso di inferiorità, rispetto a quel¬
lo che pure possiamo fare. Il mon¬
do ha bisogno di tutti, la storia è
ricca di sorprese, e non è mai scritto
prima l’entità, il valore o il signifi¬
cato di ciò che ciascuno può dare
per la costruzione comune. A volte
in piccoli laboratori si producono
reazioni e sintesi che assumono poi
grande importanza per tutti. In Ita¬
lia sono oggi in confronto grandi
tradizioni culturali, spirituali e po¬
litiche, che a diverso titolo apparten¬
gono, con piena cittadinanza, al pa¬
trimonio di civiltà di un mondo
che faticosamnete cerca la sua stra¬
da. Possiamo augurarci, senza al¬
cuna presunzione, che da questo la¬
boratorio ci possa venire qualche
utile contributo alla pace e alla giu¬
stizia tra le nazioni e nelle nazioni.
R. L. V.
forze armate nato-
patto di Varsavia
Le bugie dalle
gambe lunghe
di Nino Pasti
• Durante questo periodo i « fal¬
chi » americani e NATO sfoderano
i temi più irrazionali della loro
propaganda, nell’intento di ottenere
il massimo possibile nei bilanci di¬
fesa. Quest’anno in particolare, la
propaganda NATO non conosce più
limiti in quanto la nuova ammini¬
strazione americana sembra inten¬
zionata a contenere le spese per la
difesa.
Questi appunti si propongono di
esaminare, sulla base di valutazioni
ufficiali americane e NATO, la rea¬
le consistenza delle forze armate dei
due opposti blocchi militari. Il re¬
clamizzato allarme dei « falchi » oc¬
cidentali riguarda fondamentalmen¬
te 4 temi: il supposto auménto del¬
le divisioni sovietiche, il supposto
aumento dei loro carri armati, il
supposto aumento dei missili strate¬
gici, il supposto aumento del bilan¬
cio difesa.
— Circa l’aumento delle divisioni,
il segretario alla difesa Rumsfeld,
durante la normale riunione di di¬
cembre della NATO, ha espresso una
seria preoccupazione perché le divi¬
sioni sovietiche sarebbero passate
da 141 negli anni sessanta a 168 at¬
tuali. Il Military Balance, la bib-
bia dei servizi informativi occiden¬
tali, riporta infatti che nel 1964
l’Unione Sovietica aveva sotto le ar¬
mi 2.200.000 soldati dell’esercito
con i quali costituiva 140 divisioni,
mentre oggi con soli 1.825.000 sol¬
dati dell esercito essa costituirebbe
168 divisioni. Nessuno ha ancora
spiegato per quale miracolo con una
diminuzione di 375.000 soldati del¬
l’esercito l’Unione Sovietica sia riu¬
scita a costituire 28 divisioni in più.
Ma i miracoli non finiscono qui, an¬
zi, sono appena cominciati. Gli Sta¬
ti Uniti con 782.000 soldati del¬
l’esercito non riescono a costituire
16 divisioni e debbono ricorrere a
completamenti dalla riserva. Con
14
L’Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
1.825.000 soldati dell’esercito, i so¬
vietici potrebbero quindi costituire
soltanto 37-38 divisioni «tipo USA»
cioè comparabili come capacità com¬
battiva a quelle americane e non
168. Oppure, se l’Unione Sovietica
volesse costituire 168 divisioni « ti¬
po USA » dovrebbe avere sotto le
armi 8.211.000 soldati dell’esercito
e non 1.825.000. Questi dati dimo¬
strano in maniera inconfutabile che
o non esistono le 168 divisioni so¬
vietiche oppure che la divisione so¬
vietica non ha assolutamente nulla
in comune con la divisione america¬
na o NATO in generale. Un con¬
fronto di forze basato sul supposto
numero di divisioni non ha quindi
alcun senso. Più significativo è il
confronto basato sul numero dei sol¬
dati, parametro questo scelto dalla
NATÒ per la riduzione delle forze
in Centro Europa. Per questo con¬
fronto bisogna intanto cominciare a
tener conto che secondo quanto pre¬
cisato dall’allora segretario alla di¬
fesa Schlesinger, metà esatta delle
forze sovietiche sono schierate in
Asia dove 912.500 soldati dell’eser¬
cito e 6-7.000 carri sovietici fron¬
teggiano più di 3 milioni di soldati
dell’esercito cinese con 8.000 carri
armati. In caso di conflitto la posi¬
zione dell’Unione Sovietica sarebbe
insostenibile in Asia.
In Europa, ad ovest degli Urali,
tutte le forze dell’esercito del Patto
di Varsavia, comprese tutte quelle
sovietiche, ammontano a 1.712.000
soldati, mentre quelle della NATO
ammontano a 2.125.000.
Come l’Unione Sovietica con
412.500 soldati dell’esercito in me¬
no rispetto alla NATO possa avere
intenzioni e capacità offensive è
un altro mistero che non è ancora
stato spiegato. Circa i soldati sovie¬
tici va notato infine che il tenta¬
tivo fatto lo scorso anno da parte
del Pentagono di gonfiare il loro
numero di 600.000 unità è stato
contestato dai rappresentanti del
Congresso c anche la DIA (servizio
informazione difesa) ha confermato
che molti dei supposti soldati so¬
vietici effettuano compiti che sono
affidati a civili negli Stati Uniti. Il
confronto presentato dal Pentagono
era quindi inaccettabile perché fatto
fra dati non omogenei.
— Circa i carri armati, i 41.500
attribuiti all’Unione Sovietica rap¬
presentano una media di 247 carri
per ciascuna delle supposte 168 di¬
visioni. I 247 carri costituiscono la
media dei carri di una divisione tipo
USA ad organici completi. Per quan¬
to più sopra dimostrato, le divisio¬
ni sovietiche non hanno nulla a
che vedere con le divisioni tipo
USA e sono lontanissime dal¬
l’essere ad organici completi. Ma
per i carri armati si è verificato un
altro interessante e non spiegato mi¬
racolo. Il Military Balance 1973-74
valuta le forze dell’esercito sovieti¬
co a 164 divisioni: 50 divisioni car¬
ri con un organico di 9.000 solda¬
ti e 316 carri e 107 divisioni mec¬
canizzate con un organico di 10.750
soldati e 188 carri (altre 7 divisioni
aeroportate non entrano nel conteg¬
gio dei carri). Con queste valutazio¬
ni il massimo numero di carri ac-
creditabile all’Unione Sovietica sa¬
rebbe stato 35.915 sempre nell’ipo¬
tesi assolutamente irrealistica che
esistessero le 164 divisioni a pie¬
no organico di carri. I 35.915 car¬
ri non sono sembrati sufficienti ai
« falchi » NATO e quindi con suc¬
cessivi aumenti le divisioni sono
state portate a 168 — 111 mecca¬
nizzate invece di 107 — e gli or¬
ganici dei carri delle divisioni mec¬
canizzate aumentato da 188 a 266.
Il numero dei carri potrà quindi
tranquillamente salire nelle prossime
valutazioni propagandistiche fino a
45.325. Ma questo è soltanto un
piccolo miracolo, il miracolo più
grande è un altro. Perché l’impiego
dei carri sia credibile, occorre che
la proporzione soldati-carri non
scenda sotto un certo minimo. Una
divisione carri sovietica con 9.000
soldati e 316 carri, figurava molto
male nei confronti di una analoga
divisione americana che con 324 car¬
ri ha ben 16.500 soldati; anche la
divisione meccanizzata con 10.750
soldati e 266 carri non poteva reg¬
gere il confronto con l’analoga di¬
visione americana che con 216 car¬
ri ha ben 16.000 soldati. Per ren¬
dere quindi credibile l’aumento dei
carri è stato anche aumentato l’or¬
ganico dei soldati che sono passati
da 9.000 a 11.000 e da 10.750 a 14
..mila per le divisioni meccanizzate.
Per l’aumento di questi organici di
personale l’Unione Sovietica avrebbe
dovuto aumentare di 516.000 unità
le sue forze dell’esercito senza con
questo sanare minimamente la spro¬
porzione soldati-divisioni più sopra
ricordata. Ebbene, il miracolo è che
mentre nel 1973-74 il totale dei
soldati dell’esercito sovietico era
2.050.000, oggi con divisioni più
grandi, più numerose e con più car¬
ri il totale dei soldati è sceso di
225.000 unità per un totale di 1
milione 825.000 soldati. Soltanto
con il miracolo dei pani e dei pesci
si potrebbero giustificare queste va¬
lutazioni. Realisticamente l’Unione
Sovietica potrebbe oggi schierare ir
caso di conflitto 10-15.000 carri la
metà dei quali si trova in Asia in
condizione di grave inferiorità nei
confronti dei cinesi.
— Circa i missili strategici, uno
studio pubblicato negli atti del Se¬
nato americano precisa che dal 1945
al 1974 gli Stati Uniti hanno di
smesso, perché sostituiti con mezzi
tecnicamente più progrediti, 2.541
mezzi vettori nucleari strategici; nel¬
lo stesso tempo l’Unione Sovietica
ne ha dismesso e sostituito soltanto
26. Il ritmo di ammodernamento
americano è stato cento volte più
rapido di quello sovietico.
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 • 14 gennaio 1977
15
forze armate nato-
patto di Varsavia
MEZZI VETTORI NUCLEARI STRATE¬
GICI SOSTITUITI 1945-1974:
Missili strategici ter-
USA
URSS
restri (ICBM)
1210
11
Missili da sommergibili
(SLBM)
544
0
Aerei da bombardamento
787
15
Totale
2541
26
Soltanto recentemente l’Unione
Sovietica cerca di colmare la diffe¬
renza qualitativa dei suoi missili ri¬
spetto a quelli americani che da 8
anni montano testate multiple
(MIRV) sia su missili terrestri che
su quelli lanciati da sommergibili.
I nuovi missili sovietici costituisco¬
no quindi una tardiva, lenta e mo¬
derata risposta alla corsa tecnologi¬
ca americana. La maggiore capacità
di carico nucleare dei missili sovie¬
tici è stata molto reclamizzata da
Schlesinger lo scorso anno quale
indice dell’intenzione sovietica di es¬
sere in condizione di distruggere i
missili americani con una azione pre¬
ventiva e quindi di acquisire una
superiorità nucleare. Questa teoria
non regge ad un esame tecnico per¬
ché’ l’effetto negativo di un errore
rispetto al bersaglio è molto supe¬
riore all’effetto positivo dovuto al-
1 aumento della potenza esplosiva.
Schlesinger, nel luglio del 1975,
pressato dai giornalisti, è stato co¬
stretto ad ammettere che i missili
sovietici hanno un errore almeno
doppio di quello dei missili ameri¬
cani. In definitiva, con un conteg¬
gio esatto, le capacità anti-missile
dei missili più piccoli ma molto più
precisi americani è notevolmente su¬
periore a quella dei missili più gros¬
si ma meno precisi sovietici. Comun¬
que 1 Unione Sovietica si è sempre
attenuta strettamente agli accordi
SALI e gli Stati Uniti potrebbero a
loro volta fare missili analoghi a
quelli sovietici. Non li fanno sol¬
tanto perche li giudicano, inutili.
16
Un cenno particolare merita
l’SS 20 a raggio europeo. Se e quan¬
do verrà schierato, sostituirà gli ana¬
loghi SS 4 e SS5 che furono schie¬
rati nel 1959 e 1961. Inizialmente
gli SS 4 e SS 5 erano 700, vennero
ridotti a 600 molti dei quali sono
stati poi schierati in Asia. Si tratta
anche in questo caso di un tardivo,
lento e moderato aggiornamento che
non compensa certamente lo squili¬
brio fra le 3-4.000 testate nucleari
chiamate tattiche schierate nell’Unio¬
ne Sovietica e le 7.000 e più te¬
state nucleari chiamate tattiche che
la NATO ha schierato in Europa,
che minaccia di voler impiegare per
prima e con le quali potrebbe di¬
struggere completamente tutti gli al¬
leati dell’Unione Sovietica.
— Circa i bilanci difesa sovietici
una pubblicazione ufficiale america¬
na dell’Agenzia del Controllo degli
Armamenti e del Disarmo spiega il
meccanismo della trasformazione da
rubli in dollari. L’esempio si riferi¬
sce al 1972 quando il bilancio sovie¬
tico era di 17,9 miliardi di rubli.
Per il personale la valutazione viene
calcolata secondo i corrispondenti
stipendi dei militari americani. E’
evidente che con questo metodo si
introducono grossolani errori. Basti
pensare che ogni aumento delle re¬
tribuzioni del personale americano
determina un corrispondente aumen¬
to della valutazione del bilancio so¬
vietico senza che in realtà sia stato
stanziato neppure un rublo in più.
Per ciò che riguarda tutte le altre
spese che non riguardano il perso¬
nale, il cambio rublo-dollaro è mol¬
to più alto di quello computato per
valutare il prodotto nazionale, nel¬
l’ipotesi non provata che il prezzo
dei materiali e servizi destinati alla
difesa sia un prezzo politico man¬
tenuto basso per diminuire il bilan¬
cio della difesa. In conclusione, se¬
condo l’agenzia citata i 17,9 miliar¬
di di rubli corrisponderebbero a 81
miliardi di dollari con un conse¬
guente tasso di cambio di 4,5 dol¬
lari per rublo, tasso che non sem¬
bra molto realistico. D’altra parte
il sistema è stato anche criticato
negli Stati Uniti e perfino i direttori
della CIA e della DIA lo hanno
definito « misleading » (che induce
in errore). Il semplice buon senso
suggerisce che il costo del personale
sovietico è molto inferiore al costo
del personale americano e anche il
cesto dei materiali, sia nucleari che
ccnvenzionali, è certamente inferio¬
re a quello americano sia per il mol¬
to piu lento ritmo di rinnovo che
per la generale minor sofisticazione.
Il bilancio difesa sovietico quindi è
certamente inferiore a quello ame¬
ricano.
— In conclusione si può sicura
mente affermare che le forze armate
sovietiche costituiscono soltanto una
tardiva, lenta, moderata reazione di¬
fensiva nei confronti delle forze ar¬
mate NATO notevolmente più for¬
ti e in continuo aumento. Attribui¬
re intenzioni aggressive ai sovietici
nell attuale situazione è irrealistico
cerne è irrealistico ritenere che vo¬
gliano capovolgere la loro attuale
inferiorità militare in Europa e in
Asia.
Gli americani hanno certamente
ragioni molto serie per forzare la
verità e propagandare il timore del¬
le « orde sovietiche ». Il complesso
militare-industriale, già denunciato
da Eisenhower, ha avuto uno svi¬
luppo continuo preoccupante. Gli
Stati Uniti coprono il 46 per cen¬
to delle vendite mondiali di arma¬
menti contro il 30 per cento del-,
l’Unione Sovietica e il 16 per cen¬
to della Francia. In America esisto¬
no 1.033 industrie belliche regolar¬
mente registrate che fanno lavora¬
re altri 10 mila contraenti minori.
Le 221 industrie maggiori hanno fa¬
cile accesso al Pentagono in quan¬
to oltre 1000 ex dipendenti del Pen¬
tagono lavorano in queste industrie.
Nel solo settore aeronautico il 42,5
l'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
Enti locali
ed intermediazione
bancaria
di Antonio Santamaura
per cento della produzione totale è
venduto all’estero e dà lavoro a oltre
un milione di persone. La NATO
sembra essere un mercato facile ed
interessante con gli aerei F 16 ven¬
duti alla Norvegia, Danimarca, Bel¬
gio e Olanda, con gli F 104 venduti
in gran numero all’Italia, con i
C 130 Hercules. Questo può anche
spiegare le forti pressioni per l’ac¬
quisto da parte della NATO di aerei
AWACS per il controllo del campo
di battaglia che dal punto di vista
operativo, tecnico e del costo de¬
stano molte serie perplessità. Un
membro del Congresso ha osserva¬
to: « Quando si discutono le asse¬
gnazioni del bilancio della difesa, il
discorso non verte sulle relazioni fra
armi e difesa, ma sui posti di la¬
voro e su ciò che il programma si¬
gnifica per i vari rappresentami al
Congresso ». Proprio come in Ita¬
lia dove le richieste di assegnazioni
per i materiali delle forze armate
non hanno mai avuto nessuna giu¬
stificazione operativa. Lo scandalo
Lockheed ha dimostrato in maniera
evidente che i ministri della difesa
hanno sempre accettato tutte le ri¬
chieste militari più discutibili senza
esercitare nessun controllo sulla com¬
patibilità della richiesta con il com¬
pito difensivo voluto dalla Costitu¬
zione.
Per ritornare agli Stati Uniti, es¬
si non possono giustificare un riar¬
mo americano e NATO ad un ritmo
così intenso senza inventare una
inesistente minaccia sovietica. La lo¬
ro propaganda è quindi comprensi¬
bile anche se certamente non giu¬
stificabile. Non mi sembra invece
comprensibile, né meno che mai giu¬
stificabile che il Ministro degli este¬
ri italiano si associ ai « falchi »
americani e NATO per diffondere
temi da guerra fredda assolutamen¬
te irrealistici che ostacolano il pro¬
cesso distensivo est-ovest voluto dal
popolo italiano e, ufficialmente al¬
meno, anche dalla NATO.
N. P.
Pubblichiamo volentieri una pri¬
ma bozza di un lavoro scientifico
che il prof. Antonio Santamaura, in
attività presso la facoltà di Econo¬
mia e Commercio dell’Università di
Palermo, sta cpnducendo sul tema
generale dei rapporti tra Enti loca¬
li e sistema bancario. L'argomento
ci pare di rilevante interesse ed at¬
tualità e il grado di elaborazione
dei dati assai rilevante.
• È interessante, nell’intento di
esprimere un giudizio sulla liceità
dei cosiddetti « super-profitti delle
banche », stimare il costo sociale del¬
la loro intermediazione finanziaria
nei confronti del settore della Pub¬
blica Amministrazione. Ciò non solo
per l’evidente distorsione causata
dalla loro azione, quanto per il fatto
che l’attuale impostazione del siste¬
ma costituisce un elemento non in¬
differente dello schema secondo il
quale va rafforzandosi la dipendenza
finanziaria della « mano pubblica »
dal capitale internazionale, nonché
un anello della cinghia di trasmissio¬
ne di impulsi inflazionistici troppo
spesso addebitati ufficialmente e
semplicisticamente all’espansione
della spesa pubblica corrente.
L’intermediazione finanziaria del¬
le banche con il gruppo « Enti Pub¬
blici e Assimilati », per il modo col
quale si realizza, provoca anche una
certa distorsione nella condotta di
gestione di quelle istituzioni. Si trat
ta, in genere, di Enti le cui « entra¬
te » corrispondono a « spese » gra¬
vanti sulle Pubbliche Finanze. La
cronica situazione di disavanzo in
cui buona parte di essi è costretta
ad operare (segnatamente gli Enti
locali) ha reso sempre più freneti¬
ca, per i loro amministratori, la ne¬
cessità di procurarsi i mezzi, per
TAV. 1
/ AZIENDE DI
CREDITO ED ISTITUTI DI CATEGORIA
Dati di
fine anno
(In miliardi)
(Fonte Moli. B-1)
Anno
% Rapp.
Liq./dep.
(D
Impieghi sull'Interno
Enti Pubblici e Assimilati
Depositi di Enti
Pubblici e Assimilati
1961
6.3
1061.1
893,4
1962
7,9
1205,1
1030,3
1963
4,9
1349,8
1276,1
1964
6.0
1625,6
1365,4
1965
5.4
1869.8
1548,5
1966
5,1
2158.8
1749,5
1967
4.3
2685,5
2048,9
1968
4.6
3093,5
2522,7
1969
3.2
3549,4
2693,0
1870
3.7
4284.8
3244,1
1971
3.9
5296,0
4210,4
1972
3,1
6799,7
4643,3
1973
2.76
8508.0
5789,6
1974
3,06
6139,5
5523,8
1975
3.56
7874,9
6391,6
31/3/76
+ 2.03
8037,3
7380,0
Ine. %
Medio
(61/75)
+ 14,45
-1- 15.11
Ine. %
Medio
(68/76)
+ 14.28
+ 14.20
(1) Tendenza 61/75: — 0,287.
L'Astrolabio quindicinale n i - 14 gennaio 1977
17
enti locali
e intermediazione bancaria
TAV. 2 / CALCOLO DELLE « SCOPERTURE MEDIE » E DELLE « GIACENZE MEDIE » DI « ENTI PUBBLICI E ASSIMILATI ■
RELATIVE Al RAPPORTI DI IMPIEGO E DEPOSITO PRESSO AZIENDE DI CREDITO ED ISTITUTI DI CATEGORIA (IN
MILIARDI) COME DA TAV. 1.
Anno
Tasso annuale
effettivo medio
Impieghi al
31-12
Scopertura
media
Interessi
effettivi
* Depositi al 31-12
Giacenza media * *
1961
7.7135866
1065,1
985,1
2.5
• 893,4
*• 871,6
1962
»
1205,1
1118,8
»
1030,3
1005,1
1963
1
1394,8
1284,9
I
1276,1
1244,9
1964
1
1689,6
1509,1
»
1365,4
1332,0
1965
»
1869,8
1735,8
»
1548,5
1510,7
1966
1
2058,8
2004,2
1
1749,5
1706,8
1967
1
2685,5
2493,1
»
2048,9
1998,9
1968
»
3093,5
2871.9
»
2522,7
2461.1
1969
8,243216
3549,4
3279,0
»
2683,0
2627,3
1970
9,9106007
4234,8
3898,4
3,75
3244,1
3126,3
1971
9,8785473
5296,0
4819,8
4.5
4210,4
4029,0
1972
8.6495962
6799,7
6258,3
4.5
4643,3
4443,3
1973
9,1071914
8508,0
7797.8
5,73
6789,6
5475,8
1974
15,5359594
6139,5
5313,9
8,60
5523,8
5086.3
1975
16,5110827
7874,9
6758,9
7,98
6391,6
5919,2
1976 (1 Ir.)
3,1875
8037,3
7789,0
1,995
7380,0
7235,6
la gestione corrente, ricorrendo al
credito a breve acquisito a « costi »
molto più elevati rispetto a quelli
imposti dalle banche alla clientela
di riguardo (« prime rate »); molti
altri Enti, coinvolti nel gioco priva¬
to-acquisitivo, fruendo di disponi¬
bilità di cassa eccedenti il fabbisogno
della gestione corrente ( 1 ), hanno
scelto la apparente favorevole posi¬
zione del « risparmiatore » ritenen¬
do di assolvere a certi imprecisati
loro compiti istituzionali, attraverso
la contrattazione di elevati rendi¬
menti per i loro depositi (per non
parlare delle « deviazioni », ogget¬
to dell’attenzione della magistratura
ordinaria o contabile, che spesso li
hanno portati ad intrattenere col
sistema creditizio, e perfino con una
stessa azienda di credito, « deposi¬
ti » ed aperture di credito, incuranti
dello « scarto » fra tassi attivi e
passivi).
( 1 ) Viene costantemente disapplicata
la « norma » del deposito di tali ec¬
cedenze presso la Banca d'Italia.
L’effetto moltiplicatore sui disa¬
vanzi degli Enti, prodotto dall’inter-
vento « a cascata » del settore cre¬
ditizio sui rapporti finanziari che
collegano i bilanci degli stessi, può
essere stimato a data corrente pru¬
denzialmente nell’ordine di 1.000
miliardi annui. Si attua, cioè, ogni
anno, un « trasferimento » di reddi¬
to dalla collettività al settore cre¬
ditizio, pari mediamente al 70%
dei mezzi finanziari « netti » da
questo approntati per lo svolgimen¬
to del ruolo di intermediazione.
La Tav. 1 mostra come dal 1961
al 1975 i mezzi finanziari « lordi »,
forniti sotto forma di « credito »
agli Enti Pubblici e Assimilati dalle
Aziende di Credito, siano cresciuti
allo stesso ritmo con il quale sono
aumentati i depositi degli Enti stessi.
È interessante confrontare i dati
« lordi » con le corrispondenti serie,
depurate delle « competenze » (inte¬
ressi e commissioni a capitalizzazio¬
ne trimestrale calcolati dalle ban¬
che sul credito concesso agli Enti)
e degli interessi — a capitalizzazione
annuale — riconosciuti dalle Azien¬
de di Credito sulle somme deposi¬
tate presso di loro dagli Enti in di¬
scorso.
Il calcolo, di cui si danno i ri¬
sultati nella Tav. 2, permette di raf¬
frontare ciò che tecnicamente viene
definito « scopertura media » (ovve¬
ro impegno finanziario medio delle
Aziende di Credito verso « Enti »)
con la « giacenza media », ossia con
la somma mediamente posta a di¬
sposizione del Sistema Creditizio da
« Enti Pubblici e Assimilati ». La
differenza fra questi due dati dà
una stima della media annuale dello
impiego « netto » di mezzi finanziari
(risparmio a breve) delle Aziende di
Credito e ad esso va rapportata la
differenza fra « competenze » (a de¬
bito degli Enti) e « interessi » (a
credito degli Enti) onde valutare l’ef¬
fettivo rendimento dell’azione di in¬
termediazione operata dalle Banche.
È intuitivo che la stima dei valo¬
ri sopra indicati può risultare appros¬
simativa in correlazione con le « mi¬
sure » dei tassi attivi e passivi pre-
18
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 * 14 gennaio 1977
TAV. 3 / CALCOLO DELLA DIFFERENZA FRA IMPIEGHI E DEPOSITI DI « ENTI PUBBLICI E ASSIMILATI » AL NETTO
DI COMPETENZE E INTERESSI (1961/75 IN MILIARDI). c 1CT riT rHF «51 CONSO-
DETERMINAZIONE DEL «TRASFERIMENTO» NETTO IN FAVORE DI AZIENDE DI CREDITO E IST. CAT. CHE SI CO
LIDA IN MAGGIOR DISAVANZO ENTI PUBBLICI. métto ni MEZZI IN
DETERMINAZIONE DEL « PROFITTO » DI INTERMEDI AZIO ME BANCARIA COME % SULL IMPIEGO NETTO DI MEZZI
FAVORE DI ENTI PUBBLICI E ASSIMILATI - DATI TAV. 12 ELABORATI.
• Questi «dati» comfermano indirettamente, la significatività dell’analisi. Infatti le ‘ P res *™ ' Ss? DD
Creditizio in quegli anni - - -- - ■ —« •« ""*« nnnraz^m in cartlele della Cassa DD.
PP
■nano inoirettamenie. ia siyniiiuau vuo ..— r--—-, , .. rin
litlzlo in quegli anni, si tradussero in provvedimenti «inusitati». Le ben note operazioni in cartlele de a •
per il consolidamento di debiti di alcuni « Comuni » e le iperazioni di assunzione a carico del bilancio, dei debiti pre
Anno
Scopertura
media
Giacenza
media
Mezzi finanziari
netti impiegati
(a)
Competenze e int.
EE.PP.
Trasferimento
netto ad Az. Cr.
(b)
Rendimento
Impiego % b/a
1961
885,1
871,6
+
113,5
76,0
21,8
54.2
47,75%
1962
1118,8
1005,1
+
113,7
86,3
25.2
61,1
53.73%
1963
1294,9
1244,9
+
50,0
99,9
31,2
68,7
137,40%
1964
1509,1
1332,0
+
177,1
116,5
33,4
83,1
46,92%
1965
1735,8
1510,7
+
225,1
134,0
38,2
95,8
42,55%
1966
2004,2
17C6.9
+
297,4
154,6
42,7
111,9
37,62%
1967
2493,1
1991,9
+
494,2
192,4
50,0
142,4
28,61%
1968
1871,9
2461,1
+
410,8
221,6
61,6
160,0
38,94%
1969
3279,0
2627,3
+
651,7
270,4
65,7
204,7
31,41%
1970
3898,4
3126,8
4-
771,6
386,4
17,3 3
269,1
34,37%
1971
4814,8
4029,0
+
790,8
476,2
181,4
294,8
37,27%
1972
6258,3
4443,3
+
CO
(Jì
©
•
541,4
200,0
341,4
18,80% (*)
1973
7797,8
5475,8
+
2322,0 C)
710,2
313,8
396,4
17,07% (*)
5313,9
5086,3
+
223,6
825,6
437,5 5
388,1
170,51%
1975
6758,9
5919,2
+
893,7
1116,0
472,4
643,6
72,01%
1976 (1 tr.)
(7789,0)
(7235,6)
( +
553,4)
(248,3)
(144,4)
(103,9)
(18,77%)
si a base del calcolo delle « scoper¬
ture » e « giacenze » medie.
Pur sapendo che i risultati finali
sono sottostimati rispetto a quelli
reali (le « competenze » ) e sovrasti¬
mati quelli che determinano l’impie¬
go netto di mezzi, ho preferito adot¬
tare «misure» dei tassi «attivi» (e
della «commissione sul massimo sco¬
perto trimestrale ») corrispondenti
a quelle indicate nei bollettini uf¬
ficiali della Banca d’Italia come
« prime-rate » e « misure » dei tassi
« passivi » corrispondenti a depositi
di cospicuo ammontare. Tuttavia, il
calcolo effettuato risulta abbastanza
significativo nonché illuminante (an¬
che se, a rigore, si sarebbe dovuto
tenere conto della quota di depositi
che confluisce a « riserva »).
Da esso risulta, ad esempio, eh?
almeno 2333,4 miliardi del crescen¬
te deficit di « Enti Pubblici e Assi¬
milati » sono stati « generati » dal
1970 al 1975 esclusivamente a cau¬
sa del servizio di intermediazione fi¬
nanziaria reso ad essi dalle Aziende
di Credito (Tav. 3).
Di fronte a tale imponente mole
di « trasferimenti » fa spicco la
prontezza d’intervento attuata in
favore delle Aziende di Credito nel
1972-73 attraverso le operazioni in
cartelle effettuate dalla Cassa De¬
positi e Prestiti per il consolida¬
mento dei debiti bancari di alcuni
Comuni e per l’assunzione a carico
del bilancio dei debiti pregressi de¬
gli Enti Mutualistici con gli Ospeda¬
li. Si noterà (Tav. 3) che proprio
nel 1972-73, l’impiego di mezzi
« netti » delle Aziende di Credito
era cresciuto notevolmente — oltre¬
passando i 2.000 miliardi — sopra
la media del periodo e, fatto più
significativo, che proprio allora il
« rendimento » di questo impiego
era calato al minimo (17,07 per
cento) mentre (Tav. 1) il rapporto
liquidità-depositi toccava la misura
più bassa di quegli anni (2,76%).
Evidentemente non può negarsi
l’utilità del « servizio » approntato
dal Sistema Creditizio in favore di
Enti Pubblici e Assimilati, ma ri¬
tengo esagerato e quindi « illecito »
che il « costo sociale » di questo ser¬
vizio venga ancorato ai criteri del
credito ordinario.
Il giudizio deve essere anche più
pesante se si considera che è lo stes¬
so « settore » a fornire mediamente
l’80% dei mezzi impiegati dalle
Aziende di Credito per tali opera¬
zioni di intermediazione creditizia,
cperazioni che, data la natura pub¬
blicistica dei soggetti, sono comple¬
tamente esenti da « rischio ».
Con ciò, ovviamente, non inten-
L'AsVolablo quindicinale - n. 1 • 14 gennaio 1977
9
__\
enti locali
e intermediazione bancaria
do muovere critiche all’agire delle
banche, stante che la loro condotta
di gestione privato-acquisitiva legit¬
tima questa ed altre operazioni pu¬
ramente speculative.
Ritengo che l’assoluta mancanza
di una programmazione finanziaria
stia all’origine di siffatte distorsio¬
ni del sistema ed il fatto merita par¬
ticolare attenzione in un momento
in cui (per la incontrollata lievita¬
zione dei tassi sul mercato moneta¬
rio e per la spinta inflazionistica na¬
scente da essi) l’Autorità Monetaria
non sembra in grado di suggerire al¬
l’Esecutivo vie alternative alla defla¬
zione « selvaggia ». Va inoltre os¬
servato (Tav. 3) che per quanto at¬
tiene agli Enti locali, difficilmente
può supporsi che tra quelli che con
essi costituiscono un particolare cir¬
cuito finanziario, vi siano « Enti »
in grado di costituirsi «depositanti»
nei confronti del sistema creditizio.
Sicché potrebbe concludersi che la
colonna della tav. 3 dove sono cal¬
colate (sottostimandole) le « compe¬
tenze », rappresenti, in massima par¬
te, una voce addizionale del loro
disavanzo. In tal senso, quindi, l’at¬
tuale sistema provoca distorsioni
all’interno del circuito finanziario
che collega tutti gli Enti Pubblici e
Assimilati, secondo un modello di
interazione dualistico di tipo « diva¬
ricato » (2) che, affidato alle sue
sole forze spontanee, non potrà non
spingere verso ulteriori e più consi¬
stenti disavanzi i bilanci degli Enti
locali.
Sul piano dei suggerimenti, riten¬
go che una « economia » di 1000
miliardi annui per il settore « En¬
ti Pubblici e Assimilati », potrebbe
essere realizzata vietando, per legge,
che le Aziende di Credito gravino
(2) Cfr. dello scrivente « Tassonomia
dei modelli di interazione dualistica -
un metodo grafico » in « Ricerche in
corso » AH, 1976, Istituto Scienze finan¬
ziarie - Facoltà Economia e Commer¬
cio • Palermo.
di « interessi e commissioni » i cre¬
diti concessi ad Enti Pubblici e As¬
similati quando detti crediti rappre¬
sentino delle pure « anticipazioni su
finanziamenti liquidi ed esigibili »
provenienti da altri « Enti Pubblici
e Assimilati » o dallo Stato. Dovreb¬
be essere, del pari, vietato per leg¬
ge, alle Aziende di Credito di cor¬
rispondere « interessi » su depositi
in contante di « Enti Pubblici ed
Assimilati ». Di contro, dovrebbe
essere riconosciuto a ciascuna Azien¬
da di Credito, sull’eventuale « im¬
piego netto » nei confronti di « En¬
ti Pubblici e Assimilati » il diritto
a ricevere periodicamente in « com¬
pensazione » (nel caso inverso l’ob¬
bligo di corrispondere) dalla Banca
d’Italia B.O.T. fruttanti il tasso pari
a quello del debitto fluttuante dello
Stato.
Tale meccanismo, invero di sem¬
plice attuazione, determinerebbe,
qualora l’intero settore creditizio ri¬
sultasse impegnato nei confronti di
« Enti Pubblici o Assimilati » in mi¬
sura eccedente i mezzi da questi de¬
positati, un « vincolo » ad investire
in B.O.T. (analogo al cosiddetto
« vincolo di portafoglio » ora esi¬
stente) con un rendimento unifor¬
mato a quello del debito fluttuante
e non del 70 per cento.
Al fine di realizzare un controllo
di tipo « programmatico » in questo
settore della Finanza pubblica, sa¬
rebbe opportuno stabilire altresì che
gli « atti » formalmente necessari
a ciascun « Ente Pubblico o Assimi¬
lato » per rivolgere la « richiesta di
credito » alle Banche, possono es¬
sere favorevolmente accolti, alla so¬
la condizione che essi siano muniti
di approvazione da parte degli Or¬
gani di Controllo cui compete isti¬
tuzionalmente la funzione di coordi¬
namento finanziario dei bilanci dei
detti Enti.
( Sarebbe anche necessario chie¬
dere l’assoluto rispetto dell’art. 100
della Legge Bancaria).
A. S.
movimento sindacale
Per gravi sacrifici
riforme
«consistenti»
di Gianfranco Bianchi
• L’assemblea di Roma degli ol¬
tre 2.000 quadri sindacali del 7-8
gennaio ha un precedente nella as¬
semblea dei 4.000 delegati e quadri
sindacali che si riunì a Rimini dal
6 all’8 aprile del 1974. Passò alla
storia del movimento sindacale per
due motivi: per aver sancito defi¬
nitivamente la scelta dei consigli di
fabbrica e dei consigli di zona come
struttura di base delle tre Confede¬
razióni e del futuro sindacato uni¬
tario e per aver fatto uscire il mo¬
vimento dal « ghetto salariale » qua¬
le forza di cambiamento della socie¬
tà. L’assemblea di Roma segna una
rivalutazione e un rilancio del sin¬
dacato dei consigli, dopo un pe¬
riodo di oscuramento e vuole ap¬
profondire il significato della scelta
sociale di tre anni fa.
Tra le due assemblee si sono sus¬
seguiti avvenimenti che hanno se¬
gnato profondamente anche lo stes¬
so sindacato, imponendogli una ve¬
rifica della propria strategia. Ne è
scaturito un « largo, approfondito,
intenso dibattito », per usare una
definizione di Giorgio Benvenuto al
Comitato centrale della UIL (16-17
dicembre 1976) e la coscienza di do¬
ver precisare più chiaramente le pro¬
prie scelte, di « mettere sul tavolo
le proprie carte, proprio per esse¬
re, nella pratica e non solo nelle
parole », come ha detto Luciano
Lama nella dibattuta relazione del
Direttivo della Federazione sindaca¬
le del 9-10 dicembre scorso, « quel¬
la forza di cambiamento della socie¬
tà che promuove, attraverso le ri¬
forme, un diverso modello economi¬
co e che rafforza la democrazia ».
Tre i motivi — o gli avvenimen¬
ti — che hanno inciso di più sul
movimento sindacale: l’aggravarsi
della situazione economica del pae¬
se con le ripercussioni sulle condi¬
zioni di vita dei lavoratori; l’emer¬
gere in modo sempre più pressante
della questione del costo del lavoro
come punto inevitabile di passaggio
per uscire dalla crisi; il cambiamen-
20
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
Lidia Mlleto
Lama
a a 13 a -
- y.
to dei rapporti fra il sindacato e il
quadro politico — governo e par¬
titi — in conseguenza dei risultati
elettorali del 20 giugno e della na¬
scita del governo delle astensioni.
Tre questioni che stanno mettendo
alla prova proprio il ruolo che il
sindacato si è dato a Rimini, facen¬
do risorgere il pericolo di un suo
ritorno al « ghetto salariale », di
pura difesa dei livelli di vita degli
operai occupati.
Già nel Direttivo del 15-16 luglio
dello scorso anno, le confederazioni
avevano avvertito il pericolo, rifiu¬
tando l’ipotesi consolatoria, fatta
propria anche dal consigliere econo¬
mico dell’on. Moro l’economista Ni¬
no Andreatta, secondo la quale il
paese stava uscendo dalla crisi. « I
segni di ripresa produttiva » aveva
detto nella relazione Rinaldo Sche¬
da « che hanno cominciato a mani¬
festarsi nel corso della primavera di
quest’anno non paiono essere in gra¬
do non diciamo di eliminare, ma
neppure di attenuare la gravità dei
problemi di cui soffre l’economia
italiana ». Fu in quella occasione
che il sindacato rinnovò la propo¬
sta « già fatta qualche mese fa e
che il governo di allora non prese
in considerazione», di accettare «un
blocco temporaneo delle retribuzio¬
ni superiori ad un certo livello, che
potrebbe essere fissato intorno agli
etto milioni di lire ». Una proposta
che dette il segno della disponibili¬
tà del sindacato a pagare un prezzo
per un cambiamento positivo della
politica economica basato sul rilan¬
cio degli investimenti e della occu¬
pazione.
Eppure, malgrado questo retro¬
terra culturale e di iniziativa, il sin¬
dacato ha dato l’impressione di es¬
sere stato colto di sorpresa dal pre¬
cipitare delle crisi e di non riuscire
a definire, se non con grande fa¬
tica, il proprio modo di concepire
l’austerità. Un diffuso disorienta¬
mento è stato segnalato dai vertici
sindacali. Una delle cause maggiori
è stata indicata nella scarsa credi¬
bilità di questo governo. Una cau¬
sa dunque esterna al movimento.
« L’insoddisfazione e la preoccupa¬
zione dei lavoratori » ha detto Ben¬
venuto al già citato Comitato cen¬
trale della Uil « cosi come noi le re¬
cepiamo sui luoghi di lavoro, sono
palesemente giustificate dal crescen¬
te scarto che continuiamo a verifi¬
care tra le richieste e proposte del
sindacato e le soluzioni via via
adottate dal governo ». Il fatto che
i dirigenti sindacali abbiano insisti¬
to, come nell’ultimo direttivo della
Federazione unitaria, sulla necessi¬
tà di accompagnare « la denuncia
delle responsabilità delle classi diri¬
genti », all’impegno « di indicare le
vie di uscita e di lottare per una
strategia di cambiamento che ha an¬
che la componente essenziale del no¬
stro contributo e dei nostri sacri¬
fici », dimostra come la sfiducia nel¬
le capacità di usare bene le risorse
rastrellate con la politica restrittiva
da parte del governo Andreotti è as¬
sai diffusa fra i lavoratori. Tutta¬
via, dimostra anche che è altrettan¬
ta diffusa la consapevolezza che un
simile atteggiamento difensivo non
aprirà prospettive per il futuro del
sindacato e della società italiana,
non gli permetterà di ricoprire quel
ruolo di protagonista attiva al qua¬
le ambisce.
Del resto, malgrado la « guerra
degli aggettivi » come l’ha definita
Bruno Trentin, « su questa o su
quella richiesta che maschera un
grado di insoddisfazione maggiore o
minore verso il governo », le con¬
federazioni hanno evitato di divi¬
dersi sulla questione del quadro po¬
litico, pur essendo concordi nel ri¬
tenerlo inadeguato.
L’unica strada percorribile è ap¬
parsa perciò quella di superare il
muro dei no, che « alla lunga », ha
detto Benvenuto, tradirebbe « una
grande debolezza », battendosi « per
una politica di austerità come pre¬
messa per uno sviluppo nuovo e di¬
verso ».
La questione è stata al centro
dell’ultimo, travagliato direttivo del¬
la Federazione sindacale Cgil-Cisl-
Uil e la conclusione è stata la eia»
borazione di una serie di disponi¬
bilità da presentare al governo e
alla Confindustria. Sono ormai note
e vanno dalla migliore utilizzazione
degli impianti, usando anche i sette
giorni festivi soppressi per decreto,
dalla contrattazione della mobilità e
dello straordinario, alla possibilità
di stabilire nuovi turni, fino alla
rinuncia della contingenza sulla in¬
dennità di anzianità, la abolizione
delle scale mobili « anomale » più
costose rispetto a quella dell’indu¬
stria, il contenimento delle richie¬
ste salariali nella contrattazione in¬
tegrativa aziendale. Purché, e que¬
sta è stata la condizione prelimina¬
re ribadita in tutte le occasioni, non
il
L’Astrolabio quindicina!* - n. 1 - 14 gennaio 1977
_ \
movimehto sindacale
venga toccato il meccanismo della
scala' mobile « così com’è ». In di¬
fesa della scala mobile il sindacato
ha eretto una sorta di sbarramento
a riccio, anche perché sente cresce¬
re intorno un diffuso isolamento.
Nell’incontro con i partiti dell’arco
costituzionale del 21 dicembre scor¬
so, ha potuto constatare che anche
i partiti di sinistra, comunisti com¬
presi, non sarebbero contrari ad
un passaggio semestrale degli scatti.
Il « pacchetto » dei sacrifici ela¬
borato dalla Federazione unitaria è
dunque consistente. Secondo Tren-
tin, si tratta di scelte « che non
hanno precedenti, se si guarda al¬
le altre realtà nazionali d’Europa ».
Come contropartita — il sindacato
però rifiuta la concezione del dare
e dell’avere — vuole « la lotta con¬
tro l’inflazione, una politica di ri¬
gorosa austerità con un cambiamen¬
to strutturale dei consumi, una im¬
posizione fiscale equa e garantita
da un fisco efficiente che elimini
le evasioni, una politica degli inve¬
stimenti che sviluppi l’occupazio¬
ne », come ha ricordato il segreta¬
rio generale aggiunto della Cisl Lui¬
gi Macario aprendo la riunione con
i partiti, rigorosamente dedicata ai
temi economici proprio per volere
della Cisl, preoccupata per un even¬
tuale processo alla De proprio nel
momento in cui sta cambiando, non
senza fatica, il suo vertice, dopo la
nomina di Storti a presidente del
Cnel.
Questa è dunque la linea elabora¬
ta fino ad ora dal movimento sin¬
dacale. Incontra resistenze di vario
grado e obiezioni diverse per con¬
tenuto e segno politico. Vanno da
un puro e semplice arroccamento
sulle conquiste raggiunte, più mar¬
cato in alcune ristrette aree di occu¬
pati nelle industrie del nord che « ti¬
rano » per l’esportazione, fino al ri¬
fiuto a farsi coinvolgere in trattati¬
ve sul costo del lavoro e la strut¬
tura del salario. Il «largo, appro¬
fondito, intenso dibattito » continua
e fa emergere il riconoscimento di
un ritardo di elaborazione su alcuni
problemi, come quello ricordato del
costo del lavoro, della struttura del
salario e del peso degli automatismi.
Superato il momento più critico,
il sindacato appare impegnato in un
continuo e franco rapporto tra base
e vertice, alla ricerca di un criterio
per definire la linea di demarcazio¬
ne, oltre al quale le « casematte »
che vi si trovano devono essere ab¬
bandonate. In alcune assemblee, que¬
sta linea di demarcazione è stata
definita « il nostro Piave » e questo
riferimento è indicativo anch’esso
di uno stato d’animo. Ora si prefe¬
risce chiamarla disegno politico com¬
plessivo o progetto politico del sin¬
dacato o alternativa di contenuti e
di linea. Appare sempre più chiara¬
mente che per raggiungere questo
obiettivo, per impedire « di farsi
sfogliare come un carciofo », il sin¬
dacato deve approfondire le stesse
cause della crisi. Si fa strada la con¬
vinzione che non tutto è imputabile
ad una causa esterna, ma che la cri¬
si che stiamo vivendo è stata in
qualche modo provocata dalle lotte
dello stesso movimento sindacale,
dalle « incompatibilità » che esso è
riuscito ad introdurre nella vecchia
e decrepita organizzazione sociale,
fatta di parassitismo, di arretratez¬
za tecnologica, di abbandono del¬
l’agricoltura, di una costosa e inef¬
ficiente macchina statale, di un mer¬
cato del lavoro distorto, in definiti¬
va di una pessima qualità della vita.
Sono « incompatibilità », o meglio,
valori, che si chiamano contrattazio¬
ne dell’organizzazione del lavoro,
dell’ambiente, della mobilità e de¬
gli orari, potere e ruolo del sindaca¬
to nella struttura sociale, la cui di¬
fesa esige dal sindacato la capacità
di saper scegliere fra ciò che è es¬
senziale e ciò che non lo è, perché
contrasta con lo stesso nuovo livel¬
lo raggiunto dalle conquiste dei la¬
voratori.
G. B.
vaticano: la frecciata
di Capodanno
Aborto
e infanticidio
di Giuseppe Branca
• Capodanno 1977. Decima giorna-
nata internazionale della pace. Il Pa¬
pa celebra la Messa nella Chiesa Re¬
gina Apostolorum, alla Garbatella.
Fra i presenti, il Sindaco laico di
Roma. L’omelia papale è severa.
Non ne conosco l’intero contenuto
ma i giornali hanno pubblicato le
frasi che il pontefice ha dedicato
all’aborto. Frasi severe, addirittura
savonaroliane. Parecchi anni fa solo
perché un prelato aveva diretto l’epi¬
teto di « adulteri » a due comuni¬
sti che si erano sposati non in chie¬
sa, ci furono lunghe e dure polemi¬
che la sinistra protestò fortemente,
compatta. Ora la protesta è stata as¬
sai più blanda: solo i radicali e il
movimento femminista hanno reagi¬
to e continuano a reagire con vio¬
lenza. Eppure il Papa ha avuto e-
spressiont molto acerbe: ha chiama¬
to « infanticide » le donne che abor¬
tiscono e le ha chiamate infanticide
rivolgendosi solennemente all’opi¬
nione pubblica mondiale oltreché ro¬
mana.
Perché la reazione dei laici è
stata piuttosto blanda? Certo i tem¬
pi sono cambiati: anni fa, quando
le sinistre erano nel ghetto, l’offesa
al matrimonio civile, in un clima di
dilagante confessionismo, faceva più
male di quanto non possa nel 1977.
La reazione laica era anch’essa uno
dei tanti mezzi per dire al paese che
esistevano anche i partiti della clas¬
se operaia e che un’offesa ai loro mi¬
litanti colpiva l’intera collettività
dei lavoratori. Inoltre bisognava ri¬
cordare a tutti che lo Stato è lo
Stato, anche in pieno dominio de,
e che ai suoi istituti, come al matri¬
monio civile, si doveva rispetto da
parte della Chiesa.
Occorreva insomma arrestare, pur
con proteste di questo tipo, il pro¬
gressivo asservimento del paese ai
poteri e agli interessi del Vaticano.
Ora no. Ora le sinistre, pur non
partecipando al governo, ne condi¬
zionano le decisioni; il popolo, anche
buona parte dei cattolici, sa distin-
22
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 • 14 gennaio 1977
A
guere fra Cesare e Dio (basti pen¬
sare al referendum sul divorzio); la
laicità dello stato si va dispiegando
largamente: la stessa Chiesa lo ri¬
conosce aprendosi alla revisione del
concordato. Insomma, se si vuol da¬
re un’interpretazione ottimistica al¬
l’episodio recente, si può attribuire
a gran parte del mondo laico questo
pensiero: « Il Papa condanni pure
l’aborto con parole infuocate, tanto
il disegno di legge va avanti ugual¬
mente. Lui parla noi agiamo. La po¬
lemica, anche sulle parole, sarebbe
dannosa alla collaborazione fra sini¬
stre e DC, dalla quale soltanto può
essere salvato il paese ».
Vera o non vera questa interpre¬
tazione, non è la faccia del fenome¬
no, alla quale essa si riferisce, ciò
che interessa e preoccupa. Preoccu¬
pante è che il Papa abbia parlato in
quel modo, in quel giorno, alla pre¬
senza di quel sindaco. Non abbia¬
mo niente in contrario a pensare
che i discorsi del pontefice siano
sempre ispirati da quella che i cre¬
denti ritengono sia la grazia divina;
ma omelia o allocuzione ispirata non
significa discorso improvvisato. Non
un raptus oratorio, imposto dalla
concezione tradizionale aborto-infan¬
ticidio, ha spinto Paolo VI a parlare
in quel modo. No, il Papa ha volu¬
to, ha fermamente voluto, dopo me¬
ditazione, lanciare quelle gravi pa¬
role. Ma perché?
È una domanda che dobbiamo pur
farci poiché l’episodio non ha pro¬
prio i caratteri della normalità.
È vero: si trattava di cerimonia
religiosa; la cerimonia si svolgeva
fra le pareti di una chiesa; il Papa
esprimeva un’opinione scaturente
dai principi del magistero ecclesia¬
stico. Tutto vero; ma ciò basta solo
a giustificare in quell’ambiente, quel¬
la espressione (« infanticide »). Non
giustifica l’accenno, che c’è stato (di¬
retto o indiretto, non so), alla legi¬
slazione italiana: peggio, al disegno
di legge su cui si discute alla Ca¬
mera. Questo non doveva accadere.
Il Papa, che è stato un fine uomo
politico, lo sapeva, eppure non ha
perduto l’occasione di parlare in
quel modo, con quella presenza lai¬
ca. Se ha sfiorato il confine della
scorrettezza, poiché ' ente si im¬
provvisa e tutto si medita accurata¬
mente lassù, è perché ha ritenuto di
« doverlo » fare: proprio perché o
soprattutto perché c’era lì ad ascol¬
tarlo il sindaco laico.
È stato, è voluto essere, un avver¬
timento formale, solenne, severo. Sul
divorzio la Chiesa non s’è impegna¬
tala con tutte le proprie forze (ben¬
ché non possa dirsi nemmeno il con¬
trario). Sull’aborto si. Il divorzio in
fondo è la rottura per le leggi dello
Stato d’un vincolo che non esiste
per la Chiesa (matrimonio civile) o
d’un vincolo (matrimonio cattoli¬
co) che per la Chiesa nonostante lo
scioglimento civile, resta fermo in
perpetuo. L’aborto no: esso è (per
la Chiesa) l’uccisione d’una creatura
e l’uccisione è un fatto irrimediabile
poiché non può la Chiesa ritenere an¬
cora vivo chi invece non è più un
essere vivente. Forse banalizzo un
po’ troppo il problema, ma è certo
che anche questa considerazione può
giocare sull’irriducibilità della Chie¬
sa, la quale poi è colta dal terrore
vedendo che alcuni capisaldi della
propria dottrina vanno perdendo ter¬
reno anche presso gli stati cattolici.
Conclusione? A questa fermezza
d’oltre Tevere occorre contrapporre
altrettanta fermezza del mondo lai¬
co. Chi è cattolico fino al punto di
credere che l’aborto sia sempre un
infanticidio, non abortirà: conosco
persone capaci di farlo dinanzi a cer¬
te necessità, anche se sono meno
di quanti taluni non credano. Chi,
professandosi cattolica, abortisca, sa¬
rà semmai condannata dalla Chiesa
e se la vedrà con la propria coscien¬
za religiosa. Però non sono più tan¬
te le credenti che ritengano di ve¬
nir meno ai doveri religiosi se inter¬
rompono la maternità. Certo la tra¬
dizione, l’educazione familiare, l’in¬
segnamento e la panica tramandati
di madre in figlia, la paura della ma¬
ledizione di Dio giocano ancora un
loro ruolo; ma l’urto delle nuove
generazioni finirà per trionfare di
tutto ciò: da un lato la religione ten¬
de per forza a formalizzarsi o per
10 meno a valere soprattutto per le
sue appariscenze; dall’altro il senti¬
mento religioso si intimizza aspi¬
rando a una comunicazione diretta
con Dio senza i limiti posti dall’au¬
torità.
i
Infine, dirò una sciocchezza, ma
11 legame tra la fede e l’illegittimità
dell’aborto non è poi così stretto:
il bonum prolis, che sta alla base del
matrimonio canonico, non basta a
porre come principio dogmatico, pu¬
ramente religioso, l’illiceità del¬
l’aborto. Mi sembra che questa illi¬
ceità predicata dalla Chiesa cattoli¬
ca come dottrina religiosa sia piut¬
tosto il frutto di un’osmosi fra aspet¬
to religioso e aspetto puramente ter¬
reno del fenomeno. Non saremo noi
a insegnare alla Chiesa quel che è
vero e che è dovuto nella materia
della fede; ma possiamo tranquilla¬
mente dire ad essa che questo del¬
l’aborto è un problema esclusivamen¬
te terreno: intendiamoci, è un pro¬
blema esclusivamente terreno deci¬
dere se chi abortisce venga o no sot¬
toposto a sanzione penale. Che la
Chiesa di Cristo pretenda la reclu¬
sione per chi interrompe la gravi¬
danza è quasi incredibile. Ecco per¬
ché ho parlato di confusione tra
aspetto civile e aspetto religioso. È
intollerabile che il Vaticano, ora,
nel 1977, continui ad invocare la
mano pesante dello Stato contro fat¬
ti di cui l’opinione pubblica disco¬
nosce ormai il carattere penale: ché,
se si tratta di fatti che sono crimini
per il solo insegnamento ufficiale
cattolico, la Chiesa si accontenti del¬
le proprie sanzioni, terrene o cele¬
sti.
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 * 14 gennaio 1977
23
c
-
la riscoperta
degli indipendenti
A ciascuno il suo
• Si è risvegliato nelle ultime set¬
timane l’interesse della stampa e
della opinione pubblica attorno al¬
le posizioni, alla presenza politica
della sinistra indipendente. C/è da
compiacersene. Chi — come noi del-
/'Astrolabio — ha sempre sostenuto
che i partiti politici restano l’as¬
se portante della democrazia italia¬
na ma non possono ritenere esau¬
rita nella loro dialettica la ricchez¬
za delle posizioni e degli apporti
che alle nostre istituzioni possono
venire anche da forze non partiti¬
che, non può che valutare positiva-
mente questo rinnovato interesse
per la sinistra indipendente e per
i suoi uomini.
Proprio perché la sinistra indi-
pendente non è e non vuole diven¬
tare un partito politico ma si con¬
figura, in buona sostanza, come una
area nella quale confluiscono perso¬
nalità di cultura e formazione poli¬
tica assai diverse, è naturale, e si
direbbe fisiologica, la diversità delle
opinioni, la variegata densità e colo¬
ritura dei contributi.
Vale tuttavia la pena proprio a
scanso di equivoci e di fraintendi¬
menti di offrire al lettore e proba¬
bilmente anche a una parte degli
operatori della informazione, alcu¬
ne precisazioni che chiameremo, per
comodità di linguaggio, "topografi¬
che’’ nell’ambito dell’area che ab¬
biamo genericamente definito detta
sinistra indipendente.
C’è anzitutto un gruppo di 18 se¬
natori (17 eletti nelle liste del PCI)
che si sono, a Palazzo Madama, rac¬
colti attorno al direttore di questa
rivista (che è senatore a vita). Si
tratta, in ordine di forza numerica,
del quarto gruppo (dopo quelli della
DC, del PCI, PSI) costituito al Se¬
nato a termini di regolamento. Que¬
sto gruppo ha una precisa connota¬
zione parlamentare-. "Gruppo della
Sinistra Indipendente". I 18 nomi
sono abbastanza noti ma vale la pe¬
na di ripeterli: Anderlini (presiden¬
te), Basso, Branca, Brezzi, Galante
Garrone (vice presidente), Gozzini,
Giudice, Guarino, La Valle, Lazza¬
ri (segretario), Masullo, Melis, Ossi¬
cini, Pasti, Romagnoli Carettoni,
Romano e Vinay.
Esiste poi — alla Camera — un
gruppo che può considerarsi per mol¬
ti aspetti analogo a quello del Se¬
nato ma che non costituisce a ter¬
mini del regolamento della Camera
un "gruppo” autonomo. Si tratta
di sette deputati che hanno formato
la maggioranza del ’’gruppo misto"
di quel ramo del Parlamento. Anche
questi nomi sono sufficientemente
noti: Spinelli (Presidente), Guada¬
gno, Mannuzzu, Napoleoni, Orlan¬
do, Spaventa, Terranova.
Esistono infine altri indipendenti
che hanno preferito entrare a far
parte — conservando la loro qua¬
lifica di indipendenti — dei gruppi
parlamentari del PCI. (Al Senato:
Bernardini, Jannarone, Squarcialupi,
Villi. Alia Camera: Allegra, Carlas-
sara, Codrignani, Manfredi, Pratesi,
Ramella).
Pur convergendo in quella che
abbiamo definito l’area della sini¬
stra indipendente o degli indipen¬
denti di sinistra è chiaro che si trat¬
ta di posizioni distinte e che attri¬
buire alla "Sinistra Indipendente”
le posizioni dei singoli o dei vari
gruppi complica talvolta le cose e
può indurre a rettifiche che rischia¬
no per i non addetti ai lavori di
risultare incomprensibili. Quello di
cui vorremmo pregare amici ed av¬
versari è di dare a ciascuno il suo,
ai singoli la responsabilità delle lo¬
ro dichiarazioni, ai gruppi o sotto¬
gruppi la responsabilità delle loro
prese di posizioni (quando esistono).
A questa precisazione topografi¬
ca è opportuno che faccia seguito
una breve considerazione di carat¬
tere politico.
Durante la fase-preparatoria del¬
l'ultima campagna elettorale e poi
nel corso del suo svolgimento capitò
spesso di veder lanciare contro gli
indipendenti che accettavano candi¬
dature nelle liste del PCI, l’accusa
di essersi messi al servizio del nuo¬
vo padrone. Una accusa di confor¬
mismo, e di trasformismo insieme.
Adesso che l'attività di queste for¬
ze — presenti oltre che nel Parla¬
mento anche nel paese — comincia
a dare i suoi frutti in termini di pro¬
poste, di battaglie condotte avanti
con tenacia, di iniziative originali e
magari di dibattito aperto con le al¬
tre forze della sinistra, compreso na¬
turalmente il PCI, sta venendo di
moda un altro tentativo: quello di
sottolineare ogni differenza tra gli
indipendenti e il PCI come un ele¬
mento di frattura, come un indebo¬
limento o magari un rovesciamento
dei rapporti di collaborazione pree¬
sistenti.
A noi pare chiaro che chi ragio¬
na in questi termini è — al di là
delle stesse intenzioni che lo muovo¬
no — legato a una concezione arcai¬
ca e angustamente partitica della lot¬
ta politica, secondo la quale ogni
dissenso si trasforma in corrente,
ogni corrente in frazione, ogni fra¬
zione genera una scissione e una
rottura. Manca a tutti costoro il sen¬
so di un lavoro comune dove ognu¬
no ha il diritto di restare interamen¬
te se stesso senza la pretesa di fare
la mosca cocchiera e senza diventare
un utile idiota, ma nella consapevo¬
lezza che la maturazione di un gran¬
de processo storico di trasformazio¬
ne impone a tutti e a ciascuno di
dare in umiltà, ma senza rinunce, il
meglio di sè e di far confluire la
propria esperienza nell’alveo più
grande dell’unità con tutte le altre
forze che a quel cambiamento mira¬
no e senza le quali il cambiamento
sarebbe impossibile.
In un periodo nel quale si parla
molto di pluralismo forse non sa¬
rebbe inopportuno che chi critica
il PCI per le "ambiguità", "i no¬
di non sciolti” del suo modo di in¬
tendere il pluralismo, tenga conto
anche di questa esperienza.
24
L'Astrolabio quindicinale • n. 1 • 14 gennaio 1977
_ \
la revisione del concordato
Una scuola
pluralista ma
confessionale
di Franco Leonori
• I negoziatori della Santa Sede
nella trattativa con il governo ita¬
liano per la revisione del Concor¬
dato hanno ricevuto la precisa con¬
segna di ottenere il più possibile
dalla controparte soprattutto sui
sussidi statali alla scuola cattolica.
L’estremo interesse della Chiesa
per questo campo è dettato dalla
« psicologia da assedio » imposses¬
satasi della gerarchia (o della mag¬
gioranza della gerarchia) da qualche
anno a questa parte. La data di na¬
scita di questa psicologia è gene¬
ralmente assegnata al 12 maggio
1974 (referendum sul divorzio) che
segnò una chiara e sonora sconfitta
delle forze cattoliche tradizionali,
non soltanto di quelle più integrali¬
stiche. Dopo una prima reazione,
che sembrò di lucidità, queste for¬
ze sono arrivate a questa conclusio¬
ne: in Italia si va affermando sem¬
pre più la cultura radical-marxista;
per contrastare questa egemonia ai
cattolici non rimane che potenziare
i loro spazi culturali, e soprattutto
la scuola confessionale.
La Chiesa italiana ha dedicato a
tale tema una serie di convegni nel¬
l’ultimo semestre: in estate a Ri¬
mini (Comunione e Liberazione) e a
Pallanza (UCIIM: Unione Cattolica
Italiana Insegnanti Medi); il mese
scorso due incontri a Roma: FISM
(Federazione Italiana Scuole Mater¬
ne) e FIDAE (Federazione Istituti
Dipendenti dall’Autorità Ecclesiasti¬
ca).
Quali le posizioni uscite da que¬
sti appuntamenti? Due posizioni,
con sostanziali punti di contatto. La
prima posizione, portata avanti so¬
prattutto dal movimento « Comu¬
nione e Liberazione », si batte per
la trasformazione delle strutture ci¬
vili, in modo che nella scuola or¬
ganizzata dallo Stato si creino luo¬
ghi omogenei nei quali sia possibile
il formarsi di mentalità e personali¬
tà « orientate »; la seconda, che per
ora sembra prevalente, chiede ai cat¬
tolici di impegnarsi su due fronti:
maggiore presenza nella scuola pub¬
blica e, contemporaneamente, po¬
tenziamento (per il quale si esige
l’apporto statale) delle scuole ge¬
stite in proprio da organismi catto¬
lici. Il maggiore punto di contatto
tra le due posizioni sta nella comu¬
ne convinzione che l’egemonia della
cultura cattolica è in fase sempre più
calante e, di conseguenza, i cattoli¬
ci devono contrastare questo feno¬
meno con loro autonome iniziative
Sintomatico di questa comunanza di
analisi sulla situazione culturale ita¬
liana, ma anche della diversità del¬
le proposte di parte cattoliche, è
quanto affermato qualche giorno fa
dal padre Bianchini, presidente del¬
la FIDAE: « Quale la nostra posi¬
zione di fronte agli amici di C.L.?
Posizione di confronto e di attesa
finché non abbiano maturato le lo¬
ro scelte concrete per cui dalla teo¬
ria scendano alla prassi, che dovrà
misurarsi con tante e disparate for¬
ze politiche, decisamente non bene¬
voli alle proposte avanzate nel Con¬
vegno di Rimini 1976, specie per
quanto si riferisce alla soluzione del¬
la scuola dell’obbligo. Rispettosi di
ogni idea — ha precisato Bianchi¬
ni — auspichiamo un sereno obiet¬
tivo studio per la ricerca di una co¬
mune piattaforma di intesa del mon¬
do cattolico su un tema di impor¬
tanza fondamentale. I primi contatti
(con C.L.) sono già avvenuti, e con
buon profitto ».
In sostanza, i rappresentanti della
posizione oggi • maggioritaria temo¬
no che la proposta di C.L. (coopera¬
tive di genitori e insegnanti che ge¬
stiscono scuole pagate dallo Stato e
dagli enti locali) riduca ancor più i
cattolici in un « ghetto ». Nello
stesso tempo essi sono affascinati
dalla « sicurezza di sé » e dall’atti¬
vismo dei soci di C.L., la cui colla¬
borazione ritengono preziosa. Ma
non solo di questo si tratta. C.L.
riesce ad infiltrarsi sempre più nel¬
le organizzazioni cattoliche che ope¬
rano nella scuola. Finora sembra sia
riuscito, questo movimento, a con¬
quistare l’Associazione dei genitori
degli alunni delle scuole cattoliche.
E infatti al convegno della FIDAE
la posizione portata dal rappresen¬
tante di questa associazione ha ri-
specchiato pari pari le tesi di C.L.
È di questi giorni la notizia che a
Genova si sta costituendo l’A.L.GE.
S.C. (Associazione Ligure Genitori
Scuole Cattoliche), che si propone
come obiettivo di « promuovere li¬
beramente proprie scuole, di ogni
ordine e grado », naturalmente con
i] sussidio della finanza pubblica.
Occorre aggiungere che anche nel¬
la DC — dalla quale pure erano
venute dure critiche alle posizioni
espresse da C.L. a Rimini — le pro¬
poste del movimento di don Gius¬
sani (il prete milanese fondatorè di
« Comunione e Liberazione») stan¬
no guadagnando terreno. Sul « Po¬
polo» del 13 novembre Alvaro An-
cisi ha difeso le tesi di C.L. Egli
ha scritto che, di fronte al « quasi
monopolio » radical-marxista nella
scuola, « le scuole di comunità, crea¬
te liberamente dall’iniziativa delle
famiglie, appaiono come l’alternati¬
va più solida e meno occasionale al¬
la nuova cultura di regime... ». Con
lui concorda Fon. Bardotti, in uno
scritto, pubblicato sullo stesso gior¬
nale il 17 novembre, intitolato « Le
scuole materne e i comunisti ».
Si può prevedere che queste tesi
siano destinate a conquistarsi sem¬
pre più spazio. In effetti, quelli che
vi si oppongono, ma continuando
a difendere strenuamente il diritto
della scuola confessionale (per la
quale chiedono anzi maggiori contri¬
buti finanziari dello Stato), si affret¬
tano ad aggiungere che la scuola
cattolica deve sempre più aprirsi al
dialogo con le altre culture e ideo¬
logie (Bianchini, nell’intervento ci¬
tato). È soltanto un’ammissione di
principio, che neppure C.L. osa ne¬
gare.
L’Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
25
Pantaleone:
la mafia
non smobilita
di Marco Ventura
• Settembre 1946: Girolamo Li
Causi e Michele Pantaleone sfidano
la mafia di Villalba nella tana di don
Calogero Vizzini, la « testa del ser¬
pente ». Quando il dirigente comu¬
nista mette sotto accusa i fomenta¬
tori del separatismo reazionario, i
grandi agrari, l’onorata società, scat¬
ta la provocazione: « don Calò » fa
un cenno e crepitano i mitra. Li
Causi si accascia sul palco, i feriti
sono 18. Per gli assassini di Villalba
l’accusa è di strage, ma il mandato
di cattura obbligatorio non scatterà.
Due anni dopo scompaiono dal tri¬
bunale di Caltanissetta gli atti del
processo,, e quando finalmente si ce¬
lebrerà il giudizio saranno passati 14
anni, Vizzini sarà già morto, le
«pene » per i suoi sicari suoneranno
come una sfida alla coscienza demo¬
cratica.
Dicembre 1976: il tribunale di
Palermo assolve Li Causi dall’accusa
di diffamazione nei confronti dell’ex
sindaco fanfaniano Vito Ciancimino:
definirlo « coinvolto in un groviglio
di interessi mafiosi » non è reato.
Tre giorni dopo, il tribunale di To¬
rino proscioglie Michele Pantaleone,
trascinato in giudizio dall’arroganza
dell’« intoccabile » Giovanni Gioia,
punta di diamante dello strapotere
isolano. È una duplice vittoria-sim¬
bolo a 30 anni dalla sparatoria di
Villalba, una di quelle vendette del¬
la storia che riconciliano con la vo¬
lontà di lottare contro la sopraf¬
fazione. L’assoluzione di Li Causi e
più ancora quella di Pantaleone as¬
sumono un significato senza prece¬
denti, dicono che finalmente diven¬
ta possibile battersi contro la pau¬
ra, l’omertà, la corruzione mafiosa
invocando la forza delle istituzioni
democratiche e la certezza del di¬
ritto. Ma la soddisfazione legittima
non può scadere in facili entusia¬
smi, quasi che le decisioni corag¬
giose di Torino e Palermo signifi¬
cassero che la mafia smobilita, che
questo mostruoso « potere paralle¬
lo », storicamente radicato nella no¬
stra vita sociale, cementato nei de¬
litti più efferati, fondato su un in¬
treccio di interessi che condiziona
leggi e governi, possa essere messo
in condizione di non nuocere a col¬
pi di sentenze giudiziarie. Forse è
vero il contrario. Accanto ai sinto¬
mi rassicuranti ce ne sono tanti al¬
tri che fanno da contraltare alla bat¬
taglia vinta da Michele Pantaleone,
sintomi dai quali si deduce non solo
che il potere mafioso resta in sella,
ma che si avvia a diventare più in¬
sidioso e che è già in grado di pra¬
ticare livelli tecnologici e politico¬
criminali più alti e ramificati attra¬
verso un radicale « riciclaggio » in¬
terno.
La mafia conquista
una nuova trincea
Può essere un processo simile a
quello che negli anni ’50 portò la
nuova mafia nel cuore delle grandi
città siciliane smantellando gli anti¬
chi equilibri imposti dalle cosche
di gabellotti infeudate nelle campa¬
gne. Allora la molla principale, se
non esclusiva, fu rappresentata dal¬
la minaccia di disgregazione interna
conseguente al varo della riforma
agraria, e dall’incremento parallelo
della rendita fondiaria nei centri
urbani in espansione. Oggi la spin¬
ta è dovuta da un lato all’avanzata
di forze popolari il cui interesse ma¬
teriale e la cui vocazione politica
sono incompatibili con i meccani¬
smi di accumulazione parassitaria e
còl clientelismo delle oligarchie ma-
fiose, dall’altro alla crisi che re¬
stringe i margini di profitto sui ce¬
spiti tradizionali.
Dal sequestro del potentissimo
esattore salernitano Luigi Corleo,
nel luglio del ’75, è calata sull’ini¬
ziativa mafiosa una fase di « bo¬
naccia » superficiale che qualcuno
vorrebbe interpretare positivamente
e che invece è una conferma minac¬
ciosa. « Calati junghu chi passa la
china »: il giunco mafioso sa flet¬
tersi aspettando che la piena sia pas¬
sata, perché le centrali del delitto
posseggono una propria tattica e
proprie scadenze per tornare all’of¬
fensiva aperta. In questa fase la
mafia difende e consolida le posi¬
zioni raggiunte, ma contemporanea¬
mente si infiltra senza rumore in
nuovi ambienti geografici, politici e
criminali.
L’attuale « politica » si risolve
in primo luogo in una guerra spie¬
tata contro la nuova criminalità ur¬
bana indipendente, resa temeraria
dalla crisi e dall’emarginazione nei
ghetti. Durante il ’76, nella sola Pa¬
lermo, la lupara ha regolato per
sempre il conto a 60 piccoli pregiu¬
dicati, e la lugubre statistica cre¬
sce di molto se applicata alle altre
province occidentali. Ma il fronte
di questa guerra silenziosa è molto
più ampio, varca i confini dello
stretto. Marsigliesi, malavita orga¬
nizzata del centro-nord, grandi traf¬
ficanti internazionali, contendono al¬
la mafia il primato sulle voci più
lucrose e più moderne dell’accumu¬
lazione criminale, determinando un
intrico di alleanze momentanee e
più spesso lo scontro frontale. E’
così per la raffinazione e lo spaccio
della droga pesante sui floridi mer¬
cati di mezzo mondo; è così per il
traffico dei diamanti che il proces¬
so inflattivo delle valute espande e
per l’industria dei sequestri che in
Italia ha fruttato il colossale fattu¬
rato di 50 miliardi in un anno. E’
così infine per il più discreto e co¬
perto dei traffici, quello degli arma¬
menti con destinazione i paesi del
Medio Oriente e soprattutto del¬
l’Africa razzista.
Le cronache registrano solo gli
echi di questo panorama: i mafiosi
del clan Liggio giudicati per i se¬
questri Montelera, Torielli e Baro-
26
L'Aatrolablo quindicinale - n. 1 - 14 gennalo«1977
ni o i risvolti dell’omicidio Mazzot-
ti; i corrieri thailandesi e cinesi del¬
la droga intercettati a Fiumicino
grazie alle « soffiate » di una con¬
correnza ben individuabile; gli ele¬
menti ricorrenti ma mai indagati
che provano l’esistenza di un racket
delle armi con scalo nei porti sici¬
liani sotto il controllo delle cosche,
come ha autorizzato a credere la sco¬
perta dei corrieri del tritolo bloc¬
cati a La Spezia un anno fa. Per il
resto « non ci sono le prove »: è la
rarefatta atmosfera-che accompagna
da sempre le vicende di mafia e che
ha reso baldanzosi i Gioia, i Vas¬
sallo, i Ciancimino, gli Alberti nel¬
la difesa giudiziaria del loro nome
onorato. E’ una legge che il caso
Pantaleone ha forse incrinato ma
non certo cancellato. I tabù resta¬
no tali perché l’interesse a smasche¬
rarne la logica e i protagonisti è as¬
sente. E’ su questa mancanza di vo¬
lontà, o meglio sulla volontà oppo¬
sta di coprire, favorire e comparte¬
cipare agli utili, che si riproduce
la forza materiale della mafia, una
forza non accidentale ma organica
alla filosofia e alla prassi di un
certo potere democristiano. Traffi¬
co di droga e di armi significa agi¬
bilità delle frontiere, controllo dei
porti e della flotta mercantile, con¬
nivenze all’interno dei corpi sepa¬
rati; industria del sequestro signifi¬
ca mano libera negli ambienti del¬
le grandi transazioni finanziarie.
« Sulla scena dei grandi
disegni politici »
« La mafia sa di essere diventata
l’industria del potere », ci ha detto
Michele Pantaleone, « un potere che
si identifica con quello democristia¬
no. Crisi? Oggi sono forti come
non mai: sapranno scegliere il mo¬
mento e il terreno propizio per usci¬
re allo scoperto». Perpetuare la pro¬
pria influenza sui centri decisionali
della politica e accrescerla in un
periodo di profondo rinnovamento
socio-politico come quello che -si
apre è il problema capitale della ma¬
fia. Con quali programmi e con
quali alleati? E’ certo che la mafia
si sta muovendo oggi non solo sul
piano dei racket criminali, ma an¬
che più in alto, su un piano nuovo
e insidioso, direttamente e operati¬
vamente affacciato sulla scena dei
grandi disegni politici. Negli anni
delle bombe e dei tentativi golpisti
nuove alleanze sembrano essersi
strette sul campo: da un lato le
forze protagoniste della strategia
reazionaria, dall’altro il potere ma¬
fioso, riconosciuto come l’alleato
naturale di Portella delle Ginestre,
del reclutamento di Salvatore Giu¬
liano, dell’eliminazione di Placido
Rizzotto.
Un contributo alle centrali
della provocazione
I protagonisti del fallito « golpe
d’ottobre » Pomar e Micalizio, ar¬
restati dal giudice Violante, aveva¬
no in programma l’utilizzazione di
sicari mafiosi per l’assassinio di lea-
ders democratici, e il killer di Oc-
corsio, il palermitano Pier Luigi
Concutelli, aveva operato per an¬
ni sotto l'autorità morale dello stes¬
so Micalizio. Ai giudici Arcai, Caiz-
zi e Turone che hanno individuato
nel rapporto fra golpismo organiz¬
zato e mafia « qualcosa di più di
una semplice ipotesi di lavoro », fa
eco proprio in queste settimane il
dossier consegnato dall’Antiterrori¬
smo al ministro Cossiga: in un ver¬
tice dell’« Internazionale Nera » te¬
nuto l’estate scorsa a Lione, il capo
di Ordine Nuovo Clemente Orazia¬
ni ha presentato ai camerati euro¬
pei un piano organico per la sov¬
versione armata nell’Italia meridio¬
nale in caso di avvento dei comuni¬
sti al potere, con azioni di guerri¬
glia orchestrate in Sicilia e Calabria
dalle centrali mafiose.
A questo punto C’è da chiedersi
se sia soltanto fantapolitica ipotiz¬
zare, come del resto hanno fatto
i relatori comunisti dell’Antimafia,
che la fuga di Liggio alla vigilia di
piazza Fontana e la sua scelta di
Milano come base operativa abbiano
qualche relazione con la strage, o
che la compartecipazione fascista
nei traffici d’armi e nei sequestri
Mariano, Getty, Segafredo non sia
casuale, o ancora che l’offensiva del¬
la nuova « Ndrangheta » calabrese,
costata 400 vite umane dal '74 a
oggi, abbia non casualmente per epi¬
centro proprio le vecchie roccaforti
dei « Boia chi molla ». Ma è mai
possibile che la carta logora e per¬
dente dell’eversione fascista possa
suscitare gli appetiti della vecchia
volpe? La mafia sa meditare le sue
alleanze: lo fece nel ’40 quando de¬
cise l’appoggio agli USA e preparò
il terreno allo sbarco lavorando con
i servizi segreti d’oltre Atlantico;
nell’immediato dopoguerra quando
sostenne l’avventura del separatismo
con Washington, la monarchia e i
grandi agrari, e ancora nel ’46 quan¬
do a villa Marajà fu deciso il pas¬
saggio delle maggiori « famiglie »
allo scudo crociato. Anche questa
volta la mafia potrebbe aver fatto
i suoi conti ben oltre l’apparente
ingenuità del progetto.
La strategia della tensione ha di¬
mostrato che il braccio fascista è
sempre stato guidato da centrali an¬
nidate nello Stato e che l’insieme
delle trame reazionarie trova una
sua logica complessiva solo all’inter¬
no delle istituzioni. Perché esclude
re in ipotesi che un potere come
quello mafioso, potere armato, do¬
tato di gerarchie interne, di un pre
ciso codice di comportamento « mi¬
litare », radicato nel tessuto sociale
siciliano, infiltrato a scala nazionale
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
27
"N
c intrecciato alle grandi organizza¬
zioni USA di « Cosa Nostra » pos¬
sa offrire in futuro un contributo
prezioso a quelle stesse centrali di
provocazione? La « mano nera » del
fascismo mostra la corda, le viene a
mancare l’entroterra dell’organizza¬
zione missina dilaniata dalle faide
interne, la sua manovrabilità dal
centro è drasticamente ridimensio¬
nata dalla vigilanza delle masse, re¬
sa insormontabile da anni di stragi
e attentati. In una fase che fosse
di scontro radicalizzato tra classi
popolari e volontà restauratrice, il
potere mafioso potrebbe costituire
in Sicilia una base logistica e poli¬
tica ideale per le tecniche della
« destabilizzazione » già applicate
in Grecia e nel Cile di Allende, fa¬
vorita dalla collocazione strategica
nel cuore di un Mediterraneo in¬
quieto e da una contemporanea pe¬
rifericità rispetto al territorio me¬
tropolitano.
Riverniciata la vecchia
etichetta separatista
I risultati che stanno emergendo
nell’inchiesta di Trento su una se¬
rie di provocazioni dinamitarde sono
lontani solo nello spazio: nelle in¬
dagini del procuratore Jadecola è
venuta concretamente alla luce la
responsabilità dei servizi segreti ita¬
liani nei più gravi attentati attribui¬
ti agli « austriacanti » al tempo del¬
la guerriglia altoatesina. Un esem¬
pio ante-litteram di destabilizzazio¬
ne in zone di confine? Forse non è
un caso se il piano fascista denun¬
ciato dall’Antiterrorismo a Cossiga
prevede, con l’uso della mafia nel
sud, quello contemporaneo degli
Ustascia jugoslavi nella zona di Trie¬
ste e la ripresa di attività irredenti-
ste armate in Alto Adige.
Nel febbraio scorso, proprio men¬
tre l’Antimafia dichiarava conclusi
i suoi lavori con una decisione che
pesa anche sulle componenti demo¬
cratiche della Commissione, 2 cara¬
binieri venivano trucidati nel sonno
ad Alcamo Marina, in terra di ma¬
fia. Un delitto feroce e assurdo, che
però diede il via a una girandola di
perquisizioni contro gli ambienti
della sinistra isolana, in un conte¬
sto allarmistico che vide intrecciar¬
si i comunicati di improbabili « Nu¬
clei armati Sicilia » con le sortite di
risorgenti « Movimenti separatisti »
come il FAIS (Fronte Armato Indi¬
pendenza Sicilia) il RIS (Repubbli¬
ca Indipendente Siciliana) e il
FULAS, sigla che con ambiguità so¬
lo apparente stava a significare di
volta in volta « Fronte Unitario di
Lotta al Sistema » e « Fronte Unito
di Indipendenza Arabo-Sicula », ma
che come le etichette precedenti,
vantava sotto la riverniciatura sepa¬
ratista una matrice schiettamente fa¬
scista, già messa a frutto in una cri¬
minale semina di bombe nella Sici¬
lia orientale.
Sette giorni prima che il tribu¬
nale di Torino pronunciasse la sua
pesante condanna morale nei con¬
fronti di Giovanni Gioia e del par¬
tito di cui è stimato esponente,
l’onorevole ex ministro veniva rein¬
tegrato nella direzione democristia¬
na, e le rimostranze d’ufficio — o in
buona fede che fossero — di una
pattuglia di giovani deputati de fi¬
nivano fatalmente per assumere il
sapore di una beffa di fronte alle
conclamate velleità di rifondazione.
C’era una logica molto più lucida
e concreta che si sovrapponeva a
quelle proteste e le rendeva plato¬
niche, una logica trentennale di re¬
gime che domani potrebbe fare da
incubatrice a fenomeni fin qui pro¬
ponibili solo in ipotesi.
«Le sentenze non scardinano il
sistema di potere, perciò non abbat¬
tono la mafia ». Lo dice Michele
Pantaleone. Oggi, a trent’anni dal¬
l’agguato di Villalba.
M. V.
la cultura di sinistra
allo specchio
Il piacere sottile
dell’autocensura
di Aldo Rosselli
• Di tanto in tanto la cultura di
sinistra ha dei sussulti, si guarda al¬
lo specchio, enumera i sensi di col¬
pa: avviene un piccolo cataclisma
che sembra abbattere ogni certezza
e lasciare alle sue spalle il deserto.
In realtà, più che di cataclisma, si
tratta di un leggero vento ristorato¬
re, che ha il compito di portare un
po' di sollievo a chiunque, protago¬
nista, comprimario o comparsa, ab¬
bia fatto parte di un certo capitolo
della Cultura di Sinistra. Da qual¬
che mese, e più intensamente da
qualche settimana, la massiccia e ap¬
parentemente inattaccabile costru¬
zione di quella cultura che nel do¬
poguerra, tra gli anni Quaranta e
Sessanta, aveva contribuito a ridare
una certezza didascalica e operativa a
chiunque, intellettuale o semplice
fruitore, fosse uscito dal fascismo e
dalla guerra con entusiasmi quasi
sempre troppo fragili, ha cominciato
a mostrare dei cretti preoccupanti.
Il primo segno di quest’opera di
erosione è probabilmente stata la
scoperta delle « censure » operate da
Renato Solmi sulla traduzione ita¬
liana del 1954 di « Minima Mora-
lia » di Adorno. Cui, quasi d’uffi¬
cio, si deve aggiungere la massiccia
manomissione della prima edizione
einaudiana degli scritti di Gramsci.
Un altro passaggio obbligato è il
« veto » posto da Delio Cantimori
e altri ineccepibili « tutori » della
sinistra alla pubblicazione di Nietz¬
sche in Italia, motivati, come ricorda
Roberto Calasso sul Corriere della
Sera, dal fatto che, caso mai, si trat¬
tava di proporre la lettura del peri¬
coloso filosofo tedesco a pochi, ben
ferrati ideologi.
Tutti questi esempi, óra ameni
ora truci, sono narrati da Valerio Ri¬
va su un recente numero de
L’Espresso, col tono divertito e bi¬
richino di chi è riuscito a coglier* in
fallo i finora immacolati maestri del¬
l’ortodossia culturale di sinistra. Ma
in realtà è difficile cogliere l’ilarità
di chi, come Valerio Riva, ha vissu-
28
1 Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
to in prima persona, e non da com¬
parsa, le vicende in questione. Del
resto, ed è questo un punto princi¬
pale, chiunque avesse operato nella
cultura in quegli anni Quaranta e
Cinquanta era per ciò stesso com¬
plice, in quanto tutti i parametri del
suo discorso erano aH’interno di
una certa ipotesi di cultura, la stes¬
sa alternativa o analisi critica ponen¬
dosi al massimo come il controcan¬
to di una musica barocca.
Ora, tutti quelli che nei primi
quindici anni del dopoguerra accor¬
sero a Milano per inserirsi nelle case
editrici che allora distribuivano pa¬
tenti di nobiltà sociale insieme al
ruolo, ambitissimo, di « sacerdozio»
della cultura, avevano la certezza di
offrire un servizio, quello di anti¬
cipare, col fiuto e con un sapere ini¬
ziatico, il futuro assetto della cultu¬
ra. Difatti le redazioni delle case
editrici pullulavano di una continua,
febbrile eccitazione, di chi era en¬
trato nel ruolo insieme solitario, da
sacerdozio laico, e politico-divulgati¬
vo, consistente nella paternalistica
raccomandazione di quale « prodot¬
to » usare, cioè quale libro leggere
e come leggerlo.
Come è arcinoto, sono stati Cesa¬
re Pavese e Elio Vittorini i primi
della schiera, poi foltissimi, dei rab¬
domanti culturali. Né ciò è avvenuto
per caso, considerato il lungo e ap¬
passionato apprendistato dei due sui
messaggi segreti ed eterodossi della
letteratura americana ai tempi del
fascismo. Insomma, sia Pavese che
Vittorini s’immettono nel dialogo
letterario e civile italiano dopo ave¬
re fatto gli inviati speciali di un’al¬
tra cultura, anzi, usando del privi¬
legio della sorpresa e della diversità
in una cultura, come la nostra, sem¬
pre abituata a potersi riparare con¬
venientemente dietro un linguaggio
convenzionale e orientato a senso
unico.
Qui s’innesta l’esperienza fonda-
mentale del Politecnico di Vit¬
torini, esperienza discussa e studia¬
ta quanto si vuole, ma sostanzial¬
mente estranea e quindi minacciosa
alla linea di continuità della nostra
cultura. E non si tratta, dopotutto,
soltanto di Politica e Cultura, quin¬
di dei rapporti tra il « disarmato »
Vittorini e Togliatti, l’astuto per an¬
tonomasia. Nella stessa natura del¬
l’utopia vittoriniana c’era non solo
l’ovvia « generosità » ma un attac¬
co niente affatto astratto contro le
varie burocrazie culturali, ma anzi
privo di mediazione, contro la for¬
ma del potere come esso si profila¬
va in quegli anni apparentemente ar¬
roventati (ma in realtà assai più li¬
gi...) dell’immediato dopoguerra. E,
in effetti, fino ad oggi la figura di
Vittorini è sempre stata identifica¬
ta con le ragioni del rischio, del ri¬
fiuto, magari del candore.
Ma anche su questo punto da
un po’ di tempo si notano dei segni
di cambiamento. È di poche setti¬
mane fa un’intervista a Oreste del
Buono sull’Europeo, nel corso del¬
la quale l’ex collaboratore del fo¬
glio di Vittorini mostra a molti anni
di distanza di -avere delle forti risi-
piscenze sulla vicenda del Politecni¬
co. « ... io sulla vicenda del Politecni¬
co ho un po’ cambiato opinione ne¬
gli anni. Allora fui dalla parte di Vit¬
torini contro la prepotenza, la bur-
banzosità, la saccenteria e anche
quella che mi pareva allora l’ottusi¬
tà di'Togliatti. In Togliattti vedevo
e odiavo il professore di scuola. Ep-
poi ero naturalmente vicino a Vi-
torini, perché Vittorini era un capo
affascinante, anche carnalmente affa¬
scinante (mentre Togliatti non ave¬
va nulla di affascinante)... Dopo, pe¬
rò, senza per questo modificare la
mia amicizia e il mio affetto per Vit¬
torini, ho avuto i primi ripensamen¬
ti. Li ho avuti quando ho capito
che era stato lo stesso Vittorini a
voler venir via dal Politecnico. Che
doveva anzi venire via perché la sua
posizione politica non combaciava
più per nulla con quella del parti¬
to ».
Ora, sicuramente Del Buono for¬
nisce un punto di vista diverso su
certe vicende rispetto alla « favola
agiografica » (se vogliamo chiamar¬
la così dopo alcuni decenni di ri-
pensamenti...) intorno ai rapporti
tra Vittorini e Togliatti. Ma è un
punto di vista, stranamente, che
mentre reinstaura le ragioni del po¬
tere, togliendolo dalle secche del ma¬
chiavellismo, aggiunge all’utopismo
di Vittorini un di più di malafede,
o quanto meno di inspiegabile ac¬
quiescenza al potere. Tutto somma¬
to, e non se ne abbia a male Del
Buono, è come se, più che un ri-
pensamento, egli abbia anche nel
frattempo modificato i personaggi in
causa: così Togliatti diventa molto
simile al Berlinguer del compromes¬
so storico, mentre Vittorini, nono¬
stante il suo carisma (« carnalmente
affascinante ») assume le sembianze
di uno qualsasi degli scrittori che si
agitano sui quotidiani e per mezzo
di arguzie da salotto, cioè forte nella
retorica e debole e ambiguo nella
azione.
Così anche Valerio Riva, di me¬
raviglia in meraviglia, ridimensiona
tutto ci che avveniva dietro le
quinte del trionfalismo- della cultura
di sinistra nei primi due decenni del
dopoguerra. Ma è, la sua, una tec¬
nica che sta tra quella dell’inquisi¬
zione e quella della psicanalisi più
vessatoria. E forse di psicanalisi ce
n’è davvero più di quanto non si
credi, dato che scoprire gli altarini
delle vicende culturali di quei lonta¬
ni anni non è poi tanto diverso dal
rimettere le mani nella propria in¬
fanzia che si scopre inevitabilmente
affetta da mostruosi edipismi e in¬
sopportabili traumi. In questa infan¬
zia c’erano gli angeli, come Vittori¬
ni, i folletti, come Fortini e via via
altri, come il discolo Feltrinelli; ma
poi, anche, si capisce, i padri spes¬
so indulgenti ma ogni tanto giusta-
L'Astrolabio quindicinale - n 1 • 14 gennaio 1977
20
A
la cultura di sinistra
allo specchio
mente punitivi, che rispondevano ai
nomi di Togliatti e di Alicata.
I personaggi (inclusi i tanti non
nominati) erano schierati in bell’or¬
dine, la recita era perfezionata in
ogni suo dettaglio. Luciano Bian-
ciardi, nel breve romanzo « Il lavo¬
ro culturale », del 1960, ha colto
con felice ma insieme mesta intuizio¬
ne il delirio masochistico che anima¬
va il progetto tipo della casa edi¬
trice a Milano (ma anche a Torino
o altrove) negli anni Cinquanta. Ha
fatto di più, poiché ha individuato
il grigio costume e i movimenti mec¬
canici di chi si votava al disegno di
una cultura da divulgare a tutti, una
serie di libri magici che avrebbe
fatto scattare nella società il livello
messianico della qualità.
In fondo sarebbe giusto accoglie¬
re anche le osservazioni di Togliatti,
apparse in una lettera del numero
33-34 del Politecnico, come un al¬
tro capitoletto della storia psicanali¬
tica dei rapporti intrattenuti consa¬
pevolmente ma soprattutto inconsa¬
pevolmente per tanti anni tra politi¬
ca e cultura, cioè tra noi stessi e
tante nostre paure collegate alle rap¬
presentazioni* di noi stessi. Che la
lettera di Togliatti abbia intonato
il rintocco funebre del Politecni¬
co è cosa più che nota; meno chia¬
ro è il fascino sottile e irresistibile
che le perentorie e levigate genti¬
lezze del « capo di un grande parti¬
to di governo » (secondo la presen¬
tazione di Vittorini) esercitarono al¬
lora sul direttore del Politecnico
e che continuano ad esercitare sulla
fantasia e le censure psicanalitiche
di quasi tutti gli intellettuali italia¬
ni. Per Togliatti, dunque, rispetto a
un primo periodo fervido di apertu¬
re e possibilità, « ... a un certo pun¬
to ci è parso che le promesse non
venissero mantenute. L’indirizzo an¬
nunciato non veniva seguito con coe¬
renza, veniva anzi sostituito, a poco
a poco, da qualcosa di diverso, da
una strana tendenza a una specie di
'cultura’ enciclopedica, dove una ri¬
cerca astratta del nuovo, del diverso,
del sorprendente, prendeva il t .osto
della scelta e dell’indagine coerenti
con un obiettivo, e la notizia, l’in¬
formazione (volevo dire, con brut¬
to termine giornalistico, la 'varie¬
tà’) sopraffaceva il pensiero ».
•
Ecco, che in Italia, in anni ancora
vicini, ci fosse un’autorità che po¬
tesse, con adeguato sussiego, con¬
dannare il fatto che « una ricerca
astratta del nuovo, del diverso, del
sorprendente, prendeva il posto del¬
la scelta e dell’indagine coerenti con
un obiettivo », sembra quasi irreale,
oltre che tetro. Se il « nuovo », il
« diverso » e il « sorprendente » po¬
tevano impunemente essere relegati
nel trovarobato dell’impensabile e
dell’ideologicamente perverso, allo¬
ra vuol dire che può avvenire qual¬
siasi scherzo nello strano parco dei
divertimenti del linguaggio, o del
nostro scatenamento psicanalitico.
Nel « perbenismo » di Togliatti vi
è l’esatta analogia, che piove dall’al¬
to, della trista auto-censura di chi
compie il gioco di prestigiatore di
mutare le parole magiche, o vitali,
in grigi spauracchi dell’inconscio. E
allora, si capisce, si costituisce la
faticosa metafora della cultura co¬
me vigilanza, dell’intellettuale che
dalla redazione della casa editrice
teme che si possano « compiere o
avallare sbagli fondamentali di in¬
dirizzo ideologico », cioè ancora una
volta concepisce la cultura soltanto
come un sostegno della sua più rigi¬
da veglia.
Ne accenna anche Del Buono,
quando nomina i dirigenti culturali
del PCI degli anni Quaranta e Cin¬
quanta. « Era una politica cultu¬
rale fatta da professori umanisti pe¬
danti e saccenti come Togliatti, che
intervenivano continuamente per di¬
re 'questo non va’. Ma che cosa non
andasse loro, i professori, non te lo
dicevano. Non è un caso che tutte le
cose fatte da gente di sinistra siano
state stroncate proprio dalla sini¬
stra ». Forse, il fatto che i professo¬
ri non dicessero che cosa non an¬
dasse loro dipendeva dalla realtà di
una cultura, quella di sinistra, che
era fatta più per occupare posizioni
che per desiderare di raggiungere
gli obiettivi prefissi, più per una
ragione strategica che per un certo
« piacere » che suonava eretico e
disfattista.
Sono passati molti anni dal Po¬
litecnico e dai « Minima Moralia »,
ma se ci possono ancora interessare
(o apparire scandali postumi) i bal¬
letti del potere intorno alla rivista
di Vittorini, o i « tagli » di Renato
Solmi, o tutti i guasti di un perbe¬
nismo culturale che rimandava al¬
l’infinito i suoi rapporti con la real¬
tà e continuava a dialogare col « do¬
ver essere », è perché, tutto somma¬
to, avviandoci oggi verso gli anni
Ottanta, siamo sempre alle prese con
le censure di un modo di operare
culturale che finge di ignorare una
realtà che già da tempo ha sconvol¬
to le comode previsioni dei « pro¬
fessori ». Infatti anche oggi, ma in
modo ben più disastroso, l’industria
culturale continua ad offrire da un
lato l’arcadia culturale a dei lettori
che si rifiutano di leggere, mentre
dall’altro lato si apre lo spettacolo
inverecondo dei pacchetti azionari,
in continuo movimento, dei finan¬
ziamenti Imi, e in genere del pro¬
gressivo (e brutale) avvicinamento
alla Concentrazione totale. Non si
può negare che l’imposizione, a ca¬
vallo tra anni Cinquanta e Sessanta,
di un mito Lukàcs, sembra un blan¬
do pedaggio rispetto all’irrompere
nella cultura dei nostri giorni del
scttopotere del Regime. O meglio,
di fronte alla logica dei consigli di
amministrazione, anche il più tenue
rapporto con quell’intimo legame
psicanalitico che ci legava oscura¬
mente, e quindi felicemente, con la
nostra cultura, pare spezzarsi.
A. R.
30
L'Astrolabio quindicinale n 114 gennaio 1977
carter alla casa bianca
Gli uomini e la politica
del Presidente
di Giampaolo Calchi Novati
Gli Stati Uniti devono sapere che alcuni governi europei e alcune forze che gravitano
attorno al potere accettano la Nato con qualche riserva e pensano che il «test » mi¬
gliore sia di riabilitare il Patto atlantico nella sua versione più semplice di alleanza
militare, escogitata per « contenere » l’Unione Sovietica.
• Se gli Stati Uniti sono la mas¬
sima potenza mondiale e il presi¬
dente ha le massime responsabilità
del suo governo, bene ha fatto il
« Time. » a proclamare Jimmy Car¬
ter « uomo dell’anno » per il 1976.
Nel 1976 Carter è diventato il pre¬
sidente degli Stati Uniti. Ma il suo
« exploit » potrebbe essere ridimen¬
sionato, visto che Carter è giunto
alla Casa Bianca prima battendo al¬
la Convention democratica «losers»
per vocazione come Jackson e Hum-
phrey e sconfiggendo, poi nella cam¬
pagna vera e propria un presiden¬
te in carica, Ford, che non era mai
stato eletto e per il quale, a que¬
sto punto, nessuno più era disposto
a spendere più di tanto, beneficia¬
rio e vittima insieme del Watergate
e di tutti gli altri errori dell’ammi¬
nistrazione Nixon. Per Carter, pe¬
rò, le difficoltà maggiori incomin¬
ciano adesso, nel 1977, quando do¬
vrà tradurre in politica pratica i va¬
ghi propositi riformatori che lo han¬
no fatto vincere, dovendo per di più
venire a capo delle molte contrad¬
dizioni implicite nello schieramento
composito che quella vittoria ha re¬
so possibile.
Per il fatto di entrare alla Casa
Bianca dopo presidenti screditati o
incolori, dopo un Johnson che abdi¬
ca, un Nixon che si dimette per non
essere incriminato e un Ford che
affonda nella sua stessa mediocrità,
il neopresidente è atteso come l’ine¬
vitabile promotore di una « svol¬
ta ». La politica degli Stati Uniti,
naturalmente, ha regole relativamen¬
te fisse, ma in una situazione di
inerzia come la presente ci sono i
margini per una sterzata, se appena
Carter sarà soccorso dall’inventiva.
Inizia un nuovo mandato e inizia il
terzo centenario della storia degli
Stati Uniti. Ma non si può esclude¬
re che questi richiami, con l’insi¬
stente rievocazione di un Roosevelt
o di un Kennedy, finiscano per non
giovare a Carter, che potrebbe non
avere né la statura soggettiva né le
potenzialità oggettive per interpreta
re quanto di stimolante certamente
c’è nella società americana attuale:
c’è qualcosa di fatalistico o di irra¬
zionale in questo collegamento, cosi
tipico della politica americana, fra
l’« uomo nuovo » venuto dal nulla
e la capacità di rinnovamento, co¬
me se non valesse anche per la so¬
cietà americana il rapporto di forza
a livello strutturale, sia nel momen¬
to della scelta di un presidente che
nel momento dell’esplicazione di
una politica.
Un fronte elettorale in America
non è certo paragonabile a un par¬
tito in Europa e neppure a una coa¬
lizione di partiti. Con tutto ciò, i!
coacervo di aspettative, di interessi
corporativi, di delusioni e di propo¬
siti di riscatto che ha determinato
il successo elettorale di Jimmy Car¬
ter potrebbe rivelarsi effettivamente
un po’ troppo eterogeneo.
Come esordio, Carter, che ha
Carter, Mondale e le mogli alla convenzione democratica
l'Astrolabio quindicinale * n. 1 - 14 gennaio 1977
31
carter alla casa bianca
giuocato a lungo la-carta dell’anti-
establishment, ha riempito il suo
governo di uomini che detenevano
già da prima posti chiave nel siste¬
ma, uomini del potere politico, fi¬
nanziario ed amministrativo. Ma
non si poteva nemmeno pretendere
che Carter facesse venire a Washing¬
ton solo i suoi collaboratori di Atlan¬
ta per rimanere fedele all’idea del¬
l’inedito. Alla « Pravda », del resto,
l’« équipe » di Carter è piaciuta, no¬
nostante sia stato imbarcato in es¬
sa — benché in un posto non at¬
tinente in modo diretto alla politica
£stera — l’ex-ministro alla Difesa
Schlesinger, che non ha risparmiato
dichiarazioni e viaggi (persino a Pe¬
chino) per propagandare la sua op¬
posizione alla distensione come si è
andata realizzando fin qui, cioè con
la priorità al rapporto russo-ameri¬
cano.
Chi ha analizzato uno ad uno i
collaboratori del presidente ha con¬
cluso che il dosaggio è stato attento.
La media sembra tendere al centri¬
smo moderatamente progressista.
Per un conservatore spinto come
Bell alla Giustizia un intellettuale
kennedyano, ex-obiettore di coscien¬
za, come Soerensen alla testa della
CIA. E poi un militante nero per
i diritti civili, braccio destro di
Martin Luther King in molte batta¬
glie, Andrew Young, all’ONU, ma
anche Brown alla Difesa e appunto
Schlesinger, che Carter mostra di
apprezzare molto e che sicuramente
avrà una parola da dire sulla futura
politica militare degli Stati Uniti.
Nel governo c’è anche il dovuto
omaggio alle donne: addirittura due,
una delle quali nera. Il segretario di
Stato, Cyrus Vance, molto noto co¬
me negoziatore, dovrebbe essere un
esecutore più che un protagonista
in proprio. Per l’economia, con Tho¬
mas B. Lance al Bilancio, Michael
Blumenthal al Tesoro e Charles
Schultze consigliere speciale del pre¬
sidente, la tendenza dovrebbe esse¬
re all’ortodossia, con un po’ di libe¬
ralismo di stampo keynesiano.
Un elemento di aggregazione in¬
teressante sarebbe l’appartenenza di
molti degli uomini del presidente
alla cosiddetta Trilateral Commis-
sion, che raccoglie uomini d’affari,
politici, sindacalisti e universitari del
Nord America, dell’Europa occiden¬
tale e del Giappone. Fino a pochi
mesi fa la Trilateral era presieduta
da Zbignew Brzezinski, chiamato da
Carter ad Occupare il posto che per
alcuni anni, prima della sua nomina
a segretario di Stato, fu di Kissin-
ger, cioè di consigliere del presiden¬
te per i problemi della sicurezza.
Oltre a Brzezinski, fanno parte del
lato nordamericano della Commis¬
sione anche Vance e il vicepresiden¬
te Mondale. L’ideologia di questa
organizzazione è orientata verso una
solidarietà accresciuta fra i paesi del¬
lo sviluppo, il Nord-Ovest del mon¬
do, per far fronte all’ascesa del Ter¬
zo mondo e comunque per raziona¬
lizzare e istituzionalizzare l’egemo¬
nia dei veri detentori del potere e-
conomico e tecnologico, se non più,
almeno in modo esclusivo, anche del
potere finanziario. Il rapporto fra
la Trilateral e il mondo socialista
sarebbe meno definibile, dato che a
Brzezinski, ritenuto nel contempo
un sostenitore della « linea dura »
con Mosca, si potrebbe attribuire
— come prospettiva lunga — una
assimilazione dell’URSS e dei paesi
dell’Est sviluppati nella « comunità
avanzata » (a condizione naturalmen¬
te che la distensione operi nel sen¬
so giusto).
Questo connotato è importante
perché tutto lascia credere che l’am¬
ministrazione Carter darà la prece¬
denza all’economia internazionale ri¬
spetto alla politica internazionale.
Le relazioni Est-Ovest hanno det¬
to tutto quello che potevano dire.
Carter ha già previsto un incontro
con Breznev, ma l’obiettivo del
« vertice », a parte l’esigenza di
« conoscersi », dovrebbe essere la
sottoscrizione di un terzo accordo
per le armi strategiche, che sta a
cuore alle grandi potenze perché an¬
che in fase di riflusso della disten¬
sione il «selfrestraint» nucleare non
deve essere allentato. Per il resto,
Carter si dedicherà a mettere ordi¬
ne nel sistema economico mondiale,
dove si tratta di recuperare alla
« leadership » del capitalismo ameri¬
cano il « surplus » dei petrodollari;
la ripresa economica degli Stati Uni¬
ti e del mondo occidentale dovreb¬
be anche essere la garanzia miglio¬
re per far rientrare il « secessioni¬
smo » potenziale dei paesi europei
in preda a crisi strutturali, come
l’Italia.
Si è parlato molto, prima e dopo
le elezioni di novembre, delle inten¬
zioni di Carter a proposito del-
l’« eurocomunismo ». Sembra accer¬
tato che per Carter la stabilizzazio¬
ne economica dell’Italia è la premes¬
sa per eventuali rettifiche del qua¬
dro politico, ritenendo che non sia
sostenibile una duplice destabilizza¬
zione, economica e politica. Gli Sta¬
ti Uniti potrebbero aver già fatto
presente ai loro alleati del mondo
petrolifero (Arabia Saudita) che gli
interessi comuni richiedono una
strategia comune: Yamani ha espli¬
citato questo progetto, dando una
interpretazione « politica » della dis¬
sociazione dell’Arabia Saudita e de¬
gli Emirati dagli aumenti decisi da¬
gli altri paesi dell’OPEC. E’ una
politica che si colloca in una dimen¬
sione che ha ben pochi punti di
contatto con la distensione e in gene¬
re con il rapporto USA-URSS, e
questa impostazione non sembra fa¬
vorire la politica delle forze — co¬
me i comunisti italiani — che pur
senza sottrarsi alle incombenze del¬
la stabilizzazione vorrebbero che es¬
sa fosse intonata da una parte con
il processo di avvicinamento fra i
blocchi (per coerenza con l’obietti¬
vo non ancora abbandonato del loro
32
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
■scioglimento) e dall’altra con la mar¬
cia verso il nuovo ordine economico
internazionale per il quale si batto¬
no i paesi in via di sviluppo.
Il maggiore « progressismo» di
Carter dopo l’amministrazione Ford-
Kissinger quanto ai rapporti con
l’URSS e il mondo non-capitalista
(comprendendo in esso i paesi del
Terzo mondo che hanno fatto una
scelta socialista fortemente condizio¬
nata dall’URSS: gli Stati Uniti po¬
trebbero essersi persuasi che non è
più né ragionevole né conveniente
tentare di esportare il capitalismo
nel Terzo mondo come via per su¬
perare il sottosviluppo) consistereb¬
be in questo: l’America non ridu¬
ce più l’interpretazione della politi¬
ca mondiale a una competizione a
due fra Stati Uniti e URSS, o se si
vuole fra capitalismo e comuniSmo.
Col vantaggio di evitare certe «ca¬
dute» sul genere del Cile, ma con
lo svantaggio di perdere ulterior¬
mente di vista l’articolazione di un
sistema internazionale di tipo bi-
multipolare, come garanzia di sta¬
bilità ed insieme di giustizia. Se è
vero d’altra parte che la preoccu¬
pazione principale è l’economia in¬
ternazionale, gli Stati Uniti mostra¬
no di non aver capito la funzione
esatta dell’URSS in questo campo,
dopo che l’idea di associare l’URSS
ad una politica di portata mondiale
per far uscire il Terzo mondo dal
sottosviluppo, concepito anche co¬
me causa endemica di conflitti e
di crisi, è svanita. Anche la maggio¬
re flessibilità degli Stati Uniti nei
confronti di paesi come l’Angola o
Cuba ( è augurabile che una « testa
d’uovo » come Soerensen non im¬
pieghi più la CIA come uno stru¬
mento di tipo « terroristico » con¬
tro i regimi non graditi) nasconde il
sottinteso che il « profilo basso »
potrebbe favorire il reingresso di
questi paesi in una certa sfera di in¬
fluenza proprio perché, al di là del-
le opzioni ideologiche e persino di
certe esperienze « pure e dure », il
mercato mondiale è uno solo, quel¬
lo dominato dal dollaro, dalle multi¬
nazionali e dal « marketing » di par¬
te occidentale.
Il contributo dell’URSS potreb¬
be risultare prezioso però per risol¬
vere in modo « stabilizzante » crisi
come quelle del Medio Oriente o
dell’Africa australe. Una delle carat¬
teristiche della politica di Kissinger
era di trattare problemi simili al di
fuori di un « crisis management »
concordato: l’emarginazione del¬
l’URSS aggravava le tensioni, ma,
praticando Kissinger per principio
la destabilizzazione controllata per
ripresentarsi sulla scena come me¬
diatole o conciliatore, quello non
era di per sé un inconveniente.
Niente nelle prime dichiarazioni di
Carter autorizza ad anticipare quale
sarà la linea di condotta sul con¬
flitto arabo-israeliano o sulla Rho-
desia. L’ambasciatore all’ONU è un
negro, una via di mezzo, si dice, fra
il « bastone » di Moynihan e la « ca¬
rota » di Scranton, e quanto meno
sull’evoluzione dell’Africa meridio¬
nale I’ONU sarà chiamata a svolge¬
re una sua funzione. Ma la mode¬
razione di un rappresentante onesto
al Palazzo di Vetro non è una con¬
dizione sufficiente se non sarà chia¬
rito il rapporto centrale.
E a questo proposito allarme ha
suscitato il documento prodotto con
tempismo fin troppo sospetto dal¬
la CIA sul riarmo dell’Unione So¬
vietica e più ancora sulla strategia
perseguita dai militari sovietici, tut¬
ta protesa ad assicurarsi una supe¬
riorità convenzionale e nucleare in¬
vece di gestire la parità. Uno degli
slogan con cui Carter attaccò Ford
nella campagna elettorale parlava di
ridurre le spese per gli armamenti.
Probabilmente era una promessa di
cui Carter non poteva fare a meno
se voleva restare fedele al « cliché »
dell’uomo del Sud, un provinciale
pieno di buon senso e non corrot¬
to dalla Realpolitik. La CIA non
ha neppure atteso il discorso del-
l’« inauguration » per ricordargli
che la corsa al riarmo con l’URSS
è sempre in cima a tutte le priorità:
né poteva essere diversamente quan¬
do si pensi alla presenza, nel fron¬
te elettorale che alla fine si schierò
con Carter, tanto dei sindacati che
del complesso militare-industriale
(il « fenomeno » Carter è stato
« preparato da lontano » dalle forze
al « top » della potenza americana,
ha scritto « Le Monde Diplomati-
que »). Può essere un segno non
di buon auspicio un « revirement »
alla vigilia dell’ingresso alla Casa
Bianca, ma Carter e il suo ministro
della Difesa Brown (l’ex-ministro
Schlesinger è addirittura favorevole
all’uso di armi nucleari con funzioni
tattiche già nei primi pioli del-
P« escalation » e nelle querre limi¬
tate) hanno dovuto ricredersi sulla
possibilità di apportare tagli all’iper¬
bolico bilancio militare.
Come nella scelta degli uomini da
immettere nell’amministrazione, il
Carter presidente non ha paura di
smentire, nel nome del realismo, il
Carter candidato. Ma la politica mi¬
litare non è confinata agli Stati Uni¬
ti. Coinvolge direttamente gli allea-
ti, anche quelli dell’Europa occiden¬
tale. Gli Stati Uniti (e Luns alla
NATO) devono sapere che alcuni
governi europei e alcune forze che
gravitano attorno al potere accetta¬
no la NATO con qualche riserva, e
pensano che il « test » migliore sia
di riabilitare il Patto atlantico nel¬
la sua versione più semplice di al¬
leanza militare, escogitata per « con¬
tenere » l’URSS: tanto peggio per
chi aveva pensato di immaginare la
NATO come un club politico o ad¬
dirittura come un’organizzazione per
collaborare con il resto del mondo.
G. C. N.
L'Astrolabio quindicinale • n. 1 • 14 gennaio 1977
33
Anche dall’Italia
un contributo alla
pace del
Medio Oriente
Conversazione con Tullia Carettoni
D. - Una delegazione del Forum
Italiano per la pace e la sicurezza
in Europa e nel Mediterraneo si è
recata in Israele. Chiediamo alla se¬
natrice Carettoni che ne faceva par¬
te, le ragioni del viaggio, il tipo di
incontri ed il loro contenuto non¬
ché il suo punto di vista su Israele
e le reali possibilità di una pace in
Medio Oriente.
R. - La delegazione del Forum che
si è recata in Israele in dicembre fa¬
ceva seguito all’iniziativa dell’invio
di una delegazione nel Libano
quest’estate per prendere contatto
con i capi dell’OLP, con i palestine¬
si, con le forze libanesi, per ren¬
dersi cono della situazione in Me¬
dio Oriente. Certamente il Forum
non può fare molto, non ha molto
potere, tuttavia sentivamo l’esigen¬
za di avere una informazione non
unilaterale, una informazione globale
della situazione, anche per capire
bene quali possono essere i termini
di una eventuale trattativa di pace.
Adesso si parla molto di trattative
di pace.
D. - Come era composta la dele¬
gazione?
R. - La delegazione aveva rappre¬
sentanti di tutti i partiti dell’arco
democratico, dell’arco costituziona¬
le. C’erano comunisti, socialisti, la
Sinistra Indipendente, repubblicani
e democristiani. L’on. Fracanzani
presidente del Forum che presiede¬
va anche la delegazione è appunto
democristiano.
Il Forum adopera questo sistema
di mandare delegazioni unitarie pro¬
prio perché ci si presenti in qual¬
che modo rappresentando, anche se
informalmente, il nostro paese ed
anche perché le informazioni che si
raccolgono, se si raccolgono, non
siano filtrate da una parte ma siano
in qualche modo viste a seconda
del vaglio delle varie opinioni. E
debbo dire subito che una cosa in¬
teressante in Israele è stata che la
delegazione, che pur aveva in sè
forze che su questi problemi hanno
o hanno avuto almeno posizioni
diverse, ha riportato un’impressione
univoca. Questo è molto importante
perché, mi sembra, testimonia della
serietà del Forum e della buona
fede del lavoro che stiamo facendo.
Questo viaggio ha una piccola
storia. Si domandò all’ambasciata
israeliana di andare e il segretario
del Forum in un primo momento
non ebbe una accoglienza entusia¬
sta. Della delegazione andavano a
far parte esponenti del Partito co¬
munista e alcune persone che aveva¬
no avuto anche personalmente dei
contatti con l’OLP e che avevano
una tradizione di contatti con le for¬
ze di liberazione palestinese. Devo
dire che l’atteggiamento degli israe¬
liani è profondamente cambiato per¬
ché da quel primo contatto abbia¬
mo avuto un vero e proprio capo-
volgimento. Noi siamo stati ospiti
del governo israeliano. E’ abbastan¬
za interessante il fatto che una de¬
legazione italiana non ufficiale è
stata ospite del governo israeliano
ed ospite gradito, ospite molto ben
trattato. Non solo. Siamo stati fatti
segno a molte attenzioni, a dibattiti
condotti con grande franchezza, e
a testimonianza dell’interesse degli
israeliani sta il fatto che siamo stati
più di tre ore a colloquio con il
ministro degli Esteri. Ora se noi te¬
niamo conto di quanto poco tempo
abbiano i ministri in genere, e nella
fattispecie il ministro degli Esteri
israeliano, che è anche il ministro
della difesa; e se teniamo conto dei
giorni anche molto complessi, come
dirò tra breve, che stavano vivendo
in Israele, dobbiamo dire che il go¬
verno israeliano ha dato importan¬
za a questa delegazione. Lo ha fatto
perché era una delegazione che par¬
tiva da un presupposto, che lo Sta¬
to di Israele ha diritto di vita e ha
diritto di avere confini sicuri e ga¬
rantiti, ma anche perché con molta
franchezza non si lasciava andare
a dichiarazioni di amicizia, di af¬
fetto, di rimpianto e di esecrazione
per le grandi sofferenze imposte al
popolo israelita, perché questo era
scontato, era una delegazione non
di antisemiti, era una delegazione di
gente che aveva le carte in regola
nel suo passato anche personale. Era
anche una delegazione di gente che
aveva delle notizie, aveva dei con¬
tatti con quelli che sono gli inter¬
locutori validi e cioè i palestinesi.
Mi sembra di poter dire che nella
coscienza degli israeliani è penetra¬
to questo concetto: che cioè il pro¬
blema palestinese esiste e che non
si può non tenere conto del pro¬
blema palestinese.
Si rendono conto che il nodo pa¬
lestinese è un nodo di cui non ci
si può infischiare, che questo è un
problema e se si danno delle soluzio¬
ni che non tengono conto dell’auto¬
determinazione dei palestinesi, que¬
ste soluzioni non possono essere del¬
le soluzioni valide. Non solo, ma la
nostra impressione è che il timore
per gli israeliani democratici è che
si arrivi ad un accordo tra le grandi
potenze che garantisca Israele nei
suoi confini ma che praticamente
conculchi i palestinesi. Credo che i
più intelligenti fra gli israeliani si
rendano conto che questo sarebbe
avere ancora un focolaio di terrori¬
smo, di disperazione in quel paese.
Non ci sarebbe una pace sicura. I
più avvertiti tra di loro lo sentono
e quando Allon alla fine del collo¬
quio, dopo aver fatto delle tirate
feroci contro l’OLP, contro il docu¬
mento di Rabat, contro il fatto che
i popoli arabi parlano ancora della
distruzione di Israele ecc. ecc. ha
concluso dicendoci « ma in fondo
io tratto con tutti quelli che mi ri¬
conoscono », significa che se l’OLP
avesse questo colpo d’ala di ricono¬
scere lo Statd di Israele, Israele si
troverebbe certo politicamente in
grande difficoltà, costretta a prende-
dere atto di questo fatto e nella im-
34
L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
possibilità di rifiutare di trattare con
’o stesso OLP.
D. - Come sarebbe possibile ad
un popolo senza Stato riconoscere
Israele?
R. - Intanto bisogna dire che i pa¬
lestinesi rivendicano la Cisgiordania
e la striscia di Gaza che però è Egit¬
to e che l’Egitto dovrebbe essere
disposto a cedere. Allora il punto
è questo. Le soluzioni che vengono
avanti sono due: una è quella del
ministato palestinese che, mi sem¬
bra, nel dibattito politico a livello
di forze arabe e anche da parte del¬
l’Unione Sovietica, comincia a ve¬
nir fuori. Devo però osservare che
ufficialmente il governo israeliano
si dichiara contrario a tale soluzione
perché sostiene che questo Stato non
saprebbe come vivere e diventereb¬
be un focolaio di irredentisti.
L’altra soluzione, che però i pa¬
lestinesi non mi sembra, per ora,
vogliano accettare e che è caldeg¬
giata invece, diciamolo pure, da
Israele e dalla Giordania, è la con¬
federazione, cioè la confederazione
tra giordani e palestinesi. Leggevo
su un giornale che il presidente del
congresso israelitico avrebbe affer¬
mato che di questa confederazione
potrebbe far parte domani anche
Israele; ne nascerebbe così un’area
una sorta di mercato comune.
Apro una parentesi per dire che
questo discorso del mercato comu¬
ne medio-orientale in Israele si sen¬
te molto come prospettiva. Per
esempio nel colloquio con la con¬
federazione dei lavoratori, questo è
venuto fuori con molta forza. In
fondo si vorrebbe, una volta -arrivati
alla pace, realizzare questo mercato
comune di cui dovrebbero far par¬
te gli Stati arabi nel più largo nu¬
mero possibile ed Israele. A questo
riguardo l’osservazione molto sem¬
plice è che Israele sarebbe più di
quanto non sia la Germania nel no¬
stro mercato comune. Ma questo è
un discorso del futuro. Porto una
testimonianza personale. Avevo avu¬
to occasione di avvicinare parecchi
deputati israeliani al parlamento eu¬
ropeo a Strasburgo, per un paio di
volte e avevo parlato con loro. Ho
incontrato la stesse persone in Israe¬
le e devo dire che, secondo me, dei
passi avanti sono stati fatti. Cioè
c’è la sensazione che quest’anno pos¬
sa essere un anno favorevole alla pa¬
ce e che qualche cosa si possa fare.
Certamente esiste ancora quello che
gli israeliani chiamano il complesso
di Masadà (Masadà era il centro del¬
la resistenza ebrea contro i romani
dove tutti quanti si uccisero per
non cedere), e per questo sosten¬
gono che una nuova guerra per loro
può anche significare sparire. Cioè
significa ancora una volta il geno¬
cidio ecc. ecc. C’è questo atteggia¬
mento. Ma c’è anche quello più ra¬
gionevole che dice: « adesso a que¬
sto punto non possiamo più affida¬
re alle armi la nostra sorte, biso¬
gnerà pur arrivare a trattare ».
Certo è che loro tratterebbero vo¬
lentieri con gli egiziani magari, o do¬
mani con Hussein o con la Siria, ma
c’è in mezzo questa questione gros¬
sa che preme a noi democratici, dei
palestinesi.
D. - Dall'incontro con le forze po¬
litiche è emerso qualche cenno al
ruolo che l’Italia può svolgere in
favore della pace in Medio Oriente?
R. - Nel grande schieramento, c’è
questo gruppone, grosso modo so¬
cialista riformista, socialdemocrati¬
co, che governa, c’è il MAPAI che
sarebbe socialdemocratico e poi il
MAPAM che sarebbe piuttosto so¬
cialista. Ora gli amici del MAPAM
vedrebbero con grande favore una
iniziativa dell’internazionale sociali¬
sta o anche del Partito socialista ita¬
liano. Ce lo hanno detto espressa-
mente.
Ma voglio dire un’altra cosa. Il
discorso che noi portavamo era que¬
sto. Ci sono due cose da fare. Una
è il riconoscimento dello stato di
Israele da parte degli stati arabi
e da parte dell’OLP, cioè bisogna
avere il coraggio di dire: «gli israe¬
liani ci sono, ormai questo stato ha
28 anni, non è pensabile di cancel¬
lare questo stato ».
Dall’altra parte bisogna che gli
israeliani si rendano conto che i
palestinesi hanno diritto, come tutti
i popoli, all’autodeterminazione.
Non è pensabile che un popolo pos¬
sa essere sacrificato, cancellato, op¬
pure peggio, come ebbe a dire a
Strasburgo Abba Eban, che in fon¬
do la Giordania è la patria dei pa¬
lestinesi. Come si fa a dire a uno:’
la tua patria è quella. O la si rico¬
nosce come proprio una patria o se
no non esiste. Questi sono principi
che oramai si tenta di fare affer¬
mare nel mondo, insomma non sia¬
mo più al tempo del Congresso di
Vienna.
I problemi sono questi. Questi
sono due grossi passi a cui bisogne¬
rebbe cercare di arrivare. Tra un an¬
no, gli israeliani hanno la scadenza
elettorale. E questo non li imbaraz¬
zerà? Ad un certo punto ci vuole
coraggio: questo discorso di pace
bisogna che una forza politica lo
faccia suo. Il PC israeliano lo fa, ma
è un partito fortemente minoritario,
ha soprattutto un elettorato arabo.
Bisogna che qualche forza lo fac¬
cia proprio con più coraggio. Non
c’è dubbio che è dannoso per la
pace in sé andare alle elezioni con
una opinione pubblica che a nostro
giudizio non è ancora orientata nei
confronti della pace, nei confronti
di una trattativa che si deve fare,
nei riconoscimenti da dare.
Allora l’anno elettorale pesa pa¬
recchio anche perché si rischia che
le forze che vorrebbero in qualche
modo trattare appaiono più equivo¬
che delle forze di destra: le forze
che dicono facciamo un’altra guerra,
la bomba atomica ecc. ecc. Ora a
me sembra però che in questi ul¬
timi giorni sono successi dei fatti
L'Astrolabio quindicinale * n. 1 - 14 gennaio 1977
35
"N
anche daU'italia
un contributo alla pace
del medio oriente
messico: problemi
della nuova presidenza
Il pendolo
e la Storia
di Manuel Casares
molto importanti che hanno por¬
tato alla crisi del governo Rabin.
Il governo Rabin è entrato in crisi
su un fatto che ci fa sorridere per
la nostra mentalità laica: il partito
ortodosso che sosteneva la coalizio¬
ne governativa, ha presentato una
mozione di sfiducia perché Rabin si
era recato all’aeroporto a ricevere
degli aeroplani americani, gli F 10
se non sbaglio, e questa cerimonia si
è protratta oltre la comparsa della
prima stella in cielo, che segna il
venerdì pomeriggio, l’inizio del
«sabato», festa durante la quale non
si può assolutamente esercitare nes¬
suna attività. Soprattutto pubblica.
Gli hanno presentato la mozione di
sfiducia. Rabin dà le dimissioni pri¬
ma che sia approvata la mozione
di sfiducia.
Ora è giusto domandarsi se tut¬
to questo non sia stato preparato
da Rabin per andare alle elezioni
anticipate e cancellare così questo
anno di grandi difficoltà per even¬
tuali trattative. Rabin in questo mo¬
do accelera i tempi delle elezioni e
se ottiene la maggioranza, con 4
anni davanti, senza più consultazio¬
ni elettorali ha le mani più libere
per una possibile iniziativa poli¬
tica.
Se poi queste mani libere legife¬
reranno bene o male questo io non
10 so, ma mi sembra che questo sia
11 disegno politico; altrimenti, tut¬
to sommato, le forze per respingere
la mozione della stella in cielo for¬
se c’erano.
Anche se, mentre eravamo lì
noi, è stata respinta una proposta
di legge dell’indipendente di sinistra
Tamir per il matrimonio civile. Per¬
ché in Israele c’è solo il matrimonio
religioso, il che comporta dei pro¬
blemi molto grossi, perché non ba¬
sta che la gente vada davanti al rab¬
bino e buona notte. No, è necessa¬
ria una « adeguata » preparazione
religiosa per avere il matrimonio.
Non solo. Ma qualora questo ma-
trimonio avvenga con una prepara¬
zione non tanto sufficiente, oppure
qualora i due coniugi laici si vadano
a sposare a Cipro, come succede;
se non vogliono avere, se non pos¬
sono avere, una sufficiente prepara¬
zione religiosa per il matrimonio, il
matrimonio religioso può in seguito
essere negato ai figli che nascono da
questa unione; il che è veramente
enorme.
E quando noi portiamo avanti le
istanze dello Stato laico, ci rispon¬
dono che loro sono uno Stato gio¬
vane che ha bisogno di elementi di
coesione. Loro dicono: « Noi abbia¬
mo qui irakeni, yemeniti, gente che
era assolutamente a livello di pasto¬
rizia, abbiamo ebrei tedeschi di
grande finezza culturale, abbiamo i
polacchi e dobbiamo cogliere ogni
elemento che sia coesione per il no¬
stro Stato e per il nostro popolo.
Ecco perché queste istanze laiche
per ora vengono respinte fino a che
non cambierà la generazione ».
Concludendo penso che sia pos¬
sibile, se ci mettiamo con buona
volontà, o per il forum o per le
’ forze politiche italiane, provocare un
incontro intorno ad una tavola ro¬
tonda, di forze israeliane non margi¬
nali — questa è la cosa da fare per¬
ché far venire un comitato della pa¬
ce è sempre possibile — delle forze
non marginali dunque, certamente il
MAPAM, e delle forze palestinesi
e arabe. Credo che questo sia pos¬
sibile ed è una iniziativa che forse
il Forum deve prendere. Se non la
può prendere il Forum bisogna che
però da parte dell’Italia questo sia
fatto.
■
* L analisi dall estero della politica
messicana ha confermato l’opinione
generale secondo cui a un presi¬
dente progressista succede invaria¬
bilmente uno di destra e viceversa.
Siccome i presidenti reazionari non
potevano rompere i loro legami con
la rivoluzione messicana, aprivano
la strada, nel proprio gruppo go¬
vernativo, ad una ricomposizione
interna di forze e, come risultato
di questa, all’elezione di un nuovo
leader capace di riflettere meglio,
e anche di contenere, le reazioni
delle masse di fronte alle nuove
spinte sociali provenienti dalla real¬
tà nazionale e internazionale. Il
fatto che il dialogo politico si
svolgesse nel seno di una oligar¬
chia di partito assicurava la. tran¬
sizione legale e pacifica verso iì
punto opposto del movimento pen¬
dolare: tutto il sistema si appog¬
giava sul condizionamento del Pri
da parte della rivoluzione messi¬
cana e della rivoluzione messicana
da parte del Pri.
Ma la storia sociale non segue
un movimento isocronico e pendo¬
lare, anche se la sua avanzata è
continuamente segnalata da perio¬
di di transizione, di consolidamen¬
to e anche di degenerazione e re¬
gresso. Il rafforzamento in nume¬
ro e in coscienza del proletariato
cambia il rapporto di forze tra le
classi da una parte, e i margini di
manovra e gli equilibri interni nei
settori dominanti, dall’altra. E l’am¬
modernamento (capitalista) di un
paese crea nuovi alleati al prole¬
tariato e trasforma i vecchi rappor¬
ti di forze.
Qual é, in sintesi, il bilancio dei
sei anni di governo di Echeverrìa?
Sul piano politico è indubbiamen¬
te di distensione, giacché il presi¬
dente uscente ha liberato gran par¬
te dei contestatori che aveva con¬
tribuito a mettere in prigione co¬
me ministro degli interni di Diaz
Ordaz ed ha lasciato un margine
maggiore al dialogo politico col ri¬
sultato, tra l’altro, di consentire
L Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977
pw»«g
Ciudad Juarez: una scuola rurale organizzata dal Pii
la candidatura alla presidenza di
Valentin Campa, da parte del Pcm
(partito comunista). Sul piano in¬
ternazionale si è segnalato per la sua
apertura verso Cuba, il suo antim-
perialismo, il suo terzomondismo.
Sul piano sociale è stato contraddit¬
torio, perché mentre da un lato si
appoggiava alla mobilitazione con¬
tadina contro la rendita agraria pa-
rassitaria, cercava dal. canto suo di
evitare di essere scavalcato a sini¬
stra da parte degli operai e mante¬
neva in piedi, nell’essenziale, l’a-
parato dei charros, la burocrazia
sindacale gangsteristica sostanzial¬
mente alleata aH’imperialismo. In
campo economico, infine, è stato
responsabile del fallimento — e-
semplare e ricchissimo di insegna-
menti — di una audace e coerente
politica borghese nazionalista di
riforme del capitalismo, realizzata
con grandi sforzi tecnologici e am¬
ministrativi in condizioni tuttavia
eccezionalmente favorevoli.
Alla fine dei sei anni del suo
periodo presidenziale, Echeverrìa la¬
scia un debito estero di più di 22
miliardi di dollari e un deficit com¬
merciale che, nel 1975, è arrivato
a 3 miliardi e mezzo di dollari
oltre ad una moneta instabile, sva¬
lutata quasi del 70% negli ultimi
mesi e sottoposta ad una forte
pressione. Lascia anche un bilan¬
cio di grandi investimenti statali
in agricoltura e nelPindustria di ba¬
se. La superficie fertilizzata è rad¬
doppiata, l’irrigazione si è estesa
fino a 1.111.438 ettari, si sono co¬
struite 149 dighe, si sono create
più di 5000 « fattorie » collettive,
gli investimenti in agricoltura so¬
no passati da 6 miliardi di pesos
nel 1970 a 60 miliardi nel 1976.
Gli investimenti esteri hanno
continuato a créscere e a sviluppar¬
si mentre il reddito ha continuato
a concentrarsi sempre più in poche
mani e l’industria manifatturiera
ha continuato a prosperare sui bas¬
sissimi salari reali e sull’abbondante
mano d’opera a basso prezzo crea¬
ta dalla crescente disoccupazione.
Su una popolazione attiva di 16
milioni di persone, 11 milioni per¬
cepiscono redditi inferiori al sala¬
rio minimo. La svalutazione mone¬
taria di agosto (di quasi il 60%)
è stata compensata da aumenti sa¬
lariali dal 16 al 23 per cento, ma
alla svalutazione di ottobre non è
seguito nessun aumento salariale.
Secondo la Conacintra (Came¬
ra Nazionale dell’Industria di Tra¬
sformazione) ci sono attualmente
2,9 milioni di dosoccupati (il 17,5
della popolazione attiva).
Echeverrìa puntò gran parte del¬
le risorse disponibili sulla carta del
petrolio, che nel 1975 ha dato una
entrata in conto esportazioni di 500
milioni di dollari e che, con i nuo¬
vi giacimenti, potrebbe permettere
a Lopez Portillo di esportare per
un valore di circa 2 miliardi di
dollari. Ed ha puntato anche sullo
sviluppo del ruolo dello Stato nel¬
la economia. Nel 1970 il Messico
possedeva 86 imprese, con un at¬
tivo del valore di 9.840.000.000
dollari e dopo sei anni è proprieta¬
rio di 740 imprese, con un attivo
valutato in 36.960.000.000 dollari.
Durante la presidenza Echeverrìa,
mentre gli investimenti privati di¬
minuivano, quelli statali cresceva¬
no con lo stesso ritmo.
D’altra parte, anche per creare
un mercato interno, e per evitare
un’esplosione nelle campagne, ha
sviluppato le fattorie collettive cui
ci siamo riferiti. Ma il tipo di
sviluppo capitalista seguito dal Mes¬
sico nel dopoguerra, importando i
modelli di consumo dagli Stati Uni¬
ti, ha trasformato il Messico da
paese esportatore di prodotti agri¬
coli in paese importatore nel cam¬
po alimentare ed ha aumentato an¬
che l’importazione di materie pri¬
me per l’industria leggera e di pro¬
dotti manifatturati. Gli ejidos (fat¬
torie) collettivi che dal punto di
vista del credito e delle vendite
dipendevano dal mercato, control¬
lato dalle agro-industrie e dalla fi¬
nanza privata, non cambiarono la
situazione delle campagne ed al
contrario aggravarono la disoccu¬
pazione, gettando sul mercato gran¬
di eccedenze di mano d’opera (gli
ejidos classici, al contrario, hanno
una produttività bassissima ma « ce¬
lano » la disoccupazione mantenen¬
do milioni di contadini nell’auto¬
consumo).
Si creavano così le condizioni per
una grande esplosione sociale nella
campagna, mentre l’industria stata¬
le serviva essenzialmente a dare
prodotti o servizi a basso prezzo
alle imprese « imperialiste » domi¬
nanti nell’industria di consumo o
per porre al loro servizio una infra¬
struttura moderna. La politica na¬
zionale borghese ha rafforzato, da
una parte, le condizioni per una
nuova fase della rivoluzione, e dal¬
l’altro ha rafforzato un settore le¬
gato al grande capitale internazio-
L'Aatrolabio quindicinale • n i - 14 gennaio 1977
37
_
messico: problemi
della nuova presidenza
naie e al peso che questo ha nel
Messico, fallendo perciò nel suo
tentativo di creare, con il capita¬
lismo di stato, una borghesia na¬
zionale indipendente.
L’industrializzazioge, allo stesso
tempo, ha creato un grande prole¬
tariato urbano oltre ad un larghis¬
simo ed esplosivo numero di espro¬
priati ed emarginati che vivono nel¬
le città. Questo proletariato mo¬
derno — operai metallurgici, del¬
l’automobile — ha una coscienza
di classe, una cultura e una capa¬
cità tecnica diversi da quelli del
vecchio proletariato e, nelle città
appare come l’unica grande forza,
come un capo collettivo, togliendo
questo ruolo agli studenti.
La crescente dipendenza dall’im¬
perialismo — il Messico dedica
quasi il 33% delle sue entrate a
pagare i debiti esteri — continua,
d’altra parte, ad alimentare il na¬
zionalismo rivoluzionario in tutti i
settori della società e anche nell’ap¬
parato dello Stato. Questo succe¬
de mentre gli strati affluenti (o di¬
venuti più forti), moderni, della
borghesia hanno bisogno di uno
Stato forte e moderno al loro ser¬
vizio (non come quello attuale, che
vuole imporre loro una tutela e non
può contare sulle sue origini, rom¬
pendo con le masse).
In queste condizioni giunge alla
presidenza Lopez Portillo, mentre
la crisi mondiale capitalista porta
al parossismo le contraddizioni e
la lotta di classe in Messico. Lopez
Portillo cerca di ottenere dei pre¬
stiti all’estero e di conseguire un
aumento dell’investimento privato
per poter così guadagnare tempo
fino a che i grandi investimenti sta¬
tali a lunga scadenza diventino pro¬
duttivi. Ma questo, ovviamente, ob¬
bliga il Messico ad offrire alla bor¬
ghesia e all’imperialismo un tipo
di «garanzie» politiche che non fan¬
no onore alla storia del paese. Egli
deve cercare di ottenere l’autosuf¬
ficienza alimentare, ma per questo
occorre raggiungere la pace socia¬
le nella campagna (dove i contadini
invadono e continueranno ad in¬
vadere ed occupare i latifondi) e
garantire la continuità giuridica a-
gli unici settori produttivi dell’a¬
gricoltura: le imprese capitaliste.
Lopez deve, quindi, combinare le
concessioni ai contadini, per riman¬
dare la loro rivolta, con una repres¬
sione che dia sicurezza al capitale
non soltanto agrario, ma industriale.
Il problema delle campagne si con¬
vertirà così in un fattore determi¬
nante per la trasformazione dello
stesso Stato i cui legami con la
gigantesca rivoluzione agraria che
gli ha dato origine (la rivoluzione
di Zapata e Villa, ricordata da E-
cheverrìa) diventeranno ogni volta
più esigui.
Anche se una brusca rottura im¬
mediata sarà impossibile e se la
« tecnocrazia » al governo cercherà
di mantenere una continuità con la
politica di Echeverrìa, le condizio¬
ni sociali ed economiche in cui do¬
vrà agire sposteranno l’asse poli¬
tico a destra. Il Fondo Monetario
Internazionale ha dato 1200 milio¬
ni di dollari, per appoggiare la po¬
litica di svalutazione del peso ed
altri 800 milioni sono stati con¬
cessi da 64 banche europee ed a-
mericane, nello stesso tempo che
la Confederazione padronale Co-
parmex ha annunciato che gli in¬
vestitori privati investiranno 5 mila
milioni di dollari. Tale appog¬
gio immediato a Lopez Portillo,
evidentemente, non soltanto espri¬
me la fiducia del grande capitale ma
anche e soprattutto è una spinta per
condizionarlo e sottometterlo.
Sorgono così le condizioni per
una crisi nel Pri e anche per una
opposizione del Pri (se vuole con¬
servare le sue relazioni clientelari
con le masse) al governo che sarà
costretto ad affidarsi prevalente¬
mente agli apparati repressivi dello
Stato. Il logoramento del Pri, d’al¬
tronde, lascia spazio per la crea¬
zione di una nuova direzione di
massa che sia capace di unificare
la .ribellione operaia-contadina-stu-
déntesca-popolare. E’ palese che
questo corso non sarà lineare, per¬
ché non esiste ancora una forza
unitaria dei lavoratori né una di¬
rezione anticapitalistica riconosciu¬
ta. E i « charros », inoltre, potran¬
no con successo appoggiare una li¬
nea destrorsa, una possibile repres¬
sione militare, perché possono pas¬
sare senza problemi dalla dipenden¬
za dallo Stato nazionalista borghe¬
se a quella dell’imperialismo pur¬
ché siano salvi i loro privilegi. La
ribellione agraria, d’altronde, non
arriva a trasformarsi in rivoluzione
per mancanza di programma, di u-
nificazione a livello nazionale e di
direzione urbana. Dal canto loro,
gli elementi nazionalisti nello Stato
e nel Pri devono fare ancora una
esperienza, devono arrivare alla con¬
vinzione che è, purtroppo, impos¬
sibile trasformare il regime dall’in¬
terno.
La struttura di classe del paese
si è modernizzata troppo, la crisi
economica del capitalismo, nazio¬
nale e internazionale, è troppo gra-
ye perché il nazionalismo borghe¬
se progressista messicano possa ave¬
re ancora stabilità e margini di ma¬
novra. Politicamente e socialmente
il Messico si è polarizzato e si pre¬
para per continuare — o seppellire
— la rivoluzione del 1910-1917.
C’è una vera e propria gara tra il
ritmo della crisi mondiale, dell’azio¬
ne dell’imperialismo e della reazione,
che portano verso un governo « for¬
te » e il processo di maturazione,
organizzazione, unificazione delle
masse, che portano a preservare le
conquiste della rivoluzione messica¬
na. Non si può prevedere se López
Portillo finirà il suo periodo presi¬
denziale. Quello che è sicuro è che
questo periodo non sarà uguale al
precedente e che, nei prossimi 6
anni, il Messico sarà protagonista
di avvenimenti decisivi per il paese
e per l’America Latina.
M. C.
38
l Astrolabio quindicinale - n. 1 - u gennaio '37/
L’Europa
in panne
di Gabriele Patrizio
• Questo è il periodo in cui gli
europei sono intenti a valutare le
nomine di Carter nei settori in chia¬
ve dell'amministrazione e sono in at¬
tesa degli orientamenti di politica
estera del nuovo presidente america¬
no. Le capitali dei nove della CEE
sono rivolte a Washington e cercano
di scoprire 1 segni rivelatori di una
iniziativa verso l’Europa dietro il
sorriso ormai disseccato di Jimmy
Carter, un’iniziativa fra l’altro che
qui, nel vecchio continente, non si
sa bene se sia più temuta o sperata.
Tuttavia, in questa congiuntura si è
constatato ancora una volta e con
grande evidenza, come la famosa
« interdipendenza » euro - americana
sia per l’Europa niente più che un
chiaro stato di minorità che nessun
gesto autonomo abbozzato dalla
r.F.F. vale a dissimulare.
Ci sono in particolare due ele¬
menti che consentono di trarre in¬
dicazioni per il prossimo futuro del¬
la Comunità ed entrambi purtroppo
non sono molto incoraggianti per
l’Europa. Prima di tutto la questio¬
ne del petrolio. Forse hanno ragio¬
ne quelli che dicono che la crisi
energetica è ancora lontana dall’aver
prodotto le sue conseguenze più pe¬
santi per le economie europee, ma
c’è qualcosa di più da sottolineare.
Gli europei hanno cominciato, con
largo anticipo, a piangere amare la¬
crime sull’aumento del prezzo del
greggio del dicembre ’76, facendo
sentire i loro lamenti alla corte di
Carter il quale, dal canto suo, non
aspetta altro che di poter serrare i
ranghi dell’occidente. Eppure è or¬
mai abbastanza chiaro che la morsa
energetica è divenuta un importan¬
te strumento di controllo dell’auto-
nomina europea di cui gli USA non
esitano, e ancor meno esiteranno, a
servirsi. Il punto non è tanto quello
dell’America che preme sui paesi
amici dell’OPEC, Arabia Saudita in
testa, per spuntare ad ogni riunione
dei paesi petroliferi un aumento ra¬
gionevole o addirittura nullo del
prezzo del petrolio. Consideriamo
invece che il surplus petrolifero, che
si accompagnerà a prossimi aumenti,
più o meno forti, continuerà per
una buona porzione ad affluire verso
porti ospitali e sicuri, verso gli USA
insomma, lasciando ben poco alla
Europa. Gli arabo-dollari, investiti
da iraniani e da libici nella Krupp
e nella Fiat, sono una bazzecola al
paragone di quelli che affluiscono
nelle casse delle banche USA. Così
l’Europa dipenderà sempre più da
Washington anche per il riciclaggio
e ciò varrà ad invischiare la CEE
nella strategia, energetica e non, del¬
la nuova Casa Bianca. D’altra parte
la frattura che si è aperta all’interno
dell’OPEC, alla conferenza di Doha,
fra « moderati » (Arabia Saudita ed
Emirati) e « rialzati », conferma il
grado di persuasione che Washing¬
ton è in grado di esercitare e lascia
perciò intendere agli europei quale
sia l’inopportunità e il rischio di
iniziative non inquadrate nei pro¬
getti degli USA.
Secondo elemento: coesione fra i
Nove, e consideriamo in proposito
Tultimo vertice europeo, quello del-
l’Aja, tenutosi proprio nell’imminen¬
za del rialzo del prezzo dell’energia.
È stato uno dei più spenti e fiacchi
della serie dei Consigli europei, del
tutto irrilevante sia per le politiche
comuni « interne » della CEE, che
per gli orientamenti di politica « e-
sterna », innanzitutto i rapporti
Nord-Sud. Prima sentiamo Carter,
hanno detto i Nove, e poi... Comun¬
que anche questo strumento di con¬
certazione fra i Nove, il Consiglio
europeo, caldeggiato e poi ottenu¬
to da Giscard d’Estaing, si va svuo¬
tando di significato e perde colpi.
L’ultima decisione di rilievo è stata
quella sulla elezione a suffragio di¬
retto del Parlamento di Strasburgo
per il ’78 ed è stata presa a fatica,
dopo incontri e vertici di prepara¬
zione e di attesa. Ma già da più
parti si sono manifestate esitazioni e
perplessità di un certo peso. L In¬
ghilterra, per esempio, continua ad
esprimere ampie riserve e in Fran¬
cia addirittura, della legittimità del¬
le elezioni europee, ai fini della so¬
vranità della nazione, è stato inve¬
stito il Consiglio costituzionale. Ve¬
dremo, ma l’orizzonte ’78 si oscura.
Allo scadimento dei Vertici eu¬
ropei si accompagna la crescita dei
grandi Vertici dell’occidente: dopo
Rambouillet e Portorico, proprio Gi¬
scard si è fatto promotore ( idea però
lanciata da Carter) di un incontro
per la primavera del ’77. Là ci sarà
dunque il coordinamento fra i pae¬
si industrializzati, o meglio gli eu¬
ropei verranno a prendere atto dei
tanto attesi disegni della nuova pre¬
sidenza USA. E certamente Carter
non dovrà penare molto a mettere
in piedi quella concertazione atlan¬
tica di cui ha parlato; Giscard e
Schmidt stanno già pensando a tut¬
to. Infine uno sguardo retrospettivo.
Se si osservano gli atteggiamenti del¬
la Comunità europea durante la pas¬
sata amministrazione repubblicana,
Nixon e poi Ford - Kissinger, ci si
avvede che gli europei non hanno
quasi mai prodotto iniziative valide
ed autonome rispetto agli USA. La
loro voce comune si è sentita in
pratica soltanto nella reazione, sia
pure sterile, ai duri diktat o alle ar¬
roganti intimazioni di Kissinger. In
queste occasoni era più facile per i
Nove illudersi di aver trovato una
linea, una risposta unitaria. D’ora in
poi, invece, sarà difficile alla CEE
sfuggire al « grande abbraccio » di
Carter e districarsi dai sottili e mor¬
bidi esercizi diplomatici di un tes¬
sitore paziente come il nuovo segre¬
tario di stato, Cyrus Vance. All’Eu¬
ropa mancheranno anche le provo¬
cazioni di Kissinger e ciò le rende-
. rà ancora più arduo definire un ruo¬
lo di fronte al disegno avvolgente
che Carter si prepara a mettere in
opera.
L'Astrolibio quindicina!» • n. 1 - 14 g»nnalo 1977
39
Libri e riviste
La crescita
delle città
nel ventennio
Anna Treves, Le migrazioni
interne nell'Italia fascista,
Einaudi, .976, pp. 200, L.
2.600.
Tra le tante stupidità pro¬
pagandate dal regime fascista
c'era anche quella del mito
del ’ruralismo', e dell'attacca¬
mento degli italiani al « na¬
tio borgo selvaggio ». e. per
contro, le campagne naziona¬
li contro l'inurbamento e con¬
tro il carattere « moralmen¬
te inquinante » delle città.
E questa immagine bucolica
del paese accompagnata, in
sede storiografica, alla inter¬
pretazione che vedeva nel
Ventennio una lunga, inin¬
terrotta fase di ristagno eco¬
nomico con conseguente
scarsa mobilità interna, è du¬
rata a lungo, anche tra gli
specialisti. Il libro di Anna
Treves ha quindi 11 merito di
riproporre all'attenzione de¬
gli studiosi una realtà trop¬
po facilmente archiviata tra
le cose certe e scontate e al
tempo stesso di rinfocolare
le polemiche sul dibattito at¬
tualmente in corso sul «bloc¬
co sociale • che diede vita e
alimento al fascismo.
Secondo l'autrice, il pe¬
riodo tra le due guerre è ca¬
ratterizzato da migrazioni in¬
terne di notevole entità e di¬
mensioni che dimostrano co¬
me il Ventennio ebbe una sua
vitalità economica e una sua
■ crescita » industriale di pro¬
porzioni non modeste. La te¬
si della studiosa è che que¬
ste migrazioni interne sono
in direzione e in funzione
della ristrutturazione dell'in¬
dustria italiana specie di
quella metalmeccanica e chi¬
mica. La Treves si serve a
dimostrazione della sua tesi
di strumenti, come quello
dei dati censuari o della rile¬
vazione delle iscrizioni ana¬
grafiche per mutamento di
residenza, che sono certa¬
mente preziosi e indicativi
ma insufficienti ed incom¬
pleti; inoltre l'autrice utiliz¬
za le testimonianze di de¬
mografi e geografi dell'epo¬
ca e analizza i provvedimen¬
ti legislativi e amministra¬
tivi del regime in materia di
mobilità geografica e contro
il « vagabondaggio ». (La stu¬
diosa in proposito riesce a
dimostrare come queste leg¬
gi avevano una valenza sol¬
tanto poliziesca — il controllo
degli spostamenti — e che di
fatto rimasero solo sulla car¬
ta).
Da più parti si è osser¬
vato come questa tesi ori¬
ginale finisce tuttavia col sot¬
tovalutare altri aspetti del¬
l'inurbamento avvenuto nel
periodo fascista. Non spiega
ad esempio la nascita tumul¬
tuosa del terziario e l'utiliz¬
zazione di manodopera dequa¬
lificata (doveva essere pa¬
gata poco) nel pubblico im¬
piego di uno stato accen-
tratore e burocratico che suc¬
chia alle campagne meridio¬
nali più forza lavoro dell'in¬
dustria di base. Movimenti
demografici quindi certamen¬
te non casuali e provvisori ma
che testimoniano più che la
tendenza verso uno nuovo
sviluppo economico, la cre¬
scita irreversibile di una eco¬
nomia di sottosviluppo strut¬
turale al regime fascista.
A. Alecci
Per un
socialismo
inscindibile
dalla democrazia
Roy Medvedev, La Rivolu¬
zione d'ottobre era inelutta¬
bile? Editori Riuniti. L. 2.000
Roy Medvedev appartiene
al filone del dissenso d'ispi¬
razione marxista che riven¬
dica maggiori libertà all'in¬
terno del sistema sovietico
sulla scia dell'opera avviata
dal XX Congresso. Egli col¬
lega e realizza il suo impe¬
gno politico con la ricerca sto¬
rica delle cause che hanno
determinato le degenerazio¬
ni nella costruzione del so¬
cialismo in URSS. Medve¬
dev, che riconosce il valore
positivo della Rivoluzione
d'ottobre, sviluppa questo suo
saggio intorno a due motivi:
l'ineluttabilità e la maturità
di quell'evento.
Rilevando il ruolo decisivo
svolto da fattori che non ave¬
vano nulla di determinato
dal punto di vista storico (la
pochezza intellettuale e la
totale abulia dell’ultimo zar
russo, l'incapacità dei men¬
scevichi e dei socialisti ri¬
voluzionari a far fronte alla
situazione creatasi dopo la
rivoluzione democratica di
febbraio). Medvedev sostie¬
ne che quella rivoluzione non
fu soltanto il risultato di un
movimento di massa appa¬
rentemente incontenibile, ma
dell’azione consapevole ed
organizzata dei bolscevichi
e soprattutto di Lenin, ■ le
cui decisioni e il cui ope¬
rato lasciarono sulla sua epo¬
ca una impronta non inferiore
a quella impressa da Napo¬
leone sulla propria ».
La Rivoluzione d'ottobre fu
così la prima grande rivolu¬
zione popolare in cui il fatto¬
re spontaneità non ebbe im¬
portanza decisiva, mentre si
rivelò essenziale la sua pre¬
parazione politica, la sua pia¬
nificazione ed organizzazione
anche dal lato militare. Ma
allora — si chiede lo sto¬
rico georgiano — l'azione
dei bolscevichi non anticipò
troppo i tempi? Del resto
Engels aveva messo in guar¬
dia dal pericolo di prendere
il potere « in un momento
in cui il movimento non è
ancora maturo per il dominio
della classe che rappresenta
e per l'attuazione di quelle
misure che il dominio di que¬
sta classe esige ». E se la ri¬
voluzione non poteva che es¬
sere lo sbocco di una fase
storica di capitalismo maturo,
questo non era certo il caso
della Russia del 1917.
Gli eccessi postrivoluzio¬
nari, la guerra civile, il ter¬
rore staliniano, possono al¬
lora essere in diversa misura
spiegati con la precipitazio¬
ne di Lenin e dei bolscevichi
nell'ottobre 1917. Oueste le
conclusioni di Medvedev. a
sostegno delle quali è ripor¬
tata In appendice una lettera
inedita che Mirinov, leggen¬
dario comandante dell'Arma¬
ta 'del Don. scrisse a Lenin
per denunciare la campagna
di sterminio dei cosacchi du¬
rante la guerra civile.
Si comprende allora come
allo storico sovietico interes¬
si più che discettare sulla ne¬
cessità e maturità della ri¬
voluzione, mettere a fuoco
gli errori di massimalismo e
di dogmatismo compiuti sin
dai momenti immediatamen¬
te successivi all'instaurazio¬
ne del potere sovietico. Il
senso più profondo di questo
libro oltrepassa dunque I li¬
miti della valutazione storio¬
grafica, cogliendosi in esso
la rivendicazione di un so¬
cialismo inscindibile dalla de¬
mocrazia, ove sia consentita
la libertà di ricerca e di di¬
scussione.
S. G
L’ultimo
numero
di « Comunità »
Comunità, Rivista quadrime
strale, pagine XXVIII-380,
prezzo L. 4.000.
E' in libreria il numero 176
della rivista fondata da Adria¬
no Olivetti. Eccone il som¬
mario: Luigi Bonante, La teo¬
ria dell'equilibrio internazio¬
nale; Fabio Tana. La forma¬
zione dell'Egitto contempo¬
raneo: 1945- 1952; Francois
Fejtó, Jugoslavia 1976: le pro¬
spettive del dopo-Tito; Iring
Fetscher, La natura umana
nel pensiero di Marx; Alexan¬
der Alland Jr., La parabola
degli scimpanzé che parlano;
Ellen Moers, Denaro, lavoro
e piccole donne: il realismo
femminile; David Bakan,
Freud e la tradizione mistica
ebraica: psicoanalisi e caba¬
la; Alberto Traldi, La tema¬
tica dell’emigrazione nella
narrativa italo-americana;
Margherita Azzi Visentini, Il
teatro di Inigo Jones; Simo¬
netta Bedoni, La donna nei
disegni di J. H. Fussli.
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(.'Astrolabio quindicinale - n 1 - 14 gennaio 1977