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Full text of "L'Astrolabio 1977 n° 01"

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la posta in gioco per il 1977 

Un mutamento significativo 
nel quadro politico 

di Luigi Anderlini 


• Le previsioni economiche per il 
’77 sono tra le più fosche dalla fine 
della guerra in poi. A parte quelli 
che Giovanni XXIII chiamerebbe i 
"profeti di sventura’’ e che per il 
prossimo febbraio prevedono 600 
mila disoccupati in più, sta di fatto 
che il vincolo esterno della bilan¬ 
cia dei pagamenti (16 miliardi di 
dollari di indebitamento) e quello 
interno dei vari deficit pubblici che 
si sono venuti accumulando (100 
mila miliardi di lire) pesano sulle 
spalle di una economia gracile, squi¬ 
librata, cosparsa da una serie di pu¬ 
rulente sacche di rendita, solcata —- 
come nessun’altra in Europa — da 
tensioni sociali territoriali e setto¬ 
riali (agricoltura), in maniera tale 
da rendere difficile intravedere 
l’uscita dal lungo tunnel della crisi. 
Esplodono intanto le tensioni nel 
paese: dalla delinquenza — orga¬ 
nizzata e non — che spesso, non a 
caso, tenta di darsi un volto po¬ 
litico, da quel che succede nelle 
carceri, alle polemiche che agitano 
il mondo femminile e giovanile. Ci ‘ 
sono poi le tensioni, i problemi che 
ncn esplodono e non perché non 
vi siano ragioni di rabbia o di risen¬ 
timento ma perché essi si collo¬ 
cano in una zona dove si è superata 
in negativo la capacità di manife¬ 
starsi e siamo già oltre la soglia del 
collasso (penso all’agricoltura, al 
sud, alle mille disfunzioni dell’appa¬ 
rato statale). 

Su tutto questo galleggia da cin¬ 
que mesi un governo azzoppato co¬ 
me quello di Andreotti, che si reg¬ 
ge sulla non sfiducia e che deve 
sfidare (ogni giorno ormai) i con¬ 
trasti che nascono nel suo interno 
tra Pandolfi e Stammati, tra la An¬ 
seimi e Donat Cattin. Talvolta con 
uno sforzo di semplificazione sem¬ 
bra che il contrasto sia tra chi cre¬ 
de che una possibile buona combi¬ 
natoria tra le variabili disponibili 
(— salari, + produttività, ~ tasse, 
esportazioni, — consumi, + rie¬ 
quilibrio della bilancia dei pagamen¬ 


ti, — disoccupazione, + fiscalizza¬ 
zione, + Friuli, + costi della speda- 
lizzazione) con una equa distribu¬ 
zione dei sacrifici possa risolvere il 
grosso dei problemi, e chi — te¬ 
mendo che tutto questo porti ad un 
ingresso dei comunisti nell’area go¬ 
vernativa — non riesce a frenare 
l’impazienza ed è tentato di but¬ 
tare tutto all’aria magari motivando 
con ottime ragioni il suo gesto (i 
600 disoccupati di Donat Cattin, o 
l’asfissia delle imprese a causa de¬ 
gli alti tassi di interesse di cui parla 
Andreatta). E sono certamente ra¬ 
gioni serie quelle di Pandolfi che 
non vuole imboccare di nuovo la 
perniciosa strada della revisione 
precipitosa delle aliquote fiscali in 
un momento in cui il gettito va au¬ 
mentando a un ritmo di oltre il 35 
per cento all’anno e le forze vanno 
concentrate nella lotta contro l’eva¬ 
sione, come sono buone ragioni 
quelle di Stammati che non vuole 
impegnare il Tesoro in nuove spese 
senza contropartite di entrata (risu¬ 
scita l’ombra dell’art. 81 della Co¬ 
stituzione di einaudiana memoria). 
Ottime — direi — le ragioni dei 
sindacati schierati a difesa della sca¬ 
la mobile anche nei suoi meccanismi 
meno plausibili, soprattutto dopo 
che hanno acconsentito ad una ridu¬ 
zione del costo del lavoro (abolizio¬ 
ne ponti e ferie, scale mobili anoma¬ 
le e scarico delle indennità di liqui¬ 
dazione, calo dell’assenteismo) che 
stime serie considerano vicina al 15 
per cento. 

Quel che l’italiano medio non rie¬ 
sce talvolta a capire è come, aven¬ 
do tutti almeno una parte di ragio¬ 
ne, non si trovi la maniera di de¬ 
finire una piattaforma comune ac¬ 
cettabile. Il fatto è che a questo 
punto la decisione, la mediazione, 
non può non essere politica e di cor¬ 
responsabilità politica delle forze de¬ 
cisive del paese. Come è noto' è 
proprio questo l’ostacolo che osti¬ 
natamente la Democrazia Cristiana si 
rifiuta di affrontare. 


L’astrologia è — come è noto — 
una scienza che ha poco a che fare 
con la politica anche se — ad ini¬ 
zio d’anno — sono molti i polito¬ 
logi che indulgono a qualche estra¬ 
polazione in direzione del futuribile. 
Appare tuttavia legittimo che anche 
in Italia — come nella stragrande 
maggioranza dei paesi del mondo — 
un qualche interrogativo su quel che 
ci aspetta nel ’77 venga posto. Vero 
è'-che, per quella specie di comples¬ 
sa nebulosa politica che è l’Italia, 
da noi le previsioni sono molto più 
difficili che altrove. E tuttavia pro¬ 
prio le difficoltà di una previsione 
dovrebbero essere di stimolo per ca¬ 
pire almeno le ragioni della nostra 
imprevedibilità, rispetto al "tempo 
che ci si apparecchia”. 

La prima ragione della imprevedi¬ 
bilità è data appunto dalla nebulo¬ 
sità della nostra struttura politico¬ 
partitica. Alla prossima trasmissione 
radiotelevisiva sull’aborto (20 gen¬ 
naio) saranno 11 i rappresentanti 
delle varie formazioni politiche pre¬ 
senti in parlamento, con quali risul¬ 
tati per il livello professionale (o 
di gradimento) della trasmissione è 
facile immaginare. 

Ognuno vuole mantenere il pic¬ 
colo o grande spazio che si è con¬ 
quistato mettendo di fatto in discus¬ 
sione il principio che sta alla base 
di ogni democrazia moderna, che 
cioè sono i partiti e le forze politi¬ 
che che debbono servire il paese 
e non viceversa e che quando un 
ruolo politico è esaurito è bene che 
chi ne è portatore abbia per primo 
il coraggio di affermarlo. Secondo la 
logica di alcuni esponenti dei nostri 
partiti minori l’Inghilterra, la Ger¬ 
mania e Francia dove, per ragioni 
diverse, si è arrivati alle soglie del 
bipartitismo e l’America dove il bi¬ 
partitismo è quasi assoluto, non do¬ 
vrebbero essere considerati paesi 
pienamente democratici perché « le 
forze intermedie sono state di fat¬ 
to distrutte dal rapporto preferen 
ziale anche se antagonistico dei due 


L'Astrolabio Quindicinale - n. 1 - 14 gennaio ^77 


1 












___ "n 

la posta in gioco per il 1977 


parti ri o raggruppamenti maggiori » 
E dire che proprio i partiti minori 
di cui stiamo parlando sono, in 
Italia, i più severi sostenitori del 
la democraticità pressoché perfetta 
dei sullodati sistemi politici. 

Lungi da me, si badi, l’idea di 
voler sopprimere o condizionare 
(con una variante alla legge eletto¬ 
rale, ad esempio) la vita delle for¬ 
mazioni minori. Quello che vorrei 
che si capisse è che si può fare po¬ 
litica (e come!) anche senza essere 
partiti, anche senza inserirsi (e spes¬ 
so a livelli meschini) nel gioco di po¬ 
tere quale necessariamente si confi¬ 
gura nel rapporto tra le formazioni 
più propriamente partitiche. 

Dal generale al caso specifico. La 
nebulosità di cui si è parlato e la 
instabilità che ne deriva si configu¬ 
rano in termini concreti a questa 
maniera: riusciranno il PSI o il 
PRI o — al limite — il PSDI con 
un’azione autonoma o congiunta a 
far cadere il governo Andreotti an¬ 
che contro la volontà dei comunisti? 
Detto in termini ancora più concre¬ 
ti: le delusioni provocate dal dopo- 
elezioni troveranno nei partiti inter¬ 
medi la forza di coagulazione in 
positivo per forzare la mano ai co¬ 
munisti e rimuoverli dalla loro stra¬ 
tegia di consapevole prudenza? 

Ancora: riuscirà all’interno della 
DC 1 operazione di coagulazione a 
destra di forze sufficienti per far 
cadere, per mano del partito della 
svalutazione, il governo Andreotti? 
E sarà una caduta al buio? O assi¬ 
steremo, ancora una volta, a una 
crisi che servirà solo a cambiare al¬ 
cuni uomini, per ottenere una dila¬ 
zione rispetto a certe scadenze e 
per ricominciare come prima? Di¬ 
rei che quest’ultima ipotesi (a 
parte il fatto della sostituzione di 
Donat Cattin per la quale non sa¬ 
rebbe necessaria una crisi di gover¬ 
no) è tra le peggiori. 

Una crisi di governo a breve ter¬ 
mine e al buio, con le scadenze che 
attendono la lira, non può che ser¬ 


vire incondizionatamente il partito 
della svalutazione. E lo sanno bene i 
sindacati che, pur tenendo ferme 
tutte le loro posizioni, si guardano 
bene dall’assumersi le responsabili¬ 
tà di una crisi al buio. 

Al di là di queste considerazioni 
vale la pena di dare una valutazione 
della reale posta in gioco per que¬ 
sto nostro 77. Si tratterà forse — 
come teme Donat Cattin — dell’an¬ 
no in cui i comunisti spingendo a 
fondo il pedale della recessione e 
azzerando tutti i conti economici 
delle nostre aziende vorranno aprir¬ 
si il varco, attraverso un’Italia ridot¬ 
ta a macerie, verso il socialismo? 
O sarà, come magari auspica la par¬ 
te più retriva della confindustria, 
l’anno in cui stringendo la classe 
operaia nella morsa della crisi il pa¬ 
dronato riuscirà finalmente ad ave¬ 
re la rivincita del ’68 e del 75, ri¬ 
mettendo in pari i suoi conti e 
dando alla classe operaia la basto¬ 
nata che si merita? 

Ecco due ipotesi limite che io 
mi sentirei abbastanza tranquilla¬ 
mente di scartare. Direi che se c’è 
una intesa tra DC e PCI essa per 
ora è solo e nel senso di evitare que¬ 
ste due ipotesi estreme. 

Per il resto la partita è quanto 
mai aperta. Se da Washington ver¬ 
rà in primavera luce verde all’in¬ 
gresso dei comunisti nella maggio¬ 
ranza avremo forse una crisi non 
inutile di governo. Se la luce verde 
non dovesse venire sarà la DC e i 
problemi che il paese e i sindacati 
le porranno, a dover fare i conti 
con la concezione americana della 
sovranità limitata. 

La reale posta in gioco — al di 
là di tutte queste che sono scherma¬ 
glie della polemica politica quotidia¬ 
na — è di sapere se riusciremo nel 
77 a creare le premesse perche 
1 Italia diventi un paese moderno 
all’altezza delle democrazie progre¬ 
dite dell’occidente o se esso debba 
scivolare verso soluzioni sudameri¬ 
cane. Il raggiungimento di un obiet¬ 


tivo di questo genere passa attra 
verso un mutamento significativo 
dell’attuale quadro politico anche se 
bisogna fare attenzione al fatto che 
non tutti coloro che chiedono il più 
rapido possibile mutamento del qua¬ 
dro politico, sono poi disposti a fa¬ 
re quanto è necessario perché il qua¬ 
dro politico muti realmente. 

Non di fare il socialismo si tratta 
né di restaurare il capitalismo che 
— allo stato puro — forse in Ita¬ 
lia non è mai esistito. Si tratta di 
raccogliere quel che c’è di meglio 
nella nostra storia recente e meno 
recente, di liberarci del populismo 
salvando i valori popolari della no¬ 
stra tradizione, di tagliare le radici 
del clientelismo per permettere una 
reale partecipazione, di smetterla col 
consumismo senza abolire anzi 
espandendo i consumi essenziali e 
sociali, di cancellare l’immagine del¬ 
le imprese di stato come carrozzoni 
in perdita salvando la presenza lar 
ga e significativa della mano pub¬ 
blica nella nostra economia, di ri 
dimensionare le propensioni nazio 
nali per il folclore e l’improvvisa¬ 
zione senza dimenticare che l’inven¬ 
tiva personale e il gusto sono non 
solo una qualità positiva del vivere 
ma anche un modo per essere pre¬ 
senti nel mondo della produzione. 

Detto in poche parole si tratta di 
portare l’Italia — non astrattamen 
te, non per come La Malfa vorrebbe 
che essa fosse ma per come essa 
realmente è — dalle sue condizioni 
attuali, al livello delle democrazie 
più progredite dell’occidente, sal¬ 
vandola dallo scivolamento verso 
lidi sudamericani. 

A decidere sarà ancora una volta 
non tanto l’abilità dei politici di 
vertice, la loro maggiore o minore 
capacità di manovra, di convinzione 
o di mistificazione, quanto la pres¬ 
sione che nella direzione giusta eser¬ 
citerà la coscienza di milioni e mi¬ 
lioni di uomini e di donne che 
hanno acquisito la consapevolezza 
della posta in gioco. L. A. 


2 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 197’ 










Pei e i grandi 
problemi 
del momento 

intervista a Paolo Bufallni 


Come vedi il 1977, in generale, per 
l’Italia e per il mondo? 

Guardo al 1977 come a un anno che sarà 
molto difficile, con la preoccupazione suscitata 
dalla gravità dei problemi e delle contraddizio¬ 
ni presenti nella situazione italiana, ed anche 
in quella internazionale, ma nel tempo stesso 
con la fiducia che deriva dall’avanzata del mo¬ 
vimento operaio e democratico in Italia, e in 
altri Paesi dell’Europa e del mondo, e in parti¬ 
colare con la fiducia che ho nella politica e 
nella forza del nostro partito. 

Quali ti sembrano i problemi più 
grossi ed acuti aperti nella situazione 
internazionale? 

Sul piano internazionale, il problema tra 
tutti preminente mi sembra sia quello che si 
riesca a mandare avanti il processo della disten¬ 
sione, e a mandarlo avanti nei fatti: il che, 
concretamente, innanzitutto significa realizza¬ 
re obiettivi di bilanciata e graduale riduzione 
degli armamenti. Non sarà superfluo ricordare 
che, nel nostro XIV congresso, al primo posto 
nella nostra, strategia e linea politica abbiamo 
messo proprio 1 obiettivo della distensione in¬ 
ternazionale, della riduzione degli armamenti 
e della destinazione delle immense risorse, oggi 
gettate nel pozzo senza fondo della gara degli 
armamenti, alla soluzione degli immani proble¬ 
mi che affliggono l’umanità, quali quelli del 
sottosviluppo, della fame, dell’inquinamento e 
della rottura degli equilibri ecologici, delle cre¬ 
scenti difficoltà e crisi anche delle economie 
dei paesi industriali più sviluppati. Per salvare 
1 umanità dalla catastrofe e per avviare a solu¬ 
zione problemi di questa portata, sono assolu¬ 
tamente necessari la pacifica collaborazione e 
una cooperazione economica programmata fra 
Stati e popoli, la fine della corsa agli arma¬ 
menti, prpgressi consistenti sulla via del di¬ 
sarmo. 

Non sarà superfluo ricordare che cardine del¬ 
la nostra politica è il principio che la ridu- 
ziorte degli armamenti debba avvenire in modo 
bilanciato e contemporaneo da parte delle due 
superotenze e dei principali blocchi militari. 

Infatti, noi siamo per una politica che sia at¬ 
tivamente rivolta a mandare avanti un proces¬ 
so che porti al superamento dei blocchi con- 



Bufalini 

frapposti; ma pensiamo che a questo scopo non 
gioverebbero tentativi di alterare il rapporto 
di forze esistente, perché ogni tentativo di que¬ 
sto genere non favorirebbe, bensì ostacolereb¬ 
be la distensione internazionale. Il superamen¬ 
to dei blocchi non può essere un obiettivo che 
si raggiunge di colpo; ma può e deve essere un 
concreto processo che va avanti di pari passo 
con la distensione intemazionale, una giusta so¬ 
luzione dei conflitti aperti, la riduzione degli 
armamenti, e, nel tempo stesso, con 1’affermarsi 
della autonoma iniziativa nazionale dei diversi 
Stati e popoli dall'interno delle diverse allean¬ 
ze: si intende, naturalmente, di un’iniziativa 
nazionale rivolta a favorire il consolidamento 
della pace e la cooperazione intemazionale e, 
per questa via, la effettiva e giusta difesa de 
gli interessi nazionali di ogni Paese. 

Come giudichi la politica delle due 
superpotenze, della NATO e del Pat¬ 
to di Varsavia, in rapporto a questi 
obiettivi? 

Coerentemente con una tale visione e im 
postazione, noi non abbiamo più rivendicato 
l'uscita dell’Italia dall’Alleanza atlantica, men¬ 
tre rivendichiamo una maggiore iniziativa au 
tonoma di politica estera dell’Italia nella linea 
sopra accennata. Agli inizi del 1977, noi ci au- 


L AstrolaUio quindicinale - n. 1 . 14 gennaio 1977 


Paola Agosti 












•- 

il pei e i grandi 

problemi del momento 


guriamo che, con l’avvento al governo degli 
Stati Uniti d’America della nuova amministra¬ 
zione Carter, l’attuale situazione di stallo nelle 
trattative per il disarmo possa essere sbloc¬ 
cata. Bisogna però anche apertamente denun¬ 
ciare la estrema gravità e pericolosità del fatto 
che non si sia riusciti ad arrestare la corsa agli 
armamenti. Sembra a me siano necessari, l’al¬ 
larme, la vigilanza, la pressione di tutti coloro 
che vogliono la pace, dell'opinione pubblica de¬ 
mocratica, dei popoli, per imporre che si im¬ 
bocchi la via del disarmo. 

D'altra parte — dopo avere ricordato le nostre 
limpide e realistiche impostazioni contrarie a 
spostamenti nell’equilibrio delle forze e a mu¬ 
tamenti unilaterali dei blocchi esistenti — vo¬ 
glio aggiungere che ritengo che le campagne 
sulle presunte minacce dell’Unione Sovietica al¬ 
la pace del mondo sono del tutto infondate, 
storicamente e nella realtà di oggi. E’ vero, in¬ 
vece, che l’Unione Sovietica ha sempre perse¬ 
guito la pace, la pacifica coesistenza, la ridu¬ 
zione degli armamenti, negli interessi supremi 
dell umanità e per gli stessi vitali interessi di 
sviluppo dei suoi popoli. 

Il PCI è sempre favorevole all'uni¬ 
ficazione politica dell’Europa occi¬ 
dentale, e in particolare all'elezione 
diretta del Parlamento europeo? 

Nel quadro di tale concezione della situa¬ 
zione mondiale — e dei grandi scopi della di¬ 
stensione, della pace e della cooperazione in¬ 
ternazionale — noi abbiamo compiuto e con¬ 
fermiamo la nostra scelta europeistica. Riba¬ 
diamo, anzi, che noi siamo a favore dell'elezio¬ 
ne diretta del Parlamento europeo. Certo, sap¬ 
piamo bene che l'unità europea attraversa una 
crisi profonda, e che, finora, nel mercato co¬ 
mune e negli sviluppi della vita comunitaria 
hanno prevalso gli interessi dei grandi mono- 
poli. Ma questo è un motivo di più per volere 
e promuovere un più diretto e deciso inter¬ 
vento della classe operaia, delle masse popo¬ 
lari, delle loro organizzazioni, dei partiti espres¬ 
sione dei movimenti operai, nella vita dell’Eu¬ 
ropa occidentale e nella battaglia per una nuova 
unità europea: e cioè per una Europa antifa¬ 
scista, democratica, pacifica, non più dominata 
dai grandi monopoli, capace di svolgere una ef¬ 
ficace iniziativa internazionale per la distensio¬ 


ne e la cooperazione, fattore nuovo di equili¬ 
brio, di pace, di sicurezza. 

Tanto più vivo è perciò il nostro augurio, e 
tanto più grande il nostro impegno di solida¬ 
rietà, perché nella Spagna si instauri subito un 
vero regime democratico. Se guardiamo al Por¬ 
togallo, alla Spagna, allTtalia, alla Francia, al¬ 
la stessa Germania occidentale, costatiamo che 
— nonostante la presenza e l’azione ostinata e 
minacciosa di forze conservatrici e reazionarie 
ancora potenti — le forze antifasciste, operaie, 
democratiche e progressiste hanno realizzato 
grandi avanzate e compiuto passi notevoli nel¬ 
la direzione di un loro avvicinamento. E’ que¬ 
sta, dunque, una situazione nuova per l'Europa 
occidentale, una grande occasione che non deve 
essere perduta. 

Pensi che il 1977 e i prossimi anni 
vedranno uno sviluppo dell'« euro¬ 
comunismo »? 

Non sarà male ripetere che l’espressione 
« eurocomunismo » non è nostra. In realtà, an¬ 
che tra i partiti comunisti dell’Europa occiden¬ 
tale vi sono notevoli differenze di linea poli¬ 
tica, di impostazioni ideologiche e di tradizioni 
culturali, oltre che di situazioni oggettive: vi 
è però anche il fatto nuovo che sono maturati 
e venuti in evidenza alcuni elementi comuni di 
grande rilievo. I documenti più significativi 
sono ben noti e riguardano soprattutto il PCI, 
il PCF e il PCE. I tratti centrali comuni consi¬ 
stono: 

I 

a) nella ricerca di vie nuove, originali, di avan¬ 
zata al socialismo e nella stessa configurazione 
di una società nuova, socialista, e 

b) nella congiunta affermazione di un nesso 
inscindibile tra democrazia politica (con al cen¬ 
tro la pluralità dei partiti e la loro libera dia¬ 
lettica) e le trasformazioni socialiste delle strut¬ 
ture economiche e della società, con la riaffer¬ 
mazione del « concetto che non vi è socialismo 
se non nel più ampio e conseguente sviluppo 
del carattere democratico dello Stato e della 
vita democratica delle masse »• (Togliatti). 

E’ evidente che questi tratti comuni dell'impe¬ 
gno politico, della ricerca e della elaborazione 
di alcuni grandi partiti comunisti dell’Europa 
occidentale costituiscono un dato politico mol¬ 
to importante nei rapporti (nella ricerca delle 
collaborazioni, delle intese, dell’unità) tra i par- 


4 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 



















'N 




titi comunisti, i partiti socialisti, le forze so¬ 
cialdemocratiche e democratiche più avanzate, 
e le correnti cattoliche e cristiane di ispirazione 
socialista o progressista. Ma, proprio per que¬ 
sto, è un fattore che potrà esercitare una in¬ 
fluenza assai grande su un duplice piano. Sul 
piano del promovimento di una nuova unità 
e di una nuova funzione di una Europa sottrat¬ 
ta al predominio dei monopoli, democratica 
e pacifica. Sul piano della realizzazione di modi 
nuovi di trasformazione socialista di Paesi in¬ 
dustrialmente sviluppati, con caratteristiche po¬ 
litiche e culturali che più direttamente scaturi¬ 
scono da tradizioni, pur tra loro diverse, di ti¬ 
po liberal-democratico. In questi Paesi, e in par¬ 
ticolare nel nostro, una trasformazione in sen¬ 
so socialista e di una piena ed effettiva demo¬ 
crazia della società è storicamente matura e 
oggettivamente improrogabile. La classe operaia, 
le forze del lavoro, devono ormai accedere alla 
direzione di questi Paesi. Ciò è particolarmente 
evidente per l’Italia. La crisi economica dell’Ita¬ 
lia — e la più generale crisi della società italia¬ 
na e dei suoi ordinamenti, in tutti i campi — è 
bensì grave; ma le possibilità di recupero, le 
potenzialità di crescita ed espansione sono gran¬ 
di. Ci si può avviare rapidamente alla ripresa e 
al rinnovamento, ma ad una condizione politi¬ 
ca fondamentale e decisiva: la condizione, ap¬ 
punto, che la classe operaia e le masse lavora¬ 
trici e popolari — in forme che possono essere 
diverse — vengano messe in condizione di as¬ 
solvere alla loro funzione nazionale dirigente 
ed esplicare tutte le proprie energie creative. 

Non pensi che la concezione di 
una società socialista fondata su una 
piena democrazia politica, sul plura¬ 
lismo e la libera dialettica dei partiti 
e sulla affermazione di tutte le liber¬ 
tà civili e politiche venga in realtà 
contraddetta dalle persistenti limita¬ 
zioni e dalle misure repressive del 
dissenso in molti Paesi socialisti? 

Il problema del « dissenso » nei Paesi so¬ 
cialisti è certamente arduo, drammatico e com¬ 
plesso. Anche in questo, oltre a tratti comuni, 
vi sono differenze da Paese a Paese. Per quanto 
riguarda, in particolare, la situazione cecoslo- 

vacca, abbiamo ripetutamente espresso — e lo 
abbiamo fatto anche in questi giorni — il no¬ 
stro pensiero. 

Su un aspetto — che certamente non esaurisce 
la portata e complessità delle questioni ma ha 
un valore pregiudiziale — vorrei tornare: l’esi¬ 
genza che il Partito comunista cecoslovacco e 
il Governo di quel Paese non affrontino un pro¬ 
blema grave — la frattura politica verificatasi 
nel 1968 — con i metodi della repressione, o 
disciplinari o amministrativi, ma lo affrontino 
come un problema politico delicato e profon¬ 
do, con la volontà di risanare una cosi grave 
lacerazione del partito e nazionale. Questa è 
la prima esigenza che noi fermamente solle¬ 
viamo, ed è il nostro sincero augurio. 

Più in generale, noi siamo convinti che, là do¬ 
ve, come nell’Unione Sovietica, sono state get¬ 
tate le basi di una società nuova, egualitaria 
— là dove è stato abolito lo sfruttamento di 
classe, e sono state realizzate conquiste gran¬ 
di — esistono le condizioni e vi è la esigenza, 
sempre più profonda, di uno sviluppo pieno 
della democrazia e della libertà: naturalmente, 
in forme adeguate alle situazioni oggettive, e 
quindi in forme condizionate da una storia di 
oltre mezzo secolo, in forme che possono esse¬ 
re diverse da quelle che noi concepiamo e vo¬ 
gliamo per il nostro Paese, ma in ogni caso 
tali da garantire un progressivo e sostanziale 
sviluppo democratico. Io credo che questo sia 
il periodo storico nuovo che sta dinanzi a quel¬ 
la parte del mondo in cui, prima, è stata spez¬ 
zata la catena del capitalismo e dell’imperia- 
lismo e sono state liquidate, con lo sfruttamen¬ 
to dell’uomo sull’uomo, la fame e l’analfabeti¬ 
smo di moltitudini immense e l’arretratezza. 

Il compito principale, però, che spetta a noi è 
soprattutto quello di lottare per la distensio¬ 
ne, la pace e la cooperazione intemazionale, e, 
insieme, per avanzare noi, nel nostro paese e 
nell’Europa occidentale, sulla via della demo¬ 
crazia e del socialismo. Qui — in una lotta che 
sappia congiungere gli obiettivi della giustizia 
e del rinnovamento sociale, della democrazia 
politica, del socialismo e della libertà — è il 
banco di prova non solo di noi, comunisti ita¬ 
liani, ma di tutte le forze operaie e di tutte le 
forze progressiste che operano in Italia e in Eu¬ 
ropa. ■ 


L'Astrolabio quindicinale • n 1 - 14 gennaio 1977 


5 









Adriano Mordenti 


Dopo rincontro 
i sindacati 
si muovono 
e il governo no 

di Ercole Bonacina 



• Due temi hanno dominato la 
discussione fra governo e sindacati 
nell’incontro del 5 gennaio: la lotta 
all’inflazione e il contenimento del 
costo del lavoro o, meglio, del suo 
saggio di aumento. Era naturale che 
fosse così, dal momento che i due 
temi prevalgono oggettivamente su 
tutti gli altri e anzi tutti gli altri 
ne sono condizionati. Diversamente 
dalle cronache scritte a caldo, non 
diremmo che il maggior risultato 
dell incontro sia stato la constata¬ 
zione del disaccordo fra le due parti 
intorno al secondo dei temi e, in 
particolare, intorno alla modifica o 
alla conferma del meccanismo di 
scala mobile. La constatazione più 
importante, invece, è che.il gover¬ 
no e i sindacati sono stati concordi 
nel giudicare la lotta all’infla¬ 
zione e il contenimento del saggio 
di aumento del costo di lavoro come 
i due problemi più gravi ed urgenti 
e che tutto il resto, dalla difesa del¬ 
l’occupazione alla ripresa degli in¬ 
vestimenti, fosse il contorno, obbli¬ 
gato ma sempre contorno, della so¬ 
luzione dei problemi stessi. 


Non meno importante è la con¬ 
statazione che i sindacati, giunti al 
punto dolente della scala mobile, 
non abbiano tentato di tirarsi indie¬ 
tro o di menare il can per l’aia, ma 
abbiano invece contrapposto propo¬ 
ste a proposte, elaborazioni a elabo¬ 
razioni, tutte preparate con alto sen¬ 
so di responsabilità, quanta ce ne 
vuole per affrontare il grande impe¬ 
gno della lotta all’inflazione e dei 
sacrifici connessi senza compromet¬ 
tere il quadro politico, senza dimen¬ 
ticare gli interessi dell’intera comu¬ 
nità nazionale e senza tradire l’at¬ 
tesa o l’ansia dei lavoratori, dei pen¬ 
sionati, delle classi più povere. 


Una differenza di valutazioni 


Il dissenso non c’è stato nem¬ 
meno sul quanto di riduzione oc¬ 
corra apportare al saggio di aumen¬ 
to del costo del lavoro. In sostanza, 
ambedue le parti si sono dimostrate 
convinte che il recupero di competi¬ 


ti/ità, necessario per incrementare 
le esportazioni e in ultima analisi 
per difendere la moneta, è condizio¬ 
nato dall’avvicinamento del nostro 
costo per unità di prodotto a quel¬ 
lo delle economie concorrenti e, in 
ogni caso, dal /fatto che il nostro 
tasso di aumento previsto o ammis¬ 
sibile per l’anno in corso non su¬ 
peri i tassi altrui. 

Un ulteriore punto all’attivo del¬ 
l’incontro, e lo registriamo non già 
per fare gli imbonitori di maniera 
ma per un semplice dovere di cro¬ 
nisti, è che il governo ha compiuto 
un nuovo passo in direzione di un 
confronto con i sindacati non pu¬ 
ramente accademico e rituale ma se¬ 
riamente impegnato, come si convie¬ 
ne ad un autentico pluralismo in 
cui ciascuna forza democratica fa 
la propria parte e riconosce alle al¬ 
tre la loro, rispettando poi la re¬ 
sponsabilità finale del. parlamento 
di comporre il tutto in una sintesi 
politica rappresentativa al più alto 
grado della volontà popolare. E’ co¬ 
sì che sono stati resi manifesti i 
conti della finanza pubblica, i pro¬ 
grammi di investimenti realizzabili e 


6 


(.'Astrolabio quindicinale • n. I • 14 gennaio 1977 

















non, le prospettive certe o eventua¬ 
li di nuovi giri di vite, le condi¬ 
zioni i vincoli gli obiettivi e i tem¬ 
pi della nostra ripresa. 

L’interesse di queste constatazio¬ 
ni non è sminuito dalla pur vera 
considerazione che il governo non 
aveva e non avrà altra scelta se 
non la trattativa sempre più parita¬ 
ria e aperta con le forze sociali, e 
dei lavoratori in ispecie, e con le 
forze politiche democratiche: sem¬ 
mai, l’interesse ne è confermato, 
non fosse altro perché, bon gré mal 
gré, l’ottusa presunzione dell’auto¬ 
sufficienza di un tempo, dietro lo 
scudo di una maggioranza addome¬ 
sticata e docile, è stata fatta crol¬ 
lare. 

Dov’é che il dissenso registrato 
nell’incontro del 5 si è dimostrato 
profondo e, allo stato delle cose, 
apparentemente insuperabile? Nella 
manovra dei fattori di aumento del 
costo del lavoro, il governo si è 
arroccato nella richieste (prendere o 
lasciare) della diluizione temporale 
degli scatti; i sindacati hanno con¬ 
troproposto interventi più articolati, 
che da un canto lasciassero integra 
la sostanza del meccanismo di indi¬ 
cizzazione salariale e dall’altro con¬ 
seguissero gli stessi obiettivi di 
quantità considerati necessari dal 
governo. L’intoppo è venuto al mo¬ 
mento dei calcoli: il governo dimo¬ 
strava che la proposta sindacale da¬ 
va molto meno del necessario; il 
sindacato dimostrava il contrario. E 
su questa differenza di valutazioni, 
le parti si sono lasciate restando 
divise dalla stessa distanza di quan¬ 
do si erano incontrate. Il nocciolo 
della riunione del 5 gennaio ci sem¬ 
bra tutto qui. 

A questo punto, tornano oppor¬ 
tune alcune considerazioni. La pri¬ 
ma è che l’intoppo è emerso su una 
questione tecnica e non già su una 
questione politica, come invece sa¬ 
rebbe stato se i sindacati si fosse¬ 
ro dichiarati indisponibili a discu¬ 
tere qualunque aspetto della scala 


mobile. E’ pura tecnica, infatti, ac¬ 
certare se la controproposta sinda¬ 
cale ha un effetto uguale, minore o 
maggiore della proposta del governo 
sul contenimento del tasso di cre¬ 
scita del costo del lavoro. Se le 
erse stanno cosi, risulterebbero non 
meditate a sufficienza sia l’eventua¬ 
le decisione del governo di risolve¬ 
re il problema con un colpo dì forza 
quale sarebbe l’emanazione di un 
decreto legge, sia l’eventuale deci¬ 
sione del sindacato di passare imme¬ 
diatamente alla lotta. 


Il rischio di uno 
scontro frontale 


La cronaca dell’incontro del 5 
gennaio ha raccontato che, a un cer¬ 
to punto, i sindacalisti da una parte 
e i ministri dall’altra si sono messi 
ad accertare con proprie calcolatrici 
tascabili chi dei due sbagliava i con¬ 
ti. Ci auguriamo che questo sia sta¬ 
to un pezzo di colore aggiunto dai 
cronisti. A un vertice di quella fat¬ 
ta che doveva discutere problemi co¬ 
sì squisitamente politici, non era e 
non è lecito impantanarsi in opera¬ 
zioni artimetiche. Vera o non vera 
che sia, la circostanza suggerisce una 
seconda considerazione: ed è che 
mai come in un caso come questo, 
la funzione « ausiliaria » del CNEL 
(l’aggettivo è usato dalla Costituzio¬ 
ne) sarebbe tornata utile: e non 
già perché il CNEL avrebbe dovuto 
fare esso il contabile, ma perché, 
una volta composto da lavoratori 
imprenditori ed esperti autorevol¬ 
mente rappresentativi, ben avrebbe 
potuto essere incaricato di mettere 
a punto proposte idonee e ridurre 
il tasso di crescita del costo del 
lavoro, dopo che in sede politica o 
di incontro con i sindacati fossero 
stati convenuti il tasso massimo am¬ 
missibile e gli intenti politici e sin¬ 


dacali ai quali le proposte si sareb¬ 
bero dovute conformare. 

Un terza considerazione, più squi¬ 
sitamente politica, è la seguente. I 
sindacati, dimostrando molto più 
fantasia e duttilità del governo, han¬ 
no convocato l’assemblea nazionale 
dei delegati all’indomani dell’incon¬ 
tro e hanno subito prenotato contat¬ 
ti collegiali con i partiti dell’arco 
costituzionale per discutere la situa¬ 
zione, difendere le proprie ragioni 
e tastare il polso delle forze politi¬ 
che. Niente, invece, ha detto il go¬ 
verno su ciò che intende fare, salvo 
i sibillini accenni alla volontà di de¬ 
cidere e di uscire dall’« impasse ». 
« Assumersi le proprie responsabili¬ 
tà », come qualche governante 
avrebbe esortato a fare, per poi an¬ 
dare subito al confronto parlamen¬ 
tare, appare la più ovvia e salomo¬ 
nica, ma anche la più pericolosa del¬ 
le decisioni possibili. Essa avrebbe 
un solo significato: quello di un en¬ 
nesimo atto di soggezione del gover¬ 
no ai rifiuti opposti dalla DC con¬ 
tro qualunque consultazione dei par¬ 
titi della non-sfiducia, anche se un 
tale atto potrebbe far correre il ri¬ 
schio di uno scontro frontale con i 
sindacati prima e con i partiti poi, 
ncn solo della sinistra tradizionale. 
Non crediamo che Andreotti non 
abbia calcolato questo grave rischio 
e non si rifiuti di correrlo. Tra le 
misure annunciate, ce ne sono anco¬ 
ra di quelle che, per essere assunte, 
hanno bisogno del più largo con¬ 
senso politico e sindacale, pena lo 
sfascio generale. Chi lavora per que¬ 
sto obiettivo? Non certo i sindacati 
e nemmeno i partiti della sinistra. 
La risposta, dunque, deve essere cer¬ 
cata nel versante democristiano e 
anche in una parte di quello gover¬ 
nativo. Del resto, non per niente 
Donat Cattin si è assunta la par¬ 
te dello sceriffo a difesa di una 
diligenza, che non è propriamente 
quella dei lavoratori e dei democra¬ 
tici. 


l'Astrolabio quindicinale - n. 1 ■ Il gennaio '977 


7 














Un anno da 
guardare in 
una prospettiva 
storica 

di Federico Caffè 


• Un autorevole periodico stranie¬ 
ro ha posto l’interrogativo: « chi 
crede ormai più in coloro che ela¬ 
borano previsioni »? Non posso e- 
scludere che lo scetticismo corrosi¬ 
vo (ampiamente documentato) di 
questo interrogativo sia alla base del 
mio convincimento che l’anno che 
ora si apre abbia maggiori elementi 
di guida dagli eventi di un passato 
relativamente lontano, che non dai 
tentativi di prevedere il futuro. 
Trent’anni or sono, il 1947, fu un 
anno carico di eventi. Fu l’anno in 
cui le forze politiche di sinistra ven¬ 
nero allontanate dal governo. Esse 
avevano dato un contributo impo¬ 
nente alla rinascita civile e politica 
del Paese. Vennero tuttavia scaccia¬ 
te da quell’anticamera della « stanza 
dei bottoni » in cui erano state man¬ 
tenute, malgrado non avessero de¬ 
terminato nulla di particolarmente 
« rivoluzionario » o di incisivamente 
« riformistico ». Si trattò semplice- 
mente della rinuncia a ciò che avreb¬ 
be potuto costituire una politica po¬ 
polare, anche nei riflessi economici, 
e della scelta di una politica orien¬ 
tata nel senso di favorire in modo 
pressoché esclusivo i ceti medi. Per 
fornire un esempio di immediata 
evidenza della differenza tra le due 
politiche, è sufficiente dire che la 
. prima avrebbe portato a una intensa 
costruzione di case popolari, e sol¬ 
tanto di quelle; la seconda ha con¬ 
dotto a quel sovvenzionamento di 
edilizia residenziale che ha lasciata 
ancora irrisolti, a distanza di un 
trentennio, i problemi di una abita¬ 
zione non eccessivamente costosa per 
i meno abbienti. 

Il 1947 fu l’anno in cui venne 
considerata lodevole l’agevolazione 
del rimpatrio dei capitali esportati 
clandestinamente, creando il prece¬ 
dente al quale si è largamente fatto 
richiamo in una recente analoga 
occasione, dimostrando quanto poco 
cambi, nel tempo, l’inclinazione na¬ 
zionale a uno spregiudicato machia¬ 
vellismo di bassa lega. 


Carli e Agnelli 

Fu l’anno in cui « fattorini e dat¬ 
tilografe » vennero autorevolmente 
invitati a non tentare spericolate av¬ 
venture in borsa, che prima o poi 
avrebbero finito per volatizzare i 
loro risparmi. Se la immotivata desi¬ 
gnazione delle due benemerite cate¬ 
gorie destò scalpore ( qualche pubbli¬ 
cista non esitò a qualificarla di tipo 
razzista), il monito aveva comunque 
il merito di porre in guardia nei 
confronti di una istituzione che già 
allora si riconosceva bisognosa di 
un profondo riassetto. Ed è una 
esigenza che tuttora perdura, a di¬ 
stanza di un trentennio. 

Il 1947 fu l’anno in cui venne 
conseguito l’arresto dell’inflazione, 
mediante la manovra « classica » del¬ 
le restrizioni creditizie. Un economi¬ 
sta svedese di alto prestigio, Bertil 
Ohlin, ha affermato in un suo vo¬ 
lume: « ciò che fece le banche cen¬ 
trali così potenti prima del 1914 era 
il fatto che esse avevano il potere 
di creare la depressione ». Nel 1947, 
la banca centrale italiana si riappro¬ 
priava di questo potere, gestendolo 
con incontrovertibile capacità tecni¬ 
ca, ma senza poter evitare gli in¬ 
convenienti che sono connaturali al¬ 
l’esercizio di questo discutibile po¬ 
tere. Ed è anche questa una storia 
che ancora continua. 


Ciò che riesce particolarmente 
istruttivo, nel rivolgere lo sguardo 
al passato al quale mi sono somma¬ 
riamente richiamato, è la costatazio¬ 
ne immediata che se ne trae circa 
ciò che rappresenta l’elemento ca¬ 
ratterizzante della politica economi¬ 
ca italiana. Essa è, intrinsecamente, 
una « politica economica del tempo 
perduto », aliena cioè dall’affrontare 
problemi essenziali non dello svilup¬ 
po economico (che, malgrado tutto, 
c’è stato), ma di una durevole cre¬ 
scita civile. Di continuo, questa è 
posta a repentaglio dal potere di al¬ 
cuni centri interni, o di alcuni con¬ 
dizionamenti esterni, di « creare de¬ 
pressione ». In qual modo l’incertez¬ 
za del futuro ingeneri il conformi¬ 
smo, origini la caccia all’« inserimen¬ 
to », rivaluti gli screditati idoli del¬ 
la saggezza convenzionale, in nessun 
luogo è possibile verificarlo come 
nell’attività di insegnamento. Si trat¬ 
ta di una involuzione di cui ciascu¬ 
no di noi, senza crearsi falsi alibi o 
comodi capri espiatori, è largamen¬ 
te corresponsabile. È per aver trop¬ 
po poco illustrato, documentato, cri¬ 
ticato, le svolte decisive di queste* 
non lontano passato, a cominciare da 
quella fatale del 1947, che il nostro 
Paese sembra destinato a ripeterne 
gli errori. 


8 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 
















crisi economicajoccupazione 
e lavoro improduttivo 

Quando il salario 
è un sussidio 
di disoccupazione 

di Alessandro Roncaglia 


• Conviene alla collettività che 
qualcuno sia pagato per scavar bu¬ 
che per terra e poi riempirle? o, 
più in generale, per lavorare senza 
produrre niente di utile? Il proble¬ 
ma è vecchio, ma questo non vuol 
dire che sia facile risolverlo, specie 
in una situazione come l’attuale in 
cui coesistono disoccupazione, infla¬ 
zione e passivo della bilancia com¬ 
merciale. 

È noto che quando vi siano ri¬ 
sorse inutilizzate e lavoratori disoc¬ 
cupati, come accade oggi in Italia, 
una spesa pubblica, qualunque sia 
la sua destinazione, ha un effetto di 
stimolo all’attività produttiva. An¬ 
che scavar buche, come ricordava 
Keyties; e come hanno verificato, 
con metodi particolarmente sofisti¬ 
cati e incivili, gli americani con 
la guerra del Vietnam. Benemeriti 
dell’economia, dunque, dovrebbero 
essere considerati in Italia l’on. Na¬ 
tali, con il suo buco sotto il Gran 
Sasso, il trio Piccoli-Rumor-Bisaglia 
con la loro autostrada veneto-triden¬ 
tina, e tutti i grandi e piccoli orga¬ 
nizzatori dell’occupazione assistita, 
dai responsabili dell’Egam ai difen¬ 
sori del più piccolo e assurdo fra 
gli enti inutili. Perché allora tan¬ 
to vituperio nei loro confronti? 

Il fatto è che bene o male,- in 
un modo o nell’altro, chi lavora sen¬ 
za produrre niente di utile, esatta¬ 
mente come chi è disoccupato, cam¬ 
pa sulle spalle di chi produce. Con 
una differenza: che il disoccupato 
sta comunque peggio di chi lavora, 
mentre il lavoratore improduttivo 
sta spesso meglio del lavoratore 
produttivo. Ma quando la base pro¬ 
duttiva è troppo esigua, il prezzo 
che essa deve sopportare può es¬ 
sere tale da rendere impossibile di 
sostenere la concorrenza estera, sui 
mercati internazionali se non su 
quelli interni che possono godere di 
un qualche grado di protezione, e 
la bilancia commerciale finisce in 
rosso. È noto, ad esempio, che i 
costi del lavoro in Italia sono alti 


non tanto per i soldi che il lavora¬ 
tore porta effettivamente a casa, 
quanto soprattutto per gli oneri so¬ 
ciali, cioè il prezzo dei carrozzoni 
assistenziali. 

Un po’ come il cancro, il lavoro 
improduttivo si è lentamente dif¬ 
fuso nell’economia italiana, deva¬ 
stando uno dopo l’altro alcuni cen¬ 
tri vitali per il buon funzionamento 
dell’apparato produttivo. Nel ven¬ 
tennio fascista la piccola borghesia 
ha trovato uno sbocco nell'ammini¬ 
strazione pubblica, gonfiando oltre 
misura la burocrazia ministeriale. 
Come quando dieci contadini devo¬ 
no zappare un metro di terra, e fi¬ 
nisce che nove stanno a guardare 
quello che lavora, così nei ministe¬ 
ri si è diffusa un’abitudine al non¬ 
lavoro programmatico, mentre lo ze¬ 
lo dei volenterosi non ha fatto che 
complicare le cose, moltiplicando 
inutilmente il lavoro richiesto per 
ogni pratica, ed eliminando di fat¬ 
to, proprio grazie all’eccesso di con¬ 
trolli formali, ogni controllo e re¬ 
sponsabilità reale. L’amministrazio¬ 
ne pubblica ne è uscita distrutta, ir¬ 
riformabile se non con metodi dra¬ 
coniani, insopportabili sia per il go¬ 
verno sia per i sindacati. 

Nel trentennio democristiano, la 
stessa sorte hanno subito gli enti 
locali e gli enti assistenziali. Chi non 
riusciva ad essere assunto, poteva 
sempre sperare in una pensione di 
invalidità (rendendo così impossibi¬ 
le un’assistenza efficace per chi ne 
ha veramente bisogno). L’istruzione 
di massa ha poi peggiorato le cose: 
il diplomato assunto come spazzino 
o tranviere riesce ben presto, con 
gli stessi appoggi che gli hanno 
fruttato l’assunzione, ad imboscarsi 
negli uffici, generando così l’assur¬ 
do di enti con costi insopportabili 
di personale, e tuttavia non in gra¬ 
do di adempiere efficientemente ai 
propri compiti istituzionali. Questo 
fenomeno, assieme all’esosità dei 
medici italiani, spiega ad esempio 


la tragica situazione degli enti ospe¬ 
dalieri, incapaci di fornire un servi¬ 
zio decente nonostante i costi che 
sono fra i più alti del mondo. 

Allo stesso tempo, cospicue sac¬ 
che di lavoro improduttivo sono ve¬ 
nute ad appesantire i costi dell’in¬ 
termediazione commerciale e di 
quella finanziaria. Nel commercio, 
leggi e regolamenti hanno favorito 
il permanere di una struttura ecces¬ 
sivamente frammentata; la concor¬ 
renza fra gli operatori, poi, ha fatto 
sì che a costi eccessivi (pagati dai 
consumatori in termini di alti prezzi 
al minuto) corrispondessero redditi 
tutt’altro che elevati, in media, per 
gli operatori stessi. Viceversa le ban¬ 
che, trovandosi ad operare in un 
mercato oligopolistico ben difeso 
dall’ingresso di nuovi concorrenti, 
sono state in grado di trasmettere 
integralmente sui prezzi dei loro 
servizi le alte remunerazioni conces¬ 
se anche a personale inutile rispetto 
agli effettivi bisogni. 

Infine, il lavoro improduttivo si 
è diffuso anche nelle imprese indu¬ 
striali, per quanto la cosa possa ap¬ 
parire paradossale a chi è abituato 
alla distinzione smithiana, che iden¬ 
tifica il lavoro produttivo proprio 
con il lavoro industriale e agricolo. 
Anche nell’industria, infatti, vi sono 
lavoratori inutili al cui impiego non 
corrisponde un aumento del prodot¬ 
to, e che costituiscono perciò un 
inutile aggravio per i costi azien¬ 
dali. 

Per Smith questo non poteva ac¬ 
cadere: l’imprenditore • privato è 
spinto dalla sua stessa convenienza, 
e costretto dalle forze della concor¬ 
renza, ad evitare qualsiasi costo inu¬ 
tile. Ma la realtà odierna è più com¬ 
plicata della teoria smithiana. Una 
prima breccia all’ingresso del lavoro 
improduttivo nell’industria è rap¬ 
presentata dal diffondersi delle im¬ 
prese pubbliche, meno legate di 
quelle private a un rigido controllo 
dei costi, e guidate da dirigenti di 
nomina politica, sensibili a pressio- 


L'Astrolabio quindicinale • n. 1 • 14 gennaio 1977 


9 








~~~ '• " \ 

crisi economica, occupazione 
e lavoro improduttivo 


ni clientelar!. Inoltre, l’istituto tipi¬ 
camente italiano della « raccoman¬ 
dazione » spesso fa sì, nell’impresa 
privata come in quella pubblica, che 
per far fronte a necessità effettive 
vengano assunti lavoratori incapaci 
— dattilografe lente come lumache, 
ingegneri inetti —, con il risultato 
che occorre continuare ad assumere 
finché non si trovano le persone 
adatte, e l’impresa si carica di per¬ 
sonale inutile nel tentativo di assu¬ 
mere lo stretto necessario. Il feno¬ 
meno è tipico dei lavori non manua¬ 
li (cioè delle cosiddette "nuove clas¬ 
si medie”) ed è agravato, ancora 
una volta, dallo sfacelo della scuo¬ 
la secondaria superiore e dell’uni¬ 
versità. Anche per l’impresa priva¬ 
ta, poi, sono possibili molte forme 
di condizionamento pubblico; non 
è raro che, per ottenere un po’ di 
credito agevolato, sia necessario as¬ 
sumere qualche impiegato inutile, e 
comunque inutilizzabile. Infine, la 
strenua difesa sindacale del posto 
di lavoro là dove si trova, impeden¬ 
do il trasferimento a nuovi compiti 
di lavoratori divenuti inutili nella 
vecchia funzione per mutamenti tec¬ 
nologici o nella domanda di merca¬ 
to, fa sì che lo sviluppo stesso 
del sistema economico crei continua- 
mente nuove sacche di lavoro im¬ 
produttivo. 

È inutile nascondersi che, per 
quanto individualmente benefiche, 
queste forme di occupazione assisti¬ 
ta rappresentano uno spreco di ri¬ 
sorse destinabili allo sviluppo con 
conseguenze negative nel lungo pe¬ 
riodo per quanto riguarda lo stesso 
problema della disoccupazione. In 
una crisi come l’attuale, noi consta¬ 
tiamo che la scarsa competitività del 
sistema economico italiano, con tut¬ 
ti i problemi connessi di deficit 
commerciale e di necessità di frena¬ 
re lo sviluppo per evitare deficit 
maggiori, dipende dall’inefficienza 
generale del sistema, cioè dalla dif¬ 
fusione ormai assunta dal fenome¬ 
no del lavoro improduttivo, molto 


più che da carenze tecnologiche spe¬ 
cifiche delle industrie che produ¬ 
cono per l’esportazione. 

Queste riflessioni sono presenti a 
tutti noi quando, come accade in 
questi giorni (e come è ripetutamen¬ 
te accaduto negli ultimi tempi) ci 
troviamo ad affrontare alcuni bub¬ 
boni esemplari, come l’Egam. Ma 
dobbiamo constatare che di fronte 
al problema concreto, specie se di 
notevoli dimensioni, entra in moto 
un meccanismo garantistico: con un 
po’ di schizofrenia, le stesse persone 
che disquisiscono sugli sprechi del 
sistema si rifiutano di riconoscere 
che tagliare i rami secchi vuol dire 
eliminare un certo numero di sus¬ 
sidi di disoccupazione mascherati da 
salari e stipendi. 

D’altra parte è vero che difen¬ 
dere un posto di lavoro certo, per¬ 
ché esistente, è più sicuro che ac¬ 
cettarne la soppressione in cambio 
di promessee, specie in un paese co¬ 
me l’Italia, con aree consistenti di 
miseria e sottosviluppo. È prevedi¬ 
bile perciò che i sindacati seguiran¬ 
no la vecchia strada garantistica, fin 
quando non saranno veramente cor¬ 
responsabili dell’attuazione di nuo¬ 
ve politiche di sviluppo. Ma le for¬ 
ze di 'governo oggi non sembrano 
avere coraggio sufficiente per muo¬ 
versi su questa strada: il regime 
democristiano non può decretare la 
propria fine, sacrificando le proprie 
clientele da un lato, e concedendo 
potere alle forze di sinistra dall’al¬ 
tro in cambio della loro quota di 
sacrifici. 

Il problema del lavoro improdut¬ 
tivo, perciò, difficilmente sarà af¬ 
frontato fin quando non si verifi¬ 
cherà un radicale mutamento del 
quadro politico. Fino ad allora, sa¬ 
remo continuamente chiamati a pa¬ 
gare i conti, grandi e piccoli, di chi 
pretende di tirare avanti a spese del¬ 
la società, senza contribuire in alcun 
modo al buon funzionamento del si¬ 
stema produttivo. 


Politica estera 
italiana: 
un ruolo 
«ripensato» 

di Raniero La Valle 


Il risultato elettorale del 20 
giugno assume un parti¬ 
colare significato per la po¬ 
litica estera del nostro 
Paese. Il maggiore e più 
largo coinvolgimento popo¬ 
lare nelle scelte di politica 
estera postula un maggiore 
impegno dell’Italia per i 
grandi obiettivi della disten¬ 
sione ed a sostegno di tut¬ 
te le istanze di riscatto, di 
libertà, di indipendenza 
politica ed economica che 
sono emergenti nel mondo. 

• La discussione sul bilancio del 
Ministero degli esteri, che non è so¬ 
lo discussione su una spesa, ma è 
discussione sulla politica estera fi¬ 
nanziata da tale spesa, è avvenuta, 
per la prima volta, dopo che si sono 
prodotti due fatti di grandissima im¬ 
portanza, che non possono non in¬ 
fluire profondamente sulla politica 
estera del nostro Paese. Influire nel 
senso di richiedere, nella continuità 
delle scelte fatte dall’Italia, una pro¬ 
fonda rimctivazione di tali scelte e 
perciò una rifinalizzazione di tale 
politica. 

Quali sono i fatti, a mio parere 
così decisivi? Il primo di questi 
si è prodotto nell’ordine interno del¬ 
la vira politica italiana, il secondo 
nell’ordine internazionale, ed è il 
lcro concorso che apre prospettive 
nuove e assai interessanti per la po¬ 
litica estera dell’Italia. 

Il fatto interno è il risultato elet¬ 
torale del 20 giugno scorso che as¬ 
sume particolare significato per la 
politica estera del nostro Paese che 
ha la possibilità oggi (e vorrei sotto- 
lineare « possibilità » perché non si 
creda che tutto sia già acquisito) di 
fondarsi su un consenso molto più 
ampio nel Paese di quello di cui 
ha potuto godere in passato. Questo 
dtriva da Vari fattori: deriva dal¬ 


lo 


L Astrolabio quindicinale • n. 1 - la gennaio 1977 
















l’evoluzione positiva che ha avuto 
in questi anni la linea di politica in¬ 
temazionale del movimento operaio, 
in particolare del partito comunista; 
deriva dai toni nuovi che i Governi 
a direzione democristiana hanno gra¬ 
dualmente dato alle posizioni inter¬ 
nazionali dell’Italia, superando in 
più di un caso una interpretazione 
mitica e puramente subalterna della 
Alleanza atlantica e di un europei¬ 
smo ristretto nei limiti di una pic¬ 
cola Europa capitalistica ancora trop¬ 
po tributaria di Yalta; deriva infine 
dagli sviluppi più distesi che, alme¬ 
no nei rapporti tra le grandi poten¬ 
ze, ha avuto tutta la situazione in¬ 
ternazionale. 

Che cosa ciò comporti per la ri¬ 
motivazione e rifinalizzazione della 
politica estera italiana, cercherò di 
dirlo più avanti, dopo aver accenna¬ 
to all’altro fatto importante a cui 
mi riferivo, prodottosi questo nel¬ 
l’ordine internazionale e dopo il 
quale la situazione non può più es¬ 
sere quella di prima: è la fine del¬ 
l’età di Kissinger. Parlo di età di 
Kissinger per dire che quello che 
accadrà in questi giorni in America 
non sarà il semplice avvicendamento 
di un Segretario di Stato, ma sarà 
la conclusione di un ciclo della po¬ 
litica estera americana; una politi¬ 
ca estremamente coerente nella sua 
filosofia e nelle sue attuazioni pra¬ 
tiche, che è riuscita a segnare pro¬ 
fondamente la storia del mondo in 
questi dieci anni ma che, a mio giu¬ 
dizio, ha avuto dei costi altissimi 
per l’Europa, per l’America Latina e 
per molti popoli del Terzo Mondo 
in lotta per la liberazione. 

L’età di Kissinger è stata l’età del¬ 
la restaurazione, o meglio di un 
tentativo estremamente spregiudica- 
tc\ degli Stati Uniti di restaurare un 
ordine mondiale la cui caratteristi¬ 
ca fosse di avere negli Stati Uniti 
la pietra angolare e il vertice com¬ 
paginante del sistema; un ordine nel 
quale però gli Stati Uniti esercitas¬ 


Amerita exports corruption 

lo thè entire free wnrld! 

« 



Da « Public Bicentennal Cominittee » 
Copenaghen 

sero questo ruolo non come sempli¬ 
ce potenza dominante in virtù della 
forza, secondo la vecchia formula 
dell’imperialismo delle cannoniere, 
ma come potenza legittimata e dun¬ 
que con un consenso più o meno 
esplicito e più o meno estorto delle 
altre maggiori potenze del sistema, 
a cominciare dall’Unione Sovietica. 

Nel tentativo di restaurare o di 
instaurare questo ordine, contestato 
da un lato dalla non assimilabilità in 
esso del mondo socialista, minaccia¬ 
to dall’altro dalle spinte di libera¬ 
zione provenienti dal Terzo Mon¬ 
do, Kissinger aveva in mente, come 
è noto, il modello metternichiano 
della restaurazione dell’ordine euro¬ 
peo del secolo XIX, « un ordine di 
cui bisogna stupirsi — scriveva Kis¬ 
singer nella sua veste di storiografo, 
prima di giungere ai fasti della dire¬ 
zione della politica estera america¬ 
na — non di quanto fosse reaziona¬ 
rio, secondo le ipotesi e la teoria 
della storiografia del secolo XIX, ma 
bisogna stupirsi di quanto fosse equi¬ 
librato ». 

Io credo, invece, che noi dobbia¬ 
mo continuare a stupirci di quanto 
quest’ordine, che Kissinger si è 


sforzato di trasporre nel mondo di 
questo scórcio del secolo XX, sia 
reazionario e soprattutto pericoloso 
perché strumentalizza la distensione 
a profitto di una sola delle potenze 
del sistema e rischia di accumulare 
una tale carica di repressione e di 
violenza che alla fine il pericolo 
stesso di un conflitto mondiale, esor¬ 
cizzato dalla distensione, potrebbe 
tornare ad essere incombente. 


Un ordine fondato 
sulla legittimità 

Quali sono le due caratteristiche 
qualificanti di questo ordine che si 
è cercato di instaurare in questo de¬ 
cennio? La prima è che questo or¬ 
dine deve essere fondato sulla legit¬ 
timità, non sulla giustizia; vale a 
dire che non è importante risolvere 
secondo giustizia i problemi che so¬ 
no all’origine delle crisi, ma è im¬ 
portante legittimare le crisi e le loro 
soluzioni, anche ingiuste, irretendole 
in una trama di accordi il cui con¬ 
tenuto non è l’equità, ma il consenso 
da realizzare convenzionalmente tra 
le potenze interessate o, ancor più 
spesso, tra le potenze non interessa¬ 
te. La seconda è che esso non esclu¬ 
de le guerre, ma vuole semplicemen¬ 
te che le guerre siano combattute 
in nome dell’ordine esistente per rin¬ 
saldare e non per mettere in gioco 
l’« ordine » vigente. 

Si possono fare degli esempi sia 
di questa legitttimità, sia di guerre 
combattute in nome' di tale ordine. 
Esempio di ricerca di una legittimi¬ 
tà senza vera giustizia è stato, alme¬ 
no nel modo in cui è stato condotto 
da una delle parti, il negoziato di 
Parigi per il Vietnam che non dove¬ 
va servire a risolvere i problemi, 
ma piuttosto a legittimare la divi¬ 
sione del Paese e l’illegittimo protet¬ 
torato americano nel Sud; legittima¬ 
zione che è toccato poi alle forze di 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 


11 

















politica estera italiana 


liberazione vietnamite di far saltare. 

Altro esempio di legittimazione 
dell’ingiustizia è stato la destabiliz¬ 
zazione e il successivo riconoscimen¬ 
to politico del governo golpista in 
Cile. 

Esempio di guerra combattuta in 
nome dell’ordine da conservare e 
restaurare, invece, è stata la guerra 
del Kippur, rigorosamente program¬ 
mata e controllata perché desse tutti 
e solo i risultati che doveva dare. 
Sicché, prima gli arabi sono stati in¬ 
coraggiati a combattere, poi Israele 
è stato aiutato a difendersi e infine, 
quando questa difesa stava diventan¬ 
do eccessiva perché il generale Sha- 
ron stava arrivando al Cairo e ciò 
avrebbe sovvertito tutto l’ordine esi¬ 
stente, il Segretario di Stato ameri¬ 
cano lo fermò per telefono, come è 
stato rivelato, se la memoria non mi 
inganna, da Morghentau, dicendo 
agli israeliani che, se non si ferma¬ 
vano, la prossima guerra se la sareb¬ 
bero fatta da soli. 

Ma molte altre cose sono rien¬ 
trate in questo disegno di restaura¬ 
zione proprio dell’età di Kissinger 
che qui, per brevità, si possono so¬ 
lo citare per campione: l’attacco al¬ 
le economie europea e giapponese 
con le misure protezionistiche ameri¬ 
cane dell’agosto 1971, la partecipa¬ 
zione americana alla manovra dei 
prezzi del petrolio risoltasi nel ren¬ 
dere competitive le industrie estrat¬ 
tive americane e le fonti alternative 
di energia, il colpo di stato a Cipro, 
la dottrina Sonnenfeldt che venne 
proclamata a Londra e così via. 


La pesante eredità 
di Kissinger 

A me sembra che questa restau¬ 
razione, questo ordine, mentre ten¬ 
dono ad assicurare una certa stabili¬ 
tà del quadro generale mondiale, e 
perciò contemplano rapporti più tol¬ 


leranti, più distesi con le altre gran¬ 
di potenze mondiali, in particolare 
l’Unione Sovietica e la Cina, sono 
però fonte di grande disordine nelle 
politiche regionali e comportano la 
compressione e spesso la repressio¬ 
ne delle istanze di liberazione, di 
autonomia politica, di sviluppo eco¬ 
nomico di gran parte dei popoli del 
mondo. Ora non credo, e non mi 
illudo, che l’avvicendamento, l’usci¬ 
ta di Kissinger dalla scena, significhi 
un cambiamento, una riqualificazio¬ 
ne profonda della politica estera a- 
mericana. C’è il rischio che l’età di 
Kissinger sopravviva a Kissinger, an¬ 
che perché egli non è venuto fuori 
per caso, ma ha interpretato degli 
interessi e delle esigenze strutturali 
della potenza imperiale americana. 
Perché si possa avere una politica 
estera veramente diversa non do¬ 
vrebbe cambiare solo un Segretario 
di Stato, dovrebbe un po’ cambia¬ 
re l’America. Tuttavia credo che il 
dopo Kissinger comporterà comun¬ 
que delle revisioni significative, an¬ 
che perché in definitiva il bilancio 
di questa gestione è stato assai in¬ 
feriore alle sue promesse. In ogni 
caso è molto difficile che la nuova 
amministrazione americana possa se¬ 
guire, con la stessa pervicacia, con 
la stessa sicurezza anche intellettua¬ 
le e presunzione di forza, questa via 
che è stata propria dell’amministra¬ 
zione precedente. 

Del resto, le prime notizie che 
vengono dall’ambiente di Carter 
sembrano preconizzare un parziale 
cambiamento di prospettiva della po¬ 
litica estera americana che non sa¬ 
rebbe più rigidamente polarizzata 
sul bipolarismo russo-americano, ma 
risulterebbe da una maggiore inte¬ 
grazione dei rapporti Est-Ovest con 
i rapporti Nord-Sud, con una mag¬ 
giore attenzione ad altri centri emer¬ 
genti di potere mondiale, come la 
Cina in Asia e il Brasile e il Giap¬ 
pone nell’area occidentale; ciò che 
peraltro renderebbe ancor più mar¬ 


ginale l’Europa e avrebbe sempre, 
beninteso, l’obiettivo di armonizzare 
in modo stabile un certo controllo 
mondiale, con gli Stati Uniti in fun¬ 
zione dominante. 


Una scelta a favore 
delle lotte di liberazione 

In che modo allora la politica este¬ 
ra italiana dovrebbe aggiornarsi, te¬ 
nendo conto dei nuovi fattori insor¬ 
ti nella situazione interna italiana e 
nella situazione internazionale. Biso¬ 
gna chiedersi, innanzi tutto, in che 
modo può giocare l’apporto che alla 
politica estera italiana viene dal nuo¬ 
vo rapporto tra le forze politiche 
italiane, e in particolare dalla nuova 
posizione del partito comunista e 
dalle corresponsabilità che esso vie¬ 
ne assumendo nell’indirizzo generale 
della politica del Paese. Pongo que¬ 
sta domanda, perché credo che le 
virtualità della situazione attuale, 
per quanto essa sia anomala per la 
mancanza di una vera maggioranza 
in Parlamento, dovrebbero essere 
pienamente apprezzate e sviluppate. 
Non so cosa il futuro ci riserva dopo 
questa fase del Governo delle asten¬ 
sioni, non so se si andrà avanti o se 
si regredirà a forme di contrapposi¬ 
zione e di scontro, una cosa però mi 
pare che si possa dire e cioè che, no¬ 
nostante l’Italia attraversi uno dei 
momenti più difficili e dolorosi del¬ 
la sua storia economica, è questo 
anche uno dei momenti più ricchi e 
più fecondi della sua storia politica. 

Non è vero che l’incontro tra i 
due maggiori partiti stia producendo 
un’eclissi della politica e una sorta 
di stallo del dibattito politico, anzi 
mi pare che proprio lo scongelarsi 
dei ruoli rigidamente e quasi ritual¬ 
mente definiti di maggioranza e op¬ 
posizione stia restituendo alla poli¬ 
tica una dinamica nuova e permetta 
un approccio molto più realistico ai 


12 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 



















k> 


r 


problemi concreti, con molto minore 
nominalismo e con molta maggiore 
evidenza della ricerca del bene comu¬ 
ne essendo questo il solo criterio ca¬ 
pace di orientare le scelte dei parti¬ 
ti quando vengano meno le pregiu¬ 
diziali preconfezionate e assolute. 
Questo consente di fare una poli¬ 
tica più moderna, più relativa se vo¬ 
gliamo, più aderente ai problemi, più 
aderente alle situazioni reali, piy 
preoccupata di guadagnarsi momento 
per momento il consenso del Paese. 

Perciò, contro le apparenze a me 
pare che questo sia un momento in 
cui si possono fare grandi cose. E 
dunque si possono fare grandi cose 
anche in politica estera. 

Che cosa porta di suo il nuovo 
consenso che alla politica estera del 
Paese può venire dall’apporto del 
movimento operaio ed, in particola¬ 
re, del Partito comunista? Non si 
tratta di fare una sintesi o un com¬ 
promesso tra l’occidentalismo della 
Democrazia Cristiana e l’internazio¬ 
nalismo proletario del Partito Comu¬ 
nista. Né, mi pare, che il Partito 
Comunista proponga un rapporto 
privilegiato con il mondo socialista. 
Mi pare, piuttosto, che un maggiore 
e più largo coinvolgimento popolare 
nelle scelte di politica estera del Pae¬ 
se postuli un maggiore impegno 
dell’Italia non solo per i grandi 
obiettivi della distensione, del disar¬ 
mo, della pace ma anche — in que¬ 
sto quadro — un maggiore impe¬ 
gno dell’Italia a sostegno di tutte le 
istanze di riscatto, di libertà, di in¬ 
dipendenza politica ed economica 
che sono emergenti nel mondo; un 
rapporto più solidale e fraterno con 
i popoli più sofferenti, più espro¬ 
priati, una scelta a favore delle lot¬ 
te di liberazione ovunque in atto, 
siano esse nazionali, borghesi o pro¬ 
letarie. 

La linea della politica estera ita¬ 
liana, nella continuità delle allean¬ 
ze e delle scelte di fondo, deve ten¬ 
dere ad un rovesciamento dei postu¬ 


lati in atto: non la legittimità come 
surrogato della giustizia, ma la ri¬ 
cerca della giustitzia come fonte, di 
una nuova legittimità; non le guer¬ 
re ammesse purché combattute in 
nome dell’ordine esistente, ma il 
superamento di un ordine che può 
essere difeso solo con il deterrente, 
con la repressione e con la forza, 
per fare della pace un bene che sia 
veramente interesse di tutti difen¬ 
dere. 

Che questa sia la domanda del 
Paese non vi è dubbio. Se noi pen¬ 
siamo quali sono state in questi ul¬ 
timi anni le occasioni internazionali 
che hanno provocato le maggiori 
emozioni e la maggiore mobilitazio¬ 
ne popolare in Italia ne troviamo 
tre: il Vietnam, il Cile (con tutto 
il problema connesso della tortura 
nell’America Latina documentato 
dalle sessioni del Tribunale Russell), 
i palestinesi dopo la strage di Tali 
el Zaatar. Tre cause di libertà, tre 
spinte alla solidarietà con popoli op¬ 
pressi Ma di fronte a queste tre 
cause non sempre il Governo italia¬ 
no ha assunto lo stesso atteggiamen¬ 
to. 

Noi crediamo invece che con mol¬ 
ta maggiore decisione e coerenza 
l’Italia debba rappresentare la por¬ 
zione dell’occidente e dell’Europa 
che si fa solidale con i popoli in 
lotta per la loro liberazione, per la 
loro autonomia, per la loro sufficien¬ 
za economica. 


Fiducia nella stabilità 
della democrazia italiana 

Su questa linea alcuni impegni 
concreti si potrebbero segnalare per 
la politica estera italiana: innanzi¬ 
tutto, poiché quello che si vuole per 
gli altri lo si deve volere anche per 
se stessi, l’impegno di difendere e 
garantire la libertà, per il nostro Pae¬ 


se, di fare le scelte di politica in¬ 
terna che esso ritiene utile e neces¬ 
sario fare, e che sono in armonia con 
la volontà popolare; non si può es¬ 
sere assenteisti di fronte ad intimi- 
dazioni come quelle uscite da Por¬ 
torico e ad interferenze minatorie 
come quelle espresse, anche nei con¬ 
fronti de! nostro Paese, dall’ammini¬ 
strazione Ford. Si tratta qui di raf¬ 
forzare la fiducia degli alleati nella 
stabilità della democrazia italiana, 
facendo loro capire che della sua 
difesa abbiamo noi piena ed intera 
responsabilità, e che solo a noi com¬ 
pete il giudizio politico sui mezzi 
migliori per rafforzarla ed esten¬ 
derla. 

In secondo luogo, se il nostro 
impegno nella Comunità europea e 
neil’Àlleanza atlantica ci avvicina ai 
Paesi dell’area più ricca e potente 
del mondo, il nostro impegno al- 
l’ONU e nei rapporti bilaterali deve 
metterci in sempre più stretto rap¬ 
porto con i Paesi dell’area più po¬ 
vera, più esposta e più debole, ma 
che possono diventare Paesi assai 
consistenti e forti nel futuro. 

In questa luce dovrebbe essere 
molto valorizzato il ruolo dell’Ita¬ 
lia alle Nazioni Unite, accentuando 
il rapporto tra Parlamento e Gover¬ 
no a questo fine, anche con un flus¬ 
so di informazioni regolari. 

Terzo punto. Sui rapporti con i 
Paesi del mondo socialista mi sof¬ 
fermo solo per confermare che do¬ 
vremmo continuare ad estendere i 
rapporti bilaterali nello spirito della 
distensione. Ma mi pare si debba di¬ 
re che verso uno di questi Paesi, il 
Vietnam, noi abbiamo dei particola¬ 
ri doveri poiché la storia di questi 
anni ci ha resi tutti debitori nei 
confronti di questo Paese. A me non 
risulta che ci siano stati genocidi nel 
Vietnam dopo l’unificazione, sappia¬ 
mo ben poco della Cambogia ma, 
certamente, l’unico genocidio di cui 
abbiamo notizia che sia avvenuto in 


L'Astrolabio quindicinale • n 1 • 14 gennaio 1977 


13 













___ N 

politica estera italiana 


Vietnam è quello che per anni — 
con l’omertà, con il silenzio di tutto 
l’Occidente — è stato perpetrato 
durante la guerra di aggressione con¬ 
tro il Vietnam. 

La progettata visita di un mem¬ 
bro del Governo italiano ad Hanoi 
dovrebbe realizzarsi senza ulteriori 
indugi, anche per attivare l’inter¬ 
scambio tra i due Paesi. 

Quarto punto. Riguarda il pro¬ 
blema medio-orientale e quello pa¬ 
lestinese che ne costituisce il vero 
nodo irrisolto. In questo campo non 
posso che appellarmi agli orienta¬ 
menti già espressi dal Governo; 
vorrei solo aggiungere che i tempi si 
vanno stringendo e che, oramai, va 
posto con estrema necessità ed ur¬ 
genza l’obiettivo della Costituzione 
di uno Stato palestinese, distinto dal 
Regno giordano, nei territori occu¬ 
pati in Cisgiordania ed a Gaza, con 
una sovranità anche nella parte - ara¬ 
ba di Gerusalemme, pur nella salva- 
guardia della unità amministrativa 
della città. 

A questa soluzione l’Italia do¬ 
vrebbe collaborare eventualmente 
studiando la possibilità di una ini¬ 
ziativa comune con la Francia, an¬ 
che essa come noi rispettosa di 
Israele, sensibile al problema pale¬ 
stinese e interessata all’instaurazio¬ 
ne della pace nell’area mediterranea. 

Quinto punto. Una iniziativa par¬ 
ticolare chiederei per l’Argentina; 
si direbbe che dopo il Brasile, dopo 
il Cile e l’Uruguay, oggi l’Argentina 
sia diventata la capitale della tor¬ 
tura. 


« Rifinalizzare la politica 
estera nel nostro paese » 

Penso che tutta la politica italia¬ 
na verso l’America Latina debba es¬ 
sere riconsiderata, assumendo come 
specifici contenuti la difesa e l’affer¬ 


mazione dei diritti dell’uomo, alme¬ 
no nella stessa misura in cui ven¬ 
gono assunti i contenuti degli inte¬ 
ressi economici. 

Sulla Comunità Europea ci sareb¬ 
be da dire come tutta l’Europa dei 
Nove, che proprio dalla concezione 
kissingeriana è stata ridotta ad un 
ruolo puramente regionale, con il 
rischio di omologarsi alla condizione 
subalterna dell’America Latina, do¬ 
vrebbe riprendere l’iniziativa per co¬ 
gliere l’opportunità insita nel trapas¬ 
so dall’una all’altra amministrazione 
americana. 

Dunque è questo il tempo pro¬ 
pizio per rimotivare e rifinalizzare 
la politica estera nel nostro Paese, 
pur nella continuità che ogni politica 
estera seria deve avere. Con l’avver¬ 
tenza che se noi non . dobbiamo pre¬ 
sumere nulla dal nostro ruolo sulla 
scena internazionale, ruolo che non 
è sostenuto né dalla potenza, né dal¬ 
le armi, né da una economia più che 
mai fragile, inclusi come siamo in 
un’Europa incerta della sua identità, 
sempre più spinta verso posizioni 
periferiche, non ci è lecita però nes¬ 
suna forma di rinunciatarismo o com¬ 
plesso di inferiorità, rispetto a quel¬ 
lo che pure possiamo fare. Il mon¬ 
do ha bisogno di tutti, la storia è 
ricca di sorprese, e non è mai scritto 
prima l’entità, il valore o il signifi¬ 
cato di ciò che ciascuno può dare 
per la costruzione comune. A volte 
in piccoli laboratori si producono 
reazioni e sintesi che assumono poi 
grande importanza per tutti. In Ita¬ 
lia sono oggi in confronto grandi 
tradizioni culturali, spirituali e po¬ 
litiche, che a diverso titolo apparten¬ 
gono, con piena cittadinanza, al pa¬ 
trimonio di civiltà di un mondo 
che faticosamnete cerca la sua stra¬ 
da. Possiamo augurarci, senza al¬ 
cuna presunzione, che da questo la¬ 
boratorio ci possa venire qualche 
utile contributo alla pace e alla giu¬ 
stizia tra le nazioni e nelle nazioni. 

R. L. V. 


forze armate nato- 

patto di Varsavia 

Le bugie dalle 
gambe lunghe 

di Nino Pasti 


• Durante questo periodo i « fal¬ 
chi » americani e NATO sfoderano 
i temi più irrazionali della loro 
propaganda, nell’intento di ottenere 
il massimo possibile nei bilanci di¬ 
fesa. Quest’anno in particolare, la 
propaganda NATO non conosce più 
limiti in quanto la nuova ammini¬ 
strazione americana sembra inten¬ 
zionata a contenere le spese per la 
difesa. 

Questi appunti si propongono di 
esaminare, sulla base di valutazioni 
ufficiali americane e NATO, la rea¬ 
le consistenza delle forze armate dei 
due opposti blocchi militari. Il re¬ 
clamizzato allarme dei « falchi » oc¬ 
cidentali riguarda fondamentalmen¬ 
te 4 temi: il supposto auménto del¬ 
le divisioni sovietiche, il supposto 
aumento dei loro carri armati, il 
supposto aumento dei missili strate¬ 
gici, il supposto aumento del bilan¬ 
cio difesa. 

— Circa l’aumento delle divisioni, 
il segretario alla difesa Rumsfeld, 
durante la normale riunione di di¬ 
cembre della NATO, ha espresso una 
seria preoccupazione perché le divi¬ 
sioni sovietiche sarebbero passate 
da 141 negli anni sessanta a 168 at¬ 
tuali. Il Military Balance, la bib- 
bia dei servizi informativi occiden¬ 
tali, riporta infatti che nel 1964 
l’Unione Sovietica aveva sotto le ar¬ 
mi 2.200.000 soldati dell’esercito 
con i quali costituiva 140 divisioni, 
mentre oggi con soli 1.825.000 sol¬ 
dati dell esercito essa costituirebbe 
168 divisioni. Nessuno ha ancora 
spiegato per quale miracolo con una 
diminuzione di 375.000 soldati del¬ 
l’esercito l’Unione Sovietica sia riu¬ 
scita a costituire 28 divisioni in più. 
Ma i miracoli non finiscono qui, an¬ 
zi, sono appena cominciati. Gli Sta¬ 
ti Uniti con 782.000 soldati del¬ 
l’esercito non riescono a costituire 
16 divisioni e debbono ricorrere a 
completamenti dalla riserva. Con 


14 


L’Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 
























1.825.000 soldati dell’esercito, i so¬ 
vietici potrebbero quindi costituire 
soltanto 37-38 divisioni «tipo USA» 
cioè comparabili come capacità com¬ 
battiva a quelle americane e non 
168. Oppure, se l’Unione Sovietica 
volesse costituire 168 divisioni « ti¬ 
po USA » dovrebbe avere sotto le 
armi 8.211.000 soldati dell’esercito 
e non 1.825.000. Questi dati dimo¬ 
strano in maniera inconfutabile che 
o non esistono le 168 divisioni so¬ 
vietiche oppure che la divisione so¬ 
vietica non ha assolutamente nulla 
in comune con la divisione america¬ 
na o NATO in generale. Un con¬ 
fronto di forze basato sul supposto 
numero di divisioni non ha quindi 
alcun senso. Più significativo è il 
confronto basato sul numero dei sol¬ 
dati, parametro questo scelto dalla 
NATÒ per la riduzione delle forze 
in Centro Europa. Per questo con¬ 
fronto bisogna intanto cominciare a 
tener conto che secondo quanto pre¬ 
cisato dall’allora segretario alla di¬ 
fesa Schlesinger, metà esatta delle 
forze sovietiche sono schierate in 
Asia dove 912.500 soldati dell’eser¬ 
cito e 6-7.000 carri sovietici fron¬ 
teggiano più di 3 milioni di soldati 
dell’esercito cinese con 8.000 carri 
armati. In caso di conflitto la posi¬ 
zione dell’Unione Sovietica sarebbe 
insostenibile in Asia. 

In Europa, ad ovest degli Urali, 
tutte le forze dell’esercito del Patto 
di Varsavia, comprese tutte quelle 
sovietiche, ammontano a 1.712.000 
soldati, mentre quelle della NATO 
ammontano a 2.125.000. 

Come l’Unione Sovietica con 
412.500 soldati dell’esercito in me¬ 
no rispetto alla NATO possa avere 
intenzioni e capacità offensive è 
un altro mistero che non è ancora 
stato spiegato. Circa i soldati sovie¬ 
tici va notato infine che il tenta¬ 
tivo fatto lo scorso anno da parte 
del Pentagono di gonfiare il loro 
numero di 600.000 unità è stato 
contestato dai rappresentanti del 


Congresso c anche la DIA (servizio 
informazione difesa) ha confermato 
che molti dei supposti soldati so¬ 
vietici effettuano compiti che sono 
affidati a civili negli Stati Uniti. Il 
confronto presentato dal Pentagono 
era quindi inaccettabile perché fatto 
fra dati non omogenei. 


— Circa i carri armati, i 41.500 
attribuiti all’Unione Sovietica rap¬ 
presentano una media di 247 carri 
per ciascuna delle supposte 168 di¬ 
visioni. I 247 carri costituiscono la 
media dei carri di una divisione tipo 
USA ad organici completi. Per quan¬ 
to più sopra dimostrato, le divisio¬ 
ni sovietiche non hanno nulla a 
che vedere con le divisioni tipo 
USA e sono lontanissime dal¬ 
l’essere ad organici completi. Ma 
per i carri armati si è verificato un 
altro interessante e non spiegato mi¬ 
racolo. Il Military Balance 1973-74 
valuta le forze dell’esercito sovieti¬ 
co a 164 divisioni: 50 divisioni car¬ 
ri con un organico di 9.000 solda¬ 
ti e 316 carri e 107 divisioni mec¬ 
canizzate con un organico di 10.750 
soldati e 188 carri (altre 7 divisioni 
aeroportate non entrano nel conteg¬ 
gio dei carri). Con queste valutazio¬ 
ni il massimo numero di carri ac- 
creditabile all’Unione Sovietica sa¬ 
rebbe stato 35.915 sempre nell’ipo¬ 
tesi assolutamente irrealistica che 
esistessero le 164 divisioni a pie¬ 
no organico di carri. I 35.915 car¬ 
ri non sono sembrati sufficienti ai 
« falchi » NATO e quindi con suc¬ 
cessivi aumenti le divisioni sono 
state portate a 168 — 111 mecca¬ 
nizzate invece di 107 — e gli or¬ 
ganici dei carri delle divisioni mec¬ 
canizzate aumentato da 188 a 266. 
Il numero dei carri potrà quindi 
tranquillamente salire nelle prossime 
valutazioni propagandistiche fino a 
45.325. Ma questo è soltanto un 
piccolo miracolo, il miracolo più 
grande è un altro. Perché l’impiego 
dei carri sia credibile, occorre che 


la proporzione soldati-carri non 
scenda sotto un certo minimo. Una 
divisione carri sovietica con 9.000 
soldati e 316 carri, figurava molto 
male nei confronti di una analoga 
divisione americana che con 324 car¬ 
ri ha ben 16.500 soldati; anche la 
divisione meccanizzata con 10.750 
soldati e 266 carri non poteva reg¬ 
gere il confronto con l’analoga di¬ 
visione americana che con 216 car¬ 
ri ha ben 16.000 soldati. Per ren¬ 
dere quindi credibile l’aumento dei 
carri è stato anche aumentato l’or¬ 
ganico dei soldati che sono passati 
da 9.000 a 11.000 e da 10.750 a 14 
..mila per le divisioni meccanizzate. 
Per l’aumento di questi organici di 
personale l’Unione Sovietica avrebbe 
dovuto aumentare di 516.000 unità 
le sue forze dell’esercito senza con 
questo sanare minimamente la spro¬ 
porzione soldati-divisioni più sopra 
ricordata. Ebbene, il miracolo è che 
mentre nel 1973-74 il totale dei 
soldati dell’esercito sovietico era 
2.050.000, oggi con divisioni più 
grandi, più numerose e con più car¬ 
ri il totale dei soldati è sceso di 
225.000 unità per un totale di 1 
milione 825.000 soldati. Soltanto 
con il miracolo dei pani e dei pesci 
si potrebbero giustificare queste va¬ 
lutazioni. Realisticamente l’Unione 
Sovietica potrebbe oggi schierare ir 
caso di conflitto 10-15.000 carri la 
metà dei quali si trova in Asia in 
condizione di grave inferiorità nei 
confronti dei cinesi. 

— Circa i missili strategici, uno 
studio pubblicato negli atti del Se¬ 
nato americano precisa che dal 1945 
al 1974 gli Stati Uniti hanno di 
smesso, perché sostituiti con mezzi 
tecnicamente più progrediti, 2.541 
mezzi vettori nucleari strategici; nel¬ 
lo stesso tempo l’Unione Sovietica 
ne ha dismesso e sostituito soltanto 
26. Il ritmo di ammodernamento 
americano è stato cento volte più 
rapido di quello sovietico. 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 • 14 gennaio 1977 


15 















forze armate nato- 

patto di Varsavia 


MEZZI VETTORI NUCLEARI STRATE¬ 
GICI SOSTITUITI 1945-1974: 


Missili strategici ter- 

USA 

URSS 

restri (ICBM) 

1210 

11 

Missili da sommergibili 
(SLBM) 

544 

0 

Aerei da bombardamento 

787 

15 

Totale 

2541 

26 


Soltanto recentemente l’Unione 
Sovietica cerca di colmare la diffe¬ 
renza qualitativa dei suoi missili ri¬ 
spetto a quelli americani che da 8 
anni montano testate multiple 
(MIRV) sia su missili terrestri che 
su quelli lanciati da sommergibili. 
I nuovi missili sovietici costituisco¬ 
no quindi una tardiva, lenta e mo¬ 
derata risposta alla corsa tecnologi¬ 
ca americana. La maggiore capacità 
di carico nucleare dei missili sovie¬ 
tici è stata molto reclamizzata da 
Schlesinger lo scorso anno quale 
indice dell’intenzione sovietica di es¬ 
sere in condizione di distruggere i 
missili americani con una azione pre¬ 
ventiva e quindi di acquisire una 
superiorità nucleare. Questa teoria 
non regge ad un esame tecnico per¬ 
ché’ l’effetto negativo di un errore 
rispetto al bersaglio è molto supe¬ 
riore all’effetto positivo dovuto al- 
1 aumento della potenza esplosiva. 
Schlesinger, nel luglio del 1975, 
pressato dai giornalisti, è stato co¬ 
stretto ad ammettere che i missili 
sovietici hanno un errore almeno 
doppio di quello dei missili ameri¬ 
cani. In definitiva, con un conteg¬ 
gio esatto, le capacità anti-missile 
dei missili più piccoli ma molto più 
precisi americani è notevolmente su¬ 
periore a quella dei missili più gros¬ 
si ma meno precisi sovietici. Comun¬ 
que 1 Unione Sovietica si è sempre 
attenuta strettamente agli accordi 
SALI e gli Stati Uniti potrebbero a 
loro volta fare missili analoghi a 
quelli sovietici. Non li fanno sol¬ 
tanto perche li giudicano, inutili. 


16 


Un cenno particolare merita 
l’SS 20 a raggio europeo. Se e quan¬ 
do verrà schierato, sostituirà gli ana¬ 
loghi SS 4 e SS5 che furono schie¬ 
rati nel 1959 e 1961. Inizialmente 
gli SS 4 e SS 5 erano 700, vennero 
ridotti a 600 molti dei quali sono 
stati poi schierati in Asia. Si tratta 
anche in questo caso di un tardivo, 
lento e moderato aggiornamento che 
non compensa certamente lo squili¬ 
brio fra le 3-4.000 testate nucleari 
chiamate tattiche schierate nell’Unio¬ 
ne Sovietica e le 7.000 e più te¬ 
state nucleari chiamate tattiche che 
la NATO ha schierato in Europa, 
che minaccia di voler impiegare per 
prima e con le quali potrebbe di¬ 
struggere completamente tutti gli al¬ 
leati dell’Unione Sovietica. 

— Circa i bilanci difesa sovietici 
una pubblicazione ufficiale america¬ 
na dell’Agenzia del Controllo degli 
Armamenti e del Disarmo spiega il 
meccanismo della trasformazione da 
rubli in dollari. L’esempio si riferi¬ 
sce al 1972 quando il bilancio sovie¬ 
tico era di 17,9 miliardi di rubli. 
Per il personale la valutazione viene 
calcolata secondo i corrispondenti 
stipendi dei militari americani. E’ 
evidente che con questo metodo si 
introducono grossolani errori. Basti 
pensare che ogni aumento delle re¬ 
tribuzioni del personale americano 
determina un corrispondente aumen¬ 
to della valutazione del bilancio so¬ 
vietico senza che in realtà sia stato 
stanziato neppure un rublo in più. 
Per ciò che riguarda tutte le altre 
spese che non riguardano il perso¬ 
nale, il cambio rublo-dollaro è mol¬ 
to più alto di quello computato per 
valutare il prodotto nazionale, nel¬ 
l’ipotesi non provata che il prezzo 
dei materiali e servizi destinati alla 
difesa sia un prezzo politico man¬ 
tenuto basso per diminuire il bilan¬ 
cio della difesa. In conclusione, se¬ 
condo l’agenzia citata i 17,9 miliar¬ 
di di rubli corrisponderebbero a 81 
miliardi di dollari con un conse¬ 


guente tasso di cambio di 4,5 dol¬ 
lari per rublo, tasso che non sem¬ 
bra molto realistico. D’altra parte 
il sistema è stato anche criticato 
negli Stati Uniti e perfino i direttori 
della CIA e della DIA lo hanno 
definito « misleading » (che induce 
in errore). Il semplice buon senso 
suggerisce che il costo del personale 
sovietico è molto inferiore al costo 
del personale americano e anche il 
cesto dei materiali, sia nucleari che 
ccnvenzionali, è certamente inferio¬ 
re a quello americano sia per il mol¬ 
to piu lento ritmo di rinnovo che 
per la generale minor sofisticazione. 
Il bilancio difesa sovietico quindi è 
certamente inferiore a quello ame¬ 
ricano. 

— In conclusione si può sicura 
mente affermare che le forze armate 
sovietiche costituiscono soltanto una 
tardiva, lenta, moderata reazione di¬ 
fensiva nei confronti delle forze ar¬ 
mate NATO notevolmente più for¬ 
ti e in continuo aumento. Attribui¬ 
re intenzioni aggressive ai sovietici 
nell attuale situazione è irrealistico 
cerne è irrealistico ritenere che vo¬ 
gliano capovolgere la loro attuale 
inferiorità militare in Europa e in 
Asia. 

Gli americani hanno certamente 
ragioni molto serie per forzare la 
verità e propagandare il timore del¬ 
le « orde sovietiche ». Il complesso 
militare-industriale, già denunciato 
da Eisenhower, ha avuto uno svi¬ 
luppo continuo preoccupante. Gli 
Stati Uniti coprono il 46 per cen¬ 
to delle vendite mondiali di arma¬ 
menti contro il 30 per cento del-, 
l’Unione Sovietica e il 16 per cen¬ 
to della Francia. In America esisto¬ 
no 1.033 industrie belliche regolar¬ 
mente registrate che fanno lavora¬ 
re altri 10 mila contraenti minori. 
Le 221 industrie maggiori hanno fa¬ 
cile accesso al Pentagono in quan¬ 
to oltre 1000 ex dipendenti del Pen¬ 
tagono lavorano in queste industrie. 
Nel solo settore aeronautico il 42,5 


l'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 





























Enti locali 

ed intermediazione 

bancaria 

di Antonio Santamaura 




per cento della produzione totale è 
venduto all’estero e dà lavoro a oltre 
un milione di persone. La NATO 
sembra essere un mercato facile ed 
interessante con gli aerei F 16 ven¬ 
duti alla Norvegia, Danimarca, Bel¬ 
gio e Olanda, con gli F 104 venduti 
in gran numero all’Italia, con i 
C 130 Hercules. Questo può anche 
spiegare le forti pressioni per l’ac¬ 
quisto da parte della NATO di aerei 
AWACS per il controllo del campo 
di battaglia che dal punto di vista 
operativo, tecnico e del costo de¬ 
stano molte serie perplessità. Un 
membro del Congresso ha osserva¬ 
to: « Quando si discutono le asse¬ 
gnazioni del bilancio della difesa, il 
discorso non verte sulle relazioni fra 
armi e difesa, ma sui posti di la¬ 
voro e su ciò che il programma si¬ 
gnifica per i vari rappresentami al 
Congresso ». Proprio come in Ita¬ 
lia dove le richieste di assegnazioni 
per i materiali delle forze armate 
non hanno mai avuto nessuna giu¬ 
stificazione operativa. Lo scandalo 
Lockheed ha dimostrato in maniera 
evidente che i ministri della difesa 
hanno sempre accettato tutte le ri¬ 
chieste militari più discutibili senza 
esercitare nessun controllo sulla com¬ 
patibilità della richiesta con il com¬ 
pito difensivo voluto dalla Costitu¬ 
zione. 

Per ritornare agli Stati Uniti, es¬ 
si non possono giustificare un riar¬ 
mo americano e NATO ad un ritmo 
così intenso senza inventare una 
inesistente minaccia sovietica. La lo¬ 
ro propaganda è quindi comprensi¬ 
bile anche se certamente non giu¬ 
stificabile. Non mi sembra invece 
comprensibile, né meno che mai giu¬ 
stificabile che il Ministro degli este¬ 
ri italiano si associ ai « falchi » 
americani e NATO per diffondere 
temi da guerra fredda assolutamen¬ 
te irrealistici che ostacolano il pro¬ 
cesso distensivo est-ovest voluto dal 
popolo italiano e, ufficialmente al¬ 
meno, anche dalla NATO. 

N. P. 


Pubblichiamo volentieri una pri¬ 
ma bozza di un lavoro scientifico 
che il prof. Antonio Santamaura, in 
attività presso la facoltà di Econo¬ 
mia e Commercio dell’Università di 
Palermo, sta cpnducendo sul tema 
generale dei rapporti tra Enti loca¬ 
li e sistema bancario. L'argomento 
ci pare di rilevante interesse ed at¬ 
tualità e il grado di elaborazione 
dei dati assai rilevante. 

• È interessante, nell’intento di 
esprimere un giudizio sulla liceità 
dei cosiddetti « super-profitti delle 
banche », stimare il costo sociale del¬ 
la loro intermediazione finanziaria 
nei confronti del settore della Pub¬ 
blica Amministrazione. Ciò non solo 
per l’evidente distorsione causata 
dalla loro azione, quanto per il fatto 
che l’attuale impostazione del siste¬ 
ma costituisce un elemento non in¬ 
differente dello schema secondo il 


quale va rafforzandosi la dipendenza 
finanziaria della « mano pubblica » 
dal capitale internazionale, nonché 
un anello della cinghia di trasmissio¬ 
ne di impulsi inflazionistici troppo 
spesso addebitati ufficialmente e 
semplicisticamente all’espansione 
della spesa pubblica corrente. 

L’intermediazione finanziaria del¬ 
le banche con il gruppo « Enti Pub¬ 
blici e Assimilati », per il modo col 
quale si realizza, provoca anche una 
certa distorsione nella condotta di 
gestione di quelle istituzioni. Si trat 
ta, in genere, di Enti le cui « entra¬ 
te » corrispondono a « spese » gra¬ 
vanti sulle Pubbliche Finanze. La 
cronica situazione di disavanzo in 
cui buona parte di essi è costretta 
ad operare (segnatamente gli Enti 
locali) ha reso sempre più freneti¬ 
ca, per i loro amministratori, la ne¬ 
cessità di procurarsi i mezzi, per 


TAV. 1 

/ AZIENDE DI 

CREDITO ED ISTITUTI DI CATEGORIA 

Dati di 

fine anno 

(In miliardi) 

(Fonte Moli. B-1) 

Anno 

% Rapp. 
Liq./dep. 

(D 

Impieghi sull'Interno 

Enti Pubblici e Assimilati 

Depositi di Enti 
Pubblici e Assimilati 

1961 

6.3 

1061.1 

893,4 

1962 

7,9 

1205,1 

1030,3 

1963 

4,9 

1349,8 

1276,1 

1964 

6.0 

1625,6 

1365,4 

1965 

5.4 

1869.8 

1548,5 

1966 

5,1 

2158.8 

1749,5 

1967 

4.3 

2685,5 

2048,9 

1968 

4.6 

3093,5 

2522,7 

1969 

3.2 

3549,4 

2693,0 

1870 

3.7 

4284.8 

3244,1 

1971 

3.9 

5296,0 

4210,4 

1972 

3,1 

6799,7 

4643,3 

1973 

2.76 

8508.0 

5789,6 

1974 

3,06 

6139,5 

5523,8 

1975 

3.56 

7874,9 

6391,6 

31/3/76 

+ 2.03 

8037,3 

7380,0 

Ine. % 
Medio 

(61/75) 

+ 14,45 

-1- 15.11 

Ine. % 
Medio 

(68/76) 

+ 14.28 

+ 14.20 


(1) Tendenza 61/75: — 0,287. 


L'Astrolabio quindicinale n i - 14 gennaio 1977 


17 






















enti locali 

e intermediazione bancaria 


TAV. 2 / CALCOLO DELLE « SCOPERTURE MEDIE » E DELLE « GIACENZE MEDIE » DI « ENTI PUBBLICI E ASSIMILATI ■ 
RELATIVE Al RAPPORTI DI IMPIEGO E DEPOSITO PRESSO AZIENDE DI CREDITO ED ISTITUTI DI CATEGORIA (IN 
MILIARDI) COME DA TAV. 1. 


Anno 

Tasso annuale 
effettivo medio 

Impieghi al 
31-12 

Scopertura 

media 

Interessi 

effettivi 

* Depositi al 31-12 
Giacenza media * * 

1961 

7.7135866 

1065,1 

985,1 

2.5 

• 893,4 

*• 871,6 

1962 

» 

1205,1 

1118,8 

» 

1030,3 

1005,1 

1963 

1 

1394,8 

1284,9 

I 

1276,1 

1244,9 

1964 

1 

1689,6 

1509,1 

» 

1365,4 

1332,0 

1965 

» 

1869,8 

1735,8 

» 

1548,5 

1510,7 

1966 

1 

2058,8 

2004,2 

1 

1749,5 

1706,8 

1967 

1 

2685,5 

2493,1 

» 

2048,9 

1998,9 

1968 

» 

3093,5 

2871.9 

» 

2522,7 

2461.1 

1969 

8,243216 

3549,4 

3279,0 

» 

2683,0 

2627,3 

1970 

9,9106007 

4234,8 

3898,4 

3,75 

3244,1 

3126,3 

1971 

9,8785473 

5296,0 

4819,8 

4.5 

4210,4 

4029,0 

1972 

8.6495962 

6799,7 

6258,3 

4.5 

4643,3 

4443,3 

1973 

9,1071914 

8508,0 

7797.8 

5,73 

6789,6 

5475,8 

1974 

15,5359594 

6139,5 

5313,9 

8,60 

5523,8 

5086.3 

1975 

16,5110827 

7874,9 

6758,9 

7,98 

6391,6 

5919,2 

1976 (1 Ir.) 

3,1875 

8037,3 

7789,0 

1,995 

7380,0 

7235,6 


la gestione corrente, ricorrendo al 
credito a breve acquisito a « costi » 
molto più elevati rispetto a quelli 
imposti dalle banche alla clientela 
di riguardo (« prime rate »); molti 
altri Enti, coinvolti nel gioco priva¬ 
to-acquisitivo, fruendo di disponi¬ 
bilità di cassa eccedenti il fabbisogno 
della gestione corrente ( 1 ), hanno 
scelto la apparente favorevole posi¬ 
zione del « risparmiatore » ritenen¬ 
do di assolvere a certi imprecisati 
loro compiti istituzionali, attraverso 
la contrattazione di elevati rendi¬ 
menti per i loro depositi (per non 
parlare delle « deviazioni », ogget¬ 
to dell’attenzione della magistratura 
ordinaria o contabile, che spesso li 
hanno portati ad intrattenere col 
sistema creditizio, e perfino con una 
stessa azienda di credito, « deposi¬ 
ti » ed aperture di credito, incuranti 
dello « scarto » fra tassi attivi e 
passivi). 


( 1 ) Viene costantemente disapplicata 
la « norma » del deposito di tali ec¬ 
cedenze presso la Banca d'Italia. 


L’effetto moltiplicatore sui disa¬ 
vanzi degli Enti, prodotto dall’inter- 
vento « a cascata » del settore cre¬ 
ditizio sui rapporti finanziari che 
collegano i bilanci degli stessi, può 
essere stimato a data corrente pru¬ 
denzialmente nell’ordine di 1.000 
miliardi annui. Si attua, cioè, ogni 
anno, un « trasferimento » di reddi¬ 
to dalla collettività al settore cre¬ 
ditizio, pari mediamente al 70% 
dei mezzi finanziari « netti » da 
questo approntati per lo svolgimen¬ 
to del ruolo di intermediazione. 

La Tav. 1 mostra come dal 1961 
al 1975 i mezzi finanziari « lordi », 
forniti sotto forma di « credito » 
agli Enti Pubblici e Assimilati dalle 
Aziende di Credito, siano cresciuti 
allo stesso ritmo con il quale sono 
aumentati i depositi degli Enti stessi. 

È interessante confrontare i dati 
« lordi » con le corrispondenti serie, 
depurate delle « competenze » (inte¬ 
ressi e commissioni a capitalizzazio¬ 
ne trimestrale calcolati dalle ban¬ 
che sul credito concesso agli Enti) 
e degli interessi — a capitalizzazione 


annuale — riconosciuti dalle Azien¬ 
de di Credito sulle somme deposi¬ 
tate presso di loro dagli Enti in di¬ 
scorso. 

Il calcolo, di cui si danno i ri¬ 
sultati nella Tav. 2, permette di raf¬ 
frontare ciò che tecnicamente viene 
definito « scopertura media » (ovve¬ 
ro impegno finanziario medio delle 
Aziende di Credito verso « Enti ») 
con la « giacenza media », ossia con 
la somma mediamente posta a di¬ 
sposizione del Sistema Creditizio da 
« Enti Pubblici e Assimilati ». La 
differenza fra questi due dati dà 
una stima della media annuale dello 
impiego « netto » di mezzi finanziari 
(risparmio a breve) delle Aziende di 
Credito e ad esso va rapportata la 
differenza fra « competenze » (a de¬ 
bito degli Enti) e « interessi » (a 
credito degli Enti) onde valutare l’ef¬ 
fettivo rendimento dell’azione di in¬ 
termediazione operata dalle Banche. 

È intuitivo che la stima dei valo¬ 
ri sopra indicati può risultare appros¬ 
simativa in correlazione con le « mi¬ 
sure » dei tassi attivi e passivi pre- 


18 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 * 14 gennaio 1977 


















TAV. 3 / CALCOLO DELLA DIFFERENZA FRA IMPIEGHI E DEPOSITI DI « ENTI PUBBLICI E ASSIMILATI » AL NETTO 

DI COMPETENZE E INTERESSI (1961/75 IN MILIARDI). c 1CT riT rHF «51 CONSO- 

DETERMINAZIONE DEL «TRASFERIMENTO» NETTO IN FAVORE DI AZIENDE DI CREDITO E IST. CAT. CHE SI CO 

LIDA IN MAGGIOR DISAVANZO ENTI PUBBLICI. métto ni MEZZI IN 

DETERMINAZIONE DEL « PROFITTO » DI INTERMEDI AZIO ME BANCARIA COME % SULL IMPIEGO NETTO DI MEZZI 

FAVORE DI ENTI PUBBLICI E ASSIMILATI - DATI TAV. 12 ELABORATI. 

• Questi «dati» comfermano indirettamente, la significatività dell’analisi. Infatti le ‘ P res *™ ' Ss? DD 

Creditizio in quegli anni - - -- - ■ —« •« ""*« nnnraz^m in cartlele della Cassa DD. 

PP 


■nano inoirettamenie. ia siyniiiuau vuo ..— r--—-, , .. rin 

litlzlo in quegli anni, si tradussero in provvedimenti «inusitati». Le ben note operazioni in cartlele de a • 

per il consolidamento di debiti di alcuni « Comuni » e le iperazioni di assunzione a carico del bilancio, dei debiti pre 


Anno 

Scopertura 

media 

Giacenza 

media 

Mezzi finanziari 
netti impiegati 
(a) 

Competenze e int. 
EE.PP. 

Trasferimento 

netto ad Az. Cr. 

(b) 

Rendimento 
Impiego % b/a 

1961 

885,1 

871,6 

+ 

113,5 

76,0 

21,8 

54.2 

47,75% 

1962 

1118,8 

1005,1 

+ 

113,7 

86,3 

25.2 

61,1 

53.73% 

1963 

1294,9 

1244,9 

+ 

50,0 

99,9 

31,2 

68,7 

137,40% 

1964 

1509,1 

1332,0 

+ 

177,1 

116,5 

33,4 

83,1 

46,92% 

1965 

1735,8 

1510,7 

+ 

225,1 

134,0 

38,2 

95,8 

42,55% 

1966 

2004,2 

17C6.9 

+ 

297,4 

154,6 

42,7 

111,9 

37,62% 

1967 

2493,1 

1991,9 

+ 

494,2 

192,4 

50,0 

142,4 

28,61% 

1968 

1871,9 

2461,1 

+ 

410,8 

221,6 

61,6 

160,0 

38,94% 

1969 

3279,0 

2627,3 

+ 

651,7 

270,4 

65,7 

204,7 

31,41% 

1970 

3898,4 

3126,8 

4- 

771,6 

386,4 

17,3 3 

269,1 

34,37% 

1971 

4814,8 

4029,0 

+ 

790,8 

476,2 

181,4 

294,8 

37,27% 

1972 

6258,3 

4443,3 

+ 

CO 

(Jì 

© 

• 

541,4 

200,0 

341,4 

18,80% (*) 

1973 

7797,8 

5475,8 

+ 

2322,0 C) 

710,2 

313,8 

396,4 

17,07% (*) 


5313,9 

5086,3 

+ 

223,6 

825,6 

437,5 5 

388,1 

170,51% 

1975 

6758,9 

5919,2 

+ 

893,7 

1116,0 

472,4 

643,6 

72,01% 

1976 (1 tr.) 

(7789,0) 

(7235,6) 

( + 

553,4) 

(248,3) 

(144,4) 

(103,9) 

(18,77%) 


si a base del calcolo delle « scoper¬ 
ture » e « giacenze » medie. 

Pur sapendo che i risultati finali 
sono sottostimati rispetto a quelli 
reali (le « competenze » ) e sovrasti¬ 
mati quelli che determinano l’impie¬ 
go netto di mezzi, ho preferito adot¬ 
tare «misure» dei tassi «attivi» (e 
della «commissione sul massimo sco¬ 
perto trimestrale ») corrispondenti 
a quelle indicate nei bollettini uf¬ 
ficiali della Banca d’Italia come 
« prime-rate » e « misure » dei tassi 
« passivi » corrispondenti a depositi 
di cospicuo ammontare. Tuttavia, il 
calcolo effettuato risulta abbastanza 
significativo nonché illuminante (an¬ 
che se, a rigore, si sarebbe dovuto 
tenere conto della quota di depositi 
che confluisce a « riserva »). 

Da esso risulta, ad esempio, eh? 
almeno 2333,4 miliardi del crescen¬ 
te deficit di « Enti Pubblici e Assi¬ 


milati » sono stati « generati » dal 
1970 al 1975 esclusivamente a cau¬ 
sa del servizio di intermediazione fi¬ 
nanziaria reso ad essi dalle Aziende 
di Credito (Tav. 3). 

Di fronte a tale imponente mole 
di « trasferimenti » fa spicco la 
prontezza d’intervento attuata in 
favore delle Aziende di Credito nel 
1972-73 attraverso le operazioni in 
cartelle effettuate dalla Cassa De¬ 
positi e Prestiti per il consolida¬ 
mento dei debiti bancari di alcuni 
Comuni e per l’assunzione a carico 
del bilancio dei debiti pregressi de¬ 
gli Enti Mutualistici con gli Ospeda¬ 
li. Si noterà (Tav. 3) che proprio 
nel 1972-73, l’impiego di mezzi 
« netti » delle Aziende di Credito 
era cresciuto notevolmente — oltre¬ 
passando i 2.000 miliardi — sopra 
la media del periodo e, fatto più 
significativo, che proprio allora il 


« rendimento » di questo impiego 
era calato al minimo (17,07 per 
cento) mentre (Tav. 1) il rapporto 
liquidità-depositi toccava la misura 
più bassa di quegli anni (2,76%). 

Evidentemente non può negarsi 
l’utilità del « servizio » approntato 
dal Sistema Creditizio in favore di 
Enti Pubblici e Assimilati, ma ri¬ 
tengo esagerato e quindi « illecito » 
che il « costo sociale » di questo ser¬ 
vizio venga ancorato ai criteri del 
credito ordinario. 

Il giudizio deve essere anche più 
pesante se si considera che è lo stes¬ 
so « settore » a fornire mediamente 
l’80% dei mezzi impiegati dalle 
Aziende di Credito per tali opera¬ 
zioni di intermediazione creditizia, 
cperazioni che, data la natura pub¬ 
blicistica dei soggetti, sono comple¬ 
tamente esenti da « rischio ». 

Con ciò, ovviamente, non inten- 


L'AsVolablo quindicinale - n. 1 • 14 gennaio 1977 


9 
















__\ 

enti locali 

e intermediazione bancaria 


do muovere critiche all’agire delle 
banche, stante che la loro condotta 
di gestione privato-acquisitiva legit¬ 
tima questa ed altre operazioni pu¬ 
ramente speculative. 

Ritengo che l’assoluta mancanza 
di una programmazione finanziaria 
stia all’origine di siffatte distorsio¬ 
ni del sistema ed il fatto merita par¬ 
ticolare attenzione in un momento 
in cui (per la incontrollata lievita¬ 
zione dei tassi sul mercato moneta¬ 
rio e per la spinta inflazionistica na¬ 
scente da essi) l’Autorità Monetaria 
non sembra in grado di suggerire al¬ 
l’Esecutivo vie alternative alla defla¬ 
zione « selvaggia ». Va inoltre os¬ 
servato (Tav. 3) che per quanto at¬ 
tiene agli Enti locali, difficilmente 
può supporsi che tra quelli che con 
essi costituiscono un particolare cir¬ 
cuito finanziario, vi siano « Enti » 
in grado di costituirsi «depositanti» 
nei confronti del sistema creditizio. 
Sicché potrebbe concludersi che la 
colonna della tav. 3 dove sono cal¬ 
colate (sottostimandole) le « compe¬ 
tenze », rappresenti, in massima par¬ 
te, una voce addizionale del loro 
disavanzo. In tal senso, quindi, l’at¬ 
tuale sistema provoca distorsioni 
all’interno del circuito finanziario 
che collega tutti gli Enti Pubblici e 
Assimilati, secondo un modello di 
interazione dualistico di tipo « diva¬ 
ricato » (2) che, affidato alle sue 
sole forze spontanee, non potrà non 
spingere verso ulteriori e più consi¬ 
stenti disavanzi i bilanci degli Enti 
locali. 

Sul piano dei suggerimenti, riten¬ 
go che una « economia » di 1000 
miliardi annui per il settore « En¬ 
ti Pubblici e Assimilati », potrebbe 
essere realizzata vietando, per legge, 
che le Aziende di Credito gravino 


(2) Cfr. dello scrivente « Tassonomia 
dei modelli di interazione dualistica - 
un metodo grafico » in « Ricerche in 
corso » AH, 1976, Istituto Scienze finan¬ 
ziarie - Facoltà Economia e Commer¬ 
cio • Palermo. 


di « interessi e commissioni » i cre¬ 
diti concessi ad Enti Pubblici e As¬ 
similati quando detti crediti rappre¬ 
sentino delle pure « anticipazioni su 
finanziamenti liquidi ed esigibili » 
provenienti da altri « Enti Pubblici 
e Assimilati » o dallo Stato. Dovreb¬ 
be essere, del pari, vietato per leg¬ 
ge, alle Aziende di Credito di cor¬ 
rispondere « interessi » su depositi 
in contante di « Enti Pubblici ed 
Assimilati ». Di contro, dovrebbe 
essere riconosciuto a ciascuna Azien¬ 
da di Credito, sull’eventuale « im¬ 
piego netto » nei confronti di « En¬ 
ti Pubblici e Assimilati » il diritto 
a ricevere periodicamente in « com¬ 
pensazione » (nel caso inverso l’ob¬ 
bligo di corrispondere) dalla Banca 
d’Italia B.O.T. fruttanti il tasso pari 
a quello del debitto fluttuante dello 
Stato. 

Tale meccanismo, invero di sem¬ 
plice attuazione, determinerebbe, 
qualora l’intero settore creditizio ri¬ 
sultasse impegnato nei confronti di 
« Enti Pubblici o Assimilati » in mi¬ 
sura eccedente i mezzi da questi de¬ 
positati, un « vincolo » ad investire 
in B.O.T. (analogo al cosiddetto 
« vincolo di portafoglio » ora esi¬ 
stente) con un rendimento unifor¬ 
mato a quello del debito fluttuante 
e non del 70 per cento. 

Al fine di realizzare un controllo 
di tipo « programmatico » in questo 
settore della Finanza pubblica, sa¬ 
rebbe opportuno stabilire altresì che 
gli « atti » formalmente necessari 
a ciascun « Ente Pubblico o Assimi¬ 
lato » per rivolgere la « richiesta di 
credito » alle Banche, possono es¬ 
sere favorevolmente accolti, alla so¬ 
la condizione che essi siano muniti 
di approvazione da parte degli Or¬ 
gani di Controllo cui compete isti¬ 
tuzionalmente la funzione di coordi¬ 
namento finanziario dei bilanci dei 
detti Enti. 

( Sarebbe anche necessario chie¬ 
dere l’assoluto rispetto dell’art. 100 
della Legge Bancaria). 

A. S. 


movimento sindacale 

Per gravi sacrifici 

riforme 

«consistenti» 

di Gianfranco Bianchi 


• L’assemblea di Roma degli ol¬ 
tre 2.000 quadri sindacali del 7-8 
gennaio ha un precedente nella as¬ 
semblea dei 4.000 delegati e quadri 
sindacali che si riunì a Rimini dal 
6 all’8 aprile del 1974. Passò alla 
storia del movimento sindacale per 
due motivi: per aver sancito defi¬ 
nitivamente la scelta dei consigli di 
fabbrica e dei consigli di zona come 
struttura di base delle tre Confede¬ 
razióni e del futuro sindacato uni¬ 
tario e per aver fatto uscire il mo¬ 
vimento dal « ghetto salariale » qua¬ 
le forza di cambiamento della socie¬ 
tà. L’assemblea di Roma segna una 
rivalutazione e un rilancio del sin¬ 
dacato dei consigli, dopo un pe¬ 
riodo di oscuramento e vuole ap¬ 
profondire il significato della scelta 
sociale di tre anni fa. 

Tra le due assemblee si sono sus¬ 
seguiti avvenimenti che hanno se¬ 
gnato profondamente anche lo stes¬ 
so sindacato, imponendogli una ve¬ 
rifica della propria strategia. Ne è 
scaturito un « largo, approfondito, 
intenso dibattito », per usare una 
definizione di Giorgio Benvenuto al 
Comitato centrale della UIL (16-17 
dicembre 1976) e la coscienza di do¬ 
ver precisare più chiaramente le pro¬ 
prie scelte, di « mettere sul tavolo 
le proprie carte, proprio per esse¬ 
re, nella pratica e non solo nelle 
parole », come ha detto Luciano 
Lama nella dibattuta relazione del 
Direttivo della Federazione sindaca¬ 
le del 9-10 dicembre scorso, « quel¬ 
la forza di cambiamento della socie¬ 
tà che promuove, attraverso le ri¬ 
forme, un diverso modello economi¬ 
co e che rafforza la democrazia ». 

Tre i motivi — o gli avvenimen¬ 
ti — che hanno inciso di più sul 
movimento sindacale: l’aggravarsi 
della situazione economica del pae¬ 
se con le ripercussioni sulle condi¬ 
zioni di vita dei lavoratori; l’emer¬ 
gere in modo sempre più pressante 
della questione del costo del lavoro 
come punto inevitabile di passaggio 
per uscire dalla crisi; il cambiamen- 


20 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 
















Lidia Mlleto 



Lama 



a a 13 a - 

- y. 







to dei rapporti fra il sindacato e il 
quadro politico — governo e par¬ 
titi — in conseguenza dei risultati 
elettorali del 20 giugno e della na¬ 
scita del governo delle astensioni. 
Tre questioni che stanno mettendo 
alla prova proprio il ruolo che il 
sindacato si è dato a Rimini, facen¬ 
do risorgere il pericolo di un suo 
ritorno al « ghetto salariale », di 
pura difesa dei livelli di vita degli 
operai occupati. 

Già nel Direttivo del 15-16 luglio 
dello scorso anno, le confederazioni 
avevano avvertito il pericolo, rifiu¬ 
tando l’ipotesi consolatoria, fatta 
propria anche dal consigliere econo¬ 
mico dell’on. Moro l’economista Ni¬ 
no Andreatta, secondo la quale il 
paese stava uscendo dalla crisi. « I 
segni di ripresa produttiva » aveva 
detto nella relazione Rinaldo Sche¬ 
da « che hanno cominciato a mani¬ 
festarsi nel corso della primavera di 
quest’anno non paiono essere in gra¬ 
do non diciamo di eliminare, ma 
neppure di attenuare la gravità dei 
problemi di cui soffre l’economia 
italiana ». Fu in quella occasione 
che il sindacato rinnovò la propo¬ 
sta « già fatta qualche mese fa e 
che il governo di allora non prese 
in considerazione», di accettare «un 
blocco temporaneo delle retribuzio¬ 
ni superiori ad un certo livello, che 
potrebbe essere fissato intorno agli 
etto milioni di lire ». Una proposta 
che dette il segno della disponibili¬ 


tà del sindacato a pagare un prezzo 
per un cambiamento positivo della 
politica economica basato sul rilan¬ 
cio degli investimenti e della occu¬ 
pazione. 

Eppure, malgrado questo retro¬ 
terra culturale e di iniziativa, il sin¬ 
dacato ha dato l’impressione di es¬ 
sere stato colto di sorpresa dal pre¬ 
cipitare delle crisi e di non riuscire 
a definire, se non con grande fa¬ 
tica, il proprio modo di concepire 
l’austerità. Un diffuso disorienta¬ 
mento è stato segnalato dai vertici 
sindacali. Una delle cause maggiori 
è stata indicata nella scarsa credi¬ 
bilità di questo governo. Una cau¬ 
sa dunque esterna al movimento. 
« L’insoddisfazione e la preoccupa¬ 
zione dei lavoratori » ha detto Ben¬ 
venuto al già citato Comitato cen¬ 
trale della Uil « cosi come noi le re¬ 
cepiamo sui luoghi di lavoro, sono 
palesemente giustificate dal crescen¬ 
te scarto che continuiamo a verifi¬ 
care tra le richieste e proposte del 
sindacato e le soluzioni via via 
adottate dal governo ». Il fatto che 
i dirigenti sindacali abbiano insisti¬ 
to, come nell’ultimo direttivo della 
Federazione unitaria, sulla necessi¬ 
tà di accompagnare « la denuncia 
delle responsabilità delle classi diri¬ 
genti », all’impegno « di indicare le 
vie di uscita e di lottare per una 
strategia di cambiamento che ha an¬ 
che la componente essenziale del no¬ 
stro contributo e dei nostri sacri¬ 


fici », dimostra come la sfiducia nel¬ 
le capacità di usare bene le risorse 
rastrellate con la politica restrittiva 
da parte del governo Andreotti è as¬ 
sai diffusa fra i lavoratori. Tutta¬ 
via, dimostra anche che è altrettan¬ 
ta diffusa la consapevolezza che un 
simile atteggiamento difensivo non 
aprirà prospettive per il futuro del 
sindacato e della società italiana, 
non gli permetterà di ricoprire quel 
ruolo di protagonista attiva al qua¬ 
le ambisce. 

Del resto, malgrado la « guerra 
degli aggettivi » come l’ha definita 
Bruno Trentin, « su questa o su 
quella richiesta che maschera un 
grado di insoddisfazione maggiore o 
minore verso il governo », le con¬ 
federazioni hanno evitato di divi¬ 
dersi sulla questione del quadro po¬ 
litico, pur essendo concordi nel ri¬ 
tenerlo inadeguato. 

L’unica strada percorribile è ap¬ 
parsa perciò quella di superare il 
muro dei no, che « alla lunga », ha 
detto Benvenuto, tradirebbe « una 
grande debolezza », battendosi « per 
una politica di austerità come pre¬ 
messa per uno sviluppo nuovo e di¬ 
verso ». 

La questione è stata al centro 
dell’ultimo, travagliato direttivo del¬ 
la Federazione sindacale Cgil-Cisl- 
Uil e la conclusione è stata la eia» 
borazione di una serie di disponi¬ 
bilità da presentare al governo e 
alla Confindustria. Sono ormai note 
e vanno dalla migliore utilizzazione 
degli impianti, usando anche i sette 
giorni festivi soppressi per decreto, 
dalla contrattazione della mobilità e 
dello straordinario, alla possibilità 
di stabilire nuovi turni, fino alla 
rinuncia della contingenza sulla in¬ 
dennità di anzianità, la abolizione 
delle scale mobili « anomale » più 
costose rispetto a quella dell’indu¬ 
stria, il contenimento delle richie¬ 
ste salariali nella contrattazione in¬ 
tegrativa aziendale. Purché, e que¬ 
sta è stata la condizione prelimina¬ 
re ribadita in tutte le occasioni, non 


il 


L’Astrolabio quindicina!* - n. 1 - 14 gennaio 1977 























_ \ 

movimehto sindacale 


venga toccato il meccanismo della 
scala' mobile « così com’è ». In di¬ 
fesa della scala mobile il sindacato 
ha eretto una sorta di sbarramento 
a riccio, anche perché sente cresce¬ 
re intorno un diffuso isolamento. 
Nell’incontro con i partiti dell’arco 
costituzionale del 21 dicembre scor¬ 
so, ha potuto constatare che anche 
i partiti di sinistra, comunisti com¬ 
presi, non sarebbero contrari ad 
un passaggio semestrale degli scatti. 

Il « pacchetto » dei sacrifici ela¬ 
borato dalla Federazione unitaria è 
dunque consistente. Secondo Tren- 
tin, si tratta di scelte « che non 
hanno precedenti, se si guarda al¬ 
le altre realtà nazionali d’Europa ». 
Come contropartita — il sindacato 
però rifiuta la concezione del dare 
e dell’avere — vuole « la lotta con¬ 
tro l’inflazione, una politica di ri¬ 
gorosa austerità con un cambiamen¬ 
to strutturale dei consumi, una im¬ 
posizione fiscale equa e garantita 
da un fisco efficiente che elimini 
le evasioni, una politica degli inve¬ 
stimenti che sviluppi l’occupazio¬ 
ne », come ha ricordato il segreta¬ 
rio generale aggiunto della Cisl Lui¬ 
gi Macario aprendo la riunione con 
i partiti, rigorosamente dedicata ai 
temi economici proprio per volere 
della Cisl, preoccupata per un even¬ 
tuale processo alla De proprio nel 
momento in cui sta cambiando, non 
senza fatica, il suo vertice, dopo la 
nomina di Storti a presidente del 
Cnel. 

Questa è dunque la linea elabora¬ 
ta fino ad ora dal movimento sin¬ 
dacale. Incontra resistenze di vario 
grado e obiezioni diverse per con¬ 
tenuto e segno politico. Vanno da 
un puro e semplice arroccamento 
sulle conquiste raggiunte, più mar¬ 
cato in alcune ristrette aree di occu¬ 
pati nelle industrie del nord che « ti¬ 
rano » per l’esportazione, fino al ri¬ 
fiuto a farsi coinvolgere in trattati¬ 
ve sul costo del lavoro e la strut¬ 
tura del salario. Il «largo, appro¬ 
fondito, intenso dibattito » continua 


e fa emergere il riconoscimento di 
un ritardo di elaborazione su alcuni 
problemi, come quello ricordato del 
costo del lavoro, della struttura del 
salario e del peso degli automatismi. 

Superato il momento più critico, 
il sindacato appare impegnato in un 
continuo e franco rapporto tra base 
e vertice, alla ricerca di un criterio 
per definire la linea di demarcazio¬ 
ne, oltre al quale le « casematte » 
che vi si trovano devono essere ab¬ 
bandonate. In alcune assemblee, que¬ 
sta linea di demarcazione è stata 
definita « il nostro Piave » e questo 
riferimento è indicativo anch’esso 
di uno stato d’animo. Ora si prefe¬ 
risce chiamarla disegno politico com¬ 
plessivo o progetto politico del sin¬ 
dacato o alternativa di contenuti e 
di linea. Appare sempre più chiara¬ 
mente che per raggiungere questo 
obiettivo, per impedire « di farsi 
sfogliare come un carciofo », il sin¬ 
dacato deve approfondire le stesse 
cause della crisi. Si fa strada la con¬ 
vinzione che non tutto è imputabile 
ad una causa esterna, ma che la cri¬ 
si che stiamo vivendo è stata in 
qualche modo provocata dalle lotte 
dello stesso movimento sindacale, 
dalle « incompatibilità » che esso è 
riuscito ad introdurre nella vecchia 
e decrepita organizzazione sociale, 
fatta di parassitismo, di arretratez¬ 
za tecnologica, di abbandono del¬ 
l’agricoltura, di una costosa e inef¬ 
ficiente macchina statale, di un mer¬ 
cato del lavoro distorto, in definiti¬ 
va di una pessima qualità della vita. 
Sono « incompatibilità », o meglio, 
valori, che si chiamano contrattazio¬ 
ne dell’organizzazione del lavoro, 
dell’ambiente, della mobilità e de¬ 
gli orari, potere e ruolo del sindaca¬ 
to nella struttura sociale, la cui di¬ 
fesa esige dal sindacato la capacità 
di saper scegliere fra ciò che è es¬ 
senziale e ciò che non lo è, perché 
contrasta con lo stesso nuovo livel¬ 
lo raggiunto dalle conquiste dei la¬ 
voratori. 

G. B. 


vaticano: la frecciata 
di Capodanno 

Aborto 
e infanticidio 

di Giuseppe Branca 


• Capodanno 1977. Decima giorna- 
nata internazionale della pace. Il Pa¬ 
pa celebra la Messa nella Chiesa Re¬ 
gina Apostolorum, alla Garbatella. 
Fra i presenti, il Sindaco laico di 
Roma. L’omelia papale è severa. 
Non ne conosco l’intero contenuto 
ma i giornali hanno pubblicato le 
frasi che il pontefice ha dedicato 
all’aborto. Frasi severe, addirittura 
savonaroliane. Parecchi anni fa solo 
perché un prelato aveva diretto l’epi¬ 
teto di « adulteri » a due comuni¬ 
sti che si erano sposati non in chie¬ 
sa, ci furono lunghe e dure polemi¬ 
che la sinistra protestò fortemente, 
compatta. Ora la protesta è stata as¬ 
sai più blanda: solo i radicali e il 
movimento femminista hanno reagi¬ 
to e continuano a reagire con vio¬ 
lenza. Eppure il Papa ha avuto e- 
spressiont molto acerbe: ha chiama¬ 
to « infanticide » le donne che abor¬ 
tiscono e le ha chiamate infanticide 
rivolgendosi solennemente all’opi¬ 
nione pubblica mondiale oltreché ro¬ 
mana. 

Perché la reazione dei laici è 
stata piuttosto blanda? Certo i tem¬ 
pi sono cambiati: anni fa, quando 
le sinistre erano nel ghetto, l’offesa 
al matrimonio civile, in un clima di 
dilagante confessionismo, faceva più 
male di quanto non possa nel 1977. 
La reazione laica era anch’essa uno 
dei tanti mezzi per dire al paese che 
esistevano anche i partiti della clas¬ 
se operaia e che un’offesa ai loro mi¬ 
litanti colpiva l’intera collettività 
dei lavoratori. Inoltre bisognava ri¬ 
cordare a tutti che lo Stato è lo 
Stato, anche in pieno dominio de, 
e che ai suoi istituti, come al matri¬ 
monio civile, si doveva rispetto da 
parte della Chiesa. 

Occorreva insomma arrestare, pur 
con proteste di questo tipo, il pro¬ 
gressivo asservimento del paese ai 
poteri e agli interessi del Vaticano. 

Ora no. Ora le sinistre, pur non 
partecipando al governo, ne condi¬ 
zionano le decisioni; il popolo, anche 
buona parte dei cattolici, sa distin- 


22 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 • 14 gennaio 1977 














A 


guere fra Cesare e Dio (basti pen¬ 
sare al referendum sul divorzio); la 
laicità dello stato si va dispiegando 
largamente: la stessa Chiesa lo ri¬ 
conosce aprendosi alla revisione del 
concordato. Insomma, se si vuol da¬ 
re un’interpretazione ottimistica al¬ 
l’episodio recente, si può attribuire 
a gran parte del mondo laico questo 
pensiero: « Il Papa condanni pure 
l’aborto con parole infuocate, tanto 
il disegno di legge va avanti ugual¬ 
mente. Lui parla noi agiamo. La po¬ 
lemica, anche sulle parole, sarebbe 
dannosa alla collaborazione fra sini¬ 
stre e DC, dalla quale soltanto può 
essere salvato il paese ». 

Vera o non vera questa interpre¬ 
tazione, non è la faccia del fenome¬ 
no, alla quale essa si riferisce, ciò 
che interessa e preoccupa. Preoccu¬ 
pante è che il Papa abbia parlato in 
quel modo, in quel giorno, alla pre¬ 
senza di quel sindaco. Non abbia¬ 
mo niente in contrario a pensare 
che i discorsi del pontefice siano 
sempre ispirati da quella che i cre¬ 
denti ritengono sia la grazia divina; 
ma omelia o allocuzione ispirata non 
significa discorso improvvisato. Non 
un raptus oratorio, imposto dalla 
concezione tradizionale aborto-infan¬ 
ticidio, ha spinto Paolo VI a parlare 
in quel modo. No, il Papa ha volu¬ 
to, ha fermamente voluto, dopo me¬ 
ditazione, lanciare quelle gravi pa¬ 
role. Ma perché? 

È una domanda che dobbiamo pur 
farci poiché l’episodio non ha pro¬ 
prio i caratteri della normalità. 

È vero: si trattava di cerimonia 
religiosa; la cerimonia si svolgeva 
fra le pareti di una chiesa; il Papa 
esprimeva un’opinione scaturente 
dai principi del magistero ecclesia¬ 
stico. Tutto vero; ma ciò basta solo 
a giustificare in quell’ambiente, quel¬ 
la espressione (« infanticide »). Non 
giustifica l’accenno, che c’è stato (di¬ 
retto o indiretto, non so), alla legi¬ 
slazione italiana: peggio, al disegno 
di legge su cui si discute alla Ca¬ 


mera. Questo non doveva accadere. 
Il Papa, che è stato un fine uomo 
politico, lo sapeva, eppure non ha 
perduto l’occasione di parlare in 
quel modo, con quella presenza lai¬ 
ca. Se ha sfiorato il confine della 
scorrettezza, poiché ' ente si im¬ 
provvisa e tutto si medita accurata¬ 
mente lassù, è perché ha ritenuto di 
« doverlo » fare: proprio perché o 
soprattutto perché c’era lì ad ascol¬ 
tarlo il sindaco laico. 

È stato, è voluto essere, un avver¬ 
timento formale, solenne, severo. Sul 
divorzio la Chiesa non s’è impegna¬ 
tala con tutte le proprie forze (ben¬ 
ché non possa dirsi nemmeno il con¬ 
trario). Sull’aborto si. Il divorzio in 
fondo è la rottura per le leggi dello 
Stato d’un vincolo che non esiste 
per la Chiesa (matrimonio civile) o 
d’un vincolo (matrimonio cattoli¬ 
co) che per la Chiesa nonostante lo 
scioglimento civile, resta fermo in 
perpetuo. L’aborto no: esso è (per 
la Chiesa) l’uccisione d’una creatura 
e l’uccisione è un fatto irrimediabile 
poiché non può la Chiesa ritenere an¬ 
cora vivo chi invece non è più un 
essere vivente. Forse banalizzo un 
po’ troppo il problema, ma è certo 
che anche questa considerazione può 
giocare sull’irriducibilità della Chie¬ 
sa, la quale poi è colta dal terrore 
vedendo che alcuni capisaldi della 
propria dottrina vanno perdendo ter¬ 
reno anche presso gli stati cattolici. 

Conclusione? A questa fermezza 
d’oltre Tevere occorre contrapporre 
altrettanta fermezza del mondo lai¬ 
co. Chi è cattolico fino al punto di 
credere che l’aborto sia sempre un 
infanticidio, non abortirà: conosco 
persone capaci di farlo dinanzi a cer¬ 
te necessità, anche se sono meno 
di quanti taluni non credano. Chi, 
professandosi cattolica, abortisca, sa¬ 
rà semmai condannata dalla Chiesa 
e se la vedrà con la propria coscien¬ 
za religiosa. Però non sono più tan¬ 
te le credenti che ritengano di ve¬ 
nir meno ai doveri religiosi se inter¬ 


rompono la maternità. Certo la tra¬ 
dizione, l’educazione familiare, l’in¬ 
segnamento e la panica tramandati 
di madre in figlia, la paura della ma¬ 
ledizione di Dio giocano ancora un 
loro ruolo; ma l’urto delle nuove 
generazioni finirà per trionfare di 
tutto ciò: da un lato la religione ten¬ 
de per forza a formalizzarsi o per 

10 meno a valere soprattutto per le 
sue appariscenze; dall’altro il senti¬ 
mento religioso si intimizza aspi¬ 
rando a una comunicazione diretta 
con Dio senza i limiti posti dall’au¬ 
torità. 

i 

Infine, dirò una sciocchezza, ma 

11 legame tra la fede e l’illegittimità 
dell’aborto non è poi così stretto: 
il bonum prolis, che sta alla base del 
matrimonio canonico, non basta a 
porre come principio dogmatico, pu¬ 
ramente religioso, l’illiceità del¬ 
l’aborto. Mi sembra che questa illi¬ 
ceità predicata dalla Chiesa cattoli¬ 
ca come dottrina religiosa sia piut¬ 
tosto il frutto di un’osmosi fra aspet¬ 
to religioso e aspetto puramente ter¬ 
reno del fenomeno. Non saremo noi 
a insegnare alla Chiesa quel che è 
vero e che è dovuto nella materia 
della fede; ma possiamo tranquilla¬ 
mente dire ad essa che questo del¬ 
l’aborto è un problema esclusivamen¬ 
te terreno: intendiamoci, è un pro¬ 
blema esclusivamente terreno deci¬ 
dere se chi abortisce venga o no sot¬ 
toposto a sanzione penale. Che la 
Chiesa di Cristo pretenda la reclu¬ 
sione per chi interrompe la gravi¬ 
danza è quasi incredibile. Ecco per¬ 
ché ho parlato di confusione tra 
aspetto civile e aspetto religioso. È 
intollerabile che il Vaticano, ora, 
nel 1977, continui ad invocare la 
mano pesante dello Stato contro fat¬ 
ti di cui l’opinione pubblica disco¬ 
nosce ormai il carattere penale: ché, 
se si tratta di fatti che sono crimini 
per il solo insegnamento ufficiale 
cattolico, la Chiesa si accontenti del¬ 
le proprie sanzioni, terrene o cele¬ 
sti. 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 * 14 gennaio 1977 


23 










c 



- 

la riscoperta 
degli indipendenti 

A ciascuno il suo 



• Si è risvegliato nelle ultime set¬ 
timane l’interesse della stampa e 
della opinione pubblica attorno al¬ 
le posizioni, alla presenza politica 
della sinistra indipendente. C/è da 
compiacersene. Chi — come noi del- 
/'Astrolabio — ha sempre sostenuto 
che i partiti politici restano l’as¬ 
se portante della democrazia italia¬ 
na ma non possono ritenere esau¬ 
rita nella loro dialettica la ricchez¬ 
za delle posizioni e degli apporti 
che alle nostre istituzioni possono 
venire anche da forze non partiti¬ 
che, non può che valutare positiva- 
mente questo rinnovato interesse 
per la sinistra indipendente e per 
i suoi uomini. 

Proprio perché la sinistra indi- 
pendente non è e non vuole diven¬ 
tare un partito politico ma si con¬ 
figura, in buona sostanza, come una 
area nella quale confluiscono perso¬ 
nalità di cultura e formazione poli¬ 
tica assai diverse, è naturale, e si 
direbbe fisiologica, la diversità delle 
opinioni, la variegata densità e colo¬ 
ritura dei contributi. 

Vale tuttavia la pena proprio a 
scanso di equivoci e di fraintendi¬ 
menti di offrire al lettore e proba¬ 
bilmente anche a una parte degli 
operatori della informazione, alcu¬ 
ne precisazioni che chiameremo, per 
comodità di linguaggio, "topografi¬ 
che’’ nell’ambito dell’area che ab¬ 
biamo genericamente definito detta 
sinistra indipendente. 

C’è anzitutto un gruppo di 18 se¬ 
natori (17 eletti nelle liste del PCI) 
che si sono, a Palazzo Madama, rac¬ 
colti attorno al direttore di questa 
rivista (che è senatore a vita). Si 
tratta, in ordine di forza numerica, 
del quarto gruppo (dopo quelli della 
DC, del PCI, PSI) costituito al Se¬ 
nato a termini di regolamento. Que¬ 
sto gruppo ha una precisa connota¬ 
zione parlamentare-. "Gruppo della 
Sinistra Indipendente". I 18 nomi 
sono abbastanza noti ma vale la pe¬ 
na di ripeterli: Anderlini (presiden¬ 
te), Basso, Branca, Brezzi, Galante 


Garrone (vice presidente), Gozzini, 
Giudice, Guarino, La Valle, Lazza¬ 
ri (segretario), Masullo, Melis, Ossi¬ 
cini, Pasti, Romagnoli Carettoni, 
Romano e Vinay. 

Esiste poi — alla Camera — un 
gruppo che può considerarsi per mol¬ 
ti aspetti analogo a quello del Se¬ 
nato ma che non costituisce a ter¬ 
mini del regolamento della Camera 
un "gruppo” autonomo. Si tratta 
di sette deputati che hanno formato 
la maggioranza del ’’gruppo misto" 
di quel ramo del Parlamento. Anche 
questi nomi sono sufficientemente 
noti: Spinelli (Presidente), Guada¬ 
gno, Mannuzzu, Napoleoni, Orlan¬ 
do, Spaventa, Terranova. 

Esistono infine altri indipendenti 
che hanno preferito entrare a far 
parte — conservando la loro qua¬ 
lifica di indipendenti — dei gruppi 
parlamentari del PCI. (Al Senato: 
Bernardini, Jannarone, Squarcialupi, 
Villi. Alia Camera: Allegra, Carlas- 
sara, Codrignani, Manfredi, Pratesi, 
Ramella). 

Pur convergendo in quella che 
abbiamo definito l’area della sini¬ 
stra indipendente o degli indipen¬ 
denti di sinistra è chiaro che si trat¬ 
ta di posizioni distinte e che attri¬ 
buire alla "Sinistra Indipendente” 
le posizioni dei singoli o dei vari 
gruppi complica talvolta le cose e 
può indurre a rettifiche che rischia¬ 
no per i non addetti ai lavori di 
risultare incomprensibili. Quello di 
cui vorremmo pregare amici ed av¬ 
versari è di dare a ciascuno il suo, 
ai singoli la responsabilità delle lo¬ 
ro dichiarazioni, ai gruppi o sotto¬ 
gruppi la responsabilità delle loro 
prese di posizioni (quando esistono). 

A questa precisazione topografi¬ 
ca è opportuno che faccia seguito 
una breve considerazione di carat¬ 
tere politico. 

Durante la fase-preparatoria del¬ 
l'ultima campagna elettorale e poi 
nel corso del suo svolgimento capitò 
spesso di veder lanciare contro gli 
indipendenti che accettavano candi¬ 


dature nelle liste del PCI, l’accusa 
di essersi messi al servizio del nuo¬ 
vo padrone. Una accusa di confor¬ 
mismo, e di trasformismo insieme. 

Adesso che l'attività di queste for¬ 
ze — presenti oltre che nel Parla¬ 
mento anche nel paese — comincia 
a dare i suoi frutti in termini di pro¬ 
poste, di battaglie condotte avanti 
con tenacia, di iniziative originali e 
magari di dibattito aperto con le al¬ 
tre forze della sinistra, compreso na¬ 
turalmente il PCI, sta venendo di 
moda un altro tentativo: quello di 
sottolineare ogni differenza tra gli 
indipendenti e il PCI come un ele¬ 
mento di frattura, come un indebo¬ 
limento o magari un rovesciamento 
dei rapporti di collaborazione pree¬ 
sistenti. 

A noi pare chiaro che chi ragio¬ 
na in questi termini è — al di là 
delle stesse intenzioni che lo muovo¬ 
no — legato a una concezione arcai¬ 
ca e angustamente partitica della lot¬ 
ta politica, secondo la quale ogni 
dissenso si trasforma in corrente, 
ogni corrente in frazione, ogni fra¬ 
zione genera una scissione e una 
rottura. Manca a tutti costoro il sen¬ 
so di un lavoro comune dove ognu¬ 
no ha il diritto di restare interamen¬ 
te se stesso senza la pretesa di fare 
la mosca cocchiera e senza diventare 
un utile idiota, ma nella consapevo¬ 
lezza che la maturazione di un gran¬ 
de processo storico di trasformazio¬ 
ne impone a tutti e a ciascuno di 
dare in umiltà, ma senza rinunce, il 
meglio di sè e di far confluire la 
propria esperienza nell’alveo più 
grande dell’unità con tutte le altre 
forze che a quel cambiamento mira¬ 
no e senza le quali il cambiamento 
sarebbe impossibile. 

In un periodo nel quale si parla 
molto di pluralismo forse non sa¬ 
rebbe inopportuno che chi critica 
il PCI per le "ambiguità", "i no¬ 
di non sciolti” del suo modo di in¬ 
tendere il pluralismo, tenga conto 
anche di questa esperienza. 


24 


L'Astrolabio quindicinale • n. 1 • 14 gennaio 1977 








_ \ 

la revisione del concordato 

Una scuola 
pluralista ma 
confessionale 

di Franco Leonori 


• I negoziatori della Santa Sede 
nella trattativa con il governo ita¬ 
liano per la revisione del Concor¬ 
dato hanno ricevuto la precisa con¬ 
segna di ottenere il più possibile 
dalla controparte soprattutto sui 
sussidi statali alla scuola cattolica. 

L’estremo interesse della Chiesa 
per questo campo è dettato dalla 
« psicologia da assedio » imposses¬ 
satasi della gerarchia (o della mag¬ 
gioranza della gerarchia) da qualche 
anno a questa parte. La data di na¬ 
scita di questa psicologia è gene¬ 
ralmente assegnata al 12 maggio 
1974 (referendum sul divorzio) che 
segnò una chiara e sonora sconfitta 
delle forze cattoliche tradizionali, 
non soltanto di quelle più integrali¬ 
stiche. Dopo una prima reazione, 
che sembrò di lucidità, queste for¬ 
ze sono arrivate a questa conclusio¬ 
ne: in Italia si va affermando sem¬ 
pre più la cultura radical-marxista; 
per contrastare questa egemonia ai 
cattolici non rimane che potenziare 
i loro spazi culturali, e soprattutto 
la scuola confessionale. 

La Chiesa italiana ha dedicato a 
tale tema una serie di convegni nel¬ 
l’ultimo semestre: in estate a Ri¬ 
mini (Comunione e Liberazione) e a 
Pallanza (UCIIM: Unione Cattolica 
Italiana Insegnanti Medi); il mese 
scorso due incontri a Roma: FISM 
(Federazione Italiana Scuole Mater¬ 
ne) e FIDAE (Federazione Istituti 
Dipendenti dall’Autorità Ecclesiasti¬ 
ca). 

Quali le posizioni uscite da que¬ 
sti appuntamenti? Due posizioni, 
con sostanziali punti di contatto. La 
prima posizione, portata avanti so¬ 
prattutto dal movimento « Comu¬ 
nione e Liberazione », si batte per 
la trasformazione delle strutture ci¬ 
vili, in modo che nella scuola or¬ 
ganizzata dallo Stato si creino luo¬ 
ghi omogenei nei quali sia possibile 
il formarsi di mentalità e personali¬ 
tà « orientate »; la seconda, che per 
ora sembra prevalente, chiede ai cat¬ 


tolici di impegnarsi su due fronti: 
maggiore presenza nella scuola pub¬ 
blica e, contemporaneamente, po¬ 
tenziamento (per il quale si esige 
l’apporto statale) delle scuole ge¬ 
stite in proprio da organismi catto¬ 
lici. Il maggiore punto di contatto 
tra le due posizioni sta nella comu¬ 
ne convinzione che l’egemonia della 
cultura cattolica è in fase sempre più 
calante e, di conseguenza, i cattoli¬ 
ci devono contrastare questo feno¬ 
meno con loro autonome iniziative 
Sintomatico di questa comunanza di 
analisi sulla situazione culturale ita¬ 
liana, ma anche della diversità del¬ 
le proposte di parte cattoliche, è 
quanto affermato qualche giorno fa 
dal padre Bianchini, presidente del¬ 
la FIDAE: « Quale la nostra posi¬ 
zione di fronte agli amici di C.L.? 
Posizione di confronto e di attesa 
finché non abbiano maturato le lo¬ 
ro scelte concrete per cui dalla teo¬ 
ria scendano alla prassi, che dovrà 
misurarsi con tante e disparate for¬ 
ze politiche, decisamente non bene¬ 
voli alle proposte avanzate nel Con¬ 
vegno di Rimini 1976, specie per 
quanto si riferisce alla soluzione del¬ 
la scuola dell’obbligo. Rispettosi di 
ogni idea — ha precisato Bianchi¬ 
ni — auspichiamo un sereno obiet¬ 
tivo studio per la ricerca di una co¬ 
mune piattaforma di intesa del mon¬ 
do cattolico su un tema di impor¬ 
tanza fondamentale. I primi contatti 
(con C.L.) sono già avvenuti, e con 
buon profitto ». 

In sostanza, i rappresentanti della 
posizione oggi • maggioritaria temo¬ 
no che la proposta di C.L. (coopera¬ 
tive di genitori e insegnanti che ge¬ 
stiscono scuole pagate dallo Stato e 
dagli enti locali) riduca ancor più i 
cattolici in un « ghetto ». Nello 
stesso tempo essi sono affascinati 
dalla « sicurezza di sé » e dall’atti¬ 
vismo dei soci di C.L., la cui colla¬ 
borazione ritengono preziosa. Ma 
non solo di questo si tratta. C.L. 
riesce ad infiltrarsi sempre più nel¬ 
le organizzazioni cattoliche che ope¬ 


rano nella scuola. Finora sembra sia 
riuscito, questo movimento, a con¬ 
quistare l’Associazione dei genitori 
degli alunni delle scuole cattoliche. 
E infatti al convegno della FIDAE 
la posizione portata dal rappresen¬ 
tante di questa associazione ha ri- 
specchiato pari pari le tesi di C.L. 
È di questi giorni la notizia che a 
Genova si sta costituendo l’A.L.GE. 
S.C. (Associazione Ligure Genitori 
Scuole Cattoliche), che si propone 
come obiettivo di « promuovere li¬ 
beramente proprie scuole, di ogni 
ordine e grado », naturalmente con 
i] sussidio della finanza pubblica. 

Occorre aggiungere che anche nel¬ 
la DC — dalla quale pure erano 
venute dure critiche alle posizioni 
espresse da C.L. a Rimini — le pro¬ 
poste del movimento di don Gius¬ 
sani (il prete milanese fondatorè di 
« Comunione e Liberazione») stan¬ 
no guadagnando terreno. Sul « Po¬ 
polo» del 13 novembre Alvaro An- 
cisi ha difeso le tesi di C.L. Egli 
ha scritto che, di fronte al « quasi 
monopolio » radical-marxista nella 
scuola, « le scuole di comunità, crea¬ 
te liberamente dall’iniziativa delle 
famiglie, appaiono come l’alternati¬ 
va più solida e meno occasionale al¬ 
la nuova cultura di regime... ». Con 
lui concorda Fon. Bardotti, in uno 
scritto, pubblicato sullo stesso gior¬ 
nale il 17 novembre, intitolato « Le 
scuole materne e i comunisti ». 

Si può prevedere che queste tesi 
siano destinate a conquistarsi sem¬ 
pre più spazio. In effetti, quelli che 
vi si oppongono, ma continuando 
a difendere strenuamente il diritto 
della scuola confessionale (per la 
quale chiedono anzi maggiori contri¬ 
buti finanziari dello Stato), si affret¬ 
tano ad aggiungere che la scuola 
cattolica deve sempre più aprirsi al 
dialogo con le altre culture e ideo¬ 
logie (Bianchini, nell’intervento ci¬ 
tato). È soltanto un’ammissione di 
principio, che neppure C.L. osa ne¬ 
gare. 


L’Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 


25 










Pantaleone: 
la mafia 
non smobilita 

di Marco Ventura 


• Settembre 1946: Girolamo Li 
Causi e Michele Pantaleone sfidano 
la mafia di Villalba nella tana di don 
Calogero Vizzini, la « testa del ser¬ 
pente ». Quando il dirigente comu¬ 
nista mette sotto accusa i fomenta¬ 
tori del separatismo reazionario, i 
grandi agrari, l’onorata società, scat¬ 
ta la provocazione: « don Calò » fa 
un cenno e crepitano i mitra. Li 
Causi si accascia sul palco, i feriti 
sono 18. Per gli assassini di Villalba 
l’accusa è di strage, ma il mandato 
di cattura obbligatorio non scatterà. 
Due anni dopo scompaiono dal tri¬ 
bunale di Caltanissetta gli atti del 
processo,, e quando finalmente si ce¬ 
lebrerà il giudizio saranno passati 14 
anni, Vizzini sarà già morto, le 
«pene » per i suoi sicari suoneranno 
come una sfida alla coscienza demo¬ 
cratica. 

Dicembre 1976: il tribunale di 
Palermo assolve Li Causi dall’accusa 
di diffamazione nei confronti dell’ex 
sindaco fanfaniano Vito Ciancimino: 
definirlo « coinvolto in un groviglio 
di interessi mafiosi » non è reato. 
Tre giorni dopo, il tribunale di To¬ 
rino proscioglie Michele Pantaleone, 
trascinato in giudizio dall’arroganza 
dell’« intoccabile » Giovanni Gioia, 
punta di diamante dello strapotere 
isolano. È una duplice vittoria-sim¬ 
bolo a 30 anni dalla sparatoria di 
Villalba, una di quelle vendette del¬ 
la storia che riconciliano con la vo¬ 
lontà di lottare contro la sopraf¬ 
fazione. L’assoluzione di Li Causi e 
più ancora quella di Pantaleone as¬ 
sumono un significato senza prece¬ 
denti, dicono che finalmente diven¬ 
ta possibile battersi contro la pau¬ 
ra, l’omertà, la corruzione mafiosa 
invocando la forza delle istituzioni 
democratiche e la certezza del di¬ 
ritto. Ma la soddisfazione legittima 
non può scadere in facili entusia¬ 
smi, quasi che le decisioni corag¬ 
giose di Torino e Palermo signifi¬ 
cassero che la mafia smobilita, che 
questo mostruoso « potere paralle¬ 


lo », storicamente radicato nella no¬ 
stra vita sociale, cementato nei de¬ 
litti più efferati, fondato su un in¬ 
treccio di interessi che condiziona 
leggi e governi, possa essere messo 
in condizione di non nuocere a col¬ 
pi di sentenze giudiziarie. Forse è 
vero il contrario. Accanto ai sinto¬ 
mi rassicuranti ce ne sono tanti al¬ 
tri che fanno da contraltare alla bat¬ 
taglia vinta da Michele Pantaleone, 
sintomi dai quali si deduce non solo 
che il potere mafioso resta in sella, 
ma che si avvia a diventare più in¬ 
sidioso e che è già in grado di pra¬ 
ticare livelli tecnologici e politico¬ 
criminali più alti e ramificati attra¬ 
verso un radicale « riciclaggio » in¬ 
terno. 


La mafia conquista 
una nuova trincea 


Può essere un processo simile a 
quello che negli anni ’50 portò la 
nuova mafia nel cuore delle grandi 
città siciliane smantellando gli anti¬ 
chi equilibri imposti dalle cosche 
di gabellotti infeudate nelle campa¬ 
gne. Allora la molla principale, se 
non esclusiva, fu rappresentata dal¬ 
la minaccia di disgregazione interna 
conseguente al varo della riforma 
agraria, e dall’incremento parallelo 
della rendita fondiaria nei centri 
urbani in espansione. Oggi la spin¬ 
ta è dovuta da un lato all’avanzata 
di forze popolari il cui interesse ma¬ 
teriale e la cui vocazione politica 
sono incompatibili con i meccani¬ 
smi di accumulazione parassitaria e 
còl clientelismo delle oligarchie ma- 
fiose, dall’altro alla crisi che re¬ 
stringe i margini di profitto sui ce¬ 
spiti tradizionali. 

Dal sequestro del potentissimo 
esattore salernitano Luigi Corleo, 
nel luglio del ’75, è calata sull’ini¬ 
ziativa mafiosa una fase di « bo¬ 
naccia » superficiale che qualcuno 


vorrebbe interpretare positivamente 
e che invece è una conferma minac¬ 
ciosa. « Calati junghu chi passa la 
china »: il giunco mafioso sa flet¬ 
tersi aspettando che la piena sia pas¬ 
sata, perché le centrali del delitto 
posseggono una propria tattica e 
proprie scadenze per tornare all’of¬ 
fensiva aperta. In questa fase la 
mafia difende e consolida le posi¬ 
zioni raggiunte, ma contemporanea¬ 
mente si infiltra senza rumore in 
nuovi ambienti geografici, politici e 
criminali. 

L’attuale « politica » si risolve 
in primo luogo in una guerra spie¬ 
tata contro la nuova criminalità ur¬ 
bana indipendente, resa temeraria 
dalla crisi e dall’emarginazione nei 
ghetti. Durante il ’76, nella sola Pa¬ 
lermo, la lupara ha regolato per 
sempre il conto a 60 piccoli pregiu¬ 
dicati, e la lugubre statistica cre¬ 
sce di molto se applicata alle altre 
province occidentali. Ma il fronte 
di questa guerra silenziosa è molto 
più ampio, varca i confini dello 
stretto. Marsigliesi, malavita orga¬ 
nizzata del centro-nord, grandi traf¬ 
ficanti internazionali, contendono al¬ 
la mafia il primato sulle voci più 
lucrose e più moderne dell’accumu¬ 
lazione criminale, determinando un 
intrico di alleanze momentanee e 
più spesso lo scontro frontale. E’ 
così per la raffinazione e lo spaccio 
della droga pesante sui floridi mer¬ 
cati di mezzo mondo; è così per il 
traffico dei diamanti che il proces¬ 
so inflattivo delle valute espande e 
per l’industria dei sequestri che in 
Italia ha fruttato il colossale fattu¬ 
rato di 50 miliardi in un anno. E’ 
così infine per il più discreto e co¬ 
perto dei traffici, quello degli arma¬ 
menti con destinazione i paesi del 
Medio Oriente e soprattutto del¬ 
l’Africa razzista. 

Le cronache registrano solo gli 
echi di questo panorama: i mafiosi 
del clan Liggio giudicati per i se¬ 
questri Montelera, Torielli e Baro- 


26 


L'Aatrolablo quindicinale - n. 1 - 14 gennalo«1977 















ni o i risvolti dell’omicidio Mazzot- 
ti; i corrieri thailandesi e cinesi del¬ 
la droga intercettati a Fiumicino 
grazie alle « soffiate » di una con¬ 
correnza ben individuabile; gli ele¬ 
menti ricorrenti ma mai indagati 
che provano l’esistenza di un racket 
delle armi con scalo nei porti sici¬ 
liani sotto il controllo delle cosche, 
come ha autorizzato a credere la sco¬ 
perta dei corrieri del tritolo bloc¬ 
cati a La Spezia un anno fa. Per il 
resto « non ci sono le prove »: è la 
rarefatta atmosfera-che accompagna 
da sempre le vicende di mafia e che 
ha reso baldanzosi i Gioia, i Vas¬ 
sallo, i Ciancimino, gli Alberti nel¬ 
la difesa giudiziaria del loro nome 
onorato. E’ una legge che il caso 
Pantaleone ha forse incrinato ma 
non certo cancellato. I tabù resta¬ 
no tali perché l’interesse a smasche¬ 
rarne la logica e i protagonisti è as¬ 
sente. E’ su questa mancanza di vo¬ 
lontà, o meglio sulla volontà oppo¬ 
sta di coprire, favorire e comparte¬ 
cipare agli utili, che si riproduce 
la forza materiale della mafia, una 
forza non accidentale ma organica 
alla filosofia e alla prassi di un 
certo potere democristiano. Traffi¬ 
co di droga e di armi significa agi¬ 
bilità delle frontiere, controllo dei 
porti e della flotta mercantile, con¬ 
nivenze all’interno dei corpi sepa¬ 
rati; industria del sequestro signifi¬ 
ca mano libera negli ambienti del¬ 
le grandi transazioni finanziarie. 


« Sulla scena dei grandi 
disegni politici » 


« La mafia sa di essere diventata 
l’industria del potere », ci ha detto 
Michele Pantaleone, « un potere che 
si identifica con quello democristia¬ 
no. Crisi? Oggi sono forti come 
non mai: sapranno scegliere il mo¬ 
mento e il terreno propizio per usci¬ 
re allo scoperto». Perpetuare la pro¬ 


pria influenza sui centri decisionali 
della politica e accrescerla in un 
periodo di profondo rinnovamento 
socio-politico come quello che -si 
apre è il problema capitale della ma¬ 
fia. Con quali programmi e con 
quali alleati? E’ certo che la mafia 
si sta muovendo oggi non solo sul 
piano dei racket criminali, ma an¬ 
che più in alto, su un piano nuovo 
e insidioso, direttamente e operati¬ 
vamente affacciato sulla scena dei 
grandi disegni politici. Negli anni 
delle bombe e dei tentativi golpisti 
nuove alleanze sembrano essersi 
strette sul campo: da un lato le 
forze protagoniste della strategia 
reazionaria, dall’altro il potere ma¬ 
fioso, riconosciuto come l’alleato 
naturale di Portella delle Ginestre, 
del reclutamento di Salvatore Giu¬ 
liano, dell’eliminazione di Placido 
Rizzotto. 


Un contributo alle centrali 
della provocazione 

I protagonisti del fallito « golpe 
d’ottobre » Pomar e Micalizio, ar¬ 
restati dal giudice Violante, aveva¬ 
no in programma l’utilizzazione di 
sicari mafiosi per l’assassinio di lea- 
ders democratici, e il killer di Oc- 
corsio, il palermitano Pier Luigi 
Concutelli, aveva operato per an¬ 
ni sotto l'autorità morale dello stes¬ 
so Micalizio. Ai giudici Arcai, Caiz- 
zi e Turone che hanno individuato 
nel rapporto fra golpismo organiz¬ 
zato e mafia « qualcosa di più di 
una semplice ipotesi di lavoro », fa 
eco proprio in queste settimane il 
dossier consegnato dall’Antiterrori¬ 
smo al ministro Cossiga: in un ver¬ 
tice dell’« Internazionale Nera » te¬ 
nuto l’estate scorsa a Lione, il capo 
di Ordine Nuovo Clemente Orazia¬ 
ni ha presentato ai camerati euro¬ 
pei un piano organico per la sov¬ 
versione armata nell’Italia meridio¬ 


nale in caso di avvento dei comuni¬ 
sti al potere, con azioni di guerri¬ 
glia orchestrate in Sicilia e Calabria 
dalle centrali mafiose. 

A questo punto C’è da chiedersi 
se sia soltanto fantapolitica ipotiz¬ 
zare, come del resto hanno fatto 
i relatori comunisti dell’Antimafia, 
che la fuga di Liggio alla vigilia di 
piazza Fontana e la sua scelta di 
Milano come base operativa abbiano 
qualche relazione con la strage, o 
che la compartecipazione fascista 
nei traffici d’armi e nei sequestri 
Mariano, Getty, Segafredo non sia 
casuale, o ancora che l’offensiva del¬ 
la nuova « Ndrangheta » calabrese, 
costata 400 vite umane dal '74 a 
oggi, abbia non casualmente per epi¬ 
centro proprio le vecchie roccaforti 
dei « Boia chi molla ». Ma è mai 
possibile che la carta logora e per¬ 
dente dell’eversione fascista possa 
suscitare gli appetiti della vecchia 
volpe? La mafia sa meditare le sue 
alleanze: lo fece nel ’40 quando de¬ 
cise l’appoggio agli USA e preparò 
il terreno allo sbarco lavorando con 
i servizi segreti d’oltre Atlantico; 
nell’immediato dopoguerra quando 
sostenne l’avventura del separatismo 
con Washington, la monarchia e i 
grandi agrari, e ancora nel ’46 quan¬ 
do a villa Marajà fu deciso il pas¬ 
saggio delle maggiori « famiglie » 
allo scudo crociato. Anche questa 
volta la mafia potrebbe aver fatto 
i suoi conti ben oltre l’apparente 
ingenuità del progetto. 

La strategia della tensione ha di¬ 
mostrato che il braccio fascista è 
sempre stato guidato da centrali an¬ 
nidate nello Stato e che l’insieme 
delle trame reazionarie trova una 
sua logica complessiva solo all’inter¬ 
no delle istituzioni. Perché esclude 
re in ipotesi che un potere come 
quello mafioso, potere armato, do¬ 
tato di gerarchie interne, di un pre 
ciso codice di comportamento « mi¬ 
litare », radicato nel tessuto sociale 
siciliano, infiltrato a scala nazionale 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 


27 











"N 


c intrecciato alle grandi organizza¬ 
zioni USA di « Cosa Nostra » pos¬ 
sa offrire in futuro un contributo 
prezioso a quelle stesse centrali di 
provocazione? La « mano nera » del 
fascismo mostra la corda, le viene a 
mancare l’entroterra dell’organizza¬ 
zione missina dilaniata dalle faide 
interne, la sua manovrabilità dal 
centro è drasticamente ridimensio¬ 
nata dalla vigilanza delle masse, re¬ 
sa insormontabile da anni di stragi 
e attentati. In una fase che fosse 
di scontro radicalizzato tra classi 
popolari e volontà restauratrice, il 
potere mafioso potrebbe costituire 
in Sicilia una base logistica e poli¬ 
tica ideale per le tecniche della 
« destabilizzazione » già applicate 
in Grecia e nel Cile di Allende, fa¬ 
vorita dalla collocazione strategica 
nel cuore di un Mediterraneo in¬ 
quieto e da una contemporanea pe¬ 
rifericità rispetto al territorio me¬ 
tropolitano. 


Riverniciata la vecchia 
etichetta separatista 


I risultati che stanno emergendo 
nell’inchiesta di Trento su una se¬ 
rie di provocazioni dinamitarde sono 
lontani solo nello spazio: nelle in¬ 
dagini del procuratore Jadecola è 
venuta concretamente alla luce la 
responsabilità dei servizi segreti ita¬ 
liani nei più gravi attentati attribui¬ 
ti agli « austriacanti » al tempo del¬ 
la guerriglia altoatesina. Un esem¬ 
pio ante-litteram di destabilizzazio¬ 
ne in zone di confine? Forse non è 
un caso se il piano fascista denun¬ 
ciato dall’Antiterrorismo a Cossiga 
prevede, con l’uso della mafia nel 
sud, quello contemporaneo degli 
Ustascia jugoslavi nella zona di Trie¬ 
ste e la ripresa di attività irredenti- 
ste armate in Alto Adige. 

Nel febbraio scorso, proprio men¬ 
tre l’Antimafia dichiarava conclusi 


i suoi lavori con una decisione che 
pesa anche sulle componenti demo¬ 
cratiche della Commissione, 2 cara¬ 
binieri venivano trucidati nel sonno 
ad Alcamo Marina, in terra di ma¬ 
fia. Un delitto feroce e assurdo, che 
però diede il via a una girandola di 
perquisizioni contro gli ambienti 
della sinistra isolana, in un conte¬ 
sto allarmistico che vide intrecciar¬ 
si i comunicati di improbabili « Nu¬ 
clei armati Sicilia » con le sortite di 
risorgenti « Movimenti separatisti » 
come il FAIS (Fronte Armato Indi¬ 
pendenza Sicilia) il RIS (Repubbli¬ 
ca Indipendente Siciliana) e il 
FULAS, sigla che con ambiguità so¬ 
lo apparente stava a significare di 
volta in volta « Fronte Unitario di 
Lotta al Sistema » e « Fronte Unito 
di Indipendenza Arabo-Sicula », ma 
che come le etichette precedenti, 
vantava sotto la riverniciatura sepa¬ 
ratista una matrice schiettamente fa¬ 
scista, già messa a frutto in una cri¬ 
minale semina di bombe nella Sici¬ 
lia orientale. 

Sette giorni prima che il tribu¬ 
nale di Torino pronunciasse la sua 
pesante condanna morale nei con¬ 
fronti di Giovanni Gioia e del par¬ 
tito di cui è stimato esponente, 
l’onorevole ex ministro veniva rein¬ 
tegrato nella direzione democristia¬ 
na, e le rimostranze d’ufficio — o in 
buona fede che fossero — di una 
pattuglia di giovani deputati de fi¬ 
nivano fatalmente per assumere il 
sapore di una beffa di fronte alle 
conclamate velleità di rifondazione. 
C’era una logica molto più lucida 
e concreta che si sovrapponeva a 
quelle proteste e le rendeva plato¬ 
niche, una logica trentennale di re¬ 
gime che domani potrebbe fare da 
incubatrice a fenomeni fin qui pro¬ 
ponibili solo in ipotesi. 

«Le sentenze non scardinano il 
sistema di potere, perciò non abbat¬ 
tono la mafia ». Lo dice Michele 
Pantaleone. Oggi, a trent’anni dal¬ 
l’agguato di Villalba. 

M. V. 


la cultura di sinistra 
allo specchio 

Il piacere sottile 
dell’autocensura 

di Aldo Rosselli 


• Di tanto in tanto la cultura di 
sinistra ha dei sussulti, si guarda al¬ 
lo specchio, enumera i sensi di col¬ 
pa: avviene un piccolo cataclisma 
che sembra abbattere ogni certezza 
e lasciare alle sue spalle il deserto. 
In realtà, più che di cataclisma, si 
tratta di un leggero vento ristorato¬ 
re, che ha il compito di portare un 
po' di sollievo a chiunque, protago¬ 
nista, comprimario o comparsa, ab¬ 
bia fatto parte di un certo capitolo 
della Cultura di Sinistra. Da qual¬ 
che mese, e più intensamente da 
qualche settimana, la massiccia e ap¬ 
parentemente inattaccabile costru¬ 
zione di quella cultura che nel do¬ 
poguerra, tra gli anni Quaranta e 
Sessanta, aveva contribuito a ridare 
una certezza didascalica e operativa a 
chiunque, intellettuale o semplice 
fruitore, fosse uscito dal fascismo e 
dalla guerra con entusiasmi quasi 
sempre troppo fragili, ha cominciato 
a mostrare dei cretti preoccupanti. 

Il primo segno di quest’opera di 
erosione è probabilmente stata la 
scoperta delle « censure » operate da 
Renato Solmi sulla traduzione ita¬ 
liana del 1954 di « Minima Mora- 
lia » di Adorno. Cui, quasi d’uffi¬ 
cio, si deve aggiungere la massiccia 
manomissione della prima edizione 
einaudiana degli scritti di Gramsci. 
Un altro passaggio obbligato è il 
« veto » posto da Delio Cantimori 
e altri ineccepibili « tutori » della 
sinistra alla pubblicazione di Nietz¬ 
sche in Italia, motivati, come ricorda 
Roberto Calasso sul Corriere della 
Sera, dal fatto che, caso mai, si trat¬ 
tava di proporre la lettura del peri¬ 
coloso filosofo tedesco a pochi, ben 
ferrati ideologi. 

Tutti questi esempi, óra ameni 
ora truci, sono narrati da Valerio Ri¬ 
va su un recente numero de 
L’Espresso, col tono divertito e bi¬ 
richino di chi è riuscito a coglier* in 
fallo i finora immacolati maestri del¬ 
l’ortodossia culturale di sinistra. Ma 
in realtà è difficile cogliere l’ilarità 
di chi, come Valerio Riva, ha vissu- 


28 


1 Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 






















to in prima persona, e non da com¬ 
parsa, le vicende in questione. Del 
resto, ed è questo un punto princi¬ 
pale, chiunque avesse operato nella 
cultura in quegli anni Quaranta e 
Cinquanta era per ciò stesso com¬ 
plice, in quanto tutti i parametri del 
suo discorso erano aH’interno di 
una certa ipotesi di cultura, la stes¬ 
sa alternativa o analisi critica ponen¬ 
dosi al massimo come il controcan¬ 
to di una musica barocca. 

Ora, tutti quelli che nei primi 
quindici anni del dopoguerra accor¬ 
sero a Milano per inserirsi nelle case 
editrici che allora distribuivano pa¬ 
tenti di nobiltà sociale insieme al 
ruolo, ambitissimo, di « sacerdozio» 
della cultura, avevano la certezza di 
offrire un servizio, quello di anti¬ 
cipare, col fiuto e con un sapere ini¬ 
ziatico, il futuro assetto della cultu¬ 
ra. Difatti le redazioni delle case 
editrici pullulavano di una continua, 
febbrile eccitazione, di chi era en¬ 
trato nel ruolo insieme solitario, da 
sacerdozio laico, e politico-divulgati¬ 
vo, consistente nella paternalistica 
raccomandazione di quale « prodot¬ 
to » usare, cioè quale libro leggere 
e come leggerlo. 

Come è arcinoto, sono stati Cesa¬ 
re Pavese e Elio Vittorini i primi 
della schiera, poi foltissimi, dei rab¬ 
domanti culturali. Né ciò è avvenuto 
per caso, considerato il lungo e ap¬ 
passionato apprendistato dei due sui 
messaggi segreti ed eterodossi della 
letteratura americana ai tempi del 
fascismo. Insomma, sia Pavese che 
Vittorini s’immettono nel dialogo 
letterario e civile italiano dopo ave¬ 
re fatto gli inviati speciali di un’al¬ 
tra cultura, anzi, usando del privi¬ 
legio della sorpresa e della diversità 
in una cultura, come la nostra, sem¬ 
pre abituata a potersi riparare con¬ 
venientemente dietro un linguaggio 
convenzionale e orientato a senso 
unico. 

Qui s’innesta l’esperienza fonda- 
mentale del Politecnico di Vit¬ 


torini, esperienza discussa e studia¬ 
ta quanto si vuole, ma sostanzial¬ 
mente estranea e quindi minacciosa 
alla linea di continuità della nostra 
cultura. E non si tratta, dopotutto, 
soltanto di Politica e Cultura, quin¬ 
di dei rapporti tra il « disarmato » 
Vittorini e Togliatti, l’astuto per an¬ 
tonomasia. Nella stessa natura del¬ 
l’utopia vittoriniana c’era non solo 
l’ovvia « generosità » ma un attac¬ 
co niente affatto astratto contro le 
varie burocrazie culturali, ma anzi 
privo di mediazione, contro la for¬ 
ma del potere come esso si profila¬ 
va in quegli anni apparentemente ar¬ 
roventati (ma in realtà assai più li¬ 
gi...) dell’immediato dopoguerra. E, 
in effetti, fino ad oggi la figura di 
Vittorini è sempre stata identifica¬ 
ta con le ragioni del rischio, del ri¬ 
fiuto, magari del candore. 

Ma anche su questo punto da 
un po’ di tempo si notano dei segni 
di cambiamento. È di poche setti¬ 
mane fa un’intervista a Oreste del 
Buono sull’Europeo, nel corso del¬ 
la quale l’ex collaboratore del fo¬ 
glio di Vittorini mostra a molti anni 
di distanza di -avere delle forti risi- 
piscenze sulla vicenda del Politecni¬ 
co. « ... io sulla vicenda del Politecni¬ 
co ho un po’ cambiato opinione ne¬ 
gli anni. Allora fui dalla parte di Vit¬ 
torini contro la prepotenza, la bur- 
banzosità, la saccenteria e anche 
quella che mi pareva allora l’ottusi¬ 
tà di'Togliatti. In Togliattti vedevo 
e odiavo il professore di scuola. Ep- 
poi ero naturalmente vicino a Vi- 
torini, perché Vittorini era un capo 
affascinante, anche carnalmente affa¬ 
scinante (mentre Togliatti non ave¬ 
va nulla di affascinante)... Dopo, pe¬ 
rò, senza per questo modificare la 
mia amicizia e il mio affetto per Vit¬ 
torini, ho avuto i primi ripensamen¬ 
ti. Li ho avuti quando ho capito 
che era stato lo stesso Vittorini a 
voler venir via dal Politecnico. Che 
doveva anzi venire via perché la sua 
posizione politica non combaciava 


più per nulla con quella del parti¬ 
to ». 

Ora, sicuramente Del Buono for¬ 
nisce un punto di vista diverso su 
certe vicende rispetto alla « favola 
agiografica » (se vogliamo chiamar¬ 
la così dopo alcuni decenni di ri- 
pensamenti...) intorno ai rapporti 
tra Vittorini e Togliatti. Ma è un 
punto di vista, stranamente, che 
mentre reinstaura le ragioni del po¬ 
tere, togliendolo dalle secche del ma¬ 
chiavellismo, aggiunge all’utopismo 
di Vittorini un di più di malafede, 
o quanto meno di inspiegabile ac¬ 
quiescenza al potere. Tutto somma¬ 
to, e non se ne abbia a male Del 
Buono, è come se, più che un ri- 
pensamento, egli abbia anche nel 
frattempo modificato i personaggi in 
causa: così Togliatti diventa molto 
simile al Berlinguer del compromes¬ 
so storico, mentre Vittorini, nono¬ 
stante il suo carisma (« carnalmente 
affascinante ») assume le sembianze 
di uno qualsasi degli scrittori che si 
agitano sui quotidiani e per mezzo 
di arguzie da salotto, cioè forte nella 
retorica e debole e ambiguo nella 
azione. 

Così anche Valerio Riva, di me¬ 
raviglia in meraviglia, ridimensiona 
tutto ci che avveniva dietro le 
quinte del trionfalismo- della cultura 
di sinistra nei primi due decenni del 
dopoguerra. Ma è, la sua, una tec¬ 
nica che sta tra quella dell’inquisi¬ 
zione e quella della psicanalisi più 
vessatoria. E forse di psicanalisi ce 
n’è davvero più di quanto non si 
credi, dato che scoprire gli altarini 
delle vicende culturali di quei lonta¬ 
ni anni non è poi tanto diverso dal 
rimettere le mani nella propria in¬ 
fanzia che si scopre inevitabilmente 
affetta da mostruosi edipismi e in¬ 
sopportabili traumi. In questa infan¬ 
zia c’erano gli angeli, come Vittori¬ 
ni, i folletti, come Fortini e via via 
altri, come il discolo Feltrinelli; ma 
poi, anche, si capisce, i padri spes¬ 
so indulgenti ma ogni tanto giusta- 


L'Astrolabio quindicinale - n 1 • 14 gennaio 1977 


20 











A 


la cultura di sinistra 

allo specchio 

mente punitivi, che rispondevano ai 
nomi di Togliatti e di Alicata. 

I personaggi (inclusi i tanti non 
nominati) erano schierati in bell’or¬ 
dine, la recita era perfezionata in 
ogni suo dettaglio. Luciano Bian- 
ciardi, nel breve romanzo « Il lavo¬ 
ro culturale », del 1960, ha colto 
con felice ma insieme mesta intuizio¬ 
ne il delirio masochistico che anima¬ 
va il progetto tipo della casa edi¬ 
trice a Milano (ma anche a Torino 
o altrove) negli anni Cinquanta. Ha 
fatto di più, poiché ha individuato 
il grigio costume e i movimenti mec¬ 
canici di chi si votava al disegno di 
una cultura da divulgare a tutti, una 
serie di libri magici che avrebbe 
fatto scattare nella società il livello 
messianico della qualità. 

In fondo sarebbe giusto accoglie¬ 
re anche le osservazioni di Togliatti, 
apparse in una lettera del numero 
33-34 del Politecnico, come un al¬ 
tro capitoletto della storia psicanali¬ 
tica dei rapporti intrattenuti consa¬ 
pevolmente ma soprattutto inconsa¬ 
pevolmente per tanti anni tra politi¬ 
ca e cultura, cioè tra noi stessi e 
tante nostre paure collegate alle rap¬ 
presentazioni* di noi stessi. Che la 
lettera di Togliatti abbia intonato 
il rintocco funebre del Politecni¬ 
co è cosa più che nota; meno chia¬ 
ro è il fascino sottile e irresistibile 
che le perentorie e levigate genti¬ 
lezze del « capo di un grande parti¬ 
to di governo » (secondo la presen¬ 
tazione di Vittorini) esercitarono al¬ 
lora sul direttore del Politecnico 
e che continuano ad esercitare sulla 
fantasia e le censure psicanalitiche 
di quasi tutti gli intellettuali italia¬ 
ni. Per Togliatti, dunque, rispetto a 
un primo periodo fervido di apertu¬ 
re e possibilità, « ... a un certo pun¬ 
to ci è parso che le promesse non 
venissero mantenute. L’indirizzo an¬ 
nunciato non veniva seguito con coe¬ 
renza, veniva anzi sostituito, a poco 
a poco, da qualcosa di diverso, da 
una strana tendenza a una specie di 

'cultura’ enciclopedica, dove una ri¬ 
cerca astratta del nuovo, del diverso, 
del sorprendente, prendeva il t .osto 
della scelta e dell’indagine coerenti 
con un obiettivo, e la notizia, l’in¬ 
formazione (volevo dire, con brut¬ 
to termine giornalistico, la 'varie¬ 
tà’) sopraffaceva il pensiero ». 

• 

Ecco, che in Italia, in anni ancora 
vicini, ci fosse un’autorità che po¬ 
tesse, con adeguato sussiego, con¬ 
dannare il fatto che « una ricerca 
astratta del nuovo, del diverso, del 
sorprendente, prendeva il posto del¬ 
la scelta e dell’indagine coerenti con 
un obiettivo », sembra quasi irreale, 
oltre che tetro. Se il « nuovo », il 
« diverso » e il « sorprendente » po¬ 
tevano impunemente essere relegati 
nel trovarobato dell’impensabile e 
dell’ideologicamente perverso, allo¬ 
ra vuol dire che può avvenire qual¬ 
siasi scherzo nello strano parco dei 
divertimenti del linguaggio, o del 
nostro scatenamento psicanalitico. 
Nel « perbenismo » di Togliatti vi 
è l’esatta analogia, che piove dall’al¬ 
to, della trista auto-censura di chi 
compie il gioco di prestigiatore di 
mutare le parole magiche, o vitali, 
in grigi spauracchi dell’inconscio. E 
allora, si capisce, si costituisce la 
faticosa metafora della cultura co¬ 
me vigilanza, dell’intellettuale che 
dalla redazione della casa editrice 
teme che si possano « compiere o 
avallare sbagli fondamentali di in¬ 
dirizzo ideologico », cioè ancora una 
volta concepisce la cultura soltanto 
come un sostegno della sua più rigi¬ 
da veglia. 

Ne accenna anche Del Buono, 
quando nomina i dirigenti culturali 
del PCI degli anni Quaranta e Cin¬ 
quanta. « Era una politica cultu¬ 
rale fatta da professori umanisti pe¬ 
danti e saccenti come Togliatti, che 
intervenivano continuamente per di¬ 
re 'questo non va’. Ma che cosa non 
andasse loro, i professori, non te lo 
dicevano. Non è un caso che tutte le 
cose fatte da gente di sinistra siano 

state stroncate proprio dalla sini¬ 
stra ». Forse, il fatto che i professo¬ 
ri non dicessero che cosa non an¬ 
dasse loro dipendeva dalla realtà di 
una cultura, quella di sinistra, che 
era fatta più per occupare posizioni 
che per desiderare di raggiungere 
gli obiettivi prefissi, più per una 
ragione strategica che per un certo 
« piacere » che suonava eretico e 
disfattista. 

Sono passati molti anni dal Po¬ 
litecnico e dai « Minima Moralia », 
ma se ci possono ancora interessare 
(o apparire scandali postumi) i bal¬ 
letti del potere intorno alla rivista 
di Vittorini, o i « tagli » di Renato 
Solmi, o tutti i guasti di un perbe¬ 
nismo culturale che rimandava al¬ 
l’infinito i suoi rapporti con la real¬ 
tà e continuava a dialogare col « do¬ 
ver essere », è perché, tutto somma¬ 
to, avviandoci oggi verso gli anni 
Ottanta, siamo sempre alle prese con 
le censure di un modo di operare 
culturale che finge di ignorare una 
realtà che già da tempo ha sconvol¬ 
to le comode previsioni dei « pro¬ 
fessori ». Infatti anche oggi, ma in 
modo ben più disastroso, l’industria 
culturale continua ad offrire da un 
lato l’arcadia culturale a dei lettori 
che si rifiutano di leggere, mentre 
dall’altro lato si apre lo spettacolo 
inverecondo dei pacchetti azionari, 
in continuo movimento, dei finan¬ 
ziamenti Imi, e in genere del pro¬ 
gressivo (e brutale) avvicinamento 
alla Concentrazione totale. Non si 
può negare che l’imposizione, a ca¬ 
vallo tra anni Cinquanta e Sessanta, 
di un mito Lukàcs, sembra un blan¬ 
do pedaggio rispetto all’irrompere 
nella cultura dei nostri giorni del 
scttopotere del Regime. O meglio, 
di fronte alla logica dei consigli di 
amministrazione, anche il più tenue 
rapporto con quell’intimo legame 
psicanalitico che ci legava oscura¬ 
mente, e quindi felicemente, con la 
nostra cultura, pare spezzarsi. 

A. R. 


30 


L'Astrolabio quindicinale n 114 gennaio 1977 















carter alla casa bianca 

Gli uomini e la politica 
del Presidente 

di Giampaolo Calchi Novati 


Gli Stati Uniti devono sapere che alcuni governi europei e alcune forze che gravitano 
attorno al potere accettano la Nato con qualche riserva e pensano che il «test » mi¬ 
gliore sia di riabilitare il Patto atlantico nella sua versione più semplice di alleanza 
militare, escogitata per « contenere » l’Unione Sovietica. 


• Se gli Stati Uniti sono la mas¬ 
sima potenza mondiale e il presi¬ 
dente ha le massime responsabilità 
del suo governo, bene ha fatto il 
« Time. » a proclamare Jimmy Car¬ 
ter « uomo dell’anno » per il 1976. 
Nel 1976 Carter è diventato il pre¬ 
sidente degli Stati Uniti. Ma il suo 
« exploit » potrebbe essere ridimen¬ 
sionato, visto che Carter è giunto 
alla Casa Bianca prima battendo al¬ 
la Convention democratica «losers» 
per vocazione come Jackson e Hum- 
phrey e sconfiggendo, poi nella cam¬ 
pagna vera e propria un presiden¬ 
te in carica, Ford, che non era mai 
stato eletto e per il quale, a que¬ 
sto punto, nessuno più era disposto 
a spendere più di tanto, beneficia¬ 
rio e vittima insieme del Watergate 
e di tutti gli altri errori dell’ammi¬ 
nistrazione Nixon. Per Carter, pe¬ 
rò, le difficoltà maggiori incomin¬ 
ciano adesso, nel 1977, quando do¬ 
vrà tradurre in politica pratica i va¬ 
ghi propositi riformatori che lo han¬ 


no fatto vincere, dovendo per di più 
venire a capo delle molte contrad¬ 
dizioni implicite nello schieramento 
composito che quella vittoria ha re¬ 
so possibile. 

Per il fatto di entrare alla Casa 
Bianca dopo presidenti screditati o 
incolori, dopo un Johnson che abdi¬ 
ca, un Nixon che si dimette per non 
essere incriminato e un Ford che 
affonda nella sua stessa mediocrità, 
il neopresidente è atteso come l’ine¬ 
vitabile promotore di una « svol¬ 
ta ». La politica degli Stati Uniti, 
naturalmente, ha regole relativamen¬ 
te fisse, ma in una situazione di 
inerzia come la presente ci sono i 
margini per una sterzata, se appena 
Carter sarà soccorso dall’inventiva. 
Inizia un nuovo mandato e inizia il 
terzo centenario della storia degli 
Stati Uniti. Ma non si può esclude¬ 
re che questi richiami, con l’insi¬ 
stente rievocazione di un Roosevelt 
o di un Kennedy, finiscano per non 
giovare a Carter, che potrebbe non 


avere né la statura soggettiva né le 
potenzialità oggettive per interpreta 
re quanto di stimolante certamente 
c’è nella società americana attuale: 
c’è qualcosa di fatalistico o di irra¬ 
zionale in questo collegamento, cosi 
tipico della politica americana, fra 
l’« uomo nuovo » venuto dal nulla 
e la capacità di rinnovamento, co¬ 
me se non valesse anche per la so¬ 
cietà americana il rapporto di forza 
a livello strutturale, sia nel momen¬ 
to della scelta di un presidente che 
nel momento dell’esplicazione di 
una politica. 

Un fronte elettorale in America 
non è certo paragonabile a un par¬ 
tito in Europa e neppure a una coa¬ 
lizione di partiti. Con tutto ciò, i! 
coacervo di aspettative, di interessi 
corporativi, di delusioni e di propo¬ 
siti di riscatto che ha determinato 
il successo elettorale di Jimmy Car¬ 
ter potrebbe rivelarsi effettivamente 
un po’ troppo eterogeneo. 

Come esordio, Carter, che ha 




Carter, Mondale e le mogli alla convenzione democratica 


l'Astrolabio quindicinale * n. 1 - 14 gennaio 1977 


31 



















carter alla casa bianca 


giuocato a lungo la-carta dell’anti- 
establishment, ha riempito il suo 
governo di uomini che detenevano 
già da prima posti chiave nel siste¬ 
ma, uomini del potere politico, fi¬ 
nanziario ed amministrativo. Ma 
non si poteva nemmeno pretendere 
che Carter facesse venire a Washing¬ 
ton solo i suoi collaboratori di Atlan¬ 
ta per rimanere fedele all’idea del¬ 
l’inedito. Alla « Pravda », del resto, 
l’« équipe » di Carter è piaciuta, no¬ 
nostante sia stato imbarcato in es¬ 
sa — benché in un posto non at¬ 
tinente in modo diretto alla politica 
£stera — l’ex-ministro alla Difesa 
Schlesinger, che non ha risparmiato 
dichiarazioni e viaggi (persino a Pe¬ 
chino) per propagandare la sua op¬ 
posizione alla distensione come si è 
andata realizzando fin qui, cioè con 
la priorità al rapporto russo-ameri¬ 
cano. 

Chi ha analizzato uno ad uno i 
collaboratori del presidente ha con¬ 
cluso che il dosaggio è stato attento. 
La media sembra tendere al centri¬ 
smo moderatamente progressista. 
Per un conservatore spinto come 
Bell alla Giustizia un intellettuale 
kennedyano, ex-obiettore di coscien¬ 
za, come Soerensen alla testa della 
CIA. E poi un militante nero per 
i diritti civili, braccio destro di 
Martin Luther King in molte batta¬ 
glie, Andrew Young, all’ONU, ma 
anche Brown alla Difesa e appunto 
Schlesinger, che Carter mostra di 
apprezzare molto e che sicuramente 
avrà una parola da dire sulla futura 
politica militare degli Stati Uniti. 
Nel governo c’è anche il dovuto 
omaggio alle donne: addirittura due, 
una delle quali nera. Il segretario di 
Stato, Cyrus Vance, molto noto co¬ 
me negoziatore, dovrebbe essere un 
esecutore più che un protagonista 
in proprio. Per l’economia, con Tho¬ 
mas B. Lance al Bilancio, Michael 
Blumenthal al Tesoro e Charles 
Schultze consigliere speciale del pre¬ 
sidente, la tendenza dovrebbe esse¬ 


re all’ortodossia, con un po’ di libe¬ 
ralismo di stampo keynesiano. 

Un elemento di aggregazione in¬ 
teressante sarebbe l’appartenenza di 
molti degli uomini del presidente 
alla cosiddetta Trilateral Commis- 
sion, che raccoglie uomini d’affari, 
politici, sindacalisti e universitari del 
Nord America, dell’Europa occiden¬ 
tale e del Giappone. Fino a pochi 
mesi fa la Trilateral era presieduta 
da Zbignew Brzezinski, chiamato da 
Carter ad Occupare il posto che per 
alcuni anni, prima della sua nomina 
a segretario di Stato, fu di Kissin- 
ger, cioè di consigliere del presiden¬ 
te per i problemi della sicurezza. 
Oltre a Brzezinski, fanno parte del 
lato nordamericano della Commis¬ 
sione anche Vance e il vicepresiden¬ 
te Mondale. L’ideologia di questa 
organizzazione è orientata verso una 
solidarietà accresciuta fra i paesi del¬ 
lo sviluppo, il Nord-Ovest del mon¬ 
do, per far fronte all’ascesa del Ter¬ 
zo mondo e comunque per raziona¬ 
lizzare e istituzionalizzare l’egemo¬ 
nia dei veri detentori del potere e- 
conomico e tecnologico, se non più, 
almeno in modo esclusivo, anche del 
potere finanziario. Il rapporto fra 
la Trilateral e il mondo socialista 
sarebbe meno definibile, dato che a 
Brzezinski, ritenuto nel contempo 
un sostenitore della « linea dura » 
con Mosca, si potrebbe attribuire 
— come prospettiva lunga — una 
assimilazione dell’URSS e dei paesi 
dell’Est sviluppati nella « comunità 
avanzata » (a condizione naturalmen¬ 
te che la distensione operi nel sen¬ 
so giusto). 

Questo connotato è importante 
perché tutto lascia credere che l’am¬ 
ministrazione Carter darà la prece¬ 
denza all’economia internazionale ri¬ 
spetto alla politica internazionale. 
Le relazioni Est-Ovest hanno det¬ 
to tutto quello che potevano dire. 
Carter ha già previsto un incontro 
con Breznev, ma l’obiettivo del 
« vertice », a parte l’esigenza di 


« conoscersi », dovrebbe essere la 
sottoscrizione di un terzo accordo 
per le armi strategiche, che sta a 
cuore alle grandi potenze perché an¬ 
che in fase di riflusso della disten¬ 
sione il «selfrestraint» nucleare non 
deve essere allentato. Per il resto, 
Carter si dedicherà a mettere ordi¬ 
ne nel sistema economico mondiale, 
dove si tratta di recuperare alla 
« leadership » del capitalismo ameri¬ 
cano il « surplus » dei petrodollari; 
la ripresa economica degli Stati Uni¬ 
ti e del mondo occidentale dovreb¬ 
be anche essere la garanzia miglio¬ 
re per far rientrare il « secessioni¬ 
smo » potenziale dei paesi europei 
in preda a crisi strutturali, come 
l’Italia. 

Si è parlato molto, prima e dopo 
le elezioni di novembre, delle inten¬ 
zioni di Carter a proposito del- 
l’« eurocomunismo ». Sembra accer¬ 
tato che per Carter la stabilizzazio¬ 
ne economica dell’Italia è la premes¬ 
sa per eventuali rettifiche del qua¬ 
dro politico, ritenendo che non sia 
sostenibile una duplice destabilizza¬ 
zione, economica e politica. Gli Sta¬ 
ti Uniti potrebbero aver già fatto 
presente ai loro alleati del mondo 
petrolifero (Arabia Saudita) che gli 
interessi comuni richiedono una 
strategia comune: Yamani ha espli¬ 
citato questo progetto, dando una 
interpretazione « politica » della dis¬ 
sociazione dell’Arabia Saudita e de¬ 
gli Emirati dagli aumenti decisi da¬ 
gli altri paesi dell’OPEC. E’ una 
politica che si colloca in una dimen¬ 
sione che ha ben pochi punti di 
contatto con la distensione e in gene¬ 
re con il rapporto USA-URSS, e 
questa impostazione non sembra fa¬ 
vorire la politica delle forze — co¬ 
me i comunisti italiani — che pur 
senza sottrarsi alle incombenze del¬ 
la stabilizzazione vorrebbero che es¬ 
sa fosse intonata da una parte con 
il processo di avvicinamento fra i 
blocchi (per coerenza con l’obietti¬ 
vo non ancora abbandonato del loro 


32 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 























■scioglimento) e dall’altra con la mar¬ 
cia verso il nuovo ordine economico 
internazionale per il quale si batto¬ 
no i paesi in via di sviluppo. 

Il maggiore « progressismo» di 
Carter dopo l’amministrazione Ford- 
Kissinger quanto ai rapporti con 
l’URSS e il mondo non-capitalista 
(comprendendo in esso i paesi del 
Terzo mondo che hanno fatto una 
scelta socialista fortemente condizio¬ 
nata dall’URSS: gli Stati Uniti po¬ 
trebbero essersi persuasi che non è 
più né ragionevole né conveniente 
tentare di esportare il capitalismo 
nel Terzo mondo come via per su¬ 
perare il sottosviluppo) consistereb¬ 
be in questo: l’America non ridu¬ 
ce più l’interpretazione della politi¬ 
ca mondiale a una competizione a 
due fra Stati Uniti e URSS, o se si 
vuole fra capitalismo e comuniSmo. 
Col vantaggio di evitare certe «ca¬ 
dute» sul genere del Cile, ma con 
lo svantaggio di perdere ulterior¬ 
mente di vista l’articolazione di un 
sistema internazionale di tipo bi- 
multipolare, come garanzia di sta¬ 
bilità ed insieme di giustizia. Se è 
vero d’altra parte che la preoccu¬ 
pazione principale è l’economia in¬ 
ternazionale, gli Stati Uniti mostra¬ 
no di non aver capito la funzione 
esatta dell’URSS in questo campo, 
dopo che l’idea di associare l’URSS 
ad una politica di portata mondiale 
per far uscire il Terzo mondo dal 
sottosviluppo, concepito anche co¬ 
me causa endemica di conflitti e 
di crisi, è svanita. Anche la maggio¬ 
re flessibilità degli Stati Uniti nei 
confronti di paesi come l’Angola o 
Cuba ( è augurabile che una « testa 
d’uovo » come Soerensen non im¬ 
pieghi più la CIA come uno stru¬ 
mento di tipo « terroristico » con¬ 
tro i regimi non graditi) nasconde il 
sottinteso che il « profilo basso » 
potrebbe favorire il reingresso di 
questi paesi in una certa sfera di in¬ 
fluenza proprio perché, al di là del- 

le opzioni ideologiche e persino di 
certe esperienze « pure e dure », il 
mercato mondiale è uno solo, quel¬ 
lo dominato dal dollaro, dalle multi¬ 
nazionali e dal « marketing » di par¬ 
te occidentale. 

Il contributo dell’URSS potreb¬ 
be risultare prezioso però per risol¬ 
vere in modo « stabilizzante » crisi 
come quelle del Medio Oriente o 
dell’Africa australe. Una delle carat¬ 
teristiche della politica di Kissinger 
era di trattare problemi simili al di 
fuori di un « crisis management » 
concordato: l’emarginazione del¬ 
l’URSS aggravava le tensioni, ma, 
praticando Kissinger per principio 
la destabilizzazione controllata per 
ripresentarsi sulla scena come me¬ 
diatole o conciliatore, quello non 
era di per sé un inconveniente. 
Niente nelle prime dichiarazioni di 
Carter autorizza ad anticipare quale 
sarà la linea di condotta sul con¬ 
flitto arabo-israeliano o sulla Rho- 
desia. L’ambasciatore all’ONU è un 
negro, una via di mezzo, si dice, fra 
il « bastone » di Moynihan e la « ca¬ 
rota » di Scranton, e quanto meno 
sull’evoluzione dell’Africa meridio¬ 
nale I’ONU sarà chiamata a svolge¬ 
re una sua funzione. Ma la mode¬ 
razione di un rappresentante onesto 
al Palazzo di Vetro non è una con¬ 
dizione sufficiente se non sarà chia¬ 
rito il rapporto centrale. 

E a questo proposito allarme ha 
suscitato il documento prodotto con 
tempismo fin troppo sospetto dal¬ 
la CIA sul riarmo dell’Unione So¬ 
vietica e più ancora sulla strategia 
perseguita dai militari sovietici, tut¬ 
ta protesa ad assicurarsi una supe¬ 
riorità convenzionale e nucleare in¬ 
vece di gestire la parità. Uno degli 
slogan con cui Carter attaccò Ford 
nella campagna elettorale parlava di 
ridurre le spese per gli armamenti. 
Probabilmente era una promessa di 
cui Carter non poteva fare a meno 
se voleva restare fedele al « cliché » 

dell’uomo del Sud, un provinciale 
pieno di buon senso e non corrot¬ 
to dalla Realpolitik. La CIA non 
ha neppure atteso il discorso del- 
l’« inauguration » per ricordargli 
che la corsa al riarmo con l’URSS 
è sempre in cima a tutte le priorità: 
né poteva essere diversamente quan¬ 
do si pensi alla presenza, nel fron¬ 
te elettorale che alla fine si schierò 
con Carter, tanto dei sindacati che 
del complesso militare-industriale 
(il « fenomeno » Carter è stato 
« preparato da lontano » dalle forze 
al « top » della potenza americana, 
ha scritto « Le Monde Diplomati- 
que »). Può essere un segno non 
di buon auspicio un « revirement » 
alla vigilia dell’ingresso alla Casa 
Bianca, ma Carter e il suo ministro 
della Difesa Brown (l’ex-ministro 
Schlesinger è addirittura favorevole 
all’uso di armi nucleari con funzioni 
tattiche già nei primi pioli del- 
P« escalation » e nelle querre limi¬ 
tate) hanno dovuto ricredersi sulla 
possibilità di apportare tagli all’iper¬ 
bolico bilancio militare. 

Come nella scelta degli uomini da 
immettere nell’amministrazione, il 
Carter presidente non ha paura di 
smentire, nel nome del realismo, il 
Carter candidato. Ma la politica mi¬ 
litare non è confinata agli Stati Uni¬ 
ti. Coinvolge direttamente gli allea- 
ti, anche quelli dell’Europa occiden¬ 
tale. Gli Stati Uniti (e Luns alla 
NATO) devono sapere che alcuni 
governi europei e alcune forze che 
gravitano attorno al potere accetta¬ 
no la NATO con qualche riserva, e 
pensano che il « test » migliore sia 
di riabilitare il Patto atlantico nel¬ 
la sua versione più semplice di al¬ 
leanza militare, escogitata per « con¬ 
tenere » l’URSS: tanto peggio per 
chi aveva pensato di immaginare la 
NATO come un club politico o ad¬ 
dirittura come un’organizzazione per 
collaborare con il resto del mondo. 

G. C. N. 


L'Astrolabio quindicinale • n. 1 • 14 gennaio 1977 


33 










Anche dall’Italia 
un contributo alla 
pace del 
Medio Oriente 

Conversazione con Tullia Carettoni 


D. - Una delegazione del Forum 
Italiano per la pace e la sicurezza 
in Europa e nel Mediterraneo si è 
recata in Israele. Chiediamo alla se¬ 
natrice Carettoni che ne faceva par¬ 
te, le ragioni del viaggio, il tipo di 
incontri ed il loro contenuto non¬ 
ché il suo punto di vista su Israele 
e le reali possibilità di una pace in 
Medio Oriente. 

R. - La delegazione del Forum che 
si è recata in Israele in dicembre fa¬ 
ceva seguito all’iniziativa dell’invio 
di una delegazione nel Libano 
quest’estate per prendere contatto 
con i capi dell’OLP, con i palestine¬ 
si, con le forze libanesi, per ren¬ 
dersi cono della situazione in Me¬ 
dio Oriente. Certamente il Forum 
non può fare molto, non ha molto 
potere, tuttavia sentivamo l’esigen¬ 
za di avere una informazione non 
unilaterale, una informazione globale 
della situazione, anche per capire 
bene quali possono essere i termini 
di una eventuale trattativa di pace. 
Adesso si parla molto di trattative 
di pace. 

D. - Come era composta la dele¬ 
gazione? 

R. - La delegazione aveva rappre¬ 
sentanti di tutti i partiti dell’arco 
democratico, dell’arco costituziona¬ 
le. C’erano comunisti, socialisti, la 
Sinistra Indipendente, repubblicani 
e democristiani. L’on. Fracanzani 
presidente del Forum che presiede¬ 
va anche la delegazione è appunto 
democristiano. 

Il Forum adopera questo sistema 
di mandare delegazioni unitarie pro¬ 
prio perché ci si presenti in qual¬ 
che modo rappresentando, anche se 
informalmente, il nostro paese ed 
anche perché le informazioni che si 
raccolgono, se si raccolgono, non 
siano filtrate da una parte ma siano 
in qualche modo viste a seconda 
del vaglio delle varie opinioni. E 
debbo dire subito che una cosa in¬ 
teressante in Israele è stata che la 
delegazione, che pur aveva in sè 


forze che su questi problemi hanno 
o hanno avuto almeno posizioni 
diverse, ha riportato un’impressione 
univoca. Questo è molto importante 
perché, mi sembra, testimonia della 
serietà del Forum e della buona 
fede del lavoro che stiamo facendo. 

Questo viaggio ha una piccola 
storia. Si domandò all’ambasciata 
israeliana di andare e il segretario 
del Forum in un primo momento 
non ebbe una accoglienza entusia¬ 
sta. Della delegazione andavano a 
far parte esponenti del Partito co¬ 
munista e alcune persone che aveva¬ 
no avuto anche personalmente dei 
contatti con l’OLP e che avevano 
una tradizione di contatti con le for¬ 
ze di liberazione palestinese. Devo 
dire che l’atteggiamento degli israe¬ 
liani è profondamente cambiato per¬ 
ché da quel primo contatto abbia¬ 
mo avuto un vero e proprio capo- 
volgimento. Noi siamo stati ospiti 
del governo israeliano. E’ abbastan¬ 
za interessante il fatto che una de¬ 
legazione italiana non ufficiale è 
stata ospite del governo israeliano 
ed ospite gradito, ospite molto ben 
trattato. Non solo. Siamo stati fatti 
segno a molte attenzioni, a dibattiti 
condotti con grande franchezza, e 
a testimonianza dell’interesse degli 
israeliani sta il fatto che siamo stati 
più di tre ore a colloquio con il 
ministro degli Esteri. Ora se noi te¬ 
niamo conto di quanto poco tempo 
abbiano i ministri in genere, e nella 
fattispecie il ministro degli Esteri 
israeliano, che è anche il ministro 
della difesa; e se teniamo conto dei 
giorni anche molto complessi, come 
dirò tra breve, che stavano vivendo 
in Israele, dobbiamo dire che il go¬ 
verno israeliano ha dato importan¬ 
za a questa delegazione. Lo ha fatto 
perché era una delegazione che par¬ 
tiva da un presupposto, che lo Sta¬ 
to di Israele ha diritto di vita e ha 
diritto di avere confini sicuri e ga¬ 
rantiti, ma anche perché con molta 
franchezza non si lasciava andare 


a dichiarazioni di amicizia, di af¬ 
fetto, di rimpianto e di esecrazione 
per le grandi sofferenze imposte al 
popolo israelita, perché questo era 
scontato, era una delegazione non 
di antisemiti, era una delegazione di 
gente che aveva le carte in regola 
nel suo passato anche personale. Era 
anche una delegazione di gente che 
aveva delle notizie, aveva dei con¬ 
tatti con quelli che sono gli inter¬ 
locutori validi e cioè i palestinesi. 
Mi sembra di poter dire che nella 
coscienza degli israeliani è penetra¬ 
to questo concetto: che cioè il pro¬ 
blema palestinese esiste e che non 
si può non tenere conto del pro¬ 
blema palestinese. 

Si rendono conto che il nodo pa¬ 
lestinese è un nodo di cui non ci 
si può infischiare, che questo è un 
problema e se si danno delle soluzio¬ 
ni che non tengono conto dell’auto¬ 
determinazione dei palestinesi, que¬ 
ste soluzioni non possono essere del¬ 
le soluzioni valide. Non solo, ma la 
nostra impressione è che il timore 
per gli israeliani democratici è che 
si arrivi ad un accordo tra le grandi 
potenze che garantisca Israele nei 
suoi confini ma che praticamente 
conculchi i palestinesi. Credo che i 
più intelligenti fra gli israeliani si 
rendano conto che questo sarebbe 
avere ancora un focolaio di terrori¬ 
smo, di disperazione in quel paese. 
Non ci sarebbe una pace sicura. I 
più avvertiti tra di loro lo sentono 
e quando Allon alla fine del collo¬ 
quio, dopo aver fatto delle tirate 
feroci contro l’OLP, contro il docu¬ 
mento di Rabat, contro il fatto che 
i popoli arabi parlano ancora della 
distruzione di Israele ecc. ecc. ha 
concluso dicendoci « ma in fondo 
io tratto con tutti quelli che mi ri¬ 
conoscono », significa che se l’OLP 
avesse questo colpo d’ala di ricono¬ 
scere lo Statd di Israele, Israele si 
troverebbe certo politicamente in 
grande difficoltà, costretta a prende- 
dere atto di questo fatto e nella im- 


34 


L'Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 












possibilità di rifiutare di trattare con 
’o stesso OLP. 

D. - Come sarebbe possibile ad 
un popolo senza Stato riconoscere 
Israele? 

R. - Intanto bisogna dire che i pa¬ 
lestinesi rivendicano la Cisgiordania 
e la striscia di Gaza che però è Egit¬ 
to e che l’Egitto dovrebbe essere 
disposto a cedere. Allora il punto 
è questo. Le soluzioni che vengono 
avanti sono due: una è quella del 
ministato palestinese che, mi sem¬ 
bra, nel dibattito politico a livello 
di forze arabe e anche da parte del¬ 
l’Unione Sovietica, comincia a ve¬ 
nir fuori. Devo però osservare che 
ufficialmente il governo israeliano 
si dichiara contrario a tale soluzione 
perché sostiene che questo Stato non 
saprebbe come vivere e diventereb¬ 
be un focolaio di irredentisti. 

L’altra soluzione, che però i pa¬ 
lestinesi non mi sembra, per ora, 
vogliano accettare e che è caldeg¬ 
giata invece, diciamolo pure, da 
Israele e dalla Giordania, è la con¬ 
federazione, cioè la confederazione 
tra giordani e palestinesi. Leggevo 
su un giornale che il presidente del 
congresso israelitico avrebbe affer¬ 
mato che di questa confederazione 
potrebbe far parte domani anche 
Israele; ne nascerebbe così un’area 
una sorta di mercato comune. 

Apro una parentesi per dire che 
questo discorso del mercato comu¬ 
ne medio-orientale in Israele si sen¬ 
te molto come prospettiva. Per 
esempio nel colloquio con la con¬ 
federazione dei lavoratori, questo è 
venuto fuori con molta forza. In 
fondo si vorrebbe, una volta -arrivati 
alla pace, realizzare questo mercato 
comune di cui dovrebbero far par¬ 
te gli Stati arabi nel più largo nu¬ 
mero possibile ed Israele. A questo 
riguardo l’osservazione molto sem¬ 
plice è che Israele sarebbe più di 
quanto non sia la Germania nel no¬ 
stro mercato comune. Ma questo è 
un discorso del futuro. Porto una 


testimonianza personale. Avevo avu¬ 
to occasione di avvicinare parecchi 
deputati israeliani al parlamento eu¬ 
ropeo a Strasburgo, per un paio di 
volte e avevo parlato con loro. Ho 
incontrato la stesse persone in Israe¬ 
le e devo dire che, secondo me, dei 
passi avanti sono stati fatti. Cioè 
c’è la sensazione che quest’anno pos¬ 
sa essere un anno favorevole alla pa¬ 
ce e che qualche cosa si possa fare. 
Certamente esiste ancora quello che 
gli israeliani chiamano il complesso 
di Masadà (Masadà era il centro del¬ 
la resistenza ebrea contro i romani 
dove tutti quanti si uccisero per 
non cedere), e per questo sosten¬ 
gono che una nuova guerra per loro 
può anche significare sparire. Cioè 
significa ancora una volta il geno¬ 
cidio ecc. ecc. C’è questo atteggia¬ 
mento. Ma c’è anche quello più ra¬ 
gionevole che dice: « adesso a que¬ 
sto punto non possiamo più affida¬ 
re alle armi la nostra sorte, biso¬ 
gnerà pur arrivare a trattare ». 

Certo è che loro tratterebbero vo¬ 
lentieri con gli egiziani magari, o do¬ 
mani con Hussein o con la Siria, ma 
c’è in mezzo questa questione gros¬ 
sa che preme a noi democratici, dei 
palestinesi. 

D. - Dall'incontro con le forze po¬ 
litiche è emerso qualche cenno al 
ruolo che l’Italia può svolgere in 
favore della pace in Medio Oriente? 

R. - Nel grande schieramento, c’è 
questo gruppone, grosso modo so¬ 
cialista riformista, socialdemocrati¬ 
co, che governa, c’è il MAPAI che 
sarebbe socialdemocratico e poi il 
MAPAM che sarebbe piuttosto so¬ 
cialista. Ora gli amici del MAPAM 
vedrebbero con grande favore una 
iniziativa dell’internazionale sociali¬ 
sta o anche del Partito socialista ita¬ 
liano. Ce lo hanno detto espressa- 
mente. 

Ma voglio dire un’altra cosa. Il 
discorso che noi portavamo era que¬ 
sto. Ci sono due cose da fare. Una 
è il riconoscimento dello stato di 


Israele da parte degli stati arabi 
e da parte dell’OLP, cioè bisogna 
avere il coraggio di dire: «gli israe¬ 
liani ci sono, ormai questo stato ha 
28 anni, non è pensabile di cancel¬ 
lare questo stato ». 

Dall’altra parte bisogna che gli 
israeliani si rendano conto che i 
palestinesi hanno diritto, come tutti 
i popoli, all’autodeterminazione. 
Non è pensabile che un popolo pos¬ 
sa essere sacrificato, cancellato, op¬ 
pure peggio, come ebbe a dire a 
Strasburgo Abba Eban, che in fon¬ 
do la Giordania è la patria dei pa¬ 
lestinesi. Come si fa a dire a uno:’ 
la tua patria è quella. O la si rico¬ 
nosce come proprio una patria o se 
no non esiste. Questi sono principi 
che oramai si tenta di fare affer¬ 
mare nel mondo, insomma non sia¬ 
mo più al tempo del Congresso di 
Vienna. 

I problemi sono questi. Questi 
sono due grossi passi a cui bisogne¬ 
rebbe cercare di arrivare. Tra un an¬ 
no, gli israeliani hanno la scadenza 
elettorale. E questo non li imbaraz¬ 
zerà? Ad un certo punto ci vuole 
coraggio: questo discorso di pace 
bisogna che una forza politica lo 
faccia suo. Il PC israeliano lo fa, ma 
è un partito fortemente minoritario, 
ha soprattutto un elettorato arabo. 
Bisogna che qualche forza lo fac¬ 
cia proprio con più coraggio. Non 
c’è dubbio che è dannoso per la 
pace in sé andare alle elezioni con 
una opinione pubblica che a nostro 
giudizio non è ancora orientata nei 
confronti della pace, nei confronti 
di una trattativa che si deve fare, 
nei riconoscimenti da dare. 

Allora l’anno elettorale pesa pa¬ 
recchio anche perché si rischia che 
le forze che vorrebbero in qualche 
modo trattare appaiono più equivo¬ 
che delle forze di destra: le forze 
che dicono facciamo un’altra guerra, 
la bomba atomica ecc. ecc. Ora a 
me sembra però che in questi ul¬ 
timi giorni sono successi dei fatti 


L'Astrolabio quindicinale * n. 1 - 14 gennaio 1977 


35 














"N 


anche daU'italia 

un contributo alla pace 
del medio oriente 

messico: problemi 
della nuova presidenza 

Il pendolo 
e la Storia 

di Manuel Casares 

molto importanti che hanno por¬ 
tato alla crisi del governo Rabin. 

Il governo Rabin è entrato in crisi 
su un fatto che ci fa sorridere per 
la nostra mentalità laica: il partito 
ortodosso che sosteneva la coalizio¬ 
ne governativa, ha presentato una 
mozione di sfiducia perché Rabin si 
era recato all’aeroporto a ricevere 
degli aeroplani americani, gli F 10 
se non sbaglio, e questa cerimonia si 
è protratta oltre la comparsa della 
prima stella in cielo, che segna il 
venerdì pomeriggio, l’inizio del 
«sabato», festa durante la quale non 
si può assolutamente esercitare nes¬ 
suna attività. Soprattutto pubblica. 
Gli hanno presentato la mozione di 
sfiducia. Rabin dà le dimissioni pri¬ 
ma che sia approvata la mozione 
di sfiducia. 

Ora è giusto domandarsi se tut¬ 
to questo non sia stato preparato 
da Rabin per andare alle elezioni 
anticipate e cancellare così questo 
anno di grandi difficoltà per even¬ 
tuali trattative. Rabin in questo mo¬ 
do accelera i tempi delle elezioni e 
se ottiene la maggioranza, con 4 
anni davanti, senza più consultazio¬ 
ni elettorali ha le mani più libere 
per una possibile iniziativa poli¬ 
tica. 

Se poi queste mani libere legife¬ 
reranno bene o male questo io non 

10 so, ma mi sembra che questo sia 

11 disegno politico; altrimenti, tut¬ 
to sommato, le forze per respingere 
la mozione della stella in cielo for¬ 
se c’erano. 

Anche se, mentre eravamo lì 
noi, è stata respinta una proposta 
di legge dell’indipendente di sinistra 
Tamir per il matrimonio civile. Per¬ 
ché in Israele c’è solo il matrimonio 
religioso, il che comporta dei pro¬ 
blemi molto grossi, perché non ba¬ 
sta che la gente vada davanti al rab¬ 
bino e buona notte. No, è necessa¬ 
ria una « adeguata » preparazione 
religiosa per avere il matrimonio. 
Non solo. Ma qualora questo ma- 

trimonio avvenga con una prepara¬ 
zione non tanto sufficiente, oppure 
qualora i due coniugi laici si vadano 
a sposare a Cipro, come succede; 
se non vogliono avere, se non pos¬ 
sono avere, una sufficiente prepara¬ 
zione religiosa per il matrimonio, il 
matrimonio religioso può in seguito 
essere negato ai figli che nascono da 
questa unione; il che è veramente 
enorme. 

E quando noi portiamo avanti le 
istanze dello Stato laico, ci rispon¬ 
dono che loro sono uno Stato gio¬ 
vane che ha bisogno di elementi di 
coesione. Loro dicono: « Noi abbia¬ 
mo qui irakeni, yemeniti, gente che 
era assolutamente a livello di pasto¬ 
rizia, abbiamo ebrei tedeschi di 
grande finezza culturale, abbiamo i 
polacchi e dobbiamo cogliere ogni 
elemento che sia coesione per il no¬ 
stro Stato e per il nostro popolo. 
Ecco perché queste istanze laiche 
per ora vengono respinte fino a che 
non cambierà la generazione ». 

Concludendo penso che sia pos¬ 
sibile, se ci mettiamo con buona 
volontà, o per il forum o per le 
’ forze politiche italiane, provocare un 
incontro intorno ad una tavola ro¬ 
tonda, di forze israeliane non margi¬ 
nali — questa è la cosa da fare per¬ 
ché far venire un comitato della pa¬ 
ce è sempre possibile — delle forze 
non marginali dunque, certamente il 
MAPAM, e delle forze palestinesi 
e arabe. Credo che questo sia pos¬ 
sibile ed è una iniziativa che forse 
il Forum deve prendere. Se non la 
può prendere il Forum bisogna che 
però da parte dell’Italia questo sia 
fatto. 

■ 

* L analisi dall estero della politica 
messicana ha confermato l’opinione 
generale secondo cui a un presi¬ 
dente progressista succede invaria¬ 
bilmente uno di destra e viceversa. 
Siccome i presidenti reazionari non 
potevano rompere i loro legami con 
la rivoluzione messicana, aprivano 
la strada, nel proprio gruppo go¬ 
vernativo, ad una ricomposizione 
interna di forze e, come risultato 
di questa, all’elezione di un nuovo 
leader capace di riflettere meglio, 
e anche di contenere, le reazioni 
delle masse di fronte alle nuove 
spinte sociali provenienti dalla real¬ 
tà nazionale e internazionale. Il 
fatto che il dialogo politico si 
svolgesse nel seno di una oligar¬ 
chia di partito assicurava la. tran¬ 
sizione legale e pacifica verso iì 
punto opposto del movimento pen¬ 
dolare: tutto il sistema si appog¬ 
giava sul condizionamento del Pri 
da parte della rivoluzione messi¬ 
cana e della rivoluzione messicana 
da parte del Pri. 

Ma la storia sociale non segue 
un movimento isocronico e pendo¬ 
lare, anche se la sua avanzata è 
continuamente segnalata da perio¬ 
di di transizione, di consolidamen¬ 
to e anche di degenerazione e re¬ 
gresso. Il rafforzamento in nume¬ 
ro e in coscienza del proletariato 
cambia il rapporto di forze tra le 
classi da una parte, e i margini di 
manovra e gli equilibri interni nei 
settori dominanti, dall’altra. E l’am¬ 
modernamento (capitalista) di un 
paese crea nuovi alleati al prole¬ 
tariato e trasforma i vecchi rappor¬ 
ti di forze. 

Qual é, in sintesi, il bilancio dei 
sei anni di governo di Echeverrìa? 

Sul piano politico è indubbiamen¬ 
te di distensione, giacché il presi¬ 
dente uscente ha liberato gran par¬ 
te dei contestatori che aveva con¬ 
tribuito a mettere in prigione co¬ 
me ministro degli interni di Diaz 
Ordaz ed ha lasciato un margine 
maggiore al dialogo politico col ri¬ 
sultato, tra l’altro, di consentire 



L Astrolabio quindicinale - n. 1 - 14 gennaio 1977 


























pw»«g 

Ciudad Juarez: una scuola rurale organizzata dal Pii 


la candidatura alla presidenza di 
Valentin Campa, da parte del Pcm 
(partito comunista). Sul piano in¬ 
ternazionale si è segnalato per la sua 
apertura verso Cuba, il suo antim- 
perialismo, il suo terzomondismo. 
Sul piano sociale è stato contraddit¬ 
torio, perché mentre da un lato si 
appoggiava alla mobilitazione con¬ 
tadina contro la rendita agraria pa- 
rassitaria, cercava dal. canto suo di 
evitare di essere scavalcato a sini¬ 
stra da parte degli operai e mante¬ 
neva in piedi, nell’essenziale, l’a- 
parato dei charros, la burocrazia 
sindacale gangsteristica sostanzial¬ 
mente alleata aH’imperialismo. In 
campo economico, infine, è stato 
responsabile del fallimento — e- 
semplare e ricchissimo di insegna- 
menti — di una audace e coerente 
politica borghese nazionalista di 
riforme del capitalismo, realizzata 
con grandi sforzi tecnologici e am¬ 
ministrativi in condizioni tuttavia 
eccezionalmente favorevoli. 

Alla fine dei sei anni del suo 
periodo presidenziale, Echeverrìa la¬ 
scia un debito estero di più di 22 
miliardi di dollari e un deficit com¬ 
merciale che, nel 1975, è arrivato 
a 3 miliardi e mezzo di dollari 
oltre ad una moneta instabile, sva¬ 
lutata quasi del 70% negli ultimi 
mesi e sottoposta ad una forte 
pressione. Lascia anche un bilan¬ 
cio di grandi investimenti statali 
in agricoltura e nelPindustria di ba¬ 
se. La superficie fertilizzata è rad¬ 


doppiata, l’irrigazione si è estesa 
fino a 1.111.438 ettari, si sono co¬ 
struite 149 dighe, si sono create 
più di 5000 « fattorie » collettive, 
gli investimenti in agricoltura so¬ 
no passati da 6 miliardi di pesos 
nel 1970 a 60 miliardi nel 1976. 

Gli investimenti esteri hanno 
continuato a créscere e a sviluppar¬ 
si mentre il reddito ha continuato 
a concentrarsi sempre più in poche 
mani e l’industria manifatturiera 
ha continuato a prosperare sui bas¬ 
sissimi salari reali e sull’abbondante 
mano d’opera a basso prezzo crea¬ 
ta dalla crescente disoccupazione. 
Su una popolazione attiva di 16 
milioni di persone, 11 milioni per¬ 
cepiscono redditi inferiori al sala¬ 
rio minimo. La svalutazione mone¬ 
taria di agosto (di quasi il 60%) 
è stata compensata da aumenti sa¬ 
lariali dal 16 al 23 per cento, ma 
alla svalutazione di ottobre non è 
seguito nessun aumento salariale. 
Secondo la Conacintra (Came¬ 
ra Nazionale dell’Industria di Tra¬ 
sformazione) ci sono attualmente 
2,9 milioni di dosoccupati (il 17,5 
della popolazione attiva). 

Echeverrìa puntò gran parte del¬ 
le risorse disponibili sulla carta del 
petrolio, che nel 1975 ha dato una 
entrata in conto esportazioni di 500 
milioni di dollari e che, con i nuo¬ 
vi giacimenti, potrebbe permettere 
a Lopez Portillo di esportare per 
un valore di circa 2 miliardi di 
dollari. Ed ha puntato anche sullo 


sviluppo del ruolo dello Stato nel¬ 
la economia. Nel 1970 il Messico 
possedeva 86 imprese, con un at¬ 
tivo del valore di 9.840.000.000 
dollari e dopo sei anni è proprieta¬ 
rio di 740 imprese, con un attivo 
valutato in 36.960.000.000 dollari. 
Durante la presidenza Echeverrìa, 
mentre gli investimenti privati di¬ 
minuivano, quelli statali cresceva¬ 
no con lo stesso ritmo. 

D’altra parte, anche per creare 
un mercato interno, e per evitare 
un’esplosione nelle campagne, ha 
sviluppato le fattorie collettive cui 
ci siamo riferiti. Ma il tipo di 
sviluppo capitalista seguito dal Mes¬ 
sico nel dopoguerra, importando i 
modelli di consumo dagli Stati Uni¬ 
ti, ha trasformato il Messico da 
paese esportatore di prodotti agri¬ 
coli in paese importatore nel cam¬ 
po alimentare ed ha aumentato an¬ 
che l’importazione di materie pri¬ 
me per l’industria leggera e di pro¬ 
dotti manifatturati. Gli ejidos (fat¬ 
torie) collettivi che dal punto di 
vista del credito e delle vendite 
dipendevano dal mercato, control¬ 
lato dalle agro-industrie e dalla fi¬ 
nanza privata, non cambiarono la 
situazione delle campagne ed al 
contrario aggravarono la disoccu¬ 
pazione, gettando sul mercato gran¬ 
di eccedenze di mano d’opera (gli 
ejidos classici, al contrario, hanno 
una produttività bassissima ma « ce¬ 
lano » la disoccupazione mantenen¬ 
do milioni di contadini nell’auto¬ 
consumo). 

Si creavano così le condizioni per 
una grande esplosione sociale nella 
campagna, mentre l’industria stata¬ 
le serviva essenzialmente a dare 
prodotti o servizi a basso prezzo 
alle imprese « imperialiste » domi¬ 
nanti nell’industria di consumo o 
per porre al loro servizio una infra¬ 
struttura moderna. La politica na¬ 
zionale borghese ha rafforzato, da 
una parte, le condizioni per una 
nuova fase della rivoluzione, e dal¬ 
l’altro ha rafforzato un settore le¬ 
gato al grande capitale internazio- 


L'Aatrolabio quindicinale • n i - 14 gennaio 1977 


37 















_ 

messico: problemi 
della nuova presidenza 


naie e al peso che questo ha nel 
Messico, fallendo perciò nel suo 
tentativo di creare, con il capita¬ 
lismo di stato, una borghesia na¬ 
zionale indipendente. 

L’industrializzazioge, allo stesso 
tempo, ha creato un grande prole¬ 
tariato urbano oltre ad un larghis¬ 
simo ed esplosivo numero di espro¬ 
priati ed emarginati che vivono nel¬ 
le città. Questo proletariato mo¬ 
derno — operai metallurgici, del¬ 
l’automobile — ha una coscienza 
di classe, una cultura e una capa¬ 
cità tecnica diversi da quelli del 
vecchio proletariato e, nelle città 
appare come l’unica grande forza, 
come un capo collettivo, togliendo 
questo ruolo agli studenti. 

La crescente dipendenza dall’im¬ 
perialismo — il Messico dedica 
quasi il 33% delle sue entrate a 
pagare i debiti esteri — continua, 
d’altra parte, ad alimentare il na¬ 
zionalismo rivoluzionario in tutti i 
settori della società e anche nell’ap¬ 
parato dello Stato. Questo succe¬ 
de mentre gli strati affluenti (o di¬ 
venuti più forti), moderni, della 
borghesia hanno bisogno di uno 
Stato forte e moderno al loro ser¬ 
vizio (non come quello attuale, che 
vuole imporre loro una tutela e non 
può contare sulle sue origini, rom¬ 
pendo con le masse). 

In queste condizioni giunge alla 
presidenza Lopez Portillo, mentre 
la crisi mondiale capitalista porta 
al parossismo le contraddizioni e 
la lotta di classe in Messico. Lopez 
Portillo cerca di ottenere dei pre¬ 
stiti all’estero e di conseguire un 
aumento dell’investimento privato 
per poter così guadagnare tempo 
fino a che i grandi investimenti sta¬ 
tali a lunga scadenza diventino pro¬ 
duttivi. Ma questo, ovviamente, ob¬ 
bliga il Messico ad offrire alla bor¬ 
ghesia e all’imperialismo un tipo 
di «garanzie» politiche che non fan¬ 
no onore alla storia del paese. Egli 
deve cercare di ottenere l’autosuf¬ 
ficienza alimentare, ma per questo 
occorre raggiungere la pace socia¬ 


le nella campagna (dove i contadini 
invadono e continueranno ad in¬ 
vadere ed occupare i latifondi) e 
garantire la continuità giuridica a- 
gli unici settori produttivi dell’a¬ 
gricoltura: le imprese capitaliste. 
Lopez deve, quindi, combinare le 
concessioni ai contadini, per riman¬ 
dare la loro rivolta, con una repres¬ 
sione che dia sicurezza al capitale 
non soltanto agrario, ma industriale. 
Il problema delle campagne si con¬ 
vertirà così in un fattore determi¬ 
nante per la trasformazione dello 
stesso Stato i cui legami con la 
gigantesca rivoluzione agraria che 
gli ha dato origine (la rivoluzione 
di Zapata e Villa, ricordata da E- 
cheverrìa) diventeranno ogni volta 
più esigui. 

Anche se una brusca rottura im¬ 
mediata sarà impossibile e se la 
« tecnocrazia » al governo cercherà 
di mantenere una continuità con la 
politica di Echeverrìa, le condizio¬ 
ni sociali ed economiche in cui do¬ 
vrà agire sposteranno l’asse poli¬ 
tico a destra. Il Fondo Monetario 
Internazionale ha dato 1200 milio¬ 
ni di dollari, per appoggiare la po¬ 
litica di svalutazione del peso ed 
altri 800 milioni sono stati con¬ 
cessi da 64 banche europee ed a- 
mericane, nello stesso tempo che 
la Confederazione padronale Co- 
parmex ha annunciato che gli in¬ 
vestitori privati investiranno 5 mila 
milioni di dollari. Tale appog¬ 
gio immediato a Lopez Portillo, 
evidentemente, non soltanto espri¬ 
me la fiducia del grande capitale ma 
anche e soprattutto è una spinta per 
condizionarlo e sottometterlo. 

Sorgono così le condizioni per 
una crisi nel Pri e anche per una 
opposizione del Pri (se vuole con¬ 
servare le sue relazioni clientelari 
con le masse) al governo che sarà 
costretto ad affidarsi prevalente¬ 
mente agli apparati repressivi dello 
Stato. Il logoramento del Pri, d’al¬ 
tronde, lascia spazio per la crea¬ 
zione di una nuova direzione di 
massa che sia capace di unificare 


la .ribellione operaia-contadina-stu- 
déntesca-popolare. E’ palese che 
questo corso non sarà lineare, per¬ 
ché non esiste ancora una forza 
unitaria dei lavoratori né una di¬ 
rezione anticapitalistica riconosciu¬ 
ta. E i « charros », inoltre, potran¬ 
no con successo appoggiare una li¬ 
nea destrorsa, una possibile repres¬ 
sione militare, perché possono pas¬ 
sare senza problemi dalla dipenden¬ 
za dallo Stato nazionalista borghe¬ 
se a quella dell’imperialismo pur¬ 
ché siano salvi i loro privilegi. La 
ribellione agraria, d’altronde, non 
arriva a trasformarsi in rivoluzione 
per mancanza di programma, di u- 
nificazione a livello nazionale e di 
direzione urbana. Dal canto loro, 
gli elementi nazionalisti nello Stato 
e nel Pri devono fare ancora una 
esperienza, devono arrivare alla con¬ 
vinzione che è, purtroppo, impos¬ 
sibile trasformare il regime dall’in¬ 
terno. 

La struttura di classe del paese 
si è modernizzata troppo, la crisi 
economica del capitalismo, nazio¬ 
nale e internazionale, è troppo gra- 
ye perché il nazionalismo borghe¬ 
se progressista messicano possa ave¬ 
re ancora stabilità e margini di ma¬ 
novra. Politicamente e socialmente 
il Messico si è polarizzato e si pre¬ 
para per continuare — o seppellire 
— la rivoluzione del 1910-1917. 
C’è una vera e propria gara tra il 
ritmo della crisi mondiale, dell’azio¬ 
ne dell’imperialismo e della reazione, 
che portano verso un governo « for¬ 
te » e il processo di maturazione, 
organizzazione, unificazione delle 
masse, che portano a preservare le 
conquiste della rivoluzione messica¬ 
na. Non si può prevedere se López 
Portillo finirà il suo periodo presi¬ 
denziale. Quello che è sicuro è che 
questo periodo non sarà uguale al 
precedente e che, nei prossimi 6 
anni, il Messico sarà protagonista 
di avvenimenti decisivi per il paese 
e per l’America Latina. 

M. C. 


38 


l Astrolabio quindicinale - n. 1 - u gennaio '37/ 












L’Europa 
in panne 

di Gabriele Patrizio 


• Questo è il periodo in cui gli 
europei sono intenti a valutare le 
nomine di Carter nei settori in chia¬ 
ve dell'amministrazione e sono in at¬ 
tesa degli orientamenti di politica 
estera del nuovo presidente america¬ 
no. Le capitali dei nove della CEE 
sono rivolte a Washington e cercano 
di scoprire 1 segni rivelatori di una 
iniziativa verso l’Europa dietro il 
sorriso ormai disseccato di Jimmy 
Carter, un’iniziativa fra l’altro che 
qui, nel vecchio continente, non si 
sa bene se sia più temuta o sperata. 
Tuttavia, in questa congiuntura si è 
constatato ancora una volta e con 
grande evidenza, come la famosa 
« interdipendenza » euro - americana 
sia per l’Europa niente più che un 
chiaro stato di minorità che nessun 
gesto autonomo abbozzato dalla 
r.F.F. vale a dissimulare. 

Ci sono in particolare due ele¬ 
menti che consentono di trarre in¬ 
dicazioni per il prossimo futuro del¬ 
la Comunità ed entrambi purtroppo 
non sono molto incoraggianti per 
l’Europa. Prima di tutto la questio¬ 
ne del petrolio. Forse hanno ragio¬ 
ne quelli che dicono che la crisi 
energetica è ancora lontana dall’aver 
prodotto le sue conseguenze più pe¬ 
santi per le economie europee, ma 
c’è qualcosa di più da sottolineare. 
Gli europei hanno cominciato, con 
largo anticipo, a piangere amare la¬ 
crime sull’aumento del prezzo del 
greggio del dicembre ’76, facendo 
sentire i loro lamenti alla corte di 
Carter il quale, dal canto suo, non 
aspetta altro che di poter serrare i 
ranghi dell’occidente. Eppure è or¬ 
mai abbastanza chiaro che la morsa 
energetica è divenuta un importan¬ 
te strumento di controllo dell’auto- 
nomina europea di cui gli USA non 
esitano, e ancor meno esiteranno, a 
servirsi. Il punto non è tanto quello 
dell’America che preme sui paesi 
amici dell’OPEC, Arabia Saudita in 
testa, per spuntare ad ogni riunione 
dei paesi petroliferi un aumento ra¬ 


gionevole o addirittura nullo del 
prezzo del petrolio. Consideriamo 
invece che il surplus petrolifero, che 
si accompagnerà a prossimi aumenti, 
più o meno forti, continuerà per 
una buona porzione ad affluire verso 
porti ospitali e sicuri, verso gli USA 
insomma, lasciando ben poco alla 
Europa. Gli arabo-dollari, investiti 
da iraniani e da libici nella Krupp 
e nella Fiat, sono una bazzecola al 
paragone di quelli che affluiscono 
nelle casse delle banche USA. Così 
l’Europa dipenderà sempre più da 
Washington anche per il riciclaggio 
e ciò varrà ad invischiare la CEE 
nella strategia, energetica e non, del¬ 
la nuova Casa Bianca. D’altra parte 
la frattura che si è aperta all’interno 
dell’OPEC, alla conferenza di Doha, 
fra « moderati » (Arabia Saudita ed 
Emirati) e « rialzati », conferma il 
grado di persuasione che Washing¬ 
ton è in grado di esercitare e lascia 
perciò intendere agli europei quale 
sia l’inopportunità e il rischio di 
iniziative non inquadrate nei pro¬ 
getti degli USA. 

Secondo elemento: coesione fra i 
Nove, e consideriamo in proposito 
Tultimo vertice europeo, quello del- 
l’Aja, tenutosi proprio nell’imminen¬ 
za del rialzo del prezzo dell’energia. 
È stato uno dei più spenti e fiacchi 
della serie dei Consigli europei, del 
tutto irrilevante sia per le politiche 
comuni « interne » della CEE, che 
per gli orientamenti di politica « e- 
sterna », innanzitutto i rapporti 
Nord-Sud. Prima sentiamo Carter, 
hanno detto i Nove, e poi... Comun¬ 
que anche questo strumento di con¬ 
certazione fra i Nove, il Consiglio 
europeo, caldeggiato e poi ottenu¬ 
to da Giscard d’Estaing, si va svuo¬ 
tando di significato e perde colpi. 
L’ultima decisione di rilievo è stata 
quella sulla elezione a suffragio di¬ 
retto del Parlamento di Strasburgo 
per il ’78 ed è stata presa a fatica, 
dopo incontri e vertici di prepara¬ 
zione e di attesa. Ma già da più 


parti si sono manifestate esitazioni e 
perplessità di un certo peso. L In¬ 
ghilterra, per esempio, continua ad 
esprimere ampie riserve e in Fran¬ 
cia addirittura, della legittimità del¬ 
le elezioni europee, ai fini della so¬ 
vranità della nazione, è stato inve¬ 
stito il Consiglio costituzionale. Ve¬ 
dremo, ma l’orizzonte ’78 si oscura. 

Allo scadimento dei Vertici eu¬ 
ropei si accompagna la crescita dei 
grandi Vertici dell’occidente: dopo 
Rambouillet e Portorico, proprio Gi¬ 
scard si è fatto promotore ( idea però 
lanciata da Carter) di un incontro 
per la primavera del ’77. Là ci sarà 
dunque il coordinamento fra i pae¬ 
si industrializzati, o meglio gli eu¬ 
ropei verranno a prendere atto dei 
tanto attesi disegni della nuova pre¬ 
sidenza USA. E certamente Carter 
non dovrà penare molto a mettere 
in piedi quella concertazione atlan¬ 
tica di cui ha parlato; Giscard e 
Schmidt stanno già pensando a tut¬ 
to. Infine uno sguardo retrospettivo. 
Se si osservano gli atteggiamenti del¬ 
la Comunità europea durante la pas¬ 
sata amministrazione repubblicana, 
Nixon e poi Ford - Kissinger, ci si 
avvede che gli europei non hanno 
quasi mai prodotto iniziative valide 
ed autonome rispetto agli USA. La 
loro voce comune si è sentita in 
pratica soltanto nella reazione, sia 
pure sterile, ai duri diktat o alle ar¬ 
roganti intimazioni di Kissinger. In 
queste occasoni era più facile per i 
Nove illudersi di aver trovato una 
linea, una risposta unitaria. D’ora in 
poi, invece, sarà difficile alla CEE 
sfuggire al « grande abbraccio » di 
Carter e districarsi dai sottili e mor¬ 
bidi esercizi diplomatici di un tes¬ 
sitore paziente come il nuovo segre¬ 
tario di stato, Cyrus Vance. All’Eu¬ 
ropa mancheranno anche le provo¬ 
cazioni di Kissinger e ciò le rende- 
. rà ancora più arduo definire un ruo¬ 
lo di fronte al disegno avvolgente 
che Carter si prepara a mettere in 
opera. 


L'Astrolibio quindicina!» • n. 1 - 14 g»nnalo 1977 


39 









Libri e riviste 


La crescita 
delle città 
nel ventennio 

Anna Treves, Le migrazioni 

interne nell'Italia fascista, 

Einaudi, .976, pp. 200, L. 

2.600. 

Tra le tante stupidità pro¬ 
pagandate dal regime fascista 
c'era anche quella del mito 
del ’ruralismo', e dell'attacca¬ 
mento degli italiani al « na¬ 
tio borgo selvaggio ». e. per 
contro, le campagne naziona¬ 
li contro l'inurbamento e con¬ 
tro il carattere « moralmen¬ 
te inquinante » delle città. 
E questa immagine bucolica 
del paese accompagnata, in 
sede storiografica, alla inter¬ 
pretazione che vedeva nel 
Ventennio una lunga, inin¬ 
terrotta fase di ristagno eco¬ 
nomico con conseguente 
scarsa mobilità interna, è du¬ 
rata a lungo, anche tra gli 
specialisti. Il libro di Anna 
Treves ha quindi 11 merito di 
riproporre all'attenzione de¬ 
gli studiosi una realtà trop¬ 
po facilmente archiviata tra 
le cose certe e scontate e al 
tempo stesso di rinfocolare 
le polemiche sul dibattito at¬ 
tualmente in corso sul «bloc¬ 
co sociale • che diede vita e 
alimento al fascismo. 

Secondo l'autrice, il pe¬ 
riodo tra le due guerre è ca¬ 
ratterizzato da migrazioni in¬ 
terne di notevole entità e di¬ 
mensioni che dimostrano co¬ 
me il Ventennio ebbe una sua 
vitalità economica e una sua 
■ crescita » industriale di pro¬ 
porzioni non modeste. La te¬ 
si della studiosa è che que¬ 
ste migrazioni interne sono 
in direzione e in funzione 
della ristrutturazione dell'in¬ 
dustria italiana specie di 
quella metalmeccanica e chi¬ 
mica. La Treves si serve a 
dimostrazione della sua tesi 
di strumenti, come quello 
dei dati censuari o della rile¬ 
vazione delle iscrizioni ana¬ 
grafiche per mutamento di 
residenza, che sono certa¬ 
mente preziosi e indicativi 
ma insufficienti ed incom¬ 
pleti; inoltre l'autrice utiliz¬ 


za le testimonianze di de¬ 
mografi e geografi dell'epo¬ 
ca e analizza i provvedimen¬ 
ti legislativi e amministra¬ 
tivi del regime in materia di 
mobilità geografica e contro 
il « vagabondaggio ». (La stu¬ 
diosa in proposito riesce a 
dimostrare come queste leg¬ 
gi avevano una valenza sol¬ 
tanto poliziesca — il controllo 
degli spostamenti — e che di 
fatto rimasero solo sulla car¬ 
ta). 

Da più parti si è osser¬ 
vato come questa tesi ori¬ 
ginale finisce tuttavia col sot¬ 
tovalutare altri aspetti del¬ 
l'inurbamento avvenuto nel 
periodo fascista. Non spiega 
ad esempio la nascita tumul¬ 
tuosa del terziario e l'utiliz¬ 
zazione di manodopera dequa¬ 
lificata (doveva essere pa¬ 
gata poco) nel pubblico im¬ 
piego di uno stato accen- 
tratore e burocratico che suc¬ 
chia alle campagne meridio¬ 
nali più forza lavoro dell'in¬ 
dustria di base. Movimenti 
demografici quindi certamen¬ 
te non casuali e provvisori ma 
che testimoniano più che la 
tendenza verso uno nuovo 
sviluppo economico, la cre¬ 
scita irreversibile di una eco¬ 
nomia di sottosviluppo strut¬ 
turale al regime fascista. 

A. Alecci 


Per un 
socialismo 
inscindibile 
dalla democrazia 

Roy Medvedev, La Rivolu¬ 
zione d'ottobre era inelutta¬ 
bile? Editori Riuniti. L. 2.000 

Roy Medvedev appartiene 
al filone del dissenso d'ispi¬ 
razione marxista che riven¬ 
dica maggiori libertà all'in¬ 
terno del sistema sovietico 
sulla scia dell'opera avviata 
dal XX Congresso. Egli col¬ 
lega e realizza il suo impe¬ 
gno politico con la ricerca sto¬ 
rica delle cause che hanno 
determinato le degenerazio¬ 
ni nella costruzione del so¬ 
cialismo in URSS. Medve¬ 


dev, che riconosce il valore 
positivo della Rivoluzione 
d'ottobre, sviluppa questo suo 
saggio intorno a due motivi: 
l'ineluttabilità e la maturità 
di quell'evento. 

Rilevando il ruolo decisivo 
svolto da fattori che non ave¬ 
vano nulla di determinato 
dal punto di vista storico (la 
pochezza intellettuale e la 
totale abulia dell’ultimo zar 
russo, l'incapacità dei men¬ 
scevichi e dei socialisti ri¬ 
voluzionari a far fronte alla 
situazione creatasi dopo la 
rivoluzione democratica di 
febbraio). Medvedev sostie¬ 
ne che quella rivoluzione non 
fu soltanto il risultato di un 
movimento di massa appa¬ 
rentemente incontenibile, ma 
dell’azione consapevole ed 
organizzata dei bolscevichi 
e soprattutto di Lenin, ■ le 
cui decisioni e il cui ope¬ 
rato lasciarono sulla sua epo¬ 
ca una impronta non inferiore 
a quella impressa da Napo¬ 
leone sulla propria ». 

La Rivoluzione d'ottobre fu 
così la prima grande rivolu¬ 
zione popolare in cui il fatto¬ 
re spontaneità non ebbe im¬ 
portanza decisiva, mentre si 
rivelò essenziale la sua pre¬ 
parazione politica, la sua pia¬ 
nificazione ed organizzazione 
anche dal lato militare. Ma 
allora — si chiede lo sto¬ 
rico georgiano — l'azione 
dei bolscevichi non anticipò 
troppo i tempi? Del resto 
Engels aveva messo in guar¬ 
dia dal pericolo di prendere 
il potere « in un momento 
in cui il movimento non è 
ancora maturo per il dominio 
della classe che rappresenta 
e per l'attuazione di quelle 
misure che il dominio di que¬ 
sta classe esige ». E se la ri¬ 
voluzione non poteva che es¬ 
sere lo sbocco di una fase 
storica di capitalismo maturo, 
questo non era certo il caso 
della Russia del 1917. 

Gli eccessi postrivoluzio¬ 
nari, la guerra civile, il ter¬ 
rore staliniano, possono al¬ 
lora essere in diversa misura 
spiegati con la precipitazio¬ 
ne di Lenin e dei bolscevichi 
nell'ottobre 1917. Oueste le 
conclusioni di Medvedev. a 
sostegno delle quali è ripor¬ 


tata In appendice una lettera 
inedita che Mirinov, leggen¬ 
dario comandante dell'Arma¬ 
ta 'del Don. scrisse a Lenin 
per denunciare la campagna 
di sterminio dei cosacchi du¬ 
rante la guerra civile. 

Si comprende allora come 
allo storico sovietico interes¬ 
si più che discettare sulla ne¬ 
cessità e maturità della ri¬ 
voluzione, mettere a fuoco 
gli errori di massimalismo e 
di dogmatismo compiuti sin 
dai momenti immediatamen¬ 
te successivi all'instaurazio¬ 
ne del potere sovietico. Il 
senso più profondo di questo 
libro oltrepassa dunque I li¬ 
miti della valutazione storio¬ 
grafica, cogliendosi in esso 
la rivendicazione di un so¬ 
cialismo inscindibile dalla de¬ 
mocrazia, ove sia consentita 
la libertà di ricerca e di di¬ 
scussione. 

S. G 


L’ultimo 

numero 

di « Comunità » 

Comunità, Rivista quadrime 
strale, pagine XXVIII-380, 
prezzo L. 4.000. 

E' in libreria il numero 176 
della rivista fondata da Adria¬ 
no Olivetti. Eccone il som¬ 
mario: Luigi Bonante, La teo¬ 
ria dell'equilibrio internazio¬ 
nale; Fabio Tana. La forma¬ 
zione dell'Egitto contempo¬ 
raneo: 1945- 1952; Francois 
Fejtó, Jugoslavia 1976: le pro¬ 
spettive del dopo-Tito; Iring 
Fetscher, La natura umana 
nel pensiero di Marx; Alexan¬ 
der Alland Jr., La parabola 
degli scimpanzé che parlano; 
Ellen Moers, Denaro, lavoro 
e piccole donne: il realismo 
femminile; David Bakan, 
Freud e la tradizione mistica 
ebraica: psicoanalisi e caba¬ 
la; Alberto Traldi, La tema¬ 
tica dell’emigrazione nella 
narrativa italo-americana; 
Margherita Azzi Visentini, Il 
teatro di Inigo Jones; Simo¬ 
netta Bedoni, La donna nei 
disegni di J. H. Fussli. 


40 


(.'Astrolabio quindicinale - n 1 - 14 gennaio 1977