CDU 908(497.4/.5 Istria “18/19” ISSN 0350-6746
CENTRO DI RICERCHE STORICHE - ROVIGNO
QUADERNI
VOLUME XIV
UNIONE ITALIANA - FIUME
UNIVERSITÀ POPOLARE - TRIESTE
ROVIGNO - TRIESTE, 2002
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QUADERNI - Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XIV, pp. 1-447, Rovigno, 2002
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CDU 908(497.4/.5 Istria “18/19” ISSN 0350-6746
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QUADERNI
VOLUME XIV
UNIONE ITALIANA - FIUME
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UNIONE ITALIANA - FIUME
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REDAZIONE ED AMMINISTRAZIONE
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COMITATO DI REDAZIONE
ALESSANDRO DAMIANI ORIETTA MOSCARDA OBLAK
Bruno FLEGO ANTONIO PAULETICH
RICCARDO GIACUZZO OTTAVIO PAULETICH
LUCIANO GIURICIN GIOVANNI RADOSSI
ANTONIO MICULIAN ALESSIO RADOSSI
REDATTORE
ORIETTA MOSCARDA OBLAK
DIRETTORE RESPONSABILE
GIOVANNI RADOSSI
Recensore:
MARINO BUDICIN
© 2002 - Tutti i diritti d'autore e grafici appartengono al Centro di Ricerche
Storiche U.I. di Rovigno, nessuno escluso.
Questo volume è stato pubblicato con il contributo dell’Università Popolare di Trieste
QUADERNI, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XIV, p. 1-447, Trieste-Rovigno 2002
INDICE
ALESSIO RADOSSI, Evoluzione interna e rapporti internazionali
della Jugoslavia dal 1955 al 1965
EZIO GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987). Il percorso storico
dell’Unione degli Italiani dall’Assemblea di Parenzo al “dopo Bor-
”
me
STEFANO LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia di fronte
al processo d’indipendenza della Slovenia (1990-1992)
GIACOMO SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere
WILLIAM KLINGER, La Carta del Carnaro: una Costituzione per
lo Stato Libero di Fiume (1920)
FERRUCCIO CANALI, Architettura del moderno nell’Istria italia-
na (1922-1942). Luigi e Gaspare Lenzi per il Piano Regolatore di
Pola (1935-1939)
LJUBINKA TOSEVA KARPOWICZ, Georgi e Michele Melissinò,
cavalieri dell’Ordine di Sant'Anna a Fiume
SILVIA BON, Le comunità ebraiche della Provincia del Carnaro
negli anni della persecuzione fascista e nazista ed il problema della
spoliazione dei beni
127
157
197
273
345
413
427
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 7
EVOLUZIONE INTERNA E RAPPORTI INTERNAZIONALI
DELLA JUGOSLAVIA DAL 1955 AL 1965
ALESSIO RADOSSI
Centro di ricerche storiche CDU 325.15(=50):930”1954/1963”
Rovigno
In questo articolo l’autore prende in esame uno dei periodi più complessi e difficili della storia
dell’ Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, vale a dire il decennio 1954-1964, quando, attraverso
un complesso processo si assiste ad una continua riduzione numerica e al ridimensionamento del
ruolo politico, culturale e linguistico della componente italiana dell’Istria.
In particolare vengono analizzati i problemi legati ai Circoli di Cultura, alle istituzioni scolastiche e
all’attività editoriale del gruppo etnico italiano attraverso i verbali delle riunioni della Segreteria, della
Presidenza e del Comitato dell’organizzazione degli italiani. Si tratta di fonti d’archivio molto
importanti che testimoniano non solo il clima in cui operava il gruppo nazionale italiano (contraddi-
sitnto dalla chiusura di scuole italiane, di circoli di cultura, cambio della toponomastica), ma anche
le contrapposizioni interne allo stesso gruppo dirigente, che si cristalizzeranno in due correnti o
frazioni: una che puntava sull’inserimento totale degli italiani nel processo socialista e l’altra che
tentava di conservarne una certa autonomia. Vengono altresì analizzati i primi rapporti con la matrice
nazionale che a metà degli anni Cinquanta venivano visti al limite del sospetto, ma che si concretiz-
zeranno soltanto nel decennio successivo.
Rapporti con l’URSS e non allineamento
Un anno dopo l’avvio del primo piano quinquennale per lo sviluppo del paese,
avvenne l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform, resa pubblica improvvisa-
mente il 28 giugno 1948. Il suo movente principale era la dichiarata volontà di
indipendenza del gruppo dirigente jugoslavo!. Vennero allora gettate le basi di una
particolare “via al socialismo”, destinata a portare avanti un processo di crescita
nazionale poggiante su due direttrici fondamentali della politica jugoslava: equidi-
stanza dai blocchi militari sul piano internazionale (non allineamento) e afferma-
! AAVV, Storia della Jugoslavia, Torino, 1976, p. 274.
8 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
zione e sviluppo del socialismo d’autogoverno su quello interno; il tutto tenendo
ben in evidenza la questione nazionale. Lo scontro con Stalin non si limitò al
conflitto tra la Jugoslavia e l'URSS, ma sollevò il problema generale concernente
i rapporti tra “piccole” e “grandi” nazioni e tra il “centro del mondo” e la sua
periferia, quindi aprì il problema dell’ autodeterminazione e della libera scelta delle
metodologie della dinamica sociale”.
Nel periodo tra il 1948 e il 1953 Tito creò nuove basi per i rapporti commer-
ciali con gli altri paesi. A causa del blocco degli scambi con l'URSS e gli stati
dell’Est europeo, la Jugoslavia si decise ad instaurare relazioni economiche con
l'Occidente (armi comprese), senza rinunciare all’ideologia comunista?. Negli anni
successivi, la politica della collettivizzazione della terra non dette i risultati sperati,
sicché fu abbandonata nel 1953 e di conseguenza venne sciolta la maggior parte
delle cooperative. Il Sesto Congresso del PCI, tenutosi a Zagabria nel 1952, segnò
un graduale passaggio alla democratizzazione e alla decentralizzazione della vita
socio-politica ed economica. In questo orientamento “liberale” si può inserire
anche l’operato di Milovan Gilas*. Dopo esser stato uno dei fautori del “gran
rifiuto” opposto a Stalin nel 1948, delfino di Tito, venne esautorato e isolato, per
aver pubblicato una serie di articoli (alcuni dei quali avevano già avuto il consenso
di Tito), nel dicembre del 1953 sul quotidiano di partito “Borba”; egli sottoponeva
a dura critica le deformazioni, allora già evidenti, del nuovo potere socialista, e
suggeriva di introdurre forme di controllo e di pluralismo politico in una libera
economia di mercato?. Al Plenum del CC, tenutosi a Belgrado nel gennaio del
1954, Gilas venne accusato di antisocialismo e di essere il portabandiera di una
tendenza anarchico-liberale. Anche se fino ad allora non aveva smesso di essere
uno dei più convinti antistalinisti, non gli vennero perdonate le dichiarazioni
contenute nei suoi articoli nei quali esprimeva riserve circa la riuscita dell’autoge-
stione come modello di sviluppo. Gilas a sua difesa ammise di essersi allontanato
dalle posizioni del Comitato Centrale, ma asserì pure di non aver mai abbandonato
l’ideologia marxista. Venne condannato e trasferito ad espiare la pena nel carcere
di Sremska Mitrovica”. Si consumava così il primo clamoroso siluramento di un
2 V. DEDUJER, /zgubljena bitka J. V. Staljina (La guerra perduta da Stalin), Belgrado, p. 224.
3 V. DEDIJER, Novi prilozi za biografiju J. B. Tita (Nuovi apporti per la biografia di J. B. Tito), Belgrado,
1984, p. 22; si veda soprattutto dal III al V paragrafo a pag. 24.
4 B. PETRANOVIC, Historja Jugoslavije 1918-1978, Beograd, 1980, p. 534.
5 A. BENCINA, “Tempo di riabilitazioni”, Panorama, n. 13, Fiume 1989, p. 9.
6 B. PETRANOVIC - M. ZECEVIÒ, Jugoslavija 1918-1988, Beograd, 1988, pp. 1062-1063.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 9
esponente di spicco del PCJ”. La rottura con il Cominform mantenne acuti i
rapporti con l'URSS fin dopo la molte di Stalin. Poi, verso la fine del 1954, i Paesi
del Blocco orientale interruppero la propaganda anti-jugoslava. I due governi di
Mosca e di Belgrado presero in considerazione l’opportunità di creare i presupposti
per una riconciliazione formale, anche in vista di accordi e collaborazioni future.
Con queste intenzioni, il 26 maggio 1955 giunse a Belgrado una delegazione
sovietica guidata da Kruscev, il quale ricorse ad una soluzione grossolana del
contenzioso con i dirigenti jugoslavi, facendo ricadere tutte le colpe su Stalin e su
Berija. La Dichiarazione comune, pubblicata al termine dei colloqui, contemplava
i principi riformatori dei futuri rapporti tra i due paesi: rispetto dell’integrità
territoriale e dell’indipendenza, non ingerenza negli affari interni dell’altro, rico-
noscimento e sviluppo della coesistenza pacifica tra i popoli a prescindere dalle
differenze politiche o ideologiche, condanna della divisione del mondo in blocchi
di alleanze militari*. I dirigenti jugoslavi insistevano dunque nella loro politica
nazionale e internazionale indipendente che, peraltro, non fu interamente accettata
dal PCUS®. B. Petranovié'° sostiene che la Dichiarazione di Belgrado ebbe grande
importanza, perché allora due paesi a sistema socialista avevano cercato di definire
non solo i rapporti reciproci ma anche quelli tra paesi socialisti in genere.
Come ebbe inoltre a scrivere E. Kardelj"!, questa dichiarazione rappresentò
una specie di “Magna Charta” delle relazioni avanzate fra stati moderni e socialisti.
Di particolare significato fu il fatto che essa intaccò per la prima volta il monoliti-
smo e la teoria dello stato guida come principio fondamentale di coesione del
movimento comunista mondiale, e base reale dell’egemonia sovietica. Contempo-
raneamente, rapporti più positivi, soprattutto di carattere commerciale, si instaura-
rono tra la Jugoslavia e i Paesi occidentali, mentre i rapporti con 1’ URSS restarono
più complessi.
La “controrivoluzione” indipendentista magiara del 1956 mise infatti in crisi
il sistema, minacciando di scuotere le basi di coesione di tutto il mondo comunista.
La Jugoslavia fu nuovamente isolata nel movimento comunista internazionale; tale
situazione però durò poco, in quanto, nel 1957, Belgrado riconobbe la Germania
orientale. Questa mossa, se da un lato schiarì le relazioni con 1’ URSS, dall’altro
? Stessa fine toccò nel 1966 ad Alexandar Rankovié, capo della polizia.
8 B. PETRANOVIG, op. cit, p. 504.
° Ibid., p. 276.
10 Ibid., p. 505.
!! E. KARDELI, Reminescences... The New Yugoslavia 44-57, Londra, 1982, p. 130.
10 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
comportò la rottura di quelle diplomatiche (non però di quelle commerciali) con la
Germania occidentale.
AI Settimo Congresso del 1958 tenutosi a Lubiana i comunisti jugoslavi
enunciarono le concezioni della propria via al socialismo. Nel documento si
sottolineava il non allineamento e la coesistenza internazionale e soprattutto il
principio (che si riferiva all’ Unione sovietica) della non ingerenza nella politica
interna dei paesi comunisti. Ciò fu criticato dai Sovietici e violentemente contra-
stato dai Cinesi. I rapporti con l'URSS non migliorarono ulteriormente prima degli
anni Sessanta; Tito si recò in visita a Mosca (1962) e in quel periodo i Sovietici
dovettero fronteggiare il forte contrasto con i dirigenti della Repubblica Popolare
Cinese.
A metà degli anni Sessanta la posizione di equilibrio della Jugoslavia tra
Oriente e Occidente si presentava più stabile che mai '?. Infatti, il principio ispira-
tore della politica estera jugoslava affermatosi dopo il 1950, fu quello del non
allineamento. Esso permise alla Jugoslavia di accattivarsi amici e alleati, pronti a
sostenerla nell’intento di fondare un movimento organizzato dei piccoli paesi,
deboli e non impegnati in altre alleanze militari, capace di far valere meglio così i
propri punti di vista nell’arena politica mondiale". Un primo incontro preliminare
avvenne a Brioni nel 1956; vi parteciparono Tito, l’egiziano Nasser e l’indiano
Nehru rientrato dalla Gran Bretagna. I tre discussero dei rapporti reciproci e di
politica internazionale. In quell’occasione venne pubblicato un particolare comu-
nicato che esprimeva i nuovi principi del “non allineamento!” Nell’incontro
seguente tenutosi in occasione del 15esimo anniversario della fondazione delle
Nazioni Unite, a New York nel 1960, vennero ad aggiungersi agli amici della
Jugoslavia altridue statisti: Nkrumah (Birmania) e Sukarno (Indonesia). La dichia-
razione congiunta stilata dai “cinque”, condannò il colonialismo. Tutto ciò avven-
ne, quando le relazioni tra le due superpotenze erano molto tese (si era in piena
Guerra fredda). Secondo L. Mates', da questi avvenimenti si deduce che il
movimento dei non allineati non fu il risultato di un progetto preparato a tavolino
da alcuni uomini politici di Paesi diversi, ma la necessaria risposta di una parte dei
Paesi meno sviluppati alla problematica di un determinato periodo storico. La
prima conferenza dei non allineati si tenne a Belgrado nel settembre 1961 e vi
!2 AA.VV, Storia della Jugoslavia, Torino, 1976 pp. 290-291.
13 Ibid., p. 290.
14 B. PETRANOVIC - M. ZECEVIÒ, op. cit., pp. 1078, 1079.
!5 L.MATES, Pocelo je u Beogradu - (Iniziò a Belgrado), Zagabria, 1982, p. 34.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 Il
parteciparono 25 Stati; la successiva si svolse al Cairo nel 1964 e vi aderirono 47
nazioni. Il movimento non ebbe però mai vita facile: per gli USA rappresentava il
Cavallo di Troia del comunismo, mentre per l'URSS era il “binario morto” delle
forze socialiste. Inoltre, i non allineati di allora furono spettatori di conflitti interni,
sfociati addirittura in guerre tra stati membri. La non omogeneità di sviluppo
sociale, economico e politico dei suoi membri frenò l’azione del movimento. La
comparsa in esso di due correnti interne, di cui una tendeva a rispettare i principi
istituzionali del movimento, e l’altra propendeva ad appoggiarsi ad uno dei due
blocchi, finì per diminuirne la forza e l’influenza!9.
Autogestione
L’affermazione di questa specifica linea in politica internazionale, rese possi-
bile un originale esperimento di politica interna, quale elaborazione della conce-
zione marxista di partenza: l’autogestione. Il socialismo d’autogoverno si presentò
come critica e risposta alla temuta involuzione burocratica dello stato socialista,
come tentativo volto a restituire ai lavoratori il ruolo e il potere che il “socialismo
di Stato” aveva finito con l’esercitare in loro nome, e dunque col negarlo. Il
ridimensionamento delle funzioni dello Stato, avvenuto fra il 1949 e il 1950,
rappresentò l’inizio della prassi autogestionaria'”. Il PCJ si rendeva perfettamente
conto del fatto che il consenso in politica era impossibile senza un vastissimo coinvol-
gimento dei lavoratori e dei cittadini. Perciò nel 1950 venne promulgata dall’ Assem-
blea Popolare Federale (Parlamento) una prima legge che demandava la gestione delle
imprese agli operai. Di conseguenza la proprietà statale dei mezzi di produzione si
trasformò in proprietà sociale, cioè in proprietà dei produttori associati'*. L’autoge-
16 B. PETRANOVIÒ - M. ZECEVIÒ, op. cit., pp. 1083, 1084.
ms. BIANCHINI, La diversità socialista in Jugoslavia, Trieste, 1984, p. 14.
18 “Ecco come i manuali sull’autogestione descrivono questa forma di società socialista: "L’autogestione è
innanzitutto, il rapporto socio-economoico fondato sul principio della ripartizione del reddito in base al lavoro e
non in base alla proprietà del capitale, ovvero dei mezzi di produzione; l’autogestione può svilupparsi soltanto se
poggia sulla proprietà sociale, vale a dire su rapporti di proprietà nei quali i mezzi di produzione e il capitale
sociale non sono né proprietà privata né proprietà di gruppi di cittadini e nemmeno degli operai delle singole
aziende: ancor meno sono proprietà dello Stato. Una volta affermato il sistema della proprietà sociale sui mezzi
di produzione, la contraddizione che sorge fra l'interesse individuale e quello collettivo della società può essere
risolta soltanto ponendo un controllo pieno sui rapporti di produzione e sulle relative conseguenze economiche in
forza della propria posizione materiale di decidere direttamente e in condizioni di parità, insieme con gli altri
soggetti (nel Consiglio degli Operai), sulle questioni essenziali che emergono da questi rapporti. Lo Stato, come
fattore di potere, detiene un ruolo importante: assicurare lo sviluppo indisturbato del sistema autogestivo socialista.
12; A.RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
stione, nei dieci anni successivi, si affermò innanzitutto nei gangli basilari della
società, cioè nelle fabbriche, e quindi, istituzioni culturali, scientifiche, scolastiche,
sanitarie e negli altri servizi sociali. Verso la fine degli anni Cinquanta, l’autogo-
verno operaio cominciava a dare i suoi primi frutti in tutti i rami dell'economia. Il
Programma del LCJ (Lega dei Comunisti della Jugoslavia)! redatto nel 1958,
rispecchiava questa nuova situazione, e si riproponeva di favorire lo sviluppo di un
socialismo democratico, autogestito, “dal volto umano” si potrebbe dire. Contem-
poraneamente, però, si andava inasprendo sempre più la contraddizione tra l’auto-
governo che attecchiva alla base della società, e lo Stato, che continuava a svolgere
una funzione di guida della massima importanza, specie per quanto riguardava
l’impiego dei mezzi destinati agli investimenti di carattere produttivo, all’incre-
mento dell’istruzione, della scienza e della cultura. L’intero periodo degli anni
Sessanta fu speso nella definizione completa dei principi e nella ricerca delle forme
organizzative dell’autogoverno sociale, in specie del sistema economico e dell’or-
dinamento politico su basi autogestionarie?°. L'introduzione dei Consigli Operai in
Jugoslavia venne giudicata come un esperimento “interessante”. Secondo alcuni
storici, furono gli avvenimenti dell’ Ungheria e della Polonia nel 1956, assieme alla
destalinizzazione dell'URSS, che influenzarono i dirigenti della PCJ tanto da
indurli a riprendere seriamente in esame il processo di affermazione dell’autoge-
stione e a riconsiderare la regolamentazione delle leggi economiche e quella delle
organizzazioni sociali. Per facilitare il superamento della crisi del movimento
comunista. L’autogestione ricevette grande impulso dalla Comune creata per
favorire l’ aumento della produttività. A tale scopo venne indetto anche il Congres-
so dei Consigli Operai nel 1957. L’idea di istituire la Comune, quale cellula
costitutiva della società nel sistema di un socialismo democratico, maturò gradual-
mente nell’ambito del Partito. Il sistema comunale iniziò a funzionare nel settem-
bre 1955 e diventò progressivamente la base del socialismo d’autogoverno?'. Ma
le prime critiche fecero la loro comparsa già l’anno successivo, rinfacciando alla
Ciò che è incompatibile con l’autogestione socialista è che lo Stato o il suo apparato burocratico a decidere sull’uso
del capitale sociale ovvero di quello accumulato. Non si può dire che l’autogestore sia padrone del proprio lavoro
se non controlla anche la produzione e la divisione del reddito. Il diritto dell’autogestore di disporre del reddito
prodotto, è fonte della sua libertà, ma anche della sua dipendenza, dei suoi obblighi e delle sue responsabilità verso
gli altri lavoratori”, L'Autogestione socialista in Jugoslavia-Concetti fondamentali, Belgrado, 1981, pp. 66-67.
1911 Partito Comunista della Jugoslavia cambiò il nome al Sesto Congresso tenutosi nel 1952, in Lega dei
Comunisti della Jugoslavia.
20 S. DOLANC, “Il Sistema dell’autogestione socialista nella sua sostanza”, Questioni attuali del sociali-
smo (di seguito QAS) n. 1, Belgrado, 1979, pp. 27, 28, 29.
2! B_ PETRANOVIG, op. cit., p. 537.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 13
Comune di essere una organizzazione politico-economica troppo chiusa, al cui
interno si venivano manifestando tendenze autarchiche. Alla sessione ordinaria del
Comitato Centrale della LCJ del febbraio 1958, vennero denunciate le tendenze
negative che si erano manifestate: spreco di denaro pubblico, decadimento
“dell’etica lavorativa” e affermazione di un modus vivendi non coerente con i
principi comunisti i quali, al contrario, sostenevano un livellamento sociale negli
introiti personali e nella proprietà privata. L’autogestione doveva ricevere ulteriore
impulso dal Congresso dei Consigli operai (giugno 1957). La decisione più impor-
tante presa in quella sede vedeva maggior libertà per i collettivi di lavoro e più
ampia autonomia nella gestione dei rapporti interni, delle condizioni di lavoro e
nella divisione del reddito”. Il Settimo Congresso della LCJ si svolse a Lubiana
nell’aprile 1958: l’attenzione principale venne dedicata ai vari tipi di sviluppo
“dell’essere socialista”. Il Programma da sottoporre a dibattito si soffermava in
particolare sui rapporti internazionali e sul ruolo del Partito nei processi autoge-
stionali del Paese, senza alcun pregiudizio dogmatico, tanto che nell’ultima parte
del documento figurava il seguente passo: “Niente di quello che è stato da noi
creato deve essere talmente intoccabile e definitivo da non poter essere sostituito
da qualche cosa di più sviluppato, progressista e umano”. Le idee contenute nel
Programma tuttavia non andavano di pari passo con i tempi: i rapporti sociali nella
Jugoslavia di allora non erano ancora tali da recepire totalmente quel messaggio.
Lo Stato continuava ad esercitare una certa egemonia nella sfera economico-socia-
le. Il sistema politico aveva registrato dei progressi nel potenziamento dell’ autoge-
stione (soprattutto nell’ amministrazione pubblica), ma senza che vi si verificassero
cambiamenti di rilievo nei rapporti tra il “vertice” e la “base”; l'apparato burocra-
tico-statale aveva ancora un’influenza notevole sulla vita sociale e politica del
paese?3. Questo stato di cose concorse ad alimentare le tendenze tecnocratiche
auspicanti il ritorno del partito a vere e proprie ‘funzioni di potere”. Nell’econo-
mia, ad una lunga stagnazione subentrò finalmente una fase di crescita particolare,
favorita sia dalla mutata situazione interna sia, e soprattutto, da una congiuntura
internazionale favorevole consistente in crediti concessi dall’ Occidente, nonché
nell’inserimento della Jugoslavia nel mercato mondiale”. La riforma economica
del 1961, che doveva risolvere il problema nodale della divisione del prodotto
sociale tra le aziende e lo Stato, fu però portata avanti in modo parziale e con dei
22 Ibid., p. 538.
23 Ibid., p. 540.
24 Ibid., p. 541.
14 A.RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
compromessi, in quanto l’ala più conservatrice del gruppo dirigente temeva per
un’eventuale affermazione del mercato libero (il che veniva considerato “antiso-
cialista”’) e il fatto che i lavoratori dotati di ampie libertà di decisione, “non
sapessero gestire al meglio le aziende”. Il “trend” economico positivo terminò
verso il 1962. L’aumento dei redditi personali al di sopra della produttività e la
diminuzione del tasso di crescita dell'economia, offrivano il pretesto ai critici
dell’autogestione, per denunciare l’eccessiva autonomia concessa ai collettivi di
lavoro. Alla sessione del Comitato Centrale (1962) che ne seguì si confrontarono
due, per così dire, tendenze: quella progressista che intendeva continuare nelle
riforme e quella conservatrice che, approfittando delle difficoltà comparse nella
prassi autogestionaria, sosteneva che il paese andava incontro all’anarchia e alla
disgregazione. Questa atmosfera si fece ancora più tesa, quando una certa stasi
compromise l’attività economica. Gli investimenti e i consumi erano al di sopra
delle reali possibilità. L'inizio degli anni Sessanta svelò che il vertice del PCJ non
era unito e che l’eterogeneità di opinioni aveva intaccato pure la base. E le
“tendenze negative” furono denunciate pubblicamente. La teoria e la prassi dove-
vano fare i conti con posizioni tra loro opposte. Dopo un duro discorso di Tito,
tenuto a Spalato nel maggio 1962, la situazione si risolse con un compromesso”,
La nuova Costituzione del 1963, nota come “licenza dell’autogestione”, pro-
clamava l’autogestione “Legge dello Stato”, diritto inalienabile dei lavoratori. Essa
poggiava sui presupposti del cittadino libero produttore associato, della proprietà
sociale e del lavoro quale unità di misura per la definizione della posizione
materiale di ognuno nella società. Per la prima volta nella storia costituzionale
della Jugoslavia venivano specificate la posizione e gli obbiettivi delle varie
organizzazioni socio-politiche: della Lega dei Comunisti, dell’ Alleanza socialista
del Popolo Lavoratore, della Confederazione dei Sindacati e delle altre organizza-
zioni. La “Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia” muta la propria denomi-
nazione in “Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia”. La nuova legge
fondamentale dello Stato faceva proprio il concetto basilare che definiva l’ Assem-
blea Federale “organo d’autogoverno sociale”. Inoltre, le funzioni del presidente
della Repubblica venivano distinte da quelle del presidente del Consiglio Esecuti-
vo Federale (governo).
È evidente che la regolamentazione costituzionale di quel periodo fu il risul-
tato di un'impostazione di compromesso. Il suo autore principale fu E. Kardelj che,
essendo stato nominato presidente dell’ Assemblea Federale, poteva assicurarsi
25 B. PETRANOVIC - M. ZECEVIÙ, op. cit., p. 1088.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 15
Raduno degli italiani dell’Istria e di Fiume (Rovigno, 1948)
l’appoggio dei delegati nell’ulteriore opera di trasformazione della società nello
spirito del socialismo d autogoverno, anche se lo Stato, teneva ancora nelle sue
mani il controllo diretto del sistema bancario creditizio del Paese?°.
A tale proposito S. Bianchini?” è del parere che “lo scontro interno congelò una
situazione in fermento. La Costituzione approvata nel 1963 ne fu il prodotto più
significativo: l'innovazione di maggior rilievo risiedette nella separazione fra la
figura del Presidente della Repubblica e il Capo del governo. Tito, che fino ad
allora aveva detenuto ambedue le cariche, assunse solo la prima. Sul piano dell’or-
ganizzazione economica e su quello istituzionale dei rapporti fra federazione e
repubbliche non mutò nulla rispetto alla carta costituzionale del 1953 e alle riforme
approvate in campo legislativo negli anni immediatamente successivi. Di fatto la
chiarificazione è rinviata /... / Fluidità e incertezza - scrive ancora Bianchini -
furono perciò il dato dominante /... / Relazioni economiche e sviluppo, questione
26 Nota 34., pp. 78-79
27 Tbid., p. 1092.
16 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
nazionale e istituzionale si vennero così a collocare, in quanto temi aperti, in un
quadro ancora indeterminato, mentre cominciava a porsi la questione cruciale del
dopo-Tito”.
Questione nazionale
La questione nazionale è stata da sempre uno dei nodi cruciali della storia
jugoslava, e inoltre ha sempre occupato un posto molto importante nella strategia
del movimento comunista internazionale. Già K. Marx nel suo “Manifesto del
partito comunista” constatò come “si cerchi di rimproverare ai comunisti di voler
sopprimere la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere
loro ciò che non hanno. Ma, poiché il proletariato deve conquistarsi prima il
dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso
nazionale, benché certo non nel senso della borghesia”, F. Engels considerò
sempre la questione nazionale come un aspetto della democrazia politica, da
subordinare quindi, come ogni rivendicazione democratica, agli interessi generali
della lotta di classe. Secondo P. Pallante?” le affermazioni dei due pensatori
spiegano il diverso atteggiamento che essi assunsero nei confronti delle rivendica-
zioni nazionali dei popoli oppressi dal regime zarista e da quello austriaco fra il
1840 e il 1850 e cioè spiegano l'appoggio da essi dato al movimento di liberazione
nazionale dei Polacchi e degli Ungheresi, considerato fattore di destabilizzazione
e di disgregazione, in quanto si trattava di “popoli rivoluzionari in lotta contro
l’assolutismo”, e nello stesso tempo spiegano la posizione negativa assunta verso
il movimento nazionale dei Cechi e soprattutto degli Slavi del Sud, in quanto
“popoli reazionari, avamposti russi in Europa, e il loro movimento tendeva a
rafforzare la posizione internazionale dello zarismo, il più pericoloso nemico del
movimento rivoluzionario in Europa”.
Del resto, la posizione di V. I. Lenin*° sulla questione nazionale esigeva il
28 8. BIANCHINI, La diversità socialista in Jugoslavia, Trieste, 1984, p. 51.
29 K. MARX, “Manifesto del partito comunista”, P. PALLANTE, /! PCI e la questione nazionale, Udine,
1980, p. 25.
30 P PALLANTE, I! PCI e la questione nazionale — EV.G. 1941-45, Udine, 1980, pp. 26, 27.
UNA STALIN, Questioni del leninismo, Roma, 1945, p. 64.
2V.I LENIN, “Risultati della discussione sull’autodecisione” “Opere complete”, vol. XXII, Roma, 1966,
p. 399.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 17
riconoscimento non soltanto di una piena uguaglianza di tutte le nazioni in genera-
le, ma anche della parità di diritti nella struttura statale, cioè del diritto delle nazioni
all’autodecisione (autodeterminazione), fino alla separazione. Anche J. Stalin
sottolineava nel 1913 in “Il Marxismo e la questione nazionale e coloniale”, la
necessità di democratizzare completamente la Russia zarista, se si voleva risolvere
il problema delle nazionalità. Egli prospettava all’interno di questa soluzione “l’au-
tonomia regionale” come “soluzione giusta”. Dunque, uguaglianza nazionale in tutti
i suoi aspetti come elemento necessario per la soluzione della questione nazionale.
Comunque, l’idea di aggregare ed unificare gli Slavi del Sud in uno Stato
comune doveva concretarsi nel 1918 con la fondazione del Regno dei Serbi, Croati
e Sloveni. Questa idea, contemplante la libertà e l'uguaglianza nazionale di questi
popoli, era stata però utilizzata come strumento ideologico e politico della borghe-
sia panserba e della monarchia per la propria affermazione politica, tanto da
diffondere la tesi secondo cui Serbi, Croati e Sloveni erano appartenuti ad altret-
tante stirpi di un medesimo popolo: non esisteva, dunque, una questione nazionale
in Jugoslavia. Per i comunisti, il principio essenziale da difendere era mantenere
l’unità della classe operaia quale premessa insostituibile nella soluzione della
questione nazionale*‘.
Nel contesto jugoslavo siffatte impostazioni teoriche trovarono terreno fertile
per la loro applicazione ed ebbero ugualmente un peso considerevole nella stesura
dei documenti fondamentali del PCJ e, in seguito, nell’organizzazione e nella
conduzione della lotta partigiana, di cui uno dei traguardi più vistosi doveva essere
la costituzione di una nuova realtà statale, in grado di soddisfare anche le varie,
talora diverse, esigenze nazionali. Difatti, già nel corso della Seconda Sessione
dell’ AVNOJ (Consiglio Antifascista della Lotta Popolare di Liberazione) tenutosi
a Jajce (Bosnia) nel novembre 1943, vennero tracciate le linee evolutive del futuro
ordinamento federativo jugoslavo. Il principio basilare, su cui si sarebbe fondata la
politica nazionale jugoslava, era il riconoscimento dell’individualità, dell’ugua-
glianza di tutti i popoli e gruppi nazionali”.
Sulla base del diritto all’autodeterminazione dei popoli furono create le repub-
bliche della Serbia, della Croazia, della Slovenia, della Bosnia ed Erzegovina, della
33 J. STALIN, Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, Torino, 1974, pp. 120, 121; venne scritto a
Vienna nel 1913.
34 p, PALLANTE, Il PCI e la questione nazionale..., Udine, 1980, p. 31.
35 A. PURIVATRA, “L’apporto di Tito alla teoria e alla prassi della questione nazionale”, QAS, n. 2, 1979,
p. 60.
18 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
Macedonia e del Montenegro e, nella Repubblica di Serbia, le regioni autonome
della Vojvodina e del Kosovo®°.
In una comunità come la Jugoslavia, la condizione delle minoranze nazionali
assunse un significato particolare nell’ambito della questione nazionale. A_tale
proposito la norma costituzionale sancì i seguenti diritti:
- per il cittadino, la libertà di manifestare la propria appartenenza ad un popolo,
rispettivamente ad una nazionalità, la libertà di esprimere la propria cultura nazio-
nale e di usare la propria lingua nella forma scritta e parlata;
- l’incostituzionalità di ogni fomentazione all’odio nazionale e dell’istigazione
all’intolleranza razziale o religiosa;
- per gli appartenenti ai popoli e alle nazionalità, il diritto all’istruzione nella
propria lingua entro il territorio di ciascuna repubblica o regione autonoma;
- per ogni gruppo nazionale, il diritto a esprimere e sviluppare la propria
cultura e di costituire a tale scopo organizzazioni proprie?”.
Dopo il solenne riconoscimento di questi principi, fu appena all’Ottavo con-
gresso della LCJ, tenutosi a Belgrado nel dicembre 1964 che venne, per la prima
volta, toccata la “questione nazionale”. Infatti sino a quel momento aveva prevalso
in tutti la concezione, secondo cui la risoluzione jugoslava avrebbe già risolto
questo problema e quindi l’argomento non aveva mai trovato spazio nei dibattiti
del partito. Ma allora, le diversità di opinione all’interno del gruppo dirigente,
evidentemente e considerevolmente diviso su questo punto, suggerirono l’apertura
della discussione. La stessa strutturazione della Lega dei Comunisti della Jugosla-
via in tanti partiti comunisti quante erano le repubbliche della federazione (dotati
di una certa autonomia nello spirito dell’autogestione, n.d.r.), alimentò un proces-
so di “differenziazione” delle posizioni trai membri del Comitato Centrale. D'altra
parte, le medesime repubbliche che si battevano per attenuare le competenze e
l’invadenza dell’amministrazione centrale jugoslava, non esitavano a mutare atteg-
giamento, quando si trattava dei rapporti interetnici nella propria giurisdizione,
decretando la priorità dello stato-nazione (croato, sloveno), rispetto alle altre
componenti nazionali diverse, e ribadendo così quell’assimmetria del potere che le
poneva, nonostante le dichiarazioni formali contrarie, in una posizione egemonica.
Da questa valorizzazione dello Stato nazionale sono derivate tra l’altro le difficol-
tà, gli scompensi, il trattamento differenziato, la mancata parificazione, la monca
emancipazione socio-politica delle minoranze nazionali. È evidente il rapporto tra
36 K. HADZIVASILEV, “Il sistema politico della classe operaia; i rapporti nazionali”, QAS, n. 9, 1977, p. 16.
37 Ibid, p. 24.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 19
questo processo e quello contemporaneo dello sviluppo dell’autogestione, che si
dimostra chiaramente, qui, fattore di differenziazione.
Durante lo svolgimento del congresso, negli interventi di Tito, Kardelj e
Vlahovié, vennero affrontati i vari aspetti del fenomeno. Per Tito erano “naziona-
liste” le tendenze ad ignorare, secondo un rinnovato ‘centralismo democratico”, le
funzioni economico-sociali delle repubbliche e delle regioni autonome nell’ambito
della federazione. Tuttavia condannava la loro chiusura entro i propri confini
amministrativi. E inoltre, era auspicabile che le minoranze nazionali rappresentas-
sero dei “ponti” della Jugoslavia verso le nazioni confinanti (Italia, Austria,
Ungheria, Bulgaria, Romania e Albania).
Dal canto suo, Kardelj non considerava l’indipendenza economica nazionale
né “autarchia” né “egoismo nazionale”, bensì “visione specifica dell’autogestione
dei lavoratori”. Per Vlahovié59, bisognava combattere le tendenze al nazionalismo
“centralistico-amministrativo”. I problemi trattati al congresso ebbero una vasta
eco nell’opinione pubblica, anche perché della questione nazionale, fino ad allora,
non si era mai parlato pubblicamente, a quanto ci risulta. L'esperienza acquisita
nell’avanzata dell’autogoverno e dei rapporti infranazionali edificati su di esso
consentì già nel 1959 di compiere una attenta analisi dei problemi d’allora delle
varie minoranze nazionali. Certe questioni relative alla loro completa parificazione
in campo legislativo vennero meglio precisate nella Costituzione del 1963.
Tuttavia, il superamento delle contraddizioni e il cambiamento della posizione
giuridico costituzionale dei popoli e delle minoranze nazionali nello spirito di una
effettiva autogestione ed autonomia, del godimento di attribuzioni politiche, socia-
li, economiche e culturali irrinunciabili, di una coraggiosa apertura democratica,
non trovarono né facile né molto evidente realizzazione, persistendo quei procedi-
menti e quelle soluzioni che osteggiavano l’applicazione dei dettami autogestiona-
ri, e che erano chiara espressione di un orientamento accentratore e sordo alle
rivendicazioni delle singole nazionalità e gruppi etnici.
È ovvio che l’autogoverno favorì, in un certo qual modo, il processo di
chiarificazione dei rapporti infranazionali, imprimendo però talvolta spinte parti-
colari all’interno di ogni nazionalità con il risultato di portare a galla e suffragare
non solo concezioni “positive” ma anche “negative” che, a lungo andare, assunse-
ro, specie presso i popoli di maggioranza, le caratteristiche di veri e propri
movimenti nazionalistici, con tutte le conseguenze che ne potevano derivare.
38 B. PETRANOVIC - M. ZECEVIÒ, op. cit., p. 1096.
39 Membro del Comitato Centrale del PCI.
20 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
Anche il cambiamento di denominazione, da minoranze nazionali in nazionalità,
avrebbe dovuto servire a sanzionare la loro collocazione costituzionale qualitativa-
mente nuova, sia sul piano socioeconomico sia su quello culturale. Contempora-
neamente, Tito si stava prodigando per rendere operante un nuovo diritto in materia
di rapporti infranazionali. Si trattava cioè di garantire la facoltà ad ogni individuo
di dichiarare o meno la propria appartenenza nazionale. Si intendeva così dare una
nuova dimensione alla libertà nazionale quale parte integrante delle libertà umane
in genere. Lo “jugoslavismo” veniva dunque definito non come appartenenza ad
una nuova nazione, ma come consapevolezza politica di partecipazione alla comu-
nità jugoslava plurinazionale.
L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume dalla sua costituzione al 1953
Prima di illustrare le vicende dell’ UIIF durante il decennio che viene preso in
esame da questa ricerca, è opportuno premettere alcune informazioni essenziali sul
periodo precedente, compreso tra la fondazione dell’ UIIF e l'avvenimento storico
che segnò l’inizio di una nuova era nei rapporti tra la Jugoslavia e l’Italia: il
Memorandum d’ Intesa del 1954. Non si era ancora concluso il secondo conflitto
mondiale che a Camparovica, nei pressi di San Martino, a circa 7 chilometri da
Albona, il 10 e 11 luglio 1944, nel corso di un incontro, si decise di fondare
l’ Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume. Promotori e organizzatori dell’ incon-
tro furono Vladimir Svalba-Vid (da Susak), membro dell’ Agitprop del Comitato
Regionale del PCC dell’Istria, e Aldo Rismondo che ricopriva allora la carica di
segretario politico del PCC del distretto di Rovigno. In quella occasione venne tra
l’altro constatato che, a dieci mesi dall’insurrezione istriana, gli Italiani erano
diventati sempre più numerosi nelle file del Movimento di Liberazione. Venne
inoltre suggerita l’idea di rivolgere un “Appello” a tutti gli antifascisti italiani. In
esso si rilevava la necessità di fondare l’UIIF, con il compito di unire tutti gli
Italiani antifascisti, senza riguardo alla loro fede politica, alla posizione sociale e
alle convinzioni religiose. Doveva cioè unire tutti coloro che intendevano parteci-
pare al Movimento di Liberazione, accettare uno dei suoi obbiettivi essenziali, il
passaggio dell’Istria e di Fiume dalla sovranità italiana a quella jugoslava, e
collaborare alla risoluzione dei problemi della collettività italiana. Attraverso
l’ Unione si sarebbero dovute attuare le libertà democratiche del popolo italiano in
Istria‘, già garantite, come per tutte le minoranze nazionali, dalle decisioni della
40 Solo più tardi l'Unione comprese il Capodistriano, la cui sorte allora non era ancora decisa.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 21
Terza Sessione dello ZAVNOH (Comitato Regionale del Movimento di Liberazio-
ne Croato) 18 maggio 1944 a Topusko (nei pressi di Zagabria). L'Unione si
proponeva di risolvere i problemi culturali, economici e sociali e di definire la
piattaforma politica sulla quale si sarebbero appoggiati i rappresentanti italiani
negli organi del potere popolare (CPL). Inoltre, venne considerato opportuno che
il foglio “Il Nostro Giornale”! diventasse l’organo ufficiale dell’ Unione medesi-
ma. Contemporaneamente venivano pubblicati ben 25 giornali partigiani in lingua
italiana tra i quali: “Lottare”‘, “La libertà”*, “La nostra lotta”* e “La Voce del
Popolo”*°. Il 20 marzo del 1945, con due lettere indirizzate una al Governo italiano
e l’altra alla Direzione del giornale l’ Unità, 1’ Unione degli Italiani faceva conosce-
re le sue finalità, documentandole con l’invio in copia degli atti fondamentali della
riunione del 6 marzo che si era tenuta a Zalesina. A proposito dei motivi della
fondazione dell’UIIF, ci sembra particolarmente interessante la valutazione che ne
ha fatto uno dei suoi più noti presidenti, il professor Antonio Borme*° ‘“/.../
L’Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume è nata, quando sopratutto la direzione
politica del movimento popolare di liberazione lo ritenne opportuno per il conse-
guimento delle mete implicite nell’ottica continuamente ribadita del distacco di
queste terre dall'Italia. Pertanto non è possibile sostenere che ciò sia accaduto per
iniziativa preponderante di nostri connazionali. Senza dubbio agli esponenti italia-
ni va rinfacciato un comportamento “attendista” e codino, favorito in parte dalla
scarsa presenza operativa nella zona degli organismi politici dell’Italia, in partico-
lare del Partito Comunista Italiano”. La posizione del P.C.I. — conviene ricordare
— riguardo alla questione nazionale nella Venezia Giulia era strettamente legata al
suo concetto di lotta di classe. Le popolazioni slovene e croate erano composte
quasi esclusivamente da operai e contadini, mentre quella italiana era caratterizzata
dalla presenza di tutte le fasce sociali. Inoltre la politica di snazionalizzazione del
4! Foglio stampato alla macchia dall’8 dicembre 1943 al 2 maggio 1945; successivamente quotidiano di
Pola; vedi E. SEQUI, “Il Nostro Giornale”, Documenti, del CRS, n. 2, Pola, 1973.
L. Lottare, n. 1, 15 dicembre 1943; vedi G. SCOTTI, “La stampa partigiana in Istria in lingua italiana”,
Quademi, del CRS, n. 4, Pola, 1977.
4 Sloboda/Libertà, n. 1, 1 giugno 1942 (alla macchia) e La Libertà, n. 4,25 dicembre 1942 fino al 7 gennaio
1944; vedi G. SCOTTI, “La stampa partigiana in Istria in lingua italiana”, Quaderni, del CRS, n. 4, Pola, 1977.
44 Ciclostilato La Nostra Lotta, n. 1, 21 marzo 1944, ultimo numero uscito il | maggio 1945; vedi G.
RADOSSI, “La Nostra Lotta”, Documenti, del CRS, n. 3, Pola, 1974.
45 La Voce del Popolo, n. 1, 27 ottobre 1944-24 dicembre 1944 (n. 3); poi ci fu un lungo silenzio: il n. 4 uscì
appena a guerra conclusa e porta la data del 5 maggio 1945, veniva stampato in una vera tipografia, anche se in
formato ridotto; vedi L. GIURICIN, “La Voce del Popolo e giornali minori”, Documenti, del CRS, n. 5, Pola, 1979.
46 A. BORME, “Quale Unione degli Italiani oggi?”, 040, 8 luglio 1989.
22 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
fascismo e la passività, a volte il tradimento dei partiti borghesi sloveni, avevano
convinto vari settori degli “strati medi” ad appoggiare una soluzione rivoluzionaria
del problema nazionale‘. Dopo il IV (1933) Congresso del P.C.I. si svilupparono
i contatti con il Partito Comunista Jugoslavo per fissare una comune linea di
condotta in merito alla questione nazionale. Documento fondamentale per il
movimento comunista italiano era la Dichiarazione Comune del 1934 dei partiti
comunisti italiano, jugoslavo e austriaco sul problema sloveno. Il popolo sloveno,
vi si dice, ‘era stato diviso tra due stati imperialisti, l’Italia e la Jugoslavia, e una
parte era stata assegnata all’Austria: da qui la necessità e l’importanza di una
politica unitaria sulla questione”. Di conseguenza è importante sottolineare che il
P.C.I riconosceva il “diritto all’autodecisione” delle popolazioni slave della Vene-
zia Giulia e dell’Istria, compreso quello della separazione dallo Stato italiano. Ma
“eguale diritto di autodecisione” era lasciato alla minoranza italiana e ciò diventava
ora elemento di polemica per la unilaterale decisione di annessione della Venezia
Giulia da parte del movimento di liberazione jugoslavo, giustificata dal P.C.J. con
il discutibile pretesto degli “interessi della rivoluzione”.
L’orientamento politico dei comunisti giuliani (e istriani, ndr) favorevole alla
Nuova Repubblica Jugoslava era determinato dalla ferma convinzione che si
trattasse di uno “Stato operaio” a cui andavano sacrificate tutte le altre considera-
zioni di natura economica e nazionale”. In “Storia di un esodo” si rimarca che la
“spinta fondamentale viene rintracciata nel particolare modo, in cui viene vissuto
l’internazionalismo della classe operaia istriana, un internazionalismo che /.../
acquistava nuovo impulso e vigore dalla presenza di nuovi elementi: primo fra tutti
il vedere nell’esercito di liberazione jugoslavo uno trumento, a portata di mano, che
affrontava la lotta non solo per sconfiggere il nazifascismo, ma anche per costituire
una società democratica e socialista”. Nella Prima Conferenza plenaria, tenutasi
a Pola il 3 giugno 1945, a guerra conclusa, l’UIIF sottolinea con maggiore
incisività i propri principi programmatici: venivano costituiti i circoli di cultura e
così organizzata la vita culturale degli Italiani. Furono attivizzate, in primo luogo,
le scuole per i connazionali. Si trattò di una conferenza che rivendicò la dipendenza
della vitalità e del ruolo di un gruppo nazionale autoctono dalla sua capacità di
costituirsi in una “comunità in cui la formazione educativa avveniva nel rispetto
4 P PALLANTE, Il PCI e la questione nazionale-FV.G. 1941-1945, Udine, 1980, p. 33.
48 AA.VV, Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. III, Milano, 1976, p. 119.
4 Ibidem, p. 34.
50 AA.VV, Storia di un esodo Istria 1945-1956, Trieste, 1980, p. 24.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 23
delle proprie tradizioni culturali e civili. Furono anche ribaditi i compiti dell’ UIlF
nel campo dell’educazione ideale tesa ad una più intensa politicizzazione del
gruppo nazionale italiano e alla sua attiva partecipazione al processo di ricostru-
zione interna. Dopo la Conferenza di Pola si diede il via ai preparativi per l’ apertura
delle istituzioni scolastiche. Difatti già nel maggio 1945 erano state riaperte in
Istria 70 scuole italiane, di cui 50 di primo grado e 20 di secondo grado. Problema-
tica era però la carenza di docenti, per cui vennero aperti corsi specifici per la loro
formazione”. Anche l’attività editoriale era in sviluppo: vennero pubblicati a cura
dell’ UIIF alcuni volumetti in materia di diritti nazionali e dei problemi specifici
istriani°”, Tutto ciò suggerì la fondazione della “Cooperativa editoriale italo-croata
per l’Istria”. Un contributo fondamentale per la rinascita della cultura italiana
venne dato dalla prima Conferenza culturale dell’ UIIF, tenuta a Fiume nel gennaio
1946. Nell’aprile, poi, l’UIIF si fece promotrice della prima grande operazione di
raccolta di libri e di fondi. Si può dire che l’attività vera e propria dell’UIIF,
indirizzata ad una multiforme e profonda rinascita della cultura italiana in Istria e
a Fiume, ebbe inizio nel 1947, quando furono create le basi reali per la costituzione
dei primi Circoli italiani di cultura e delle loro società artistico-culturali, organiz-
zando presso queste sedi sale di lettura, biblioteche, conferenze, concerti e spetta-
coli vari. Il nuovo orientamento venne fissato nelle sue linee generali alla seconda
Conferenza plenaria dell’ UIIF, svoltasi a Parenzo nel 1947". Da quel momento
fino al 1954 l’UIIF opererà in condizioni alquanto complesse, dettate soprattutto
dagli strascichi del contenzioso per la delimitazione dei confine italo-jugoslavo.
Per tutto quel periodo, essa limitò la sua attività esclusivamente al territorio
annesso con il Trattato di pace del 1947, in quanto nel Buiese e nel Capodistriano
(che costituivano la Zona B del T.L.T.), era stata fondata ed operava in pratica una
seconda organizzazione: l’Unione degli Italiani del Circondario dell'Istria. In
quell’arco di tempo si tennero la Rassegna culturale a Rovigno e la terza Conferen-
za plenaria a Pola (1948).
Il 1949 fu l’anno che vide “la grande mobilitazione di tutti i popoli jugoslavi
contro l’azione disgregatrice del Cominform”, alla quale anche I’UIIF viene
chiamata a dare il proprio contributo. Nel novembre, a Fiume, si diedero convegno
nella quarta Conferenza plenaria dell’UIIF ben 400 delegati in rappresentanza di
SI AA.VV,, Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume 1944-1984, Fiume, 1984, p. 15.
52 Dei quali ebbe grande diffusione quello di J. B. Tito sulla “Questione Nazionale in Jugoslavia alla luce
della Lotta di Liberazione Nazionale”.
53 AA.VV, Op. cit., p. 20.
24 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
tutti i Circoli di Cultura, soprattutto per manifestare “la loro solidarietà al Comitato
Centrale del PCJ e a tutti i popoli della Jugoslavia”. Molto intensa fu, in quegli
anni, l’attività editoriale. Vennero stampati libri di testo per le scuole, riviste varie
e opuscoli. Tutte queste iniziative confluirono nella neocostituita casa editrice
EDIT di Fiume. Una certa riorganizzazione subirono anche le manifestazioni
centrali dell’ UIIF. In luogo alle rassegne culturali, si istituirono i cosiddetti Raduni
degli Italiani (1952-1953). Si trattò delle ultime grandi manifestazioni dell’epoca,
alle quali seguì una crisi d’identità, dovuta al mutato clima politico e sociale.
L’esodo della popolazione italiana, col rispettivo sconvolgimento dell’equilibrio
etnico tra slavi e italiani sul territorio istriano, e la relativa stasi delle attività,
protrattasi per un decennio, determinò una crisi anche di uomini e di idee nell’am-
bito della stessa UIIF. Ciò mise talora in forse la stessa prospettiva di un ruolo di
rilievo dell’ UIIF nella società istriana, quale si era prefigurato negli anni dell’an-
tifascismo militante. A tutto ciò si aggiunse la ristrutturazione territoriale della
regione istriana, a seguito della quale il gruppo nazionale italiano, dopo il Memo-
randum del 1954, si trovò a vivere in due diverse repubbliche (Croazia e Slovenia)
e in ben I5 comuni con diversificata normativa di tutela e differente grado di
sviluppo economico.
UIF 1953
Nel 1948 era stato effettuato il primo dei censimenti del dopoguerra: allora
risultarono presenti in Jugoslavia 79.575 cittadini nazionalità italiana. Il secondo
rilevamento demografico evidenziò la presenza di 35.874 Italiani, (escluso natural-
mente il territorio della Zona B)”, in pratica il loro dimezzamento. L’otto ottobre
del 1953, i rappresentanti degli Stati Uniti e del Regno Unito dichiararono che i
governi dei due paesi non erano più in grado di sostenere la responsabilità dell’ am-
ministrazione della Zona A del T.L.T., e che per questo motivo avevano deciso di
ritirare le proprie truppe e di affidare quel compito al Governo italiano. La reazione
Jugoslava fu immediata: l’avvenimento scosse la campagna elettorale che era in
pieno svolgimento”. Titoli come “In tutto il paese è esplosa vivissima l’indigna-
zione popolare!’ o “Una fredda lama nel cuore al sentire la mostruosa notizia” e
finalmente “Fiume ha trasformato il comizio in una ardente manifestazione patriot-
54 Statistitki godisnjak Jugoslavije, 1982, p. 40.
55 Si stava svolgendo la campagna elettorale per le elezioni dei deputati all’ Assemblea federale.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 25
tica”, apparvero sul quotidiano “La Voce del Popolo” del 9 e 10 ottobre’. Vennero,
inoltre, riportate dichiarazioni di esponenti di spicco dell’UIIF, primo fra tutti di
Andrea Benussi”, vicepresidente dell’organizzazione: ‘“/.../ Noi non sappiamo
dimenticare i sacrifici compiuti dalla nostra minoranza durante la L.P.L. a fianco
del popolo jugoslavo il quale ha dato un grande apporto alle forze alleate nella lotta
contro le orde fasciste. Oggi i responsabili di una tale decisione dovranno rispon-
dere davanti alla storia e dovranno sopportare tutte le conseguenze che ne potranno
derivare”. Luciano Michelazzi, membro del consiglio dell’ UIIF, sosteneva che:
“/..J Noi italiani saremo solidali con tutte le misure che il governo jugoslavo
intenderà intraprendere per impedire il compiersi di quello che può essere conside-
rato soltanto come un misfatto e un appoggio diretto al rinascente imperialismo
italiano”. Il parere di Alfredo Cuomo, membro del comitato dell’UTIF, era che ‘‘/.../
Trieste non era mai italiana, perchè lo è divenuta solo quando in qualche maniera
l’Italia doveva venir ricompensata per il tradimento fatto agli austriaci nella prima
guerra mondiale. /.../”**. Infine, il presidente dell’UIIF Giusto Massarotto?, con-
cludeva affermando che “/.../ Gli Italiani della Jugoslavia, compatti a fianco di tutti
56 A questo punto può essere interessante rilevare la posizione (strumentale) dell’UIIF che, per voce del suo
quindicinale “Panorama”, pubblicava nel numero 19 del 1953, una cartina “etnografica” (a pagina 9) che aveva il
fine di illustrare la “vera” composizione nazionale della penisola istriana e della Regione Giulia (vedi riproduzio-
ne); interessanti ci sembrano anche le cartine pubblicate a pagina 10 del medesimo numero, che analizzano in
modo improprio sia la composizione etnica del T.L.T. che il progressivo diminuire del naviglio mercantile triestino
durante il periodo dell’amministrazione italiana.
La questione veniva definita come una “concessione fatta ai reiterati ricatti dell’Italia di De Gasperi e di
Pella”; si aggiungeva che “Trieste è sorta ed è fiorita come porto, come città portuale, strettamente legata al sua
retroterra che oggi appartiene in gran parte alla Jugoslavia e in parte minore all'Austria, mentre l’Italia come
retroterra di Trieste non ha mai ricoperto un ruolo importante /.../ Trieste sorge sulla costa jugoslava dell’ Adria-
tico, per cui si può affermare senza tema di smentite che il centro di Trieste sia un'isola etnica circondata da una
periferia e da un circondario nettamente sloveno. /.. ./, se non ci fosse stata la Prima guerra mondiale (in cui Trieste
e la Regione Giulia figuravano come il premio in palio per l’entrata in guerra dell’Italia a fianco degli alleati), la
città avrebbe ottenuto in una decina d’anni una maggioranza etnica sloveno-croata”
5 Andrea Benussi, nato a Digano d’Istria il 20 gennaio 1894, da modesta famiglia di contadini, aderì ancora
giovanissimo a varie organizzazioni politiche ed operaie della sinistra istriana; dopo la Prima Guerra Mondiale,
oppositore del fascismo (dove conosce in carcere Josip Broz-Tito), poi in Francia, Belgio e nuovamente in Francia
dove prende parte alla Resistenza. Giunge a Fiume agli inizi del 1946, inserendosi nella vita politica ed economica
del Paese, aderendo al PCJ e mantenendo spesso un rapporto apertamente critico nei confronti dei problemi
specifici che assillavano la popolazione italiana dell’Istria e di Fiume; oltre ad incarichi dirigenziali effettivi
nell’UTIF, ne fu anche presidente onorario negli ultimi anni della sua vita. Morì a Fiume nel 1979.
58 La Voce del Popolo, 9 ottobre 1953, p. 2.
59 Giusto Massarotto, rovignese di nascita, fu attivista giovanile antifascista; prese parte alla Lotta Popolare
di Liberazione in varie formazioni partigiane degli Italiani dell'Istria e, successivamente, nei ranghi del battaglione
italiano “Pino Budicin”. Nel dopoguerra, deputato al Parlamento jugoslavo (inizio anni ’50), fu dirigente politico
ed economico nella sua città natale e Presidente dell’ UIIF. Morì a Rovigno nel 1965.
26 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
i popoli jugoslavi sono pronti, se necessario, a impugnare le armi per difendere gli
interessi della pace e della giustizia e gli interessi dei lavoratori triestini /.. /”99,
Questo per quanto riguarda la posizione ufficiale dell’ Unione, totalmente allineata,
come si vede. Di estremo interesse e per certi versi contraddittoria con queste prese
di posizione ci sembra invece la documentazione relativa ad una riunione
dell’ UIIF, tenutasi il 3 dicembre 1953 (a Fiume?), dal cui verbale stralciamo alcuni
passi significativi, utili a focalizzare i problemi effettivi cui andava incontro in quel
contesto la minoranza italiana. Così, il vicepresidente apriva la riunione, nella
quale si sarebbe discusso in merito “ai problemi sorti in questi ultimi tempi. Come
ad esempio la questione delle scuole e, in occasione dell’8 ottobre, la questione
delle scritte. E di fronte a questi fatti è sorto un panico in seno agli italiani. Sono
convinto che i fatti successi non sono alcuna direttiva ma sono casi sporadici.
Siamo intervenuti e pareva che tutto si fosse rappacificato. Proprio alcuni giorni
prima delle elezioni ecco nuovamente la questione delle scritte (in italiano, ndr)
che sono state sporcate con la calce. In città non si vede una bandiera italiana,
nessun trasparente (manifesto, ndr) in lingua italiana. Io so che a Pola esiste la
bilinguità. Nei nostri blocchi stradali a Fiume nonsi parla più una parola in italiano.
Va bene che dopo tanti anni tutti dovrebbero conoscere il croato, ma noi dobbiamo
tener conto degli interessi della più piccola minoranza. Certi elementi italiani che
ancora prima erano contrari, ora gettano le voci che è avvenuto ciò che loro
prevedevano, cioè l’estinzione della minoranza. Tutti questi fatti specialmente ora
non sono opportuni, ora che noi critichiamo l’attività del governo italiano contro i
diritti della minoranza slovena. Non riesco a capire come mai siamo giunti a questa
situazione, un compagno ha parlato in una occasione in italiano e quasi lo fischia-
vano. La responsabilità di quello che accade ricade su tutti noi perché siamo noi
colpa se precedentemente non abbiamo separato gli Italiani venuti dall’Italia da
quelli che sono sempre qui vissuti ed hanno combattuto a fianco dei compagni
croati. /.../ Io penso che sarebbe giusto nei prossimi miting parlare in italiano.
Dobbiamo chiarire ai Bosniaci ed ai Montenegrini che sono da poco giunti quì, il
ruolo della nostra minoranza che ha combattuto in queste parti al fianco dei
compagni croati poiché loro se sentono parlare in italiano ci credono italiani di Pella.
A Pola e in tutta l’Istria non si verificano di questi casi. /.../ Tutte queste sono
piccole cose, ma non illudiamoci che esse non influiscono sulla gente. E queste
sono le cause che oggi rendono passivi gli Italiani e difficile ad attivizzarli /.../”°!.
60 La Voce del Popolo, 10 ottobre 1953, p. 2.
6! Archivio del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno (C.R.S.), fascicolo n. 4779/85, p. 1.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 27
Un tema ricorrente nelle discussioni all’interno dell’ UIIF è stato quello riguar-
dante i problemi delle istituzioni scolastiche del gruppo nazionale. Sempre attin-
gendo dal verbale della riunione del 3 dicembre 1953 veniamo a conoscenza di
certe questioni connesse con la chiusura forzata di alcune scuole con lingua
d’insegnamento italiana e dei criteri “amministrativi” adottati da apposite commis-
sioni nel decidere “in base all’ appartenenza nazionale” l’iscrizione ad uno piutto-
sto che ad un altro istituto scolastico: “Per quanto riguarda la questione di Montona
non sappiamo più di tanto all’infuori di una lettera inviataci da un insegnante.
L’altr’anno quando io sono stato a Montona il presidente del Kotar (distretto, ndr)
m’aveva detto che Montona è una cittadina con molti italiani e che per tanto la
scuola vi deve essere. Ora la situazione si è capovolta. E io penso che la causa sia
appunto del segretario del partito di Montona che è un italiano e che non è stato
capace di affrontare la situazione. /.../ A Pola si è notato il 40% dell’afflusso degli
alunni alle scuole italiane in meno dell’anno scorso (1952, ndr)”. Un altro membro
del Comitato UIIF rilevava: “Il problema delle scuole in Istria è molto critico. Nella
quasi totalità dei consigli per la cultura distrettuali ci sono elementi che continuano
l’attività antifascista e credono fascisti anche gli italiani attuali. Ora essi si impon-
gono dittatoriamente, specialmente dopo lo scioglimento dell’Oblasni Komitet.
Quest'estate a Pisino già parlavano che col prossimo anno scolastico la scuola
italiana di Pisino e di Montona si chiuderà. Ciò non deriva dalla classe operaia
croata ma da singoli elementi intellettuali. Per la questione di Pola ho parlato con
un compagno connazionale ed ha detto che è stata formata una commissione che
decideva amministrativamente chi doveva andare alla scuola italiana e chi in quella
croata e non solo questo, ma mandava i casi dubbi alla scuola croata. Poi hanno
convinto una quindicina di genitori a mandare i figli alla scuola croata dicendo che
la scuola italiana non ha avvenire. Il compagno ha portato la questione in seno al
Consiglio per la cultura dicendo che non è giusto agire amministrativamente e gli
fu risposto che anche l’Italia aveva fatto lo stesso con loro. A Fiume gli isegnanti
sono demoralizzati. /.../ Bisogna tenere conto che ad Albona il 50 per cento di quelli
che sono passati nella scuola croata quest'anno sono stati bocciati. E questo è un
danno. Il nostro compito è di formare uomini socialisti indipendentemente dalla
lingua cui parlano”?
In materia di rapporti infranazionali, non sarà superfluo, infine, riportare le
opinioni di alcuni esponenti dell’UIIF circa i fatti occorsi 1°8 ottobre 1953 ed a
proposito di una lapide con iscrizione monolingue: “In merito alla situazione dell’8
62 Ibidem, pp. 2-3.
28 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
ottobre è mancata una tempestiva reazione. Se proprio non si è potuto frenare
quelle manifestazioni tempestivamente, i giorni seguenti almeno si poteva chiarire
la questione e invece si è stati quasi accondiscendenti ad evitare di parlare in
italiano durante quel periodo”. L’opinione di un’altro membro del Comitato era
che “questi piccoli fatterelli non c'entrano con la nostra Costituzione. Questi sono
casi singoli che noi dobbiamo assolutamente chiarire e accusare chi li fa. Dobbia-
mo noi parlare agli italiani e non lasciare che loro parlino tra di loro e restino
influenzati dagli elementi malsani. Sono convinto che i fatti che sono successi sono
veri, ma sono del parere che noi li abbiamo drammatizzati. Io non sono tanto
sentimentale per queste piccole cose quali ad esempio la questione delle scritte. Io
non vedo che esistano dei problemi. I casi avvenuti sono casi sporadici e noi
dobbiamo risolverli”. Un altro esponente ribatteva dicendo che “molti italiani sono
troppo sensibili e non comprendono queste incomprensioni che si può dire sono
naturali. Queste incomprensioni sono dovute al caso e si manifestano verso di noi
come pure verso le istituzioni croate perché dobbiamo ammettere che anche nelle
scuole croate, ad esempio, esistono dei problemi e tutto non va liscio. Per questo
non dobbiamo interpretare queste incomprensioni subito come un problema poli-
tico o come una questione nazionale. /.../ Trovo assurdo che un compagno dica e si
ponga la domanda quale sarà il futuro della minoranza. Fintanto che esisteranno
alunni di nazionalità italiana esisteranno anche le scuole. È nostro errore non
reagire con gli insegnanti che si sono demoralizzati. Bisogna fare una riunione con
loro e spiegare in questo modo la questione. Ad esempio il Circolo italiano di
cultura dovrebbe farsi il promotore di questa campagna. Per l’Istria si dovranno
prendere altri provvedimenti, ma a Fiume si potrà sopperire con questa attività
promotrice del CIC (Circolo di cultura italiano, ndr) che dovrà impostare la
questione non sul problema nazionale ma bensì sul lavoro corrente. /.../ Anch'io
condanno il metodo che si è usato per le scritte e così via, ma non ammetto che si
seguiti a fare di questo un problema. Ora non si sente più parlare di questo dalla
nostra gente ma non perché ha compreso la questione ma perché si è rassegnata. E
questo è nostro torto che non glielo abbiamo fatto comprendere. Noi dobbiamo
abolire le discussioni sulle tabelle. Fiume deve avere un carattere croato perché fa
parte del Litorale croato”. A quel punto interveniva nella discussione un membro
che voleva esprimere il suo disappunto per le dichiarazioni riportate sopra. Infatti
egli desiderava sottolineare che “la questione della lapide che s’è eretta sul ponte
di Susak°* con su scritta una frase del compagno Tito in merito alla fratellanza tra
63 Località presso Fiume che segnava il confine italo- jugoslavo dopo il Trattato di Rapallo.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 29
croati ed italiani di questa località. La scritta è stata fatta solamente in lingua croata.
La questione è stata posta in seno all’ Assemblea del C.P. (Comitato popolare, ndr)
cittadino e non s’è ritenuto necessario che questa scritta fosse tradotta anche in
italiano dato che trattava appunto della fratellanza di questi due popoli”. Il rappre-
sentante cui era rivolta la critica, continuava ostinatamente a ribattere affermando
che egli era “stato fra quelli che hanno votato contro per l’iscrizione in italiano
della scritta perchè ritengo che quella frase sanziona la situazione esistente e non
si tratta di un atto di propaganda. L’importante è che questa fratellanza che ivi sta
scritta esista”. A quel punto l’altro membro rispondeva e concludeva seccamente:
“Allora se si vuol parlare così, non occorre neanche la tabella con l’iscrizione in
croato poiché la fratellanza esiste ugualmente.
Questa discussione viene interrotta”.
Esistevano dunque, vedute notevolmente contrastanti tra i membri dell’ UIIF,
da attribuirsi anche alla differente provenienza territoriale-ambientale, ed alla
diversificata estrazione sociale e culturale. Ed era complessa e difficile la situazio-
ne sociale e politica in cui l'UIIF operava. Resta comunque significativo l’inter-
vento del vicepresidente che con le proprie “conclusioni”, abbozzò una sintesi delle
posizioni e dei compiti dell’ UIIF, quasi pronosticando gli eventi futuri: “A conclu-
sione della nostra discussione sono convinto che di queste incomprensioni ne
troveremo per diversi anni. Per diventare socialisti ci vuole un bel po’ di tempo e
non è facile diventarlo. Sono completamente d’accordo con voi di non badare a
questi piccoli casi e di lavorare con le masse italiane. Io penso di convocare i
membri del Partito di nazionalità italiana e di far conoscere loro dal vero lato la
questione. Nelle fabbriche bisogna parlare agli operai che nessuno proibisce loro
di portare nelle manifestazioni le bandiere italiane. E se avvengono dei fatti
dobbiamo risolutamente combatterli perché questi non sono solo nemici della
minoranza ma del socialismo.
Dopo di che la riunione ha termine”.
64 Archivio del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno (C.R.S.), fascicolo n. 4779/85, pp. 4-5.
65 Ibidem, p. 6.
30 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
Storia dell’UIIF dal 1954 al 1963: Circoli di Cultura, istituzioni scolastiche
e attività editoriale del Gruppo Etnico Italiano
Come riesce facile evincere da quanto sino a qui detto, le garanzie autonomi-
stiche solennemente promesse e proclamate nel corso della guerra a favore di
quella che, in ambito regionale istriano costituiva allora la maggioranza, vennero
accantonate e ignorate con modalità e argomentazioni diverse e furono sostituite
da una brusca inversione di tendenza nell’impostazione delle relazioni inter-etni-
che, poiché, al posto dell’autonomia, si imboccò la via della tutela legislativa, per
di più non lineare e ascendente. Il periodo migliore, il più favorevole per la
minoranza italiana, era stato quello dell’immediato dopoguerra, prima dell’esodo,
quando, anche senza strumenti giuridici formali, essa si governava praticamente da
sé, godeva di una posizione, sotto certi aspetti, privilegiata. Dopo lo sconvolgimen-
to e la lacerazione del tessuto sociale provocato dalla massiccia emigrazione ebbe
inizio un complesso processo di inesorabile riduzione numerica e di ridimensiona-
mento del ruolo politico, culturale e linguistico della “nuova” minoranza, che
divenne più vistoso proprio a partire dal 1954, dall’anno cioè che apre il secondo
decennio che ci apprestiamo ad analizzare (fino al 1964). Un anno importante per
gli avvenimenti che si susseguirono e che avrebbero lasciato profondi segni sul
destino di queste terre.
Il 3 marzo 1954 a Dignano si svolse una riunione del Comitato dell’ UIIF.
All’incontro parteciparono numerosi membri dell’ UIIF e vennero trattati vari
argomenti quali: le conferenze annuali dei CIC, i problemi della diffusione della
stampa in lingua italiana, la ventilata chiusura della scuola italiana di Albona®°.
Dall’intervento di uno dei presenti all’incontro, che ci sembra caratterizzante una
situazione tipica di più d’una località istriana, ossia il prevalere numerico della
popolazione italiana su quella slava, veniamo a conoscenza della situazione di
Rovigno, dove il Circolo di Cultura svolgeva un’attività ridotta, non certo per
negligenza, ma perché questa situazione era determinata dalle condizioni stesse
che erano specifiche. Infatti “a Rovigno dove i Croati sono la minoranza e gli
Italiani la maggioranza?” gli Italiani non hanno bisogno di una attività specifica in
seno al Circolo. Il nostro fine è quello di rendere attivi gli Italiani nell’edificazione
del socialismo indipendentemente dalle forme organizzative”. Così ad esempio a
Fiume le varie istituzioni sociali e politiche non possono interessarsi completamen-
66 Archivio del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno (A.C.R.S.), fasc. n. 4777/85, p. 1.
67 Una situazione analoga esisteva per esempio a Dignano e Gallesano.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 31
te di tutti i problemi della minoranza per cui è giusto allora che il CIC cerchi di
colmare queste lacune, organizzi le conferenze dell’ Università popolare in italiano,
che il CIC cerchi di colmare queste lacune, organizzi le conferenze dell’ Università
popolare in italiano, che il CIC di Pola organizzi corsi, ecc. Ma, in sostanza,
dovrebbe essere l’autorità costituita a fare questo”.
Da queste affermazioni risulta che i Circoli di Cultura non erano ancora
riusciti ad assumere l’importante ruolo di organismi di coesione del gruppo nazio-
nale a livello locale. Infatti un membro del Comitato constatava che “il CIC non è
riuscito a divenire una organizzazione autorevole. Quando esso ha qualche propo-
sta da fare i compagni del Comitato non vengono accolti dalle autorità come
dovrebbero ed ecco che allora si ricorre al compagno Benussi, a Massarotto
affinché si intervenga per appoggiare la loro proposta. Anche nel Territorio Libero
di Trieste esiste una certa passività nell’attività del CIC di quel territorio special-
mente dopo i fatti successi in occasione dell’8 ottobre (/953, ndr). Per quanto
riguarda il Circolo di Dignano, esso ha svolto finora una attività molto limitata.
Fino a quando esisteva la società artistico-culturale il Comitato del CIC discuteva
e si interessava dell’attività, ma da quando la V. Gortan®8 s’è unita a quella croata,
il CIC non ha avuto più problemi da trattare. Per quanto riguarda l’attività politica
essa viene svolta in seno alle organizzazioni di base e problemi della lingua non
esistono perché Dignano è popolata più da italiani che da croati...”°°.
Nella conclusione, si sottolineava che era necessaria un’intensa campagna di
persuasione presso tutti gli italiani affinché partecipassero alle iniziative dei Cir-
coli di Cultura. Si metteva inoltre in evidenza il fatto che non bisognava “separare
l’attività degli italiani da quella dei compagni croati”?
Mentre l’ Unione degli italiani, il 10 luglio del 1954, stava celebrando il suo
decennale, esaltando la “lotta di liberazione, combattuta con entusiasmo a fianco
dei fratelli croati e sloveni suggellando con il sangue versato in comune quella
fratellanza e quella unità indistruttibili””!, nella Zona B del Territorio Libero di
Trieste, affidata all’amministrazione jugoslava, si stava compiendo l’ultimo dram-
matico atto, potremmo dire, di un fenomeno che aveva interessato, dal 1945 in poi,
le zone popolate da italiani: si completava l’esodo di circa 200.000 anime”, anzi
68 Nome della società artistico culturale degli Italiani di Dignano, nonché eroe popolare.
69 A.C.R.S., fasc. n. 4777/85, p. 4.
70 A.C.R.S,, fasc. n. 4777/85, p. 5.
7 “10 anni di vita dell’UIIF”, Panorama, n. 13, Fiume, 1954, p. 3
72 AA.VV., Storia di un esodo Istria 1945-1956, Trieste, 1980, p.l.
32 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
più di 300.000, secondo quanto affermato dal presidente J. B. Tito”.
Fra tutti i fatti accaduti nel 1954, il Memorandum d'Intesa firmato il 5 ottobre
a Londra, rappresenta certamente lo spartiacque nella vicenda dei rapporti italo-ju-
goslavi. Si concludeva, infatti, un periodo lungamente caratterizzato da tensioni tra
i due Stati che erano culminate, nell’autunno del 1953, con il concentramento di
carri armati ai confini, a seguito della decisione, da parte del governo Alleato di
affidare all’Italia la Zona A del TLT.
Il documento, firmato alla presenza dei rappresentanti degli Stati Uniti e del
Regno Unito, assegnava praticamente in forma definitiva alla Jugoslavia la Zona
B dell’ex TLT, mentre Trieste ritornava a far parte dello Stato italiano. Nell’ Alle-
gato II allo “Statuto speciale””*, venivano sanciti i principi che avrebbero dovuto
garantire uno sviluppo indisturbato alle due minoranze nazionali (italiana in Jugo-
slavia e slovena in Italia). In particolar modo veniva assicurata l’uguaglianza dei
due gruppi etnici in rapporto ai popoli di maggioranza sul piano dei diritti civili,
73. B. TITO, “Relazione all’ Attivo Politico del Montenegro”, Glas /stre, del 30 dicembre 1972.
74 La Voce del Popolo del 6 ottobre 1954, p. 3; riportiamo alcuni articoli dello “Statuto speciale”:
Art. 2
Gli appartenenti al gruppo etnico jugoslavo nel territorio amministrato dall'Italia e gli appartenenti al
gruppo etnico italiano del territorio amministrato dalla Jugoslavia, godranno uguali diritti e trattamento come gli
altri abitanti dei due territori. Questa uguaglianza significa che essi godranno:
a) l'uguaglianza con gli altri cittadini per quanto riguarda i diritti politici e civili, nonché gli altri diritti
dell’uomo e le altre libertà fondamentali garantite nell’art. |
Art. 4
a) questi gruppi etnici avranno diritto alla propria stampa nella loro lingua materna
b) le organizzazioni educative, culturali, sociali e sportive di entrambi i gruppi, potranno agire liberamente
conformemente alle leggi vigenti
c) a entrambi i gruppi verrà porto l'insegnamento nella lingua materna nei giardini d'infanzia, nelle scuole
elementari, medie e professionali. Tali scuole verranno mantenute in tutte le località del territorio in esame. I
governi italiano e jugoslavo sono d’accordo di mantenere le scuole esistenti, come sono citate nella lista allegata.
Queste scuole godranno di un eguale trattamento rispetto alle altre scuole dello stesso territorio situato sotto
l’amministrazione italiana rispettivamente jugoslava, per quanto riguarda l’assicurazione di manuali, edifici ed
altri mezzi nonché il riconoscimento dei diplomi /.../1 programmi d’insegnamento di queste scuole non debbono
essere rivolti in una direzione in contrasto con il carattere nazionale degli alunni
Art. 5
Gli appartenenti al gruppo etnico jugoslavo nel territorio sotto l’amministrazione italiana e gli appartenenti
al gruppo etnico italiano nel territorio sotto l’amministrazione jugoslava potranno servirsi liberamente delle
propria lingua nelle comunicazioni personali e ufficiali con le autorità amministrative e giudiziarie di entrambi i
territori. Nelle risposte orali essi avranno il diritto a ricevere dalle autorità le risposte nella stessa lingua, sia
direttamente che mediante interprete. /.../ In quelle unità elettorali sotto l’amministrazione italiana, nei quali gli
appartenenti al gruppo etnico jugoslavo costituiscono parte significativa (almeno un quarto della popolazione) le
scritte sugli enti pubblici e i nomi delle località e delle vie figureranno nella lingua del gruppo etnico jugoslavo
nonché nella lingua dell'autorità che esercita l’amministrazione. In quei comuni nel territorio sotto l’amministra-
zione jugoslava, nei quali gli appartenenti al gruppo etnico italiano, costituiscono parte significativa (almeno un
quarto della popolazione) queste scritte dei nomi figureranno in lingua italiana, nonché nella lingua dell'autorità
che esercita l’ amministrazione
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 33
politici e di uso e sviluppo della propria lingua e delle proprie tradizioni; veniva,
inoltre, fornito un elenco delle istituzioni scolastiche appartenenti alle minoranze,
esistenti al di là e al di qua del confine.
In occasione di questo avvenimento d’importanza capitale per il Gruppo
Nazionale, venne indetto a Dignano un Plenum dei rappresentanti dell’ Unione.
Così, la minoranza italiana dei territori della Zona B annessi al territorio jugoslavo,
entrava a far parte de jure dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume”?. Nel
discorso del presidente Massarotto, tra l’altro, veniva auspicato che “agli sloveni
(della Zona A, ndr) fosse garantita al pari nostro, una democrazia sostanziale fatta
di auto-dirigenza dell’amministrazione, dell'economia e della vita politico sociale,
come essa esiste nel nostro paese”””°.
Venne posto l'accento anche sul fatto che si sarebbe dovuto approfondire lo
sviluppo politico dei connazionali, ma risolvendo i loro problemi nelle rispettive
Comuni. Pertanto, egli concludeva che l’ Unione degli Italiani doveva occuparsi
solamente di questioni generali riguardanti la minoranza nel suo complesso, ovvia-
mente esclusione fatta peri contenuti politici. Infatti, “un importante ruolo politico
doveva svolgere nel futuro”? il Gruppo Nazionale in quanto costituito da individui
che con le loro caratteristiche nazionali si sarebbero dovuti includere — questo sì —
nei meccanismi politici della società jugoslava, naturalmente in ambito locale.
Anche questa tesi era una conferma che gli italiani non avrebbero potuto
svolgere attività politiche attraverso la loro specifica organizzazione. Ci sembra
giusto ricordare, a questo punto, che l’UIIF, nei suoi programmi iniziali, era sorta
innanzitutto come organismo politico. Purtroppo, soprattutto dopo la metà degli
anni ’50*, essa cominciò a trasformarsi sempre più o quasi esclusivamente in “ente
coordinatore”, attraverso i Circoli di Cultura, delle attività artistico-scolastico-edi-
toriali del Gruppo Nazionale.
75 La V.d. P., del 7 novembre 1954, p. |.
76 La V. d. P., del 8 novembre 1954, p. |.
77 Così di esprimeva significativamente in un articolo programmatico il quotidiano “La V. d. P.” (8 novembre
1954), riportando e commentando le conclusioni del Plenum dell’UIIF a Dignano.
78 Comunque v., Archivio C.R.S., fasc. n. 26/72, a tale proposito l’intervento di E. Sequi alla II Conferenza
Plenaria di Parenzo (2 febbraio 1947) in cui si affermava che “Col sorgere dell’Unione Antifascista Italo-Slava è
venuta a cessare la funzione direttamente politica dell’UIIF, in quanto, tutti gli italiani democratici non hanno
alcun motivo di svolgere una particolare attività politica che li separi dalle masse democratiche slave. L'Unione
degli Italiani, che riconosce suo il programma dell’U.A.I1.S. ed è parte integrante di tale istituzione, si dedica
pienamente a quell’unica particolare attività, che nella sua stessa forma interessa separatamente italiani e croati e
sloveni; e cioè l’attività culturale che, partendo dalle stesse fonti sociali ed ideologiche, devono esplicarsi
secondo la lingua e il genio degli Italiani”.
34 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
Nel 1955 l’attività dell’UIIF è caratterizzata dai preparativi per l’ VIII Assem-
blea. Nella riunione della Segreteria del 14 febbraio venne esaminata la situazione
finanziaria dell’Unione, uno dei problemi “spinosi”, in quanto la stragrande mag-
gioranza dei suoi fondi, veniva elargita dal Comitato Esecutivo della Repubblica
Popolare di Croazia. È un aspetto questo che rivela subito quanto il Gruppo
Nazionale fosse già allora completamente dipendente, per le proprie attività, dai
mezzi messi a disposizione dagli organismi statali maggioritari, dato che non
disponeva di attività economiche che gli permettessero di accumulare il necessario
e di godere di una certa autonomia finanziaria. Dalla documentazione relativa a
quell’incontro”? veniamo a sapere che “la sovvenzione è diminuita di 20 milioni.
Sorge una discussione sul da farsi. Ad ogni modo si esclude il fatto di eliminare
qualche giornale o rivista. Si conclude di andare a Zagabria portando seco un piano
di massima e uno di minima e che poi loro (/a dirigenza croata, ndr) stabiliscano
il da farsi. Che a Zagabria si suggerisca l’idea che partecipasse alle spese
dell’ Unione anche la R.P. di Slovenia8® e non solo quella di Croazia”.
Altra questione, l’attività editoriale: in quella sede si fece notare che “se la
Voce (del Popolo, ndr) riesce a guadagnare 3 milioni di dinari con gli avvisi
pubblicitari, può uscire liberamente in 6 pagine e chiede se sono d’accordo su
questo. Tutti approvano per cui si decide di informare della cosa il compagno
Trento (recte Trenta) a Zagabria”.
In quella sede, inoltre, venne stabilito che 1’ Assemblea dell’UIIF si sarebbe
svolta a ottobre in una località ancora da fissare. Ma il 19 ottobre la Presidenza
affrontava la questione rivelatasi alquanto complicata. Infatti, “per quanto riguarda
l’ Assemblea dell’ Unione si decide di tenerla il giorno 20 novembre. Sorge qui una
discussione in merito alla località dove tenere la nostra Assemblea. Il nostro
progetto di tenere 1’ Assemblea in una località dell’ex territorio libero (Zona B, ndr)
non sarebbe da realizzare in relazione proprio agli ultimi avvenimenti. L’Italia in
questo ultimo tempo cerca di fare il possibile affinché gli italiani di questo
territorio rimangano su queste terre per poter dimostrare che ci sono italiani. Noi
tenendo l’ Assemblea proprio in quel territorio rafforziamo la politica dell’Italia.
Dopo una breve discussione si conclude che un compagno del distretto, al suo
rientro a Pirano si colleghi subito con i compagni del Comitato distrettuale del
Partito per stabilire l'opportunità o meno di tenere 1° Assemblea in quel territorio.
99 A.C.R.S,, fasc. n. 4774/85.
80 Il Gruppo Nazionale Italiano che opera in Slovenia, viveva nelle cittadine del Litorale Sloveno, ossia
Capodistria, Isola, Strugnano, Pirano, Portorose, S. Lucia.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 35
Qualora la risposta fosse negativa allora si stabilisce di tenere |’ Assemblea a
Pola”8!,
E così sarebbe stato.
In un’altra seduta della Presidenza tenutasi a Rovigno nel luglio 1955, la
discussione si accese in merito alla scarsa efficacia dell’opera di “proselitismo”
socialista svolta dai CIC (Circoli italiani di cultura, ndr) nell’intento di attivizzare
tutti gli Italiani che avevano deciso di non abbandonare la propria terra. La
situazione era molto critica soprattutto nei CIC dell’ex Zona B del TLT, in quanto
le opzioni erano in pieno svolgimento, l’ atmosfera generale per i rimasti era, a dir
poco, scoraggiante*. Neppure nel restante territorio abitato da Italiani, però, la
situazione era delle più rosee: l’ Unione non riusciva a stabilire un contatto neces-
sario con i CIC per un’azione omogenea, condotta al fine di un reale coinvolgimen-
to dei connazionali nella vita socio-culturale della comunità stessa. Disquisendo
del ruolo dei CIC ci si poneva la questione “se l’attività politica dobbiamo
incanalarla nelle organizzazioni di base (organizzazioni di lavoro, organizzazioni
socio-politiche della maggioranza, ndr), l’attività culturale svolgerla assieme ai
compagni croati, allora, guardando teoricamente le cose, i CIC non dovrebbero
esistere. Invece noi sappiamo che i CIC sono necessari, poiché in alcune organiz-
zazioni di base non viene dedicata molta attenzione ai compagni italiani, per cui i
CIC devono sopperire con la loro attività a questa mancanza”*3.
D’altronde veniva ribadito che l’esistenza dei CIC era un fatto indiscutibile,
anche per lo sviluppo del sentimento nazionale. Tuttavia il fine ultimo era certa-
mente quello di “creare degli italiani, ma socialisti!”’. E qui torna utile proporre alla
nostra riflessione, alcune considerazioni di E. Collotti84 sulla posizione della
minoranza nazionale italiana in Jugoslavia. Egli proponeva di stabilire “intanto un
primo punto fermo sul quale si dovrebbe essere tutti d'accordo: i diritti della
8! A.C.R.S., fasc. n. 1073/73.
82 Vedi A.C.R.S., fasc. n. 1073/73. Discorso d’apertura di G. Massarotto tenuto alla VIII Assemblea
dell’UIIF e in particolare il passo: “Se in relazione alla soluzione del problema triestino nell’ex territorio libero si
sono aperte le opzioni, ciò non ha niente di straordinario. Nell’altra parte dell’Istria l'abbiamo già provato. Noi
siamo uomini liberi e intendiamo che ognuno si senta tale. Abbiamo il dovere si — perché la nostra coscienza è
socialista — di spiegare ad ognuno la verità su ciò che lo può attendere un domani senza casa, senza terra e forse
senza lavoro in qualsiasi luogo dovesse andare e specialmente a randagio quale emigrante. L'esperienza di tanti
che lo hanno provato può molto insegnare. Noi questo lo dobbiamo fare, dobbiamo cioè dire cosa significa
abbandonare un paese socialista per mettersi a disposizione dello sfruttamento capitalista”.
83 A.C.R.S., fasc. n. 1073/73 (74), Intervento di A. Borme, p. 2.
84 E, COLLOTTI, “Postilla” — in risposta al testo di A. Borme, /! Ponte-Rivista mensile di Politica e
Letteratura, n. 8-9, 1955, pp. 1281-1282.
36 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
minoranza nazionale non possono spingersi fino alla pretesa del riconoscimento
del diritto a separarsi dallo Stato nel quale essa minoranza è incorporata. Giusti e
leciti sono pertanto gli sforzi di uno Stato rivolti a perseguire l'inserimento della
minoranza nella più ampia e complessa struttura dello Stato, in special modo
quando questo Stato sia portatore e alfiere di una ben determinata ideologia. Lungi
da noi l'intenzione di svalutare l’importanza per il popolo jugoslavo, e forse non
per esso soltanto, dell’esperimento in atto nel vicino paese: quello che non ci
convince sono taluni aspetti di questa nuova società in formazione che a noi, se
dobbiamo stare alle proclamazioni di principio, sembrano quanto meno contraddit-
torie. Proprio qui il problema nazionale, poiché questo per ora è quello che più ci
interessa, offre un esempio cospicuo di queste incongruenze: in altri termini, e per
essere brevi, come è possibile conciliare il socialismo con la protezione del
patrimonio e della tradizione culturale delle minoranze? Perché, se non erriamo,
l’immagine che noi ci dobbiamo fare del problema delle minoranze nazionali in
Jugoslavia, si può tradurre in breve in questi termini: in Jugoslavia tutti devono
pensare socialista, ma possono esprimere questi loro pensieri socialisti in italiano
(non sempre fu così, ndr), in sloveno, in croato e così via. E qui appunto sta il centro
della questione. Per noi, rispetto della minoranza significa rispetto non soltanto
della lingua ma anche e soprattutto della tradizione culturale della minoranza, e ciò
per il fatto molto semplice che non è possibile scindere la lingua dal mondo
culturale nel quale essa si è venuta formando senza condannarla a morte, sia pur
lenta ma sicura. Ora, ci pare che il socialismo jugoslavo persegua, consapevolmen-
te o no, uno scopo ben diverso, poiché l’indottrinamento dell’ideologia ufficiale
finisce necessariamente per eliminare ogni tradizione culturale particolare delle
singole nazionalità. In tal modo si opera su una specie di livellamento sul piano
dell’ideologia ufficiale, ma anche di conseguenza, l'eliminazione delle singole
tradizioni culturali.” /.. / “Che noi si sappia, Carducci e Croce non sono mai stati
socialisti. Ebbene, è possibile alla minoranza italiana in Jugoslavia leggere e
studiare Carducci e Croce? Perché, ripetiamo, svellere la lingua dall’humus nel
quale essa si è alimentata nel corso dei secoli significa a lungo andare spegnerla e
con essa estinguere praticamente la minoranza”**.
Il 20 novembre 1955 si svolse a Pola l'VIII Assemblea dell’UIIF. Dopo la
“relazione politica” introduttiva del presidente Massarotto, nella “relazione orga-
85 La forma linguistica dei singoli interventi riflette spesso i limiti delle persone addette alla stesura dei
verbali (non si usavano quasi mai i registratori).
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 37
nizzativa” Andrea Benussi rilevava che i Circoli si erano basati fino ad allora
esclusivamente sull’attività artistico-culturale, conseguendo in certe località
dell’Istria ottimi risultati ma, gli altri campi di attività, come quello politico, erano
stati completamente trascurati*°.
Alla relazione sulla situazione finanziaria seguì la discussione. Spiccano le
valutazioni riguardanti gli atteggiamenti del mondo politico italiano nei confronti
dell’UIIF nelle quali, per la prima volta, si parla dei contatti con società artistico-
culturali della Nazione madre. Si segnalavanotre aree politiche: la prima era quella
del Presidente Parri, che veniva considerata progressista e quindi positiva, al
seconda che faceva capo alla Federazione giovanile comunista di Cucchi e Magna-
ni e, infine i “circoli irredentistici”’ italiani che esprimevano sulle colonne del
quotidiano triestino “Il Piccolo” le proprie opinioni circa la questione della regione
istro-giuliana. L'intervento di un membro dell’ UIIF chiariva come ‘fino a poco
tempo fa questa corrente politica negava o almeno ignorava l’esistenza di una
minoranza italiana in Jugoslavia; è quindi positivo che ora si riconosce la nostra
esistenza. Però tutti noi italiani in Jugoslavia veniamo considerati come degli
irredentisti che lottano per il ritorno dell’Istria allo Stato italiano. È evidente che
con tale corrente politica noi non possiamo cercare dei contatti. Bisogna perciò
essere sul chi va là e fare attenzione a chi ci porge la mano. Noi dobbiamo dunque
accettare contatti solo con quelle correnti della vita politica italiana che hanno un
atteggiamento positivo di fronte al nostro Paese e alla nostra minoranza, e dobbia-
mo usare i mezzi per esportare i nostri principi e far conoscere la nostra prassi
socialista oltreconfine”*”.
Veniva così realizzato, si affermava, uno dei diritti fondamentali di ogni
individuo o organismo che operi in una società democratica: far politica. Ma
“compito essenziale” dell’ UIIF diventava quello di far politica selezionando i
contatti ed ‘“esportando le idee socialiste al di là dei confini”. Inoltre, veniva
ribadito il principio secondo cui “l’ Unione degli Italiani non è un’organizzazione
politico-culturale. Le iniziative politiche non sono il compito principale dell’ UIIF,
bensì devono venir svolte come attività secondaria, di tanto in tanto”**. Tale
orientamento veniva giustificato col fatto che l’azione politica degli Italiani doveva
restare nell’ambito dell’ Unione Socialista del Popolo Lavoratore®?: se i CIC fosse-
86 A.C.R.S., fasc. n. 1091/73.
87 A.C.R.S,, fasc. n. 1091/73, p. 3.
88 Ibidem, p. 4.
89 L'Unione Socialista del Popolo Lavoratore (più tardi Alleanza Socialista del Popolo Lavoratore)
38 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
ro divenuti campo per l’attività politica, si sarebbe “minata la fratellanza con i
compagni croati e sloveni”. A dimostrazione e conferma del completo conformi-
smo della maggioranza dei membri costituenti la Presidenza dell’UIIF “alle diret-
tive che giungevano dall'alto”, ecco alcuni passi del discorso di saluto, pronunciato
da Mika Spiljak®° durante i lavori dell’ Assemblea: “L’ Unione ha fatto molto per
organizzare la vita della minoranza e legarla all’edificazione socialista. Ora i
problemi fondamentali dei rapporti con l’Italia sono risolti e di fronte all’ Unione
stanno nuovi compiti: il compito principale è educare gli italiani a una nuova
attività sempre maggiore negli organi d’autogoverno (consigli operai, consigli
scolastici, consiglio dei cittadini); l’autonomia è i diritti degli italiani non si
realizzano nei CIC e nell’ Unione ma nella loro funzione e nella loro partecipazione
all’attività delle organizzazioni sociali. Quanto più gli italiani si attivizzeranno
nelle varie organizzazioni sociali e nei vari organi di autogestione, tanto meno
diverranno necessarie certe attività che i CIC e l’ Unione svolgevano fino a ora;
altro grande compito dell’ Unione e dei CIC è la cura dello sviluppo della cultura
nazionale nello spirito socialista. Un terzo compito per cui appena oggi si sono
create grandi possibilità di realizzazione è quello dell’azione socialista della nostra
minoranza sui connazionali in Italia. Oggi la situazione politica del nostro Paese
rende sempre più possibile una tale azione. La coesistenza della pace, ma politica
di classe, socialista, da noi e nel mondo, sia in Occidente che in Oriente; oggi è
possibile il progresso dell’umanità, la liberazione dall’arretratezza solo con l’eli-
minazione del capitalismo privato, col socialismo”? 92,
Vasta eco ebbe I’ VIII Assemblea nell’opinione pubblica del Gruppo Naziona-
le. Particolare scalpore suscitò la notizia della presunta e dichiarata mancanza di
omogeneità di vedute nel Comitato dell’ UIIF. Il presidente Massarotto propose di
chiarire questo punto alla successiva riunione del Comitato. Effettivamente, all’in-
terno della dirigenza dell’ Unione esistevano due correnti, diremmo quasi frazioni:
la prima, si preoccupava di inserire il più possibile gli Italiani nei processi politico
sociali in corso nella federazione jugoslava, ignorando la gravità dell’ assimilazio-
ne avanzata della comunità italiana; all'altra corrente stava più a cuore la conser-
raccoglieva tutti i soggetti (cittadini o associazioni di cittadini) che non facevano direttamente parte dell’apparato
di Partito.
9 Membro del Comitato Centrale dell’U.S.P.L. della Croazia.
? A.C.R.S,, fasc. n. 1091/73, p. 4-5.
°2 La V. d. P. del 21 novembre 1955 usciva con un articolo in prima pagina sull’ Assemblea dell’UIIF dal
titolo ambiguo: “Adeguare l’attività dell’Unione allo sviluppo generale del nostro paese”.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 39
vazione di una certa autonomia per il Gruppo Nazionale. Tale asserzione è conva-
lidata dai documenti finora citati e da quelli che seguiranno. Dal canto suo, il
presidente dell’ UIIF lamentava scarse possibilità di intervento dell’organizzazione
nel frenare certe tendenze “autonomistiche” di alcuni CIC. Ciò era dovuto, egli
stesso lo ammetteva, alle mutate condizioni (‘Legge sulle Comuni”)? (28), sicché
“prima con l’apparato che avevamo ci era più facile controllare, ora dobbiamo
lasciare questo compito alle autorità del comune, alle organizzazioni politiche del
luogo”.
Difatti, dalla documentazione disponibile, si desume che, anche se sino a quel
momento non era esistito mai un controllo vero e proprio sull’operato dei CIC da
parte dell’UIIF, le dirigenze dei CIC erano solite rivolgersi al presidente dell’ UIIF
per risolvere i loro problemi contingenti, locali; si cercò di porre fine a questa
prassi. Il vice-presidente Benussi si era dichiarato contrario all’opinione espressa
da altri membri, secondo i quali il Partito doveva interessarsi di tutto, anche delle
scuole della minoranza: non era necessario, disse, che i CIC eleggessero propri
rappresentanti, al fine di un controllo efficace, nei Consigli delle varie scuole.
Veniva persino negato, da un altro membro, che esistesse il problema della
probabile chiusura di alcune scuole della minoranza, in quanto, con il tempo, esse,
comunque, sarebbero state assorbite da quelle della maggioranza slava.
Con tali posizioni si mettevano in dubbio la stessa legittimità dell’esistenza
dell’Unione e dei CIC e la necessità di garantire la sopravvivenza del Gruppo
Nazionale. Infatti si affermava che “stando così le cose l’ Unione non serve proprio
a niente. A Parenzo il segretario del CPC (Comitato popolare cittadino, ndr) già
parla di una classe con 21 alunni che con il prossimo anno non esisterà più. A Torre
e a Visinada ugualmente. lo ho parlato con gli insegnanti ed ho constatato che sono
demoralizzati. Un insegnante di Parenzo per aver tenuto una lezione su Dante è
stato più volte chiamato dagli Affari Interni (polizia, ndr)””.
La situazione dei singoli CIC avrebbe richiesto ancora molte ore di discussio-
ne nelle riunioni della Presidenza dell’UIIF; all’inizio del 1956 furono così spediti
alle varie sedi dei questionari destinati a sondare la consistenza numerica degli
iscritti e la loro attività; venivano pure censiti i docenti delle istituzioni scolastiche
dell’Etnia. Il questionario “tipo” consisteva di due parti: una riguardava i CIC: si
dovevano specificare il numero dei soci (effettivi+onorari), l'appartenenza politica
9 A.C.R.S,, fasc. n. 1074/73; Verbale della riunione della Segreteria UTIF del 16 gennaio 1956, p. 1.
% Ibidem, p. 2.
95 A.C.R.S., fasc. n. 1158/73(74).
40 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
e sociale dei membri del Comitato (membri della Lega dei Comunisti, dell’USPL,
ceto operaio, contadino, intellettuale, ecc.), la nazionalità (italiana o jugoslava) e,
infine, la nazionalità dei soci onorari; l’altra concerneva la composizione socio-po-
litico-nazionale degli organici degli insegnanti (attività politica svolta oltre a quella
scolastica, comportamento verso la religione, numero dei docenti di nazionalità
slava operanti nelle scuole con lingua d’insegnamento italiana) e gli alunni (l’in-
fluenza esercitata dalla chiesa e le misure adottate in proposito dai rispettivi
consigli insegnati), nonché il numero degli appartenenti al Gruppo Nazionale che
ricoprivano posti di responsabilità nelle varie istanze politiche, economiche, nella
vita sociale e culturale in genere”.
A titolo illustrativo è bene esaminare i questionari compilati dai CIC di Pola
e di Rovigno (con l’intestazione “Circolo Italiano di Cultura - Rovinj”) e quelli
spediti all’ UIIF dai CIC di Isola e di Pirano”.
Se ne deduce che del CIC di Pola facevano parte 477 soci, mentre della Società
Artistico Culturale “Lino Mariani’ 122 soci. Dei 477 soci del CIC, 13 erano
membri del PCI, 16 dell’USPL; dei 27 soci onorari, 16 erano di nazionalità croata.
Nella scuola ottennale italiana di Pola, di 21 docenti ben 8 si dichiaravano croati
ed un serbo, mentre si precisava che “la maggioranza degli insegnanti tengono un
giusto atteggiamento nella lotta contro le credenze religiose e contro la loro
influenza negativa. Nella scuola non vi è un problema religioso, la maggioranza
degli alunni è di origine operaia, non frequentano la chiesa”.
Il CIC di Rovigno, notificò le seguenti cifre: i soci effettivi erano 100, mentre
quelli onorari 300; del PCJ facevano parte 11 membri, più 9 dell’USPL e di questi
20, 13 erano operai, un solo contadino, 7 intellettuali; infine, 3 appartenevano ad
altre categorie professionali. Tutti i soci (effettivi e onorari) erano di nazionalità
italiana. Per quanto riguarda le scuole, non si dispone di dati precisi relativi alla
consistenza numerica dei docenti e dei discenti, ma si sa che presso il liceo
operavano due professori di nazionalità croata. E, inoltre, che tutti gli insegnanti
provenivano da famiglie di operai e contadini escludendo due o tre anziani, tutti
svolgono la loro attività, oltre che nella scuola, nelle varie organizzazioni sociali; il
loro atteggiamento nei confronti della religione è quale lo esige la nostra Società”.
Dal documento succitato, risulta che gli studenti erano influenzati dalla reli-
gione cattolica soprattutto nelle prime classi della scuola elementare, mentre tale
% Ibidem, arch. cit...
97 Ibid.
98 Ibid.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 41
fenomeno andava riducendosi nelle classi superiori. Allo scopo di neutralizzare
l’influenza della religione sui ragazzi, i docenti li seguivano anche nei pomeriggi
nell’ambito delle attività extra-scolastiche.
Presso le istituzioni scolastiche italiane di Isola, la situazione era diversa: su
un totale di 53 studenti, 37 erano credenti; 6 insegnanti erano di nazionalità italiana,
mentre 5 erano di nazionalità slovena, solamente 2 erano membri del PCI. Il locale
CIC “Giordano Bruno” contava su 248 soci effettivi. È interessante rilevare che, a
quel tempo, 231 soci erano “Cittadini del Comitato Popolare Distrettuale di
Capodistria”, e 17 erano cittadini jugoslavi.
Infine, dalla relazione pervenuta dal CIC di Pirano, forte di 116 soci, si ricava
che gli Italiani di quel Comune ammontavano a circa 1400 unità nel 1956; gli
insegnanti nelle scuole con lingua d’insegnamento italiana erano 11, dei quali 5
italiani e 6 sloveni (8 erano atei). Per quel che riguarda l'influenza religiosa sugli
alunni, essa andava attribuita non all’opera del clero locale, ma all’educazione
familiare. Inoltre veniva lamentata la riduzione graduale del bilinguismo sia visivo
(insegne, tabelle, avvisi) sia orale”.
Due temi scottanti furono trattati in varie occasioni dalla Presidenza dell’ UIIF:
quello dell’intolleranza nazionale" e quello dei cosiddetti “svincoli dalla cittadi-
nanza jugoslava”!. All’interno dell’UIIF, esistevano due tipi di approccio alla
questione dell’intolleranza: uno che si occupava esclusivamente dei piccoli fatti
quotidiani, “tendeva ad ingrandirli e a farne un problema generale di tutta la
minoranza” (atteggiamento, questo che veniva considerato sbagliato) e l’altro,
ritenuto più giusto, che spingeva gli Italiani ad inserirsi il più possibile nella vita
sociale jugoslava per “venire elevati culturalmente e politicamente”. In definitiva,
si cercava di minimizzare la gravità del problema.
Le stesse frequenti richieste di svincolo dalla cittadinanza jugoslava venivano
considerate non come conseguenza del clima di intolleranza nazionale o della
scarsa democraticità dei rapporti sociali, bensì venivano attribuite esclusivamente
a moventi di natura economica, visto che anche cittadini di nazionalità croata
manifestavano l’intenzione di cambiare cittadinanza.
Si ventilò pure l’ipotesi che qualcuno agisse volutamente per dividere i
membri della Presidenza. Si cercava di criticare tutto e di ridurre la partecipazione
9 Per intolleranza nazionale intendiamo: chiusura forzata delle scuole italiane, scomparsa di insegne
bilingui, rifiuto dell’uso della lingua italiana da parte della popolazione di maggioranza durante comizi o riunioni
ma anche nella vita d’ogni giorno.
100 Rappresentavano le pratiche necessarie al soggetto optante, onde conseguire la cittadinanza italiana.
42 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
degli Italiani alla vita sociale: “Pochi sono oggi gli Italiani che si elevano politica-
mente e ideologicamente. Qualcuno cerca di rompere l’unità fra gli italiani. Noi
non dobbiamo erigerci a difensori dell’italianità”!°,
Non tutti i membri, però, la pensavano allo stesso modo. Si sosteneva che
bisognava tenere conto di tutti gli aspetti del problema. L’ Unione l’aveva sempre
affrontato energicamente, ed era perciò da elogiare. “I piccoli casi di intolleranza
nazionale che si verificano ogni giorno si potrebbero lasciar correre perché di poco
conto, ma quando questa intolleranza proviene dalle autorità”! (38) allora ciò
diventava grave e inammissibile, e bisognava reagire. Anche nella riunioni succes-
sive fu ripreso tale argomento. Si chiarirono nuovamente i rapporti tra CIC e UIIF.
Da un discorso del Presidente G. Massarotto si apprende l’esistenza di una “Com-
missione per le minoranze”, nominata per la prima volta nel seguente passo: “Il
lavoro dei CIC diverrà ideologico solo quando essi comprenderanno la lotta per il
socialismo, vedranno la Jugoslavia in generale. Sorgeranno ancora dei problemi
che le autorità locali lasceranno insoluti. Noi andremo in lotta tattica. Non diremo:
con questa tua azione tu (l’autorità locale, ndr) hai danneggiato la minoranza,
bensì diremo hai danneggiato il socialismo. In questo modo applicheremo lo
statuto e realizzeremo i principi dell’Unione. /.../ Che i CIC si rivolgano alle
autorità locali per risolvere i loro problemi. Se poi si vede che il problema
impostato dai compagni non viene risolto, rivolgersi a Zagabria, alla Commissione
per le minoranze, fino ad oggi poco sfruttata”'%.
Nella medesima riunione vennero espressi dei giudizi tendenti quasi a dimo-
strare che i problemi accennati erano stati “gonfiati”, inoltre si prese in esame un
rapporto sulle condizioni esistenti in alcuni CIC, compilato!°, a conclusione di un
viaggio itinerante in Istria, nel quale si constatava che nella maggior parte delle
località visitate, le autorità locali si interessavano parecchio della minoranza
italiana come, ad esempio, a Rovigno e Pola. Esistevano alcune eccezioni come nel
CIC di Parenzo, i cui dirigenti venivano definiti dall’ autore del rapporto “uomini
problematici, malcontenti”, incapaci quindi di agire, bloccati nell’ attendere l’inter-
vento delle autorità locali o dell’ UIIF. Una sorte peggiore era toccata a Umago, il
10! A_C.R.S,, fasc. n. 1074/73, verbale del 10 aprile 1956, pp. 3, 8.
102 A.C.R.S., fasc. n. 1074/73, p. 4
103 A_C.R.S., fasc. n. 1074/73, verbale dell’8 maggio 1956, p. 3
104 Membro del C.C. dell’U.S.P.L. della Croazia
105 A.C.R.S., fasc. n. 1074/73, verbale dell’8 maggio 1956, p. 4
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 43
cui “CIC non esisteva più perché in pratica non esistevano gli Italiani. Erano state
le autorità a far togliere la tabella con la denominazione. Di conseguenza erano
sorti mormorii di malcontento e si era sparsa la voce che il CIC era stato chiuso con
procedimento autoritario. Perché non si era lasciato che fosse un membro dello
stesso circolo a levare la tabella? L'errore, quindi, consisteva nell’ingenuità e nella
mancanza di diplomazia”. E per finire, l’autore dell’ affermazione rilevava che “a
Rovigno viene molto ben compreso il problema della fratellanza e in questo senso
si lavora in modo superlativo. Naturalmente a qualcuno la cosa disturba””!9,
A ulteriore conferma che l’attività dell’UIIF e dei CIC, che a più riprese
avevano proclamato e dimostrato la loro fedeltà al regime, veniva considerata per
certi versi “sospetta”, arriva la dichiarazione conclusiva dell’intervento del succi-
tato rappresentante il quale sosteneva che l'Unione, non appena si verificava
qualche problema, doveva immediatamente risolverlo e non attendere che la
questione si ingigantisca. “E che non vengano tenute le assemblee dei CIC senza
l’intervento dell’ Unione. Potrebbe darsi che si tenti di includere nelle dirigenze
delle CIC membri legati al Consolato italiano”. Inoltre si proponeva di scrivere una
relazione in merito alla visita del viceconsole al CIC di Fiume e alla proposta di
regalare al CIC stesso un televisore, Libri e altro. “Inviare questa relazione alla
Commissione per le minoranze che a sua volta si interesserà a Belgrado sulla
posizione da prendere”!07,
Da lì a un decennio circa, i rapporti con la matrice nazionale attraverso la
collaborazione con l’Università popolare di Trieste, sarebbero stati resi ufficiali e
continui. Ma allora, nel 1956, i primi cauti passi in questo senso venivano ancora
vissuti come un fatto straordinario, inconsueto, al limite del “sospetto”. Del resto,
anche nel 1957 il Consolato di Capodistria aveva contattato alcuni CIC e la
Presidenza dell’UIIF'!®; nella riunione del 4 ottobre 1957 del Comitato UIIF!®,
vennero espresse in proposito le seguenti valutazioni: il Consolato, quale organo
del Governo italiano, “di un governo capitalista, non può rappresentare nulla per
noi. Noi non possiamo perciò venire incontro alla tendenza manifestata in questi
ultimi tempi /... / di stringere rapporti diretti coi singoli Circoli”. Si elaborò tuttavia
un programma di iniziative culturali da realizzare con il contributo dell’Italia:
106 Ibid., p. 5
107 A.C.R.S., fasc. n. 4769/85, p. 1
108 A.C.R.S., fasc. n. 1075/73, verbale dell’4 ottobre 1957, p. 2-3
10° Ibid., p. 2
44 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
conferenze, spettacoli teatrali, ecc., “Decideremo noi con che organizzazioni
italiane dovremo avere rapporti. La funzione delle autorità consolari italiane è
quella di organizzare i rapporti anche culturali fra l’Italia e la Jugoslavia, cioè tutto
il nostro Paese e non solo con la minoranza italiana /.../ Tutti i rapporti fra le
autorità consolari italiane e la minoranza italiana devono passare attraverso l’orga-
nizzazione politica socialista della minoranza: attraverso l’ Unione”. E doveva
essere l'Unione a farsene promotrice.
La stessa Presidenza preannunciò l’ intenzione di inviare una risposta “a mezzo
voce”, nella quale si sarebbe precisata la propria posizione; veniva poi sottolineato
che l’ufficio Consolare aveva preso contatti con i circoli, aveva inviato stampa e
così via. “Logico che non rifiuteremo categoricamente ogni iniziativa, ma mette-
remo sempre le mani avanti; faremo capire che i contatti con i circoli, visite ecc.
sono esclusivamente affari nostri”.
L’attività prospettata rientrava nel quadro delle competenze dell’UIIF; era
necessario prepararsi in modo concreto e particolareggiato. “Logicamente parlia-
mo di scambi che rientrano nei limiti delle nostre possibilità, come l’invio di nostri
gruppi artistici ecc. mentre per gli scambi che sono fuori dalla nostra competenza
che si faccia tra governi.” /.../ “L'Unione non può prendersi la responsabilità di
rispondere senza prima aver consultato o parlato con alcuni compagni della
Slovenia e della Croazia. Noi non possiamo dare una risposta chiara, perché per
ogni programma che intendiamo fare, seppur minimo, abbiamo bisogno di mezzi
finanziari. Nel capodistriano è già un’altra cosa poiché si è più vicini alla frontiera
e poi tutto viene risolto in ambito distrettuale mentre noi siamo legati a Zagabria
per ogni piccola cosa”!!°.
Ma dal medesimo verbale emerge la posizione diversa, più aperta, del rappre-
sentante sloveno!!!, infatti: “Egli dice che 1’ Unione non ha fatto quello che avrebbe
dovuto. Afferma che l’ Unione dovrebbe essere l’iniziatrice di tutti i contatti con
l’Italia. La minoranza slovena in Italia e in Austriaè sempre stata piena di iniziative
ed è sempre un ponte di avvicinamento tra due popoli. Se la nostra minoranza
(italiana, ndr) è socialista, non dobbiamo avere paura di questi contatti”. L’espo-
nente sloveno continuava rilevando l'atteggiamento attendista-immobilista che
dominava nella dirigenza dell’ UIIF: “Abbiamo saputo che sono state fatte delle
ingiustizie verso la vostra minoranza nel passato, specie nelle scuole, ma l’ Unione
110 Ibid,, p. 3
!!! Curiosa è la citazione di materiale dell’ambito scientifico-matematico e non umanistico visto l’insistere
sull’ispirazione ideale progressista.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 45
non si è mai fatta avanti neanche con uno scritto. Siamo venuti a conoscenza di ciò
tramite il governo italiano. Noi preferiamo che sia l’ Unione a renderci conto di
queste cose e non il governo italiano. Compito dell’Unione è anche quello di
tutelare i diritti della minoranza e segnalare i casi ingiusti. Mentre i nostri conna-
zionali (della minoranza slovena, ndr) in Austria e Italia sono sempre in offensiva,
qui voi siete costantemente in difensiva, non si protesta per niente. In futuro
l’ Unione sia più attiva, cerchi di diventare questo famoso ponte con l’Italia. Penso
che tutta la propaganda che ora si fa con l’Italia dovrebbe passare tramite 1’ Unione
come pure tutto ciò che si stampa per l’Italia venga fatto dall’EDIT.”
Ed è proprio delle relazioni con la nazione madre che l’UIIF si occupò nel
novembre dello stesso anno, nel tentativo di concretarne l’ instaurazione in occa-
sione della visita in Istria e a Fiume del membro della Direzione del PCI M.
Alicata. A tale scopo, venne convocata pure una riunione, alla quale presenziarono
i rappresentanti del CC dell’USPL della Croazia, del CC della LCC, il segretario
del Comitato distrettuale della LC di Fiume nonché i rappresentanti dei periodici e
della Casa Editrice della minoranza; vennero definiti alcuni punti, che si possono
così sintetizzare:
1. Scambio di giornalisti tra l' “Unità” e “La Voce del Popolo”; i giornalisti del
quotidiano fiumano sarebbero stati inviati presso la sede dell’organo del PCI
mentre quelli dell’“Unità” avrebbero lavorato nella redazione de “La Voce del
Popolo”, per la durata di due-tre mesi, concorrendo così al miglioramento qualita-
tivo del giornale;
2. Collaborazione tra la Casa Editrice “EDIT” ed editori italiani gravitanti
nell’area del PCI. Primo fra tutti gli “Editori Riuniti” di Roma, che era disposto a
cedere all’EDIT le proprie edizioni e alcune di altri editori, a metà prezzo. Si
prospettò, inoltre, la possibilità di proporre al Consiglio per l’ Istruzione della RP
di Croazia testi scolastici italiani di “ispirazione progressista” (soprattutto riguar-
danti la matematica, la fisica, la chimica), risparmiando così i mezzi destinati alla
stampa dei testi necessari alla scuola della minoranza nazionale;
3. Veniva rilevata la questione della struttura delle importazioni della stampa
italiana in Jugoslavia, proponendo delle edizioni curate dal PCI rispetto a quelle
cosiddette “borghesi”;
4. Veniva preso l’impegno, da parte del PCI, di diffondere i periodici “Pano-
rama” e “Il Pioniere” sul territorio italiano. Per quanto riguardava il quotidiano “La
Voce del Popolo”, il PCI si sarebbe occupato della sua diffusione in tutte le
Federazioni del Partito, mentre al pubblico poteva venire venduto, “per motivi
logistici”, solamente a Trieste, Udine e Gorizia;
S. Il gruppo parlamentare del PCI intendeva sollevare alla Camera dei deputati
46 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
la questione del progetto di legge per le scuole slovene in Italia. In tale contesto si
propose di organizzare una visita da parte dell’ Associazione degli insegnanti e dei
professori delle Scuole medie d’Italia, alle scuole dei connazionali in Istria. La
visita avrebbe avuto lo scopo di constatare di quali diritti godesse la minoranza
italiana, per armarsi di argomentazioni valide da sfoderare nel corso del dibattito
parlamentare;
6. Infine, Alicata si impegnava a fornire all’UIIF un elenco di personalità
italiane di credo politico “progressista” adatte a tenere delle conferenze in Istria,
ciò che sarebbe stato utile per un agile confronto con la lista di conferenzieri che a
suo tempo era stata proposta all’ Unione dalle autorità consolari italiane di Capodi-
stia.
Sembra quindi evidente che a quell’epoca le offerte di aiuto e collaborazione
da parte delle autorità italiane, venivano accolte dall’ UIIF con una certa cautela,
ovviamente in conformità con una lunga prassi che faceva emergere, ancora una
volta, la cronica assenza di autonomia politica e decisionale della minoranza. La
situazione determinatasi per la minoranza nei distretti di Capodistria, Isola e Pirano
nel periodo 1956/57"!5, quindi dopo la soluzione del problema del TLT, era in parte
diversa e particolare se rapportata al resto del territorio istriano. Difatti, mentre qui
il problema dell’appartenenza statale era stato risolto con il Trattato di Pace del
1947, nella Zona B dell’ex TLT il contenzioso era rimasto aperto fino al 1954. Di
conseguenza l’attività dell’Unione degli Italiani del cosiddetto ‘Circondario
dell’ Istria”, ovvero nell’ex Zona B, aveva assunto un carattere prettamente politi-
co, tendente soprattutto a coinvolgere i connazionali nel problema dell’ appartenen-
za statale. Dopo la stipulazione del Memorandum d'Intesa e dopo le previste
opzioni, e a seguito della perdita della superiorità numerica da parte degli Italiani
residenti nelle cittadine del Litorale, per i connazionali “rimasti” (circa 3-4 mila),
il clima politico e di autonomia mantenuto nel corso della campagna pro annessio-
ne guidata dall’ Unione, mutò rapidamente: divenne sempre più evidente il proces-
so di “distacco” tra la popolazione italiana e quella slovena. E ciò per una serie di
motivi, non ultimo quello della presunta o reale “scarsa partecipazione dei cittadini
di questo territorio alla Lotta di Liberazione”.
Inoltre, un esiguo numero di Italiani conosceva e praticava la lingua slovena
il che determinava un senso di inferiorità nei connazionali che si vedevano preclusa
112 A.C.R.S., fasc. n. 4769/85, p. 1-3.
113 A.C.R.S,, fasc. n. 1148/73 (74), p. 1-2.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 47
la possibilità di partecipare attivamente alla vita pubblica. Infine, la vicinanza del
confine italo-jugoslavo e i relativi contatti con la realtà quotidiana della nazione
madre, frenavano ulteriormente “l’amalgamarsi” degli Italiani con la popolazione
di maggioranza nella nuova compagine statale. Caratteristica diffusa di tutto il
territorio popolato dai nostri connazionali, era la carenza di quadri professionali,
soprattutto di intellettuali, il che la dice lunga sulla struttura sociale del gruppo
nazionale italiano (GNI), costituito in gran parte dalle fasce più indifese e politica-
mente influenzabili, quali il sottoproletariato, i pescatori, i piccoli e piccolissimi
proprietari terrieri e qualche artigiano. Tutto ciò avrebbe causato con il tempo un
processo di disaffezione e di disinteresse verso il senso di appartenenza nazionale
che avrebbe prodotto inesorabilmente il fenomeno di una pesante assimilazione in
tempi brevi.
Elemento fondamentale per tastare il polso di una minoranza nazionale e
avvertire se si tratta di un soggetto che gode di piena salute, sono le scuole. Così
un documento del 1957"! testimonia che sul territorio dei distretti di Fiume,
dell’Istria e di Capodistria operavano 23 scuole tra ottennali ed elementari con una
popolazione scolastica pari a 2710 alunni, mentre i 5 licei esistenti erano frequen-
tati da 433 studenti. La consistenza della popolazione scolastica italiana, rispetto
al periodo 1947/48, risultava quasi dimezzata. La mancanza di docenti qualificati
si faceva sentire pesantemente nella maggior parte delle località dell’ Istria (escluse
Fiume, Capodistria e Buie). Siccome molte insegnanti, che prestavano servizio
nelle scuole italiane dell’Istria, erano native di Fiume, esse chiedevano il trasferi-
mento nella propria città natale e, non ottenendolo, si dimettevano. Tuttavia, erano
frequenti anche i casi di insegnanti che si erano diplomate all’Istituto magistrale
italiano di Fiume che, successivamente, si impiegavano nelle scuole croate. Tale
situazione indusse i Consigli repubblicani per l’ Istruzione e la cultura della Slove-
nia e della Croazia a prendere in serio esame il problema, suggerendo “soluzioni
di carattere unitario” che comunque ebbero scarso effetto, lasciando i singoli
istituti scolastici nelle difficoltà di sempre.
La divisione territoriale del gruppo nazionale italiano nelle due repubbliche
significò, come abbiamo già avuto modo di notare, disparità di trattamento sociale
e nazionale e diversità di condizioni socio-economiche. Queste incongruenze
determinavano però la comparsa di divergenze anche trai membri dell’ Unione nel
valutare i problemi e nel proporre le soluzioni.
Fu così che nel clima che si era venuto a cerare a seguito della preannunciata
114 A.C.R.S., fasc. n. 4769/85, p. 1.
48 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
approvazione della proposta di legge, redatta dal governo italiano sulle istituzioni
scolastiche degli appartenenti alla minoranza slovena, 1’ UIIF inviò una lettera di
protesta al suddetto governo e al ministero della Pubblica istruzione della vicina
repubblica. Una protesta che, a quanto sembra, sia stata in parte spontanea e in
parte “consigliata”. La lettera!!, composta da 4 pagine dattiloscritte, esprimeva
disappunto soprattutto in merito alla ventilata proposta di “istituire dei corsi in
lingua slovena nella Provincia di Gorizia e nel Territorio di Trieste”, poiché in essa
non si specificava se i medesimi sarebbero stati istituiti anche nella Slavia Veneta
(Provincia di Udine), che pure era popolata da appartenenti alla minoranza slovena.
Si voleva quindi far notare che le scuole italiane esistevano nell’ Istria e a Fiume
ancor prima che fosse stipulato il Memorandum d’Intesa, e per di più su un
territorio (che riguardava solo l’ex Zona B) da esso non contemplato. L’UIIF
esigeva fra l’altro che venisse chiarita la portata del termine “corsi in lingua
slovena”, che potevano anche venire intesi come “corsi paralleli in seno alle scuole
italiane”, sicché il principio dell’ autonomia della minoranza slovena sarebbe stato
seriamente disatteso, laddove le scuole italiane in Istria godevano di “piena auto-
nomia” ed avevano lo stesso status giuridico di quelle croate e slovene. Infine
suscitava perplessità la proposta di istituire una commissione di controllo incarica-
ta di esaminare le varie domande di ammissione alle scuole della minoranza
slovena per verificare se lo sloveno, per tali candidati, rappresentasse veramente la
lingua materna; veniva però riconosciuta l’esistenza di metodi analoghi, usati per
l’iscrizione alle scuole italiane, ma “solo in singole scuole di singole località”! La
lettera si concludeva auspicando per la minoranza slovena “quei diritti che agli
italiani di Jugoslavia erano pienamente assicurati”.
Le affermazioni contenute in quel documento assumono il valore di un rap-
porto sullo stato di efficienza della rete scolastica degli Italiani dell’Istria e di
Fiume, dato che le mancanze rinfacciate al progetto di legge italiano, mettevano il
dito anche sulle incoerenze della scuola italiana in Jugoslavia, dovute alla mancata
applicazione di norme legislative che avevano l’ apparenza di essere quasi perfette.
Nel 1958"! si susseguirono le riunioni del Comitato e della Segreteria dell’UIIF,
!!5 A.C.R.S., fasc. n. 1148/73, “Dati sulla Minoranza”, p. 1.
116 Lettera dell’UIIF spedita alla Presidenza del Consiglio e Ministero della Pubblica Istruzione italiano,
A.C.R.S., fasc. n. 1148/73, pp. 1-4.
117 C.f.r., intervento di A. Borme in merito alle scuole, alla riunione della segreteria tenutasi a Dignano il
23 ottobre 1956 “Nel settore culturale l'aspetto nazionale si rivela più che in qualsiasi altro settore. Mentre in un
distretto si agisce in un modo, in un altro si agisce diversamente. Il principio deve essere rispettato tanto in un
«99
posto che in un altro. Mentre a Rovigno il criterio dei nomi che finiscono in “c” (recte “ch”) non viene preso in
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 49
in vista delle elezioni di marzo dei rappresentanti dell’ Assemblea federale e per i
preparativi della IX Assemblea dell’Unione, che si sarebbe tenuta a Isola il 29
giugno. Venne stilato un proclama elettorale che invitava gli “Italiani della mino-
ranza a partecipare attivamente” a quella consultazione, visto che bisognava
eleggere o rieleggere i rappresentanti del Gruppo nazionale previsti dalla legge, i
quali avrebbero dovuto tutelare in sede parlamentare i diritti e gli interessi degli
Italiani di Jugoslavia. Il testo del proclama venne approvato nella riunione del
Comitato UIIF del 18 marzo!'8, Si decise che sarebbe stato pubblicato su “La Voce
del Popolo” e trasmesso da Radio Capodistria, mentre un estratto sarebbe stato
diffuso a mezzo manifesto ed esposto in tutte le località dell'Istria. Un altro
problema affrontato nel corso di quella riunione, fu ancora l’annoso problema
finanziario, soprattutto la gestione deficitaria del quotidiano “La Voce del Popolo”.
Uno dei punti critici della gestione era la scarsa diffusione, anche se recentemente
le vendite erano aumentate, raggiungendo quota 2400 nei giorni feriali e 3100 alla
domenica. Si era pure contattata una ditta di Lubiana che programmava di vendere
in Italia 1000 copie del giornale. Venne sottolineato il fatto che in molti CIC
venivano acquistate poche copie del quotidiano, anche se i soci erano numerosi:
bisognava dunque spingere i connazionali ad interessarsi maggiormente della vita
della propria comunità, abituandoli a leggere “La Voce del Popolo”. Un altro
gravoso problema era costituito dalla carenza di personale qualificato e di giorna-
listi; i collaboratori esterni, provenienti di solito dai CIC, erano sempre più rari e
difficilmente reperibili. Ma, il problema più gravoso era rappresentato dalla tipo-
grafia (che non era più proprietà dell’EDIT)'!°, la quale era caratterizzata da una
cattiva organizzazione interna e disponeva di rotative oramai obsolete. Si profilava
così una fusione tra l’EDIT e il quotidiano di lingua croata “Novi List”? in quanto,
considerazione, nel distretto di Pola esso è valido. I problemi più gravi sorgono nel distretto di Pola; così non si
può andare avanti, poiché questo problema contrasta con la democratizzazione socialista del nostro paese. Il
compagno Franulovie insiste nel dire che queste sono piccole cose, quando gli italiani hanno gli stessi diritti dei
compagni jugoslavi: possono venir eletti in tutti gli organi del potere ecc.; ma ciò nonè tutto, la nostra Costituzione
assicura alle minoranze un libero sviluppo nazionale e culturale”.
!!8 Nel mese di aprile si tenne, fra l’altro, il VII Congresso della LCIJ, di cui abbiamo già parlato nella parte
introduttiva.
!!9 A.C.R.S,, fasc. n. 1076/73, p. l e allegato.
120 La tipografia nella quale si stampava il quotidiano “La Voce del Popolo” era la medesima dalla quale
nell’anteguerra usciva “La Vedetta d’Italia”, quotidiano di Fiume; il 5 maggio 1945, essa produsse il n. 4 de “La
Voce del Popolo” - sino ad allora foglio partigiano alla macchia; “La Voce del Popolo”, continuò ad essere l’unico
giornale fruitore e quindi “proprietario” di detta tipografia; appena nel marzo 1947 usciva il primo numero del
quotidiano di Fiume in lingua croata “Novi list”, al quale nel 1948 venne affidata la tipografia in gestione,
togliendola quindi al quotidiano in lingua italiana.
50 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
con la prospettata comune gestione finanziaria, si contava di usare più razional-
mente i limitati mezzi a disposizione; si decise di studiare la questione nei minimi
particolari.
Purtroppo, problemi particolari riguardanti la scuola italiana sorsero con la
riforma del sistema scolastico jugoslavo, avviata nel 1958. La segreteria dell’ UIIF
convocò il 17 aprile'?! del medesimo anno una riunione straordinaria per discutere
in merito al progetto di Legge Federale sul sistema scolastico: l’articolo 12 del
disegno di Legge in questione risultava alquanto equivoco. Lo Stato era tenuto ad
assicurare l’istruzione nella lingua materna solamente nelle scuole elementari —
definite obbligatorie —, mentre venivano esclusi gli altri gradi d’istruzione. Ciò
dava via libera alle più svariate interpretazioni, la più dannosa delle quali poteva
prevedere, per la minoranza nazionale italiana, la chiusura delle scuole medie e dei
licei, per mancanza di fondi, non garantiti dai bilanci delle rispettive Repubbliche.
Il presidente dell’UIIF era convinto che in uno Stato socialista quale era le
Jugoslavia non era possibile sopprimere le scuole medie delle minoranze tanto più
che l’articolo 7 dello stesso disegno di Legge, diceva “chiaramente che l’insegna-
mento e le scuole sarebbero state aperte per tutti i cittadini indipendentemente dalla
loro nazionalità e religione”. L'articolo 12, invece, era in netto contrasto con il
precedente. Inoltre, la discussione rilevò il fatto che “l’articolo è mal formulato e
giuridicamente sbagliato; anche se ora non si ha l’intenzione di sopprimere le
scuole medie della minoranza, può venire il momento in cui qualche comitato
distrettuale decida di farlo e noi non possiamo farci niente perché non contemplato
dalla Legge”. Dal canto suo, un membro della Segreteria sosteneva che lo stato
s’impegnava a garantire l’insegnamento solo nelle istituzioni di primo grado,
“mentre per quanto riguarda le scuole medie, la loro esistenza risultava facoltativa,
per cui ogni distretto può comportarsi come vuole. Ma è proprio questo che noi non
vogliamo”. Si decise pertanto di inviare una nota a Belgrado, al Segretariato per
l’Istruzione e la Cultura, anche per mettere le mani avanti in merito a una situazione
che se non incanalata subito positivamente rischiava di diventare incontrollabile e
tendenzialmente assai pericolosa. Assistiamo così, finalmente, ad un’iniziativa
politica attiva della minoranza italiana; ne riportiamo alcuni passi!??: /.../ “Parten-
do da una posizione di principio sul problema delle scuole delle minoranze e
tenendo conto dei riflessi negativi che una tale interpretazione dell'articolo 12 del
disegno di Legge generale applicata alle istituzioni educative e scolastiche già
121 Azienda giornalistico-editoriale dell’U.S.P.L. di Fiume.
122 A.C.R.S,, fasc. n. 1076/73, p. 1.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 SI
esistenti della minoranza italiana (istituzioni prescolastiche, ginnasi e scuole pro-
fessionali), avrebbe sulla situazione politica della minoranza italiana in Jugoslavia,
la Segreteria dell’ Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume pensa sia opportuno
modificare l’articolo 12 del summenzionato disegno di Legge in modo da mettere
chiaramente in rilievo la possibilità di insegnamento nella lingua della minoranza
per i membri della minoranza anche in altri tipi di scuole e istituzioni educative
oltre alle scuole elementari, legalizzando così in maniera più chiara la prassi finora
seguita per quel che riguarda le scuole per i membri della minoranza nazionale
italiana e anche di altre minoranze. /.../ Perciò si propone che l’articolo 12 del
disegno di legge generale sulle scuole sia completato prevedendo oltre le scuole
elementari anche le istituzioni prescolastiche, le scuole medie di cultura generale
e le scuole professionali, per le materie di cultura generale, demandando alle
Repubbliche popolari l’elaborazione di disposizioni particolareggiate corrispon-
denti alla situazione concreta di ogni minoranza”!?3.
123 Cfr., ancora le seguenti affermazioni: /.../ “Motivando la nostra impostazione del problema con i
seguenti argomenti:
a) le istituzioni prescolari nella lingua della minoranza nazionale rappresentano la base necessaria per
l'ulteriore edificazione del sistema scolastico nella lingua delle minoranze nazionali la condizione indispensabile
perla prosperità degli altri tipi di scuole; da notare che istituzioni prescolastiche in cui l'educazione viene impartita
in lingua italiana esistono nei distretti di Pola e di Capodistria;
2.coloro che compiuta la scuola elementare continuano gli studi nei licei approfondiscono la loro cultura
generale nelle scienze naturali e sociali. Ora un approfondimento della cultura generale in lingua che non è la
propria lingua materna porta inevitabilmente alla perdita della forma nazionale della propria cultura. Di più, esso
rende impossibile una conoscenza adeguata della lingua materna in corrispondenza al grado di cultura generale
raggiunto. Il grado di conoscenza della lingua materna che si può raggiungere nelle scuole elementari non è
sufficiente per dare espressione a una cultura generale superiore a quella elementare. Non ammettendo quindi per
i ginnasi la lingua materna, come potrebbe risultare da una interpretazione letterale dell’articolo 12, si verrebbe a
limitare lo sviluppo della loro cultura nella forma nazionale.
3.Attraverso i ginnasi con lingua d’insegnamento della minoranza si formano i quadri intellettuali per le
attività culturali della minoranza, per il giornalismo, il teatro, l’attività artistico-culturale ecc. e i quadri insegnanti
per le scuole elementari della minoranza (vedi articoli 42 e 94 del disegno di legge). /.../ le stesse considerazioni
debbono anche valere per le scuole professionali se esse, conforme ai principi fissati nel disegno di legge federale
sulle scuole (art. 53) non hanno solo la funzione di preparare i quadri qualificati per la nostra economia e di dare
ai giovani una qualifica professionale, ma “contribuiscono all’ulteriore educazione ed istruzione fisica, morale e
sociale degli alunni per renderli atti a una vita personale, sociale, sanitaria e culturale attiva” e “rendendo possibile
l’ulteriore proseguimento degli studi nelle facoltà e nelle scuole superiori.
Per quel che riguarda i ginnasi con lingua d’insegnamento italiana (a Fiume, Pola, Rovigno, Capodistria e
Pirano) notiamo che essi funzionano dal momento dell’annessione alla Jugoslavia e possiedono tutte le condizioni
per il regolare funzionamento (insegnati qualificati, libri di testo, biblioteche per la lettura ausiliaria ecc.) cosicché
la qualità della cultura che essi possono fornire agli alunni non è affatto inferiore a quella degli altri ginnasi. La
funzione politica che essi compiono come centri in cui vengono formati i nuovi intellettuali socialisti della
minoranza italiana, destinati ad inserirsi alla vita politica sociale del nostro paese è rilevante. La conoscenza della
lingua serbo-croata, rispettivamente slovena che questi ginnasi forniscono agli alunni è sufficiente perché giesti
possano continuare gli studi nelle scuole superiori e inserirsi nella vita economica e sociale. La posizione della
lingua serbo-croata e slovena nei piani e programmi d’insegnamento dei ginnasi italiani è stata sempre uguale a
52 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
All’inizio di giugno 1957'’* si tenne la riunione della segreteria dell’UIIF:
venne stabilito che la futura Assemblea andava impostata non in funzione della
“difesa dei diritti della minoranza ma sulla base del rafforzamento socialista”. Il 29
giugno 1958, presso la Casa Sindacale di Isola, vennero aperti dal vicepresidente
Gino Gobbo i lavori della IX Assemblea dell’Unione. La parte principale dell’as-
sise era costituita dalle cinque relazioni che affrontavano le seguenti tematiche:
politica, finanziamenti, situazione nelle scuole della minoranza, attività editoriale
e attività del Dramma Italiano. La relazione politica venne presentata dal vice-pre-
sidente Gobbo che esordì ribadendo che: “l’ Unione degli Italiani dell'Istria e di
Fiume, sorta su iniziativa del Partito Comunista della Jugoslavia, ha svolto nel
corso della Lotta Popolare di Liberazione, come organismo politico, una importan-
te funzione, mobilitando in massa gli italiani della nostra regione, per la propria
liberazione nazionale e sociale. Si è trattato di lotta comune per ideali comuni, in
quanto nella liberazione nazionale e sociale dei popoli jugoslavi, cioè soltanto nel
trionfo della rivoluzione socialista, i lavoratori italiani potevano trovare la loro
garanzia del loro libero sviluppo”'?°. Quindi affermava che fin dal tempo della lotta
armata, il ploretariato di nazionalità italiana della regione istro-quarnerina aveva
dimostrato d’essere pronto a divenire una minoranza etnica nel futuro territorio
croato e sloveno. D'altro canto, si precisava che il riconoscimento del diritto del
popolo sloveno e croato alla “propria unità e alla propria emancipazione nazionale
era stato per gli italiani dell’Istria il presupposto essenziale per l'affermazione dei
loro diritti sociali e nazionali”. Diritti che si erano concretizzati nella specifica
posizione di “primo nucleo in assoluto di nazionalità italiana che edificava una
società socialista”. Gobbo proseguiva ricordando che con la conclusione del
conflitto mondiale non venivano a esaurirsi i compiti dell’Unione: essa infatti
diveniva fattore importante dell’approfondimento della fratellanza, dell’inseri-
mento degli Italiani nella vita politica, economica e sociale del Paese. La rivolu-
zione socialista “era stata messa in risalto” ed era proprio in virtù dei suoi principi
che le differenziazioni nazionali venivano a cessare.
quella della lingua materna. Gli alunni imparanola letteratura dei popoli jugoslavi sulla base dei programmi validi
per gli altri ginnasi. I professori, i medici, gli ingegneri, gli economisti ecc. ex alunni dei ginnasi italiani, usciti
dalle facoltà universitarie del nostro paese sono pratica conferma della precedente asserzione. Tuttavia ci sembra
contraddittorio e netto cedimento di principio quanto asserito nel medesimo documento (pag. 4) circa le scuole
professionali: “Si intende che in queste scuole non c’è necessità di insegnare nella lingua della minoranza le
materie professionali che danno la qualifica professionale, ma solo le materie che contribuiscono all’apprendi-
mento della cultura generale degli alunni”.
124 A.C.R.S., fasc. n. 1076/73, p. 1, verbale del 4 giugno 1957.
125 A.C.R.S., fasc. n. 1092/73, p. 1.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 53
Dopo una lunga carrellata sulla situazione politica interna e internazionale, il
vicepresidente Gobbo presentava l’attività svolta dai CIC nonché gli obiettivi
futuri che si identificavano nella collaborazione sempre più stretta tra la scuola e
gli stessi CIC, e nell’incremento dell’attività artistico-culturale dei suoi membri.
La scuola della minoranza, in virtù delle leggi socialiste, godeva di una posizione
paritetica rispetto a quella degli altri popoli e nazionalità della Jugoslavia. Allo
stesso modo era garantita la libertà di iscrizione, sicché si poteva esser certi che la
nuova legge scolastica federale, grazie all’emendamento proposto dall’UIIF, sa-
rebbe stata la massima garanzia di sviluppo per le generazioni future. Nella
relazione in esame, i problemi comparsi negli anni precedenti all’atto delle iscri-
zioni e provocati dalla carenza di personale insegnante, venivano minimizzati,
definendoli “naturali di tutti i settori della vita sociale””!?°. A questo proposito ci
sembra interessante riportare il passo che accenna ai connazionali e alla loro
inclusione attiva nel “sistema comunale e nelle assemblee bilingui dei cittadini”.
“Conlo sviluppo del sistema comunale, con il maggior interessamento dei cittadini
alla discussione dei problemi comunali, le riunioni degli elettori e dell’Unione
socialista si sono fatte più intense e le discussioni sono diventate più numerose. Per
evitare lunghe traduzioni che appesantivano e prolungavano le riunioni in due
lingue (croato o sloveno e italiano, ndr) e per dare la possibilità di conoscere e di
trattare meglio i problemi attuali della propria località e del proprio territorio,
alcuni Circoli hanno avuto la felice iniziativa di organizzare, parallelamente e a
integrazione delle riunioni degli elettori, dei dibattiti sui problemi dell’amministra-
zione comunale come pure su problemi di politica interna ed esterna, i quali hanno
dimostrato che i membri della minoranza si vanno politicamente sviluppando sul
terreno del sistema comunale di pari passo con tutti gli altri cittadini della Jugosla-
Viglioi,
Seguirono le altre relazioni, stese e lette dai membri del Comitato; quella
conclusiva del professor Antonio Borme sembra utile per individuare e intendere
le tendenze allora crescenti all’interno dell’UIIF. Veniva infatti rilevata l’opportu-
nità del rafforzamento dell’unità politica e ideologica della minoranza (gli iscritti
alla Lega dei Comunisti, cioè del partito; erano in netta flessione, addirittura del 50
per cento)!?8. Si ribadiva il bisogno di trattare in senso unitario la minoranza,
126 Ibid., 10-16.
127 Ibid., p. 18.
!28 Era forse sinonimo di disaffezione al sistema sociale? Anche a causa degli scarsi risultati ottenuti
dall’ UIIF?
54 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
indipendentemente dalla sua distribuzione geografica (esistevano, come si è detto,
grosse differenze di “presenza attiva” degli italiani tra una località e l’altra. Ad
esempio Rovigno, Dignano e Gallesano erano centri importanti ma i rispettivi CIC
erano sprovvisti di una sede vera e propria. Borme sollecitava quindi l’intensifica-
zione dei rapporti culturali con la matrice nazionale cioè con la società italiana, allo
scopo di far conoscere la realtà jugoslava, la vita della minoranza, le tappe
dell’edificazione socialista. Si chiedeva inoltre l'apertura di asili d’infanzia nelle
località abitate da Italiani. Si insisteva inoltre sull’ urgenza della soluzione dell’an-
noso problema della carenza di quadri specializzati. Per la scuola italiana si
indicava quale impegno prioritario la cura della purezza linguistica, il controllo del
lavoro degli insegnanti specialmente nei centri minori, l’organizzazione di corsi di
perfezionamento linguistico'?’, nonché la nomina di due ispettori scolastici per le
scuole italiane, con competenza regionale. E, infine, la costituzione presso i
distretti e i comuni di commissioni per le istituzioni pre-scolastiche e scolastiche
della minoranza, i cui membri dovevano essere delegati dai CIC e dalle scuole
stesse. Si proponeva quindi alle autorità competenti di introdurre lo studio della
lingua italiana “quale prima lingua straniera obbligatoria” nelle scuole croate e
slovene delle maggiori località mistilingui.
Ad un mese dall’assemblea, si tenne una riunione del comitato dell’UIIF!9,
che rivestì particolare importanza, sia perché vi parteciparono i rappresentanti delle
autorità croate, sia per i contenuti del dibattito i cui effetti si fecero sentire anche
nelle sedute successive. “L’impostazione vera e propria della riunione verrà stabi-
lita sul posto pochi istanti prima, secondo quanto avranno da dire i compagni di
Zagabria” recitava l’ordine di convocazione"?! Dopo il saluto alle autorità presenti
del vicepresidente, il presidente espose le conclusioni emerse dalla IX Assemblea
e le necessità di uniformare ad esse i compiti futuri.
E dichiarò che risolvere il problema della mancanza di quadri insegnanti era
compito del Potere popolare. In effetti, continuava, “non esiste il problema delle
scuole italiane come tali, anche se ci sono delle difficoltà materiali comuni anche
alle scuole slovene e croate; esiste però il problema della qualità dell’insegnamen-
to, della qualità degli insegnanti, cioè va dato un maggior aiuto politico per metterli
in grado di operare con maggiore adeguatezza ai principi ideologico-politici
nell’insegnamento”. Infine veniva auspicata una più intensa collaborazione tra CIC
129 Ibid., relazione conclusiva A. Borme.
130 A_C.R.S,, fasc. n. 1076/73, 31 luglio 1958, p. 1.
13! Ibid, p.6.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 =)
La Voce del Papalo =
ORGANO DELL' USPL PER LA REGIONE DI FIUME IT
XI — Ne MORTE AL FASCISMO - LIBERTA" AI POPOLI DOMENICA 13 MARZO 1955 — DIN 10
\ CONFERENZA COMUNE D'LLA LCC D'LLA CITTA' E DISTRETTO DI FIUME
DIFICAZIONE COMUNALE APPROFONDIRA' LA DEMOCRAZIA
TRAVERSO LO SVILUPPO DELLA GESTIONE SOCIALE
\seduta apérta dal compagno Nikola Racki presenti Antun Biber, Nikola Bozanic e Ivan Rajacic - L'unificazione
due organizzazioni della Lega viene effettaata nello spirito della prossima riorganizzazione territoriale per
attuare la futura Uni i comuni di Fiume - La conferenza continua oggi i suoi lavori
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Il quotidiano “La Voce del Popolo” (13 marzo 1955)
e singoli docenti, ritenuta il fulcro attorno al quale doveva gravitare tutta l’attività
culturale e politica della minoranza.
Nel corso della discussione, venne sollecitata una azione più marcata tendente
ad abilitare un numero sempre maggiore di connazionali a “far parte degli organi-
smi del Potere”, ribadendo che criterio fondamentale per giudicare la validità
dell’operato di cittadino nella società jugoslava, non era l'appartenenza nazionale,
ma il suo impegno concreto negli organi del sistema. Si continuò pure a disquisire
sul ruolo effettivo dell’Unione, cui vennero attribuiti in determinati casi una
funzione politica, in altri limitando la sua azione esclusivamente “all’elevamento
artistico-culturale”. Le medesime contraddizioni erano presenti nel definire l’atti-
vità che dovevano svolgere i CIC!*?,
A discussione conclusa, si passò al secondo punto dell'ordine del giorno, ossia
all’elezione della nuova segreteria. Nonostante le perplessità espresse da alcuni
membri, Gino Gobbo venne riconfermato presidente dell’ UIIF!*3,
132 Ibid., vedi discussione a pagg. 9-10.
133 Ibid., 30 settembre 1958, p. 1-2.
56 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
Il dibattito pubblico svoltosi alla IX Assemblea aveva evidenziato le difficoltà
incontrate dall’ Unione nei suoi interventi, volti a risolvere i problemi emersi nei
vari campi di attività del GNI. Per ovviare a questa mancanza venne proposto di
istituire, in seno alla stessa Unione, delle commissioni di lavoro che avrebbero
dovuto occuparsi direttamente e in modo sistematico di alcuni aspetti della vita e
dell’attività della minoranza. Alla riunione del 30 settembre'** vennero definite le
direttrici e i contenuti dell’impegno futuro dell’UIIF: attività delle commissioni,
maggior collegamento con la base, contatto più stretto con le istituzioni che
trattavano i problemi della minoranza (Commissione per gli scambi culturali con
l’estero di Belgrado; Commissioni per le minoranze federale e repubblicane;
Commissione mista italo-jugoslava), intensificazione della collaborazione tra i
Circoli e le organizzazioni locali del Partito e del fronte socialista del Popolo
Lavoratore. Veniva pure rilevata l’urgenza di insediare presso la sede dell’ Unione
un segretario fisso chiamato ad essere la forza motrice di tutta l’attività e il
necessario collegamento con le varie commissioni. Quest’ultime sarebbero state
quattro e precisamente: commissione politico-ideologica, commissione per le
scuole e la cultura, commissione per l’editoria, commissione per l’organizzazione
e la politica dei quadri.
Ci sembra di poter distinguere due periodi. Uno che ha termine nel 1958,
quando l’attività dell’ UIIF in collegamento con i CIC, era distinta da quella delle
istituzioni scolastiche ed artistico-culturali, del GNI. Con la formazione delle
commissioni si inaugura un nuovo periodo nel quale CIC, attività editoriale,
Dramma Italiano e scuole entrano a far parte dell’attività dell’UIIF, formando la
storia dell’UIIF stessa.
Dai documenti consultati risulta che, nel novembre 1958, si riunirono due
delle quattro commissioni menzionate, quella ideologico-politica e quella per le
scuole e il lavoro culturale.
La commissione ideologico politica, presieduta da A. Benussi, “si prefiggeva
di educare, nello spirito del socialismo, i connazionali attraverso le attività dei vari
CIC”. Venne riscontrata nel GNI una certa disaffezione per la vita politica,
rafforzata da una analoga tendenza generale presente nel paese. Ma si giustificò la
stasi in tal campo, attribuendola all’impegno maggiore profuso nel settore artisti-
co-culturale. Quale riflesso negativo di tale stato di cose, veniva indicata con
preoccupazione una consistente flessione degli iscritti connazionali alla LCJ.
134 A.C.R.S,, fasc. n. 1079/73, p. |
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 57
Si fece anche un accenno “all’ aspetto linguistico”, raramente affrontato; molti
componenti della minoranza, soprattutto quelli più anziani, non comprendevano la
lingua croata, e perciò correvano il rischio di essere completamente esclusi dai
dibattiti pubblici e da quelli che si svolgevano nelle riunioni degli organi del potere.
La responsabilità per questa situazione veniva adebitata ai “comunisti italiani”
della regione. La commissione decise perciò di adoperarsi per eliminare queste
disfunzioni nel più breve tempo possibile'*. “I nostri circoli devono quindi inte-
ressarsi maggiormente delle scuole e dell’educazione che viene data alle nuove
generazioni. Ed è proprio nella scuola che bisogna creare quella coscienza sociali-
sta della nuova generazione. Inoltre poco abbiamo fatto per attirare il corpo
insegnante nell’attività politica; in certe località, gli insegnanti sono isolati dal
Circolo oppure essi stessi si tengono appartati dall’organizzazione di massa”!?°,
La commissione si impegnò a prestare particolare attenzione alla stampa che
giungeva dall’estero, in particolare dall'Italia e di consigliare i connazionali a
“leggere sia la stampa nazionale che quella edita dalla minoranza italiana”; nel
mirino della commissione vennero a trovarsi soprattutto giornali scandalistici,
rosa, fantastici “ed altra letteratura gialla che corrompe la coscienza della nostra
gioventù”.
La commissione per le scuole e il lavoro culturale, venne convocata il 7
novembre 1958!*. E qui la discussione si svolse sulla traccia del programma di
lavoro steso da A. Borme e G. Massarotto; venne osservato, innanzitutto, che il
campo d’azione assegnato a questa commissione era troppo vasto e veniva propo-
sto, perciò, di demandare alla commissione ideologico politica il lavoro culturale
dei Circoli italiani, in tale modo la commissione si sarebbe occupata esclusivamen-
te della problematica riguardante le scuole. Il dibattito, ricco e innovatore nei
contenuti e nelle proposte avanzate, mise in luce la necessità di effettuare un’inda-
gine sulla rete scolastica esistente, con particolare riguardo alle scuole miste e agli
asili d’infanzia “che non esistono dappertutto”. Fu affrontato nell’ambito delle
scuole per apprendisti (previsto dalla nuova legge). “Per risolvere il problema dei
quadri soprattutto in relazione alla necessità di sostituire nei comuni di Buie,
Umago e nel distretto di Capodistria parecchi insegnanti di nazionalità slovena o
croata con insegnanti di nazionalità italiana, come richiesto dalla commissione
mista per l’applicazione dello statuto speciale (Memorandum d’intesa, n.d.r.), è
necessario avere a disposizione fin dall’inizio del prossimo anno un certo numero
135 Ibid,, p. 2
136 Ibid., p. 3
137 Ibid., p. 3.
58 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
di insegnanti nuovi. Ciò è stato ripetutamente richiesto all’ Unione dai distretti di
Pola e Capodistria”'58. Per quanto concerne l’elevamento professionale e ideologi-
co degli insegnanti si decise di chiedere al Comitato popolare distrettuale di Fiume
di istituire ufficialmente la sezione italiana dell'Istituto per l’elevamento ideologi-
co e politico dei quadri insegnanti. Il servizio di ispezione per le scuole italiane
doveva essere organizzato nei tre distretti mediante l’impiego di appositi ispettori
onorari; la loro attività sarebbe stata coordinata dall'Istituto per l’elevamento dei
quadri insegnanti di Fiume. Si proponeva, infine, di organizzare un festival radio-
fonico dei gruppi artistici delle scuole italiane parallelamente a quello dei CIC,
“allo scopo di dare maggiore impulso al lavoro artistico-culturale nelle scuole e
creare fra esse una gara”!9,
In effetti la situazione nelle scuole della minoranza italiana era confusa e
precaria. Si rendeva quindi indispensabile l’intervento degli ispettori a sostegno
degli istituti scolastici. Tanto per fare alcuni esempi!‘ presso la scuola ottennale
di Dignano si parla di fusione delle quattro classi superiori, dato che il numero
totale degli alunni (143) veniva considerato, dagli organi competenti, esiguo. Ciò
comportava dei problemi non indifferenti di varia natura; d’altro canto, a causa
dell’esodo, le scuole italiane dell’Istria e di Fiume, non sarebbero mai state
sovraffollate. Presso la scuola ottennale di Parenzo, dipendente da quella croata, le
lezioni di alcune materie (ed. artistica, ed. fisica, ed. musicale) venivano svolte in
lingua croata da docenti croati. A Torre, invece, esisteva una sola insegnante con
20 alunni, mentre a Visinada le sezioni italiane erano state soppresse.
All’inizio del 1959, si susseguì tutta una serie di sedute allargate del Comitato
dell’ UIIF, dedicate soprattutto alla questione finanziaria che assillava la Casa
editrice “EDIT” e il quotidiano “La Voce del Popolo”. Come è stato in precedenza
rilevato, tali enti, non godendo di buona salute ed essendo gestiti separatamente,
necessitavano di un tempestivo superamento delle difficoltà. Verso i primi di
gennaio 1959", la Segreteria dell’UIIF si occupò dei problemi che affliggevano
l’attività editoriale della minoranza (presente pure un rappresentante della com-
missione per le minoranze di Zagabria); la discussione sottolineò che era indispen-
sabile gestire nel modo più razionale i mezzi forniti dalle due Repubbliche al GNI,
adottando nuove metodologie operative.
138 Ibid., p. 4.
139 Ibid., Consultazione degli insegnanti delle scuole italiane, 3-4 novembre 1958, pp. 2, 4.
140 A_C.R.S., fasc. n. 4767/85, 13 gennaio 1959, p. |.
14! Pari a circa 100 milioni di lire odierne (nel 1989).
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 59
A tale scopo, si pensò di porre “La Voce del Popolo”, l' “EDIT”, il quindicinale
“Panorama”, il mensile per ragazzi “Il Pioniere” e l’UIIF sotto l’amministrazione
di un unico ente; le sovvenzioni sarebbero così state assegnate direttamente
all’ Unione la quale, a sua volta, le avrebbe opportunamente impiegate. Per svolge-
re più efficacemente questa molteplice attività, l'UIIF aveva bisogno di una
persona capace, di un segretario tecnico dotato di adeguate qualità organizzative e
in stretto contatto con la sua Segreteria. Tale segretario sarebbe diventato il
dirigente del nuovo ente in via di costituzione. A ricoprire questa carica venne
proposto G. Raunich, già dirigente dell’EDIT. L’intervento del rappresentante
croato precisò che il Potere aveva riservato un trattamento privileggiato alla
minoranza italiana rispetto alle altre. Infatti, “mentre alle altre venivano assegnati
7-8 milioni di dinari all’anno!*, la nostra (recte vostra, ndr) nel 1959 ha richiesto
una dotazione di 85 milioni”! Si aggiunse che aveva approfondito lo studio delle
varie minoranze nel mondo e che “in nessun altro paese esistevano etnie così
largamente sovvenzionate dallo Stato!*4. Perciò vennero avanzate alcune proposte,
tese a ridurre le spese: tutti i mezzi finanziari dovevano venir assegnati all’ Unione;
urgeva la costituzione di un nuovo ente, che avrebbe cominciato ad operare dopo
la liquidazione dell’ “EDIT” e della “Voce”, e si sarebbe occupato sia dell’aspetto
editoriale sia di quello amministrativo; entro il mese di gennaio bisognava compi-
lare lo statuto del nuovo ente e legalizzarlo.
A questo punto, ci preme di fare una considerazione; questo continuo “rinfac-
ciare” da parte dell’autorità all’UIIF, di essere una sorta di “fruitore privilegiato”
degli stanziamenti previsti dai bilanci repubblicani, portava inevitabilmente a due
fenomeni distinti: nel primo caso, ciò induceva i connazionali a credere di rappre-
sentare effettivamente un gruppo di “sperperatori di denaro pubblico”; nel secondo
caso, il clima instauratosi, portava sicuramente ad una “indisposizione” da parte di
altre minoranze nazionali (e anche della stessa maggioranza) verso il GNI, quale
etnia che godeva di un particolare trattamento. Seguirono gli interventi di alcuni
membri; G. Raunich affermò che l’importo richiesto dall’UIIF per il 1959 era
veramente elevato; e quindi da una parte bisognava ridurre gli sprechi, e dall’ altra
però restringere l’attività; “penso che per quel che riguarda il Pioniere, levando la
copertina a colori non perda molto. Una bella fotografia potrebbe fare al caso
142 Ne vennero stanziati 41.180.000, equivalenti a circa 400 milioni di lire odierne (sempre nel 1989).
143 A.C.R.S., fasc. n. 4767/85, 13 gennaio 1959, p. 2.
144 Si ricorderà che il passaggio da 4 a 6 pagine, era avvenuto ai tempi della visita del membro della
Direzione del PCI Alicata e della prospettata, ma non realizzata diffusione sul territorio italiano.
60 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
nostro. Con questa piccola riduzione si avrebbe già un risparmio di 120.000 dinari
per numero. Per quanto riguarda la “Voce” credo che la minoranza non perderebbe
niente se si stampasse in 4 invece che in 6 pagine; per “Panorama” sarei propenso
di farlo uscire mensile in 48 pagine anziché quindicinale in 24 pagine”. AI’ EDIT
Raunich assegnava il compito di stampare esclusivamente testi scolastici, ricorren-
do all’importazione dall'Italia dei classici della letteratura. Un altro membro
ribatteva sostenendo la necessità di far uscire “La Voce del Popolo” a 6 pagine!*.
Il rappresentante croato ipotizzava quindi la conversione del quotidiano in settima-
nale. Le reazioni a questa ipotesi furono negative: Questa la conclusione: “passa
una grande differenza tra un quotidiano e un settimanale, sono giornali che hanno
una diversa funzione. Mentre un quotidiano è un informatore politico, un settima-
nale diverrebbe un surrogato di Panorama”. Il rappresentante croato ribatteva
facendo notare che i giornali della minoranza erano alquanto modesti e che “non
dobbiamo farci illusioni che i nostri giornali, come in genere i giornali e le riviste
di tutta la Jugoslavia, superino tecnicamente quelli italiani. La nostra industria
grafica è ben lungi da essere alla pari con quella italiana, noi però dobbiamo
distinguerci per il contenuto. La “Voce” non ha niente di originale nonostante i suoi
corrispondenti. La maggior parte del materiale è riportato e tradotto (dai dispacci
di agenzia jugoslavi, ndr)”!7,
Tale tesi venne contrastata dal rappresentante dei CIC del Capodistriano, il
quale sostenne che, trasformando il quotidiano “La Voce del Popolo” in settima-
nale, si sarebbe eliminato l’unico giornale socialista in lingua italiana.
Si decise, alla fine, di portare a termine quanto prima le pratiche per la
costituzione del nuovo ente. La seduta successiva si sarebbe tenuta dopo un mese.
A febbraio, infatti, era già stata definita a grandi linee la futura struttura della
nuova organizzazione: l’UIIF avrebbe svolto le sue attività attraverso le sue sezioni
“Voce”, “Panorama”, “Il Pioniere”. L’amministrazione sarebbe stata unica. Per
quel che riguardava la Libreria dell’EDIT a Fiume, anch’essa avrebbe fatto parte
dell’Unione. Nella lettera da spedire al Comune di Fiume con cui si sarebbe
comunicato l’interesse di liquidare le due aziende, bisognava giustificare le diffi-
coltà economiche, altrimenti l'approvazione da parte delle autorità sarebbe stata
messa in forse. Inoltre, si rendevano necessarie la registrazione dell’UIIF come
“soggetto legale o soggetto giuridico” (‘“pravna osoba”) e la stesura di un nuovo
statuto.
145 A.C.R.S,, fasc. n. 4767/85, 13 gennaio 1959, p. 1.
146 Ibid., p. 5.
147 Ibid., 5 febbraio 1959, pp. 1-3.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 61
Si propose di indirela successiva riunione dapprima per il 22 dello stesso mese
e, poi, per il mese di marzo, e di darle la valenza di assemblea straordinaria. E
straordinaria poteva venir definita pure la situazione in cui si era trovata “La Voce
del Popolo”. Sprovvista di mezzi, aveva ricevuto una comunicazione giudiziaria
da parte del Tribunale di Zagabria (una specie di TAR, ndr), che le imponeva entro
8 giorni di saldare il debito contratto con la “Tipografia del Popolo” ammontante
a 12 milioni di dinari. Questo inconveniente avrebbe frenato la fondazione del
nuovo ente progettato.
Pertanto venne deciso di consultare le autorità competenti. Anche i due
periodici (“Panorama” e “Il Pioniere”) si dovevano adeguare alla nuova era: il
primo sarebbe mutato da quindicinale in mensile ed avrebbe avuto 48 pagine,
mentre il secondo avrebbe perso la copertina a colori per riceverne una più
economica in bianco e nero; inoltre veniva preannunciato il licenziamento di nove
impiegati dell’amministrazione!.
Il clima si fece ancor più rovente, allorché, le autorità consultate diedero
questa risposta categorica: la RP di Croazia non era disposta a stanziare un dinaro
in più di quelli previsti!4, A Zagabria si dichiarò che dal 1952 la Repubblica di
Croazia aveva assegnato alla minoranza italiana 294 milioni di dinari mentre a tutte
le altre minoranze insieme non erano andate oltre i 50 milioni”, si richiedeva la
partecipazione pure della RP di Slovenia a questo tipo di sovvenzione, proporzio-
nalmente al numero di Italiani residenti entro i suoi confini.
A quel punto, si cominciò a considerare la possibilità reale di diminuire le
pagine del quotidiano “La Voce del Popolo” da 6 a 4; ciò avrebbe, però, a detta di
alcuni membri, compromesso la qualità e il contenuto del giornale. Considerando
anche il fatto che, dati alla mano, a Fiume nel 1959 si contavano 7700 abitanti di
nazionalità italiana, di cui 1600 leggevano regolarmente “La Voce”, l’operazio-
ne avrebbe potuto avere conseguenze negative; ed era inconcepibile una minoranza
senza il proprio giornale. Fu sostenuto che “La Voce del Popolo” era stata portata
da 4 a 6 pagine, dopo una riunione a livello di federazione jugoslava, nella quale
era stata decisa la quota di partecipazione rispettivamente della Federazione, della
RP di Croazia e della RP di Slovenia nella realizzazione di questo obiettivo. Venne
constatato che solamente la RP di Slovenia non aveva versato la somma! A
148 Ne servivano 50 milioni, ne erano stati stanziati, come abbiamo avuto modo di vedere, 40 milioni e in
più bisognava saldare il debito contratto da “La Voce del Popolo” (12 milioni di dinari)
149 A.C.R.S., fasc. n. 1077/73, verbale dell’ 11 febbraio 1959, p. 1.
!50 [pid,, p. 2.
IS [bid., p.3.
62 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
conclusione della seduta venne deciso di recarsi a Lubiana per chiarire la posizione
in merito al finanziamento. Non appena si fossero definite le soluzioni, sarebbe
stata indetta una riunione a Pola, ai primi di marzo, cui avrebbero presenziato
rappresentanti sia delle due repubbliche sia della federazione.
L’iter della costituzione del nuovo ente, come si può constatare, fu irto di
ostacoli e dovevano trascorrere alcuni mesi prima che si intravedesse qualche
risultato concreto.
Dai dati disponibili, è possibile desumere che l’incontro con i rappresentanti
sloveni abbia avuto effettivamente luogo. Infatti da un dattiloscritto!?? risulta che
la RP di Slovenia assicurò la sua partecipazione finanziaria all’attività editoriale in
proporzione al numero degli italiani abitanti sulla sua giurisdizione. Così, il 7
marzo 1959!*, si tenne la riunione della Segreteria dell’Unione alla quale interven-
nero alcuni rappresentanti delle autorità. Per l'ennesima volta, un rappresentante
croato nel suo intervento ripeté, che il compito fondamentale dell’UIIF era “di
sviluppare la cultura nazionale e le tradizioni; di attivizzare gli italiani nella
costruzione del socialismo, di badare che gli Italiani partecipino attivamente in
tutte le organizzazioni sia del potere che politiche e non allontanare gli stessi da
queste organizzazioni per fare una attività separata. Non è il caso di formare un
piccolo stato nello stato”!*. L’esponente croato continuava affermando come fosse
opportuno porre sotto il diretto controllo dell’ USPL tutta l’attività editoriale della
minoranza italiana, in particolare i giornali: solo in tal modo essa avrebbe potuto
godere di tutti i diritti’. Gli faceva eco un altro rappresentante, ricordando i
presenti che si stava discutendo di “cittadini jugoslavi che parlano l’italiano,
cittadini jugoslavi che devono avere lo stesso trattamento di tutti gli altri cittadini
della Jugoslavia; pertanto per risolvere i problemi delle scuole ci sono i Distretti e
le Repubbliche”; i CIC dovevano dipendere, continuava, dai Consigli per la cultura
comunali, rispettivamente distrettuali; a suo avviso, nello statuto dell’Unione, il
paragrafo riguardante i circoli, era male impostato.
Un membro del distretto di Capodistria manifestò il suo disaccordo con quella
152 Archivio cit., verbale del 7 marzo 1959, p. l.
153 Ibid., p. |.
154 Ibid., p. 2.
155 Abbiamo avuto già modo di constatare che, a seguito degli avvenimenti riguardanti la campagna pro
annessione del TLT alla Jugoslavia, la stampa della minoranza aveva subìto una forte “strumentalizzazione”.
156 Archivio cit., p. 2.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 63
proposta, poiché doveva essere l’ Unione il motore di tutte le iniziative del GNI. E
poi, era stata formata appositamente una commissione per la stampa, della quale
facevano parte anche i rappresentanti delle autorità. E respinse le critiche espresse,
sostenendo che faceva parte della segreteria dell’UIIF “già da 10 anni e che da
sempre è stato detto che l’ Unione fa parte integrante dell’ Unione Socialista (USPL,
n. d. r); la minoranza è attiva nella costruzione del socialismo e non vedo che
l’ Unione degli Italiani sia una organizzazione a parte. Constato invece che l’unico
problema esistente è rappresentato dalla suddivisione della minoranza in 3 distretti
e che in certi casi, per la soluzione di determinati problemi riguardanti la minoranza
esiste poca coordinazione; l’ Unione degli italiani ha cercato finora di coordinare e
unificare l’attività della minoranza fra i tre distretti”!5?. La maggioranza dei
presenti si dichiarò convinta che Il’ UIIF fosse l’organizzazione più idonea ad
occuparsi dell’attività editoriale della minoranza italiana. Secondo il rappresentan-
te dell’EDIT, invece, la riorganizzazione editoriale comportava vantaggi, in quanto
il nuovo ente sarebbe dipeso direttamente dall’USPL dei tre distretti istriani, la
quale avrebbe così dedicato più attenzione al problema della stampa italiana. Il
consiglio editoriale sarebbe stato composto da rappresentanti dei tre distretti, in
formazione mista (sloveni, croati e italiani). A questo punto, intervenne un membro
per esprimere la propria contrarietà in merito alla costituzione della commissione
mista: “È come se qualcuno venisse a comandare in casa mia, ciò vorrebbe dire che
io non sono buono a nulla”!58,
Nel mese di giugno dello stesso anno, ci fu un’altra riunione della Segreteria
dell’UIIF; si constatò che il previsto incontro con i rappresentanti dei tre distretti
non era avvenuto. Tuttavia, il distretto di Fiume aveva preso unilateralmente
l’iniziativa, apportando decisioni e nomine riguardanti la questione dell’attività
editoriale della minoranza; questo modo d’agire suscitò non poche perplessità.
Comunque, nel frattempo, tutte le questioni concernenti la stampa poste all’ordine
del giorno delle sedute precedenti, erano state risolte: ossia, “La Voce del Popolo”
continuava ad uscire in 6 pagine, mentre “Panorama”!° passava a 24 pagine; “Il
Pioniere” aveva cambiato il colore della copertina; ovviamente era stata effettuata
!57 Ibid, p. 5.
158 Archivio cit., verbale del 8 marzo 1958, p. 5.
159 Dal primo numero del febbraio 1952 fino al num. 4 del marzo 1959, il quindicinale “Panorama” porta
l’intestazione “Edizioni della Casa Editrice EDIT” con direttore G. Raunich; dal numero 4-5 di aprile dello stesso
anno, a causa delle vicende che stiamo analizzando, l’intestazione cambia in “attività giornalistica dell’USPL”,
sotto la direzione di L. Michelazzi, mentre caporedattore restava G. Raunich.
64 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
la prevista fusione amministrativa, dando vita al nuovo ente con un’unica grossa
differenza rispetto alla struttura organizzativa prefigurata: la nuova azienda, che
contava 42 persone, non dipendeva più dall’UIIF, bensì era passata sotto il control-
lo dell’USPL. Lo status giuridico del nuovo ente fu quello di “organizzazione
sociale”, il che non gli permetteva di essere anche casa editrice. Perciò si decise di
superare le difficoltà nel più breve tempo possibile restituendogli lo status di
“azienda giornalistica”; a dirigere l'azienda era stato incaricato Luciano Michelaz-
74 lun
Come si è avuto modo di constatare, i problemi della scuola e l’attività
editoriale rappresentavano un argomento permanente presente. Per questo motivo
erano state formate le commissioni incaricate di mantenere costanti consultazioni
con i Comitati Distrettuali; vero è che la situazione generale, dopo la loro costitu-
zione, andò migliorando, come si evince da alcuni verbali dell’UIIF, soprattutto
per quanto riguardava il coordinamento delle azioni volte a risolvere i problemi
della scuola, almeno nei primi anni, ma fu svilito il ruolo dell’ Unione degli Italiani
ridotta a vero e proprio ente artistico-culturale, quasi apolitico, sotto il patrocinio
della “grande sorella”, dell’unica organizzazione politica esistente, accanto alla
LCJ, l'Unione Socialista del Popola Lavoratore.
E quindi sembra più che legittima la decisione dell’ UIIF, presa durante la
seduta del settembre 1959'°', di abrogare la commissione per la pianificazione dei
quadri professionali e quella per la stampa, dal momento che tali competenze erano
state demandate all’ USPL. Pertanto le commissioni dell’UIIF sarebbero state in
futuro tre: ideologico-politica'9? scolastica e artistico-culturale.
Le commissioni funzionarono abbastanza bene soprattutto nei primi anni di
attività, in particolar modo la scolastica. Da una relazione della medesima commis-
sione!93, risultava che la situazione nelle scuole della minoranza era molto buona;
la rete di tali istituzioni contava 30 scuole elementari con 2282 alunni e 5 licei con
272 studenti. Veniva però messa in evidenza la mancanza di asili infantili in lingua
160 A_C.R.S., fasc. n. 1077/73, verbale del 15 giugno 1959, p. 1-2.
161 Archivio cit., verbale del 30 settembre 1959.
162 A.C.R.S., fasc. n. 1082/73, la commissione ideologico-politica era costituita principalmente dall’attivo
dei conferenzieri dell’ UIIF, che operò in particolare dopo il 1960; da documenti disponibili, abbiamo attinto alcune
informazioni riguardanti i temi trattati nelle conferenze, tenute nelle sedi dei CIC della regione; ecco alcuni titoli:
“Smareglia e le nozze istriane”, “Kardelj: il socialismo e la guerra”, “La lotta contro il colonialismo in Africa”,
“Elettrificazione della R.F.P.J.”..
163 A.C.R.S., fasc. n. 1078/73, verbale del 15 aprile 1960, p. I, 2.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 65
italiana, dove esistevano le condizioni per la loro costituzione, in quanto essi
rappresentavano la vera e propria linfa indispensabile alla continuità del sistema
scolastico italiano in Jugoslavia. In qualche località dell’ Istria il problema era stato
risolto, ma in grossi centri quali Pola e Fiume la soluzione era ancora da venire.
Nella sola Fiume, nel periodo 1956-1960, il numero degli iscritti alle prime classi
delle elementari era sceso da 120 a 50 unità. Per quel che riguardava la direzione
delle scuole miste (con sezioni sia italiane sia croate), il direttore della scuola
doveva essere di nazionalità croata, e il vicedirettore di nazionalità italiana. Si
lamentava anche uno scarso coordinamento tra le stesse scuole di lingua italiana,
che comprometteva il necessario scambio di esperienze! A proposito dei testi
scolastici, venerro ribaditi punti di vista già espressi in precedenza e cioè che non
era opportuno importare libri dalla Nazione madre, in quanto essi non corrispon-
devano per contenuto, per impostazione didattica e ideologica, alle esigenze dei
programmi d’insegnamento del sistema scolastico jugoslavo!9.
La commissione artistico-culturale, nel 1960, ebbe il compito di coordinare i
preparativi della progettata Rassegna-raduno della minoranza italiana, che si sareb-
be svolta il 18 e 19 giugno a Pola!°°. Ci si prefiggeva di organizzare un raduno
massiccio e di allestire uno spettacolo artistico-culturale di alto livello. Per rag-
giungere questo obiettivo, si rese necessaria un’analisi particolareggiata del lavoro
svolto nei mesi precedenti dai CIC e dall’ Unione.
La Rassegna e il Raduno degli Italiani a Pola, avrebbe concluso una serie di
manifestazioni che 1’ UIIF aveva promosso per celebrare il XV anniversario della
sua costituzione (1944 — 1959) e che avevano avuto inizio già l’anno precedente!’”,
La sera del 18 giugno, al Teatro Istriano di Pola, 480 esecutori suddivisi in 6 cori,
3 orchestrine, 2 gruppi mandolinistici, 2 gruppi folcloristici e uno filodrammatico
in rappresentanza di sette Circoli italiani di cultura e di quattro Società artistico
culturali diedero vita alla Rassegna artistico culturale della minoranza italiana,
frutto dell’attività svolta nelle rispettive località per diversi mesi. La giornata
successiva, invece, fu dedicata ad altre manifestazioni, fra cui la mostra di disegno
164 Il fenomeno avrebbe ridotto l'Unione, con il passare del tempo, a sviluppare scambi sistematici fra le
scuole delle diverse località, istituendo gare di conoscenza della lingua italiana, concorsi artistici vari, organizzan-
do incontri sportivi, ecc.
165 Solamente in casi limite, l’importazione di libri dall’Italia sarebbe stata effettuata dopo un’accurata
analisi di una specifica commissione che avrebbe svolto il ruolo tra non poche difficoltà e diffidenze.
166 Archivio cit., p. 4: si sarebbero svolte pure le Rassegne locali e circondariali, prima della finale di Pola.
!67 Celebrazione per il XV anniversario della fondazione dell’UIIF e della “Voce” il 25 e 26 ottobre a Fiume.
n
66 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
infantile e quella di pittura degli artisti dilettanti della minoranza. Nell’ Aula Magna
del CIC di Pola si effettuò una gara-quiz tra gli alunni delle scuole, divisa in due
sezioni (per le scuole ottennali e per i licei). Le domande vertevano sui contenuti
delle riviste “Il Pioniere” (n. 6) e “Panorama” (n. 9) e del quotidiano “La Voce del
Popolo” per il periodo dal 20 maggio al 20 giugno 1960. Si riportano in nota lacune
delle domande poste ai concorrenti, in quanto caraterizzano il clima esistente nel
periodo in questione!?8.
Al convegno letterario, organizzato dal periodico “Panorama”, parteciparono
una cinquantina di connazionali. La discussione sottolineò la necessità di divulgare
maggiormente opere di carattere letterario fra la minoranza. Venne anche proposto
di istituire presso 1’ UIIF una giuria permanente che indicesse concorsi letterari,
allo scopo di stimolare al massimo la creatività dei giovani ', Si tenne inoltre una
consultazione-incontro dei dirigenti giovanili del GNI. Vi aderirono i dirigenti
degli attivi giovanili delle scuole italiane di Fiume, Pola, Isola e Rovigno, i quali
proposero di organizzare un raduno giovanile nell’ambito del raduno annuale
dell’UTIF e di inserire i giovani attivisti nelle varie commissioni della medesima.
Il pomeriggio dello stesso giorno, nei pressi del parco di Stoia (Pola), si svolse il
Raduno, al quale convennero oltre 2000 connazionali, provenienti da tutte le
località della regione. In serata nell'arena 6000 persone assistettero allo spetacolo
conclusivo consistente nel festival della canzone, organizzato dai CIC di Pola e di
Fiume!”
All’inizio degli anni Sessanta assistiamo al determinarsi di un clima efferve-
scente, per quel che riguarda l’attività culturale del GNI. Dopo le grandi manife-
stazioni di massa dei primi anni Cinquanta, caratterizzate dai Raduni, avevamo
avuto già modo di rilevare l'abbandono di questa formula di “associazione”, quale
conseguenza anche delle opzioni e dell’esodo. Venne dunque rispolverata, con un
certo successo, la formula del Raduno-Rassegna. La massiccia partecipazione dei
connazionali verificatasi in quelle giornate, consigliò di ripetere tale manifestazio-
ne l’anno successivo, cercando di equilibrare le attività dei vari CIC, molti dei quali
168 Ecco alcune delle domande:
“Com'è stata chiamata quest’anno la tradizionale azione dei giovani esploratori della Croazia? Quando e
in quale città del nostro Paese l’Ufficio Politico del Comitato Centrale PCJ decise di trasformare la lotta
clandestina fino allora condotta contro gli occupatori in una insurrezione armatag Il 7 giugno è stato conferito
l’ordine di Eroe del lavoro socialista ad un’ alta personalità politica del nostro Paese: come si chiama; quale carica
ricopre?, Chi a porto, quest'anno, a nome di tutti i popoli, del nostro Pese, gli auguri al compagno Tito per il 68
esimo compleanno?”.
169 Panorama, n. 11, 1960, p. 6-7.
170 A.C.R.S., fasc. n. 1078/73, relazione sulla Rassegna, pp. 4, 5.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 67
si trovavano in cattive condizioni. Di quest'ultimi, alcuni che avrebbero voluto
essere più attivi non ricevevano alcun aiuto, né morale né materiale (ad es.
Parenzo). Altri invece, che godevano del pieno appoggio delle autorità locali, non
erano in grado di organizzare nulla (ad es. Buie)!”!.
La X Assemblea dell’ UIIF, fu preceduta da una riunione preparatoria del
Comitato!”?, nella quale si rilevò la necessità di rivedere ed aggiornare lo Statuto
dell’organizzazione. Si precisò, tra l’altro, che lo Statuto doveva venir approvato
dagli organi federali in quanto l’ Unione operava sul territorio di tre distretti e di
due repubbliche. Nella discussione sulle modifiche, si pose in risalto l'esigenza che
l’ente doveva restare una associazione di carattere culturale, escludendo un ruolo
politico di qualsiasi genere come invece prevedeva il precedente Statuto. Per i
problemi politici esistevano altre organizzazioni che avevano la competenza per
risolverli. L'Unione, secondo alcuni interventi, non doveva limitarsi ad occuparsi
dei CIC e dell’attività artistico-culturale, ma era tenuta ad avere cura soprattutto
delle istituzioni scolastiche, per il tramite delle commissioni !?; inoltre, si sentiva
la necessità di chiarire la posizione giuridica dei CIC, nei rispettivi comuni. Proprio
la situazione di alcuni Circoli quali Buie, Umago e Cittanova, destava preoccupa-
zione in quanto l’attività ivi svolta era stata insignificante. A Cittanova, dove il CIC
era stato da poco costituito, il problema principale era quello della sede, ma
esistevano incomprensione e scarso interesse da parte delle autorità locali, le quali
sottovalutavano l’esistenza stessa del sodalizio. Infine, il rappresentante di Zaga-
bria'?, approvò le posizioni assunte dai singoli intervenuti nel dibattito aggiungen-
do che i problemi dei CIC minori dovevano venire risolti dalle autorità della
moggioranza in collaborazione con le commissioni per le minoranze presso i
Comitati distrettuali!??.
Il 18 marzo 1961 a Fiume si tenne così la programmata X assise dell’UIIF.
L’intervento introduttivo del presidente G. Gobbo!” e gli interventi degli altri
171 Ibid., verbale del 6 ottobre 1960, p. 8.
172 A.C.R.S., fasc. n. 1106/73, verbale della riunione del Comitato del 26 febbraio 1961, pp. 2, 3.
173 I] che conferma le nostre considerazioni fatte in precedenza, secondo cui le commissioni UIIF diventano,
dalla loro costituzione in poi, strumento di intervento operativo nei campi ideologico-politico, artistico-culturale
e soprattutto scolastico.
174 Notiamo che, a quasi tutte le riunioni del Comitato o della Segreteria, era regolarmente presente almeno
un rappresentante del potere.
175 Archivio cit., p. 4.
176 Gino Gobbo venne rieletto presidente dell’UIIF e lo apprendiamo dal num. 5-6 di “Panorama” del 1961,
nel servizio dedicato alla X Assemblea, pubblicato alle pagg. 10-11.
68 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
membri!””, misero in risalto l’attività svolta dall'Unione nel triennio trascorso
dall'assemblea precedente. I risultati, confortanti, erano stati possibili a detta del
presidente per i seguenti motivi: per il giusto indirizzo impresso all’azione
dell’ Unione degli Italiani, cui si riconosceva una funzione di rilievo nello sviluppo
della democrazia socialista, nella soluzione dei problemi della minoranza, affron-
tati dagli organi del potere, ai quali era demandata la tutela politica e sociale del
gruppo etnico nell’ambito della “risolta questione nazionale”; per l'adozione di
giuste forme di lavoro che avevano consentito, oltre ad una maggiore iniziativa da
parte dei CIC, anche un migliore collegamento tra gli stessi, nonché tra i CIC e
l’unione e, soprattutto, una più larga partecipazione attiva dei singoli alle grandi
manifestazioni artistico-culturali dell’etnia, con risultati — come si afferma — che,
prima di allora, non erano stati mai raggiunti.
L’oratore proseguiva, prendendo in esame la situazione politica interna e
internazionale e rilevando che “in un momento in cui i rapporti tra l’Italia e la
Jugoslavia ricevevano un nuovo significativo successo con la visita del segretario
agli Esteri Koèa Popovie allo Stato italiano, subito dopo che il ministro degli Esteri
italiano dichiarava che il governo avrebbe decisamente accettato il memorandum
per Trieste e promessa la soluzione di quei problemi inerenti alla minoranza
(slovena, ndr) che da essi derivano, si sono inscenate a Trieste e a Venezia
manifestazioni sciovinistiche e anti-jugoslave. Infatti, gruppi di studenti aizzati da
irresponsabili, hanno insultato la popolazione provocando danni ai cittadini sloveni
senza che le autorità locali prendessero il minimo provvedimento per ostacolarli
/...I La democrazia in Italia è in pericolo proprio sui problemi delicati come quello
della parità dei diritti dei cittadini indipendentemente dalla loro nazionalità”.
Altro argomento figurante all’ordine del giorno era l'elaborazione del nuovo
Statuto UIIF a proposito del quale, evidentemente, erano sorte delle divergenze o
diversità di opinione fra i membri della Segreteria, soprattutto in relazione all’ar-
ticolo che doveva definire il ruolo e i compiti dell’ Unione stessa. Dall’intervento
introduttivo si evince che si era “parlato di una funzione di ponte della minoranza
italiana in rapporto alle forze progressiste d’Italia /.../ una funzione chiamiamola
così politica, in quanto la minoranza italiana, vivendo in Jugoslavia, ha già realiz-
zato determinati obbiettivi, ha già raggiunto determinati traguardi e può parlare con
cognizione di causa, di determinati fondamenti socialisti e di determinati principi
socialisti che sono stati già realizzati. Di conseguenza si tratta di precisare meglio
i compiti dell’Unione degli Italiani”. A tale scopo, veniva costituita una commis-
!77 A.C.R.S,, fasc. n. 1078/73, verbale del 15 aprile 1960, pp. 1, 2.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 69
sione per redigere il nuovo Statuto e chiarire, interpellando le commissioni per le
minoranze della RP di Croazia e di Slovenia, quale avrebbe dovuta essere, in
definitiva, la “funzione della minoranza italiana”.
L’opuscolo redatto in occasione di questa assise'8, così ne riassume le con-
clusioni: rafforzamento dell’unità politica ed ideologica della minoranza, inaugu-
rando nuove forme specifiche di lavoro politico-ideologico (conferenze, corsi,
seminari); trattamento unitario della minoranza, indipendentemente dalla sua di-
slocazione geografica; intensificazione dei rapporti culturali con la Repubblica
italiana, allo scopo di “fare conoscere la realtà jugoslava, la vita della minoranza e
le tappe dell’edificazione socialista”.
Anno molto intenso di attività, dicevamo. Nel mese di maggio, si tenne una
riunione della Segreteria con all’ordine del giorno, tra l’altro, l’analisi dei contenuti
di alcuni libri di testo per le scuole della minoranza, nei quali (soprattutto in quelli
di storia), era evidente la tendenza a presentare la nazione italiana in modo
negativo, ossia come “nazione nemica”, mentre certi non meglio precisati avveni-
menti storici venivano posti sotto falsa luce. In conseguenza della pronunciata
riforma scolastica, quasi tutti i testi dovevano venire sostituiti. Sfruttando tale
circostanza si richiese di introdurre modifiche che sottolineassero gli aspetti posi-
tivi che accomunavano l’Italia e la Jugoslavia. Perciò, bisognava accordarsi con gli
autori dei testi originali croati e sloveni, perché accogliessero quelle istanze, visto
che i libri destinati alle scuole italiane “venivano tradotti alla lettera”. I membri
presenti furono, infine, informati dei mutamenti organizzativi della casa editrice
EDIT, la quale aveva ottenuto l’autorizzazione ad importare libri dall'estero. E
proprio dei rapporti con l’estero si occupò uno dei presenti, affermando che il
futuro Statuto dell’unione doveva essere un documento moderno, in linea con i
tempi. Egli auspicava soprattutto un’azione più decisa nella funzione di ponte
dell’ UIIF, di collegamento con le “forze progressiste della nazione italiana”!”?, Ma
è proprio nei suggerimenti di modifiche da apportare allo Statuto che ci sembra di
riconoscere un “mutamento di principio”, puntualizzato nell’articolo 2: “L’ Unione
degli Italiani è sorta durante la L.P.L. come espressione della volontà degli italiani”
non più passivamente, come traspariva dal precedente Statuto (secondo cui 1’ UIIF
era sorta su iniziativa del PCJ, ndr). Si cercava così di rilevare la partecipazione di
quegli antifascisti italiani che avevano accettato i punti programmatici del Partito:
178 X Assemblea UTIF, Fiume, 18 marzo 1961 — Relazione sull’attività svolta dall'Unione e dai CIC, giugno
1958 — marzo 1961.
179 Archivio cit., 29 maggio 1961, pp. 1, 2.
70 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
a) cacciata dell’occupatore, b) organizzazione di una società su basi socialiste, c)
soluzione democratica della questione nazionale. “L'Unione degli Italiani era
entrata a far parte del fronte Popolare e si era prestata alla mobilitazione delle
masse italiane nella lotta armata, ecc.”?!8°. Era inoltre opinione comune che lo
Statuto dovesse definire l'inserimento degli Italiani nell’autogoverno, nel sistema
comunale in genere. Vennero inclusi anche altri compiti importanti: tutelare,
curare e arricchire il patrimonio culturale del GNI; agire affinché il gruppo etnico
usufruisse delle conquiste del pensiero sia del popolo italiano sia dei popoli
Jugoslavi; concorrere allo sviluppo delle scuole e degli altri enti e associazioni
culturali della minoranza nell’ambito dei diritti democratici garantiti al cittadino
Jugoslavo; approfondire i rapporti con le altre minoranze della Jugoslavia.
Infine fu accennato ai preparativi in corso per il Raduno-Rassegna il quale,
forte del grande concorso pubblico ottenuto l’anno precedente a Pola, si sarebbe
svolto nel distretto di Capodistria dal 15 al 18 giugno. Avevano inviato la propria
adesione alla manifestazione numerosi connazionali, i quali intendevano prendere
parte alle varie competizioni e alle esibizioni teatrali, sul modello dell’edizione
precedente.
Il 1961 fu sicuramente un anno proficuo per l’attività scolastica e artistico-cul-
turale dell’ UIIF. Soprattutto nelle scuole si era instaurato un clima di ottimismo,
che era mancato nel periodo intorno la metà degli anni Cinquanta. Infatti l’anda-
mento delle iscrizioni nell’anno scolastico 1960/61 era soddisfacente: le scuole
elementari dei tre distretti contavano in tutto 2281 alunni, e i licei erano frequentati
da 317 studenti; erano soci dei CIC 3294 connazionali, mentre 1991 erano membri
di società, complessi e gruppi artistico-culturali operanti presso i Circoli!*!.
Il 1961 fu anche l’anno del censimento della popolazione!*?. I risultati pubbli-
cati successivamente e contestati da più parti rivelarono un fortissimo calo demo-
grafico della minoranza italiana che vedeva ridotta di due terzi la sua consistenza
numerica, rispetto al rilevamento precedente del 1953.
Gli Italiani dell’Istria e di Fiume passavano così da 75.424 a soli 25.615. Una
delle principali cause che determinarono un fenomeno di così vaste proporzioni, fu
costituita certamente dal clima sfavorevole di intolleranza nazionale, e da una
180 Ibid., p. 3.
181 Op. cit., tabelle n. 3, 6,7.
182 Statisticki godi$njak Jugoslavije — 1987 — (Annuario Statistico della Jugoslavia — 1987).
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 71
buona dose di opportunismo dimostrato da determinate componenti il GNI. Erano
queste le persone più indifese, perché succubi dell’indottrinamento intensivo
esercitato dall’ apparato del regime. Fecero la loro parte, anche le sollecitazioni di
carattere economico, poiché il dichiararsi appartenenti al popolo di maggioranza
garantiva innegabili “vantaggi” all’atto delle assunzioni, negli iter amministrativi
e nella vita quotidiana in genere. Ma anche la scarsa attività e le difficoltà
incontrate dall’ UIIF ebbero il loro peso. Non vanno scordate le opzioni dopo il
1954.
Nel 1962 venne abbandonata dall’ UIIF la formula del Raduno-Rassegna. In
sua sostituzione, si optò per una serie di manifestazioni particolari e specializzate:
la mostra e il convegno di arte figurativa, tenutasi a Fiume dal 16 al 30 gennaio, ai
quali parteciparono numerosi artisti del GNI; la rassegna delle filodrammatiche dei
CIC, svoltasi in aprile a buie; la rassegna artistico-culturale delle scuole a Rovigno;
la rassegna del folklore; il festival della canzone; le turnée del Dramma Italiano,
ecc.!83 Il motivo del mutamento di forma di queste manifestazioni di massa, non ci
è noto. Possiamo supporre una carenza di mezzi; in ogni caso ci sembra una mossa
controproducente, in quanto tale frazionamento in tante manifestazioni artistico-
culturali particolari, perdevano quello scopo cui aveva aspirato la formula del
Raduno-Rassegna: il senso della consistente presenza numerica dava, all’animo
dei connazionali, forza e ottimismo per il futuro.
Fu quello un periodo di dibattiti a vari livelli sulla questione nazionale e sulla
posizione delle minoranze nel contesto della società jugoslava, decisamente avvia-
to verso l’esperienza dell’autogestione. Nel marzo 1962 si tenne una seduta del CC
della LCJ a Belgrado che affrontò i problemi di principio della vita delle minoranze
nazionali. Il “Komunist”!8*, organo ufficiale della Lega dei Comunisti, illustrò in
alcuni significativi articoli tali questioni nello spirito e nel clima allora esistenti,
che avrebbero concorso a determinare i mutamenti costituzionali del 1963: “’1’at-
tuazione di rapporti di assoluta uguaglianza fra i popoli fondamentali del program-
ma politico e di azione della Lega dei Comunisti. La nostra posizione nei confronti
delle minoranze non è mai dipesa, nel dopoguerra, dai rapporti internazionali con
i paesi vicini; anche nei momenti di maggior tensione e di persecuzione delle nostre
minoranze nei paesi vicini, nei momenti in cui ci si doveva difendere dagli attacchi
183 A.C.R.S,, fasc. n. 4752/85, Relazione sull'attività svolta dall’ UIIF nel 1962.
184 Komunist, 29 giugno 1962.
72 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
degli imperialisti e degli sciovinisti, le minoranze nazionali in Jugoslavia si sono
sviluppate normalmente senza sconvolgimenti, perché la nostra politica si fonda
già dalla guerra e dalla rivoluzione sui principi marxisti; proprio la coerente
attuazione dei principi socialisti nella prassi ha consentito il rafforzamento dei
legami e dell’unità delle minoranze nazionali con i popoli della Jugoslavia. Le
minoranze conservano le proprie peculiarità come parte della nazione alla quale
appartengono etnicamente e delle quali emanano, specialmente nel settore cultura-
le, fattori specifici che li infondono nell’ ambiente specifico in cui vivono; tuttavia,
le minoranze nazionali non sono soltanto parte del popolo del quale sono sortite,
ma sono collegate con lo stato in cui vivono e ciò in modo tanto più forte, quanto
maggiore è la posizione di parità e quanto maggiore è la possibilità di indisturbato
sviluppo. Per la completa affermazione culturale delle minoranze è appropriata
l’organizzazione e lo sviluppo di associazioni artistico-culturali delle minoranze
sul terreno che, analogamente alle altre forme di attività, si collegano localmente
con le altre organizzazioni artistico-culturali a livello comunale o distrettuale. Non
sono invece necessarie nel nostro sistema particolari forme di organizzazione
verticale (politiche, ndr); la Lega dei Comunisti della Jugoslavia, forza basilare del
progresso sociale, è strettamente collegata con le masse dei gruppi di minoranza
nazionale. In tale collegamento essa trova le condizioni più favorevoli per l’acco-
glimento nelle proprie file di nuovi membri e bisognerà curare maggiormente
anche la scelta e l’avvio di giovani della minoranza alle scuole politiche. Alle
repubbliche spetta il compito importante nella soluzione dei problemi delle mino-
ranze e non ultimi quelli di natura materiale. La soluzione dei problemi scolastici,
culturali e di altro genere, ha richiesto grandi impegni finanziari”.
Anche il “Delo” di Lubiana si inserì in questi dibattiti, organizzando una
tavola rotonda, alla quale parteciparono pure membri della commissione per gli
emendamenti alla Costituzione slovena: “La costituzione della repubblica (slove-
na, ndr) ha molto bene sottolineato il principio, in base al quale le minoranze
nazionali sono elementi di avvicinamento, di arricchimento della cultura e della
convivenza sociale. In base a tale principio deriva che l’esistenza di minoranze non
è un male. L'integrazione naturale dei popoli e delle minoranze si sviluppa da noi
nel rispetto assoluto dello sviluppo economico, sociale e culturale di ciascuna
parte. La nostra costituzione e quella di alcune repubbliche sono più concrete,
perché sono le repubbliche a determinare la politica nazionale del proprio territo-
rio. Il nostro progetto tratta con sensibilità ed in modo approfondito i rapporti verso
le minoranze nazionali, che sono di minor consistenza e vivono ai bordi delle
repubbliche, in primo luogo perché i problemi delle minoranze sono primariamente
problemi della maggioranza. Spetta alla maggioranza stabilire le premesse per la
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 73
convivenza su basi di parità delle due nazionalità. Le minoranze identificano
sempre più il loro sviluppo socialista con il rafforzamento dell’autogestione. Una
novità nel progetto è la definizione del territorio in cui, accanto agli Sloveni,
vivono minoranze nazionali (italiani e ungheresi, ndr). Il territorio nazionalmente
misto viene definito territorio bilingue; il bilinguismo così concepito, non garanti-
sce soltanto al singolo e al gruppo minoritario nel suo insieme l’uso della lingua
materna, ma si manifesta in tutta la vita sociale del territorio, che è uguale per la
minoranza e la maggioranza e si intreccia dalla scuola all’amministrazione statale,
dalle scritte delle località e delle vie, ai moduli bilingui per tutti i cittadini” !85, È
significativo il fatto che lo schema della costituzione repubblicana slovena non
faccia riferimento in nessun passo alla consistenza numerica del gruppo minorita-
rio quale criterio per l'attuazione del territorio bilingue, ritenuto una delle misure
più idonee a porre un freno all’assimilazione.
Tuttavia, nonostante l’adozione di certe norme di tutela non in modo uniforme
da parte delle varie costituzioni (slovena, croata, jugoslava) a favore delle mino-
ranze, si è verificato il graduale, inesorabile assottigliamento numerico dell’etnia
italiana, culminato nei minimi termini delle quindicimila unità rilevate dal censi-
mento del 1981. La seconda metà del 1962, segnò la conclusione dei dibattiti
pubblici sulle costituzioni federale e repubblicane!*°. Dopo la loro promulgazione,
nei primi mesi del 1963, si passò all'esame degli statuti comunali, considerati gli
atti fondamentali dell’autogoverno socialista!*”.
185 L'argomento era “La nostra Costituzione, le minoranze nazionali e la comunità internazionale”.
186 Delo del 18 novembre 1962.
187 Questi i diritti delle minoranze nazionali contemplati nella Costituzione della RS di Croazia del 1963:
Art. 96
“Ad ogni gruppo etnico nazionale è concesso di usare liberamente la propria lingua, di esprimersi e
sviluppare la propria cultura, come pure altri diritti stabiliti dalla Costituzione e dalle leggi.”
Art. 97
Nelle località dove vivono gruppi etnici nazionali, l'istruzione e l’educazione degli appartenenti a questi
gruppi si realizzano nelle scuole e nelle istituzioni educativi con insegnamento nella lingua di questa nazionalità.
Tramite legge si stabilisce il programma nelle scuole e nelle istituzioni educative nelle quali l’insegnamento si
svolga nella lingua dei gruppi etnici nazionali. Nelle località in cui vivono in comune gli appartenenti ai gruppi
etnici e i cittadini di nazionalità jugoslave possono venir costituite delle scuole o sezioni con insegnamento
bilingue.”
Art. 98
“Ai gruppi etnici nazionali è garantito il diritto a formare istituzioni in grado di assicurare il regolare
svolgimento e lo sviluppo della propria cultura.”
Art. 99
“Se nel territorio del comune vive un congruo numero di appartenenti ai gruppi etnici nazionali, le decisioni
e gli altri atti pubblici degli organi del comune devono essere esposti e pubblicati anche nella lingua del gruppo
etnico nazionale. In questi territori agli appartenenti ai gruppi etnici nazionali deve essere garantito il diritto di
74 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
Ai fini della nostra ricerca, sono di grande interesse le norme statutarie
riguardanti la minoranza italiana. Il Comune, quale cellula fondamentale dell’or-
dinamento politico-sociale jugoslavo, diventa ora il luogo in cui si sarebbero
attuate le più importanti funzioni politico-economiche e regolati i rapporti sociali
per la realizzazione dei diritti delle minoranze sanciti dalla Costituzione. Come si
è precedentemente constatato, il GNI risultava geograficamente distribuito su un
vasto territorio sottoposto alla giurisdizione di due repubbliche e all’amministra-
zione di tre distretti. È sufficiente rilevare questa peculiarità per comprendere le
difficoltà cui si andava incontro nell’attuare una politica unitaria per la minoranza
italiana. Inoltre esistevano delle differenze tra gli stessi comuni. Analizzando le
piccole costituzioni comunali di Pola e Rovigno, ci si rende pienamente conto di
questi divari.
Lo statuto di Pola contemplava due soli articoli che avrebbero dovuto regolare
la vita del GNI. L’articolo 14 recitava testualmente: “Gli appartenenti al gruppo
etnico italiano hanno il diritto di comunicare in lingua italiana con tutti gli organi
del potere, le organizzazioni di lavoro ed altre esistenti nel territorio del comune.
Nei contatti con le parti che si svolgono in lingua italiana, gli organi del potere sono
in dovere di rispondere in lingua italiana; l’ Assemblea comunale può stabilire per
mezzo di speciali disposizioni che in determinate località del comune vengano
affissi avvisi pubblici e scritte anche in lingua italiana”. L'articolo 44 poi si
occupava delle istituzioni scolastiche: “Il comune assicura agli appartenenti al
gruppo etnico italiano l’istruzione in lingua italiana nelle scuole elementari, nei
ginnasi e nelle istituzioni pre-scolastiche”’!88,
Lo statuto del comune di Rovigno invece conteneva una regolamentazione più
organica dei diritti minoritari. L'articolo 16 fissava il concetto di “località nazio-
nalmente mista”, precisando che Rovigno e Valle d’Istria erano “località nazional-
mente miste”; per cui, il principio del bilinguismo andava in esse applicato, e le
usare la propria lingua nei contatti con gli organi del comune. Tramite il comune vengono stabilite le condizioni
e il procedimento per assicurare l'applicazione dei suddetti diritti dei gruppi etnici nazionali come pure per
condurre l'amministrazione negli organi e nelle istituzioni dei servizi sociali del comune, nella lingua del gruppo
etnico nazionale.”
Art. 258
“La procedura nei tribunali e negli organi viene condotta nella lingua serbo-croata. La non conoscenza della
lingua nella quale si svolgono i procedimenti non può essere di intralcio alla difesa e alla realizzazione di diritti e
di interessi giustificati dei cittadini, delle istituzioni e delle organizzazioni. Si garantisce a chiunque il diritto di
adoperare la propria lingua nei vari processi giudiziari ed dinanzi ad altri organi, istituzioni ed organizzazioni che
sono chiamati a decidere sui diritti e doveri dei cittadini e di essere informati nella propria lingua su tutti i più
importanti fattori riguardanti detti procedimenti”.
188 «Statuti comunali”, Panorama, n. 7, 1963, p.4.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 fa
due lingue venivano parificate. L'articolo 21, recitava così: “In tutti gli organi del
potere, nelle organizzazioni di lavoro e altre istituzioni nelle località nazionalmente
miste, devono essere previsti dei posti di lavoro in cui sarà occupato personale che
conosce la lingua italiana al quale gli appartenenti al gruppo etnico italiano possano
rivolgersi in lingua italiana /.../; in queste località nazionalmente miste, tutte le
scritte pubbliche, le denominazioni, i documenti, gli avvisi, i timbri degli uffici
pubblici, il funzionamento degli organi amministrativi e giudiziari, nonché tutti i
rapporti scritti con gli appartenenti al gruppo etnico italiano sono bilingui”. L’ar-
ticolo 18 si occupava delle scuole e assicurava il diritto a disporre in lingua italiana
di istituzioni pre-scolastiche, di scuole elementari e di licei, aggiungendo che
l'Assemblea comunale poteva “costituire nel territorio del comune anche altre
scuole con lingua d’insegnamento italiana”. Gli insegnanti dovevano essere di
nazionalità italiana oppure persone con speciale preparazione e sensibilità adegua-
te alle esigenze dell’insegnamento nelle scuole del gruppo etnico italiano. Si
doveva abilitare il personale insegnante e dirigente pianificando le necessità e
assegnando borse di studio. Infine, si stabiliva l'introduzione, nelle località nazio-
nalmente miste, dell’insegnamento della lingua italiana come materia obbligatoria
nelle scuole croate, iniziando dalla seconda elementare. Tale norma rivestiva
fondamentale importanza per la realizzazione di tutti gli altri diritti precedente-
mente menzionati in quanto, se i cittadini del comune sin da bambini avessero
cominciato a conoscersi e a comunicare meglio, studiando le rispettive lingue, non
solo il bilinguismo sarebbe diventato una realtà ma sarebbero stati rispettati i diritti
nazionali di ambedue le componenti e sarebbero stati creati i presupposti di una
convivenza di tipo superiore.
Il dibattito si accese, ovviamente, anche all’interno dell’UIIF, inducendola ad
organizzare una “tavola rotonda” !8° nella sede dell’EDIT, nell’aprile dello stesso anno.
Vennero avanzate tre richieste fondamentali: il GNI doveva essere trattato in
modo unitario; le località in cui vivevano i connazionali dovevano essere definite
come nazionalmente miste e quindi in esse andava applicato il bilinguismo nelle
sue varie forme (visivo, parlato); gli statuti comunali, codificando la materia
riguardante la minoranza, non potevano mantenersi sul generico, ma dovevano
entrare dettagliatamente nel concreto della questione, il che era di estrema impor-
tanza, siccome essi erano chiamati a regolare i rapporti tra il comune e il singolo,
sia come cittadino sia come soggetto economico attivo!90,
189 “Criterio unitario per il Gruppo Etnico” Panorama, n. 8, 1963, p. 4.
190 Ibid,, p. 5.
76 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
Grande eco tra i connazionali ebbe 1’ XI Assemblea dell’UIIF svoltasi il 30
giugno 1963 a Rovigno!”!.
Effettivamente l’assise, che si svolse con in anticipo di un anno rispetto ai
tempi prima fissati, apportò nelle sue conclusioni alcune decisioni importanti:
approvò il nuovo Statuto!”, che aveva avuto tempi lunghi di preparazione e nella
sua nuova forma sanciva l’istituzione di “sotto-unioni”, ossia le cosiddette consul-
te, le quali, dividendosi in comunali, intercomunali e distrettuali, avrebbero potuto
promuovere, dirigere e coordinare l’attività di più CIC di una stessa giurisdizione.
Altra novità fu costituita dalla possibilità di associazione all’UIIF anche da parte
di società artistiche e Circoli di Cultura composti da connazionali che non risiede-
vano nella regione istro-quarnerina, quali gli Italiani di Lubiana, di Nuova Gorizia,
nonché quelli di Plostine'”? che vi si erano insediati, quasi un secolo prima,
provenienti dal bellunese. Infine, abolita la Segreteria dell’ UIIF, questa sarebbe
stata rimpiazzata da un Comitato più ristretto, e perciò più efficiente. Soprattutto
si riconfermò la validità della scelta fatta anni prima di istituire le commissioni di
lavoro, e su questa scia si sentì la necessità di fondare in tempi brevi un circolo di
19! XI Assemblea dell’UIIF — Relazione sull’attività svolta, Rovigno, 30 giugno 1963.
192 Per fare un esempio, sulle differenze che esistevano tra i due statuti, notiamo in quello precedente, che
l’articolo 26 diceva testualmente: “In caso di cessazione dell’Unione degli Italiani i beni patrimoniali della stessa
divengono patrimonio dell’Unione socialista del popolo lavoratore”, mentre lo statuto del 1963, all'articolo 25
dettava: “In caso di cessazione dell’Unione degli Italiani i beni patrimoniali della stessa divengono patrimonio
dei Circoli e delle altre organizzazioni affiliate”; Riportiamo alcuni significativi articoli del summenzionato
statuto:
Art. |
L’Unione degli Italiani dell’ Istria e di Fiume è un’associazione di carattere culturale nella quale convergono,
come organizzazioni autonome, i Circoli Italiani di Cultura e le società e gruppi culturali e ricreativi del gruppo
nazionale italiano dei distretti di Fiume, Pola e Capodistria.
Per l’attuazione dei compiti previsti da questo statuto i CIC possono associarsi in consulte comunali,
intercomunali o distrettuali. La struttura e l’attività di queste consulte vengono regolate da propri statuti o
regolamenti in armonia con lo statuto dell’Unione, previa approvazione del comitato dell’Unione.
Costituita nel corso della Guerra Popolare di Liberazione come espressione di volontà degli antifascisti
dell'Istria e di Fiume di nazionalità italiana di dare il loro apporto alla lotta di liberazione, al consolidamento
dell’unità e della fratellanza e alla rivoluzione socialista dei popoli della Jugoslavia, l'Unione degli Italiani, nelle
condizioni dell’edificazione del socialismo in Jugoslavia promuove, cura, sviluppa e coordinale varie attività nel
campo della cultura per garantire al gruppo nazionale italiano della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia,
in armonia con i diritti e i doveri costituzionali dei cittadini jugoslavi e nello spirito dell’autogoverno di tutte le
attività sociali, il più libero sviluppo delle loro tradizioni e della loro cultura nazionale.
Art. 3
L’Unione degli Italiani si impegna a diffondere frai popoli della Jugoslavia il patrimonio e le conquiste del
pensiero, della cultura e dell’arte della nazione italiana e, nella nazione italiana, il patrimoni e le conquiste del
pensiero, della cultura e dell’arte di tutti i popoli della Jugoslavia, al fine di contribuire alla mutua conoscenza e
la consolidamento della stima reciproca tra i due popoli vicini.
193 Località della Bosnia.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 77
PA
in
è
f
Almanacco degli italiani dell’Istria e di Fiume (1951)
78 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
poeti, narratori e artisti con il compito di indirizzare e coordinare l’attività creativa
del GNI. A presidente del Comitato dell’ UIIF venne eletto il prof. Antonio Borme.
“Una scelta decisiva”! veniva definita la XI Assemblea dal quindicinale
“Panorama”. E in effetti un ritrovato entusiasmo ed una rinnovata fiducia nel futuro
caratterizzano, in quei mesi, l’azione dell’UIIF e dei suoi singoli membri.
Difatti, l’autunno del 1963 vide una intensa attività svolta dal Comitato, che
sfociò nell’esigenza di compilare un importante documento, la “Dichiarazione
programmatica”. Questa, prima di essere diffusa a mezzo di stampa, fu preven-
tivamente discussa e approvata!’°. Si era deciso anche di tradurla in lingua croata
e slovena per poi inviarla alle USPL dei tre distretti.
L’organicità e la sistematicità del lavoro dell’UIIF, la necessità di mobilitare
tutte le forze disponibili per una azione più intensa e più efficace, esigevano un
indirizzo programmatico chiaro e preciso, indicante i contenuti e le forme di lavoro
dell’Unione per il periodo seguente. “L’indirizzo programmatico” constava di due
parti, e cioè: principi generali e programma di attività. I principi generali imposta-
vano tutta l’attività futura. L'Unione, quale associazione culturale del gruppo
nazionale italiano, doveva adottare le misure atte a mobilitare le riserve ancora
latenti per imprimere un ritmo più sostenuto, più intenso alla propria azione, con
l’intento di allargarla in estensione e in profondità, creando gradualmente, dove non
esistevano ancora, le condizioni per la maturazione di determinate soluzioni, pro-
muovendo nuove forme di attività idonee a favorire una spinta in avanti. L'Unione
doveva poi consolidare le sue posizioni autonome nella valutazione delle singole
situazioni e in genere nella sua attività e sviluppare al massimo la propria iniziativa.
Doveva inoltre tendere al risveglio in tutti i campi del GNI ed attuare azioni concrete
e iniziative adeguate la sua funzione di ponte nell’avvicinamento e nella collabora-
194 “Una svolta decisiva”, Panorama, n. 13, 1963, pp. 4-5.
195 La Voce del Popolo, 26 ottobre 1963, p. 1; nel maggio 1971 assistiamo alla stesura definitiva dell’indi-
rizzo programmatico alla XIV Assemblea svoltasi a Parenzo; ne riportiamo alcuni passi: “L’UIIF è l'associazione
sociale autogestita degli Italiani viventi sul territorio della penisola istriana e del Quarnero, chiamata a soddisfare
le loro esigenze specifiche in tutti i campi della loro vita sociale; di conseguenza essa non può essere considerata
una semplice istituzione culturale. Nell’interesse del gruppo etnico italiano, del suo sviluppo e della sua completa
affermazione, è necessario demandare ad essa un bagaglio più consistente di diritti e di doveri specifici. L’UIIF
non può essere estranea ai processi in atto promossi dal principio caratteristico della vera democrazia socialista e
consistente nel trasferimento di sempre più ampie competenze ai diretti interessati in ogni campo della vita sociale;
l’Unione degli Italiani, nel quadro di tali processi, richiede la propria forma specifica di autonomia che le assicuri
tutte le componenti atte a renderla effettivamente un’associazione autogestita dagli appartenenti al gruppo etnico
italiano, efficiente nella sua azione; si tratta di un suo dovere e di un suo diritto inalienabili ...””, “XIV Assemblea
ordinaria dell’UIIF — Indirizzo programmatico”, “Documenti”, vol. I del CRS, Pola, 1972.
196 A.C.R.S., fasc. n. 4753/85, verbale della riunione del Comitato tenutasi a Pola il 20 ottobre 1963.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 79
zione reciproca dei due paesi confinanti, imprimendo a questa sua importante
funzione un carattere di organicità mediante una accurata programmazione!?”,
La seconda parte era più specifica e riguardava il programma di attività per il
periodo 1963/1964: cura per la posizione dei connazionali nella vita sociale, il che
significava dare un contributo all’elaborazione e alla stesura definitiva degli statuti
comunali e alla loro necessaria applicazione in quelle località dove ciò non era ancora
avvenuto; partecipazione costante nel garantire un’adeguata rappresentanza dei con-
nazionali negli organi del potere; soluzione dei problemi delle istituzioni scolastiche e
pre-scolastiche (ad esempio: a Torre, Fiume, Pola e Parenzo); avvio dell’opera di
elevazione culturale mediante conferenze e parallelamente adozione di misure concre-
te, in accordo con gli organi competenti, per organizzare un ciclo sistematico di
conferenze con oratori qualificati provenienti dall'Italia; aiuto al Dramma Italiano per
il suo rafforzamento organizzativo, costituendo a tal fine un consiglio di gestione;
apertura, in accordo con il museo civico di Rovigno, della mostra permanente di arti
figurative dei membri del Circolo dei poeti, artisti e letterati; impegno della stampa
della minoranza nel sollevare tempestivamente i problemi e nel farli oggetto di
pubblico dibattito; intensificazione della collaborazione con giornali e riviste del Paese
e dell’Italia per una informazione sistematica sull’attività del GNI; convocazione
periodica di conferenze stampa per una informazione più ampia; sostegno ad alcuni
CIC per la collaborazione con enti affini progressisti della vicina Repubblica italiana,
allo scopo di giungere a uno scambio di stampa, libri, di materiale politico, di mostre,
ecc; soluzione del problema concernente la partecipazione proporzionale della
Repubblica di Croazia e Slovenia al finanziamento di tutti gli enti associati
all’ Unione (Radio Capodistria, Dramma Italiano)!®,
Si andava così incontro negli anni a venire a un clima di decisione e di
ottimismo. In grande risalto venivano posti, dai due governi, il ruolo di ponte tra le
due sponde adriatiche demandato alla minoranza e l’inderogabile riallacciamento
di rapporti organici con la matrice nazionale. Un anno dopo, nel settembre del 1964
a Rovigno, si sarebbe svolto il primo incontro tra i rappresentanti dell’ UITF e alcuni
funzionari dell’ Università Popolare di Trieste, onde concordare i primi interventi
a favore dell’elevamento culturale e ai fini della conservazione dell’identità nazio-
nale del GNI'°. Inoltre si instaurarono rapporti con l’ Unione Economico-Culturale
197 La Voce del Popolo, 26 ottobre 1963, p. 1.
198 Ibid., p. 2.
199 25esimo della collaborazione UIIF-UPT, intervista a Luciano Rossit, segretario generale dell'UPT
apparsa su La Voce del Popolo, 15 settembre 1989: “Veramente bisogna dire che questocammino oggi, se fossero
stati assecondati i desideri ed i propositi dell’Università popolare di Trieste, potrebbe essere 35.ennale, perché noi
80 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
Slovena (gennaio 1965). Una delegazione dell’ UIIF fu ricevuta dal Presidente
Josip Broz Tito a Brioni (gennaio 1965).
Fu un periodo, quindi, quello della seconda metà degli anni Sessanta, innova-
tore e costruttivo che, nelle speranze dei dirigenti dell’UIIF, avrebbe dovuto
segnare una svolta nella realizzazione dei diritti nazionali da tanto tempo disattesi.
Questo argomento, però, spetta a una nuova ricerca.
Conclusione
Al termine di questa esposizione, è doveroso trarre alcune conclusioni a
proposito delle vicende che caratterizzarono la storia dell’ Unione degli Italiani negli
anni forse più difficili e oscuri della sua esistenza. Dopo aver percorso un decennio
di storia non solo di una istituzione ma della stessa minoranza nazionale italiana, ci
sembra legittimo poter affermare che l’adesione di molti italiani dell’Istria e di
Fiume alla Lotta popolare di Liberazione jugoslava, era stata caratterizzata inizial-
mente da un sincero entusiasmo, che portò ovviamente all’instaurarsi di un rapporto
di piena fiducia negli organismi popolari neocostituiti. L'Unione degli italiani fu
uno di questi, un garante del rispetto dei diritti e dell’autonomia della popolazione
italiana autoctona della regione istro-quarnerina. A questi presupposti però seguì
tutta una serie di deviazioni e delusioni, e soprattutto un fenomeno che avrebbe
sconvolto la struttura etnica del territorio, l’esodo, che raggiunse proporzioni quasi
bibliche. Successivamente, la progressiva trasformazione della nuova compagine
statale in un apparato fortemente centralizzato, burocratico e talora repressivo,
abbiamo posto il problema della conservazione nazionale del nostro gruppo etnico in Jugoslavia sin dall’ottobre
del 1954. Quando cioè è cessato qui il governo militare alleato, noi ci siamo proposti subito all'opinione pubblica
ed alle autorità competenti come l’istituto che aveva la volontà, il proposito, il desiderio di prendere contatti con
i nostri connazionali rimasti oltre confine per assicurare loro il contatto con la nazione d’origine, quindi per
assicurare la loro conservazione culturale che più specificatamente significava conservazione dell’identità nazio-
nale. Diverse situazioni hanno fatto si che il nostro progetto non potesse essere attuato subito, anche perché se
nell’ambito della Jugoslavia, nell’ambito dell'Istria c’era qualche perplessità a questo proposito, anche l'opinione
pubblica italiana aveva delle riserve su questi contatti che noi, e modestamente io in particolare, vedevamo come
necessari ed urgenti. Quindi abbiamodovuto aspettare il 1964. Le difficoltà sono durate a lungo, per le perplessità
da parte italiana, da parte dei miei concittadini in particolare, e la diffidenza che si manifestava in molti settori, a
molti livelli, in Jugoslavia, in diverse sedi, in particolare le sedi municipali, diciamo. L’UPT, che aveva ormai una
storia centenaria veniva vista come un istituto irredentista, come uno strumento di propaganda politica, come un
veicolo di eventuali rivendicazioni che anche allora sarebbe stato ridicolo avanzare. Questo è durato parecchio
tempo. So che l'Unione ha avuto, specie agli inizi, delle difficoltà per questa collaborazione un po’ al di fuori dei
fori ufficiali. Quindi forse era anch'essa oggetto di qualche riserva, di qualche sospetto, ma bisognava pensare che
i tempi erano diversi: per andare in Jugoslavia in quegli anni bisognava avere il visto consolare...”.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 81
istituzionalizzò una sorta di controllo sull’operato dell’UIIF e del GNI, e che aveva
le sue propaggini anche all’interno degli stessi meccanismi minoritari.
Le conseguenze furono deleterie: la componente italiana della popolazione,
divenuta con l’esodo abbondantemente minoritaria e addirittura esigua, duramente
colpita soprattutto nelle sue strutture, non si presentò più come soggetto politico, e
venne pervasa da un senso di indifferenza, sconforto, pessimismo e delusione.
Questi furono elementi che determinarono un'ulteriore effettiva flessione numeri-
ca della minoranza. Il mancato risveglio “unitario” fu determinato anche dalla
distribuzione della popolazione italiana su un vasto territorio diviso, come si è
detto, in due repubbliche, tre distretti e 15 comuni.
Gli anni Sessanta videro un progressivo, seppure ancora timido, interessamento
del Governo italiano ai problemi dei connazionali in Jugoslavia, a seguito del
riavvicinamento avvenuto tra i due Stati e, più in generale, tra la Jugoslavia e
l'Occidente. L'approvazione del nuovo statuto dell’ UIIF (1963) avrebbe poi portato
nuova linfa allo spirito e alle iniziative della minoranza italiana, dandole una
qualche prospettiva di presenza autonoma nella società locale. Tuttavia la strada
sarebbe stata lunga e irta di ostacoli poiché come ebbe a precisare Enzo Collotti “la
struttura di una minoranza nazionale incorporata in un altro Stato subisce necessa-
riamente nel volgere del tempo delle modificazioni; raramente tuttavia la minoranza
si estingue per processo naturale di assimilazione. L’assimilazione spontanea è in
definitiva un fenomeno sporadico, specie quando si tratti di nuclei nazionali com-
patti. Ma le vie dell’assimilazione più o meno violenta e doatta sono infinite”?
200 E. COLLOTTI, “Postilla” in risposta al testo di A. Borme, /! Ponte-Rivista mensile di Politica e
Letteratura, n. 8-9, 1955, p. 1282
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 83
VERBALE DELL'VIII ASSEMBLEA DELL’UNIONE DEGLI ITALIANI
DELL’ISTRIA E DI FIUME TENUTASI A POLA IL 20 NOVEMBRE 1955 NELLA
SEDE DEL CIRCOLO ITALIANO DI CULTURA
L'A bien ba inidio all 10,30,
Il Presidente dell’Unione, compagno Giusto Massarotto apre i lavori e propone la seguente
presidenza: Arrigoni, Benussi A., Abrami, Bonetti, Fioranti B., Tomasin, Crollini, Bertoldi, Massa-
rotto. La proposta viene accettata e gli eletti prendono i loro posti.
Viene eletta la Commissione di Verifica: Stell Romano, Fiducioso.
Viene eletta la Commissione di candidazione: Raunich (Fiume). Quicchi (Pola), Fusilli (Capodi-
stria), Biasol (Dignano), Albertini (Rovigno).
Viene eletta la Commissione elettorale: Bonassisi, Volghieri, Giuricin Luciano.
Il presidente dell’ Assemblea, Abrami propone l’ordine del giorno:
-Relazione Politica
-Relazione organizzativa
-Relazione finanziaria
-Discussione
-Elezione del nuovo Comitato
I)Al primo punto dell’O. d. G., il compagno Giusto Massarotto presenta la relazione politica
(Vedi Allegato n. 1).
II) AI secondo punto dell’O. d. G., il compagno Andrea Benussi presenta la relazione sui compiti
e sull’attività dell’Unione. (Allegato n. 2).
AI termine di questa relazione si decide di fare una pausa di 15 minuti e di continuare poi i lavori
senza alcuna altra interruzione.
II) AI terzo punto dell’O. d. G., il compagno Giuseppe Fattori presenta la relazione finanziaria.
(Allegato n. 3).
IV) Ha inizio la discussione.
Riprende subito la parola il compagno Andrea Benussi per scusarsi di aver tralasciato nella sua
relazione, laddove parlava della stampa della nostra minoranza di accennare a “La nostra lotta”.
ANTONIO BORME. Egli si ricollega anzitutto con la nuova situazione della politica estera e
anche alla politica generale del nostro paese, sottolineando in particolare quei momenti che più
direttamente possono riguardare la nostra minoranza, e cioè la soluzione del problema triestino e
84 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
conseguente normalizzazione dei rapporti con l’Italia. Da qui si deduce anche il rafforzamento dei
rapporti e degli scambi culturali: egli propone visite di delegazioni, di gruppi artistici in tutti e due i
sensi. Analogamente si adopera per uno scambio di informazioni, proponendo ad esempio la
creazione di un numero speciale de “La voce del popolo” dedicato all'Italia. Egli accenna come un
iniziativa da parte dell’Italia sia stata già fatta con il numero speciale della rivista “Il ponte” dedicato
esclusivamente alla Jugoslavia. Attacca inoltre Radio Venezia Giulia per la campagna di menzogne
e calunnie sul nostro paese e in particolare sulla vita nelle nostre regioni: egli afferma che Radio
Venezia Giulia essendo un organo del Governo italiano non dimostra che la distensione e la
normalizzazione dei rapporti tra i due paesi sia stata ben compresa e conseguentemente applicata
dall’altra parte, conclude affermando che l’attività di questa radio trasmittente è un disturbo allo
sviluppo dei buoni rapporti tra i due paesi.
Passa quindi ad analizzare il ruolo della gestione sociale nel nostro paese e conclude col proporre
periodiche consultazioni e delle analisi periodiche, da organizzarsi da parte dell’ Unione degli Italiani
al fine di stabilire qual è il grado di presa di coscienza e di preparazione della minoranza italiana a
questo riguardo.
Parlando dell’attività dell’EDIT e della sue pubblicazioni egli afferma la necessità di provvedere
affinché queste pubblicazioni vengano diffuse all’estero, in Italia particolarmente: ciò servirebbe a
diffondere colà le nostre idee e le nostre realizzazioni e, nel contempo a creare un fondo di valute per
l’acquisto di necessari libri dall'Italia. A questo proposito egli sottolinea in particolare la necessità
dell’acquisto di libri in Italia per il regolare funzionamento delle nostre scuole. Sottolinea in
particolare quanto sia nefasta la mancanza di vocabolari della lingua italiana.
Parlando del materiale a disposizione dei gruppi artistico-culturali egli raccomanda di curarne il
contenuto e in secondo luogo di salvaguardare lo spirito nazionale. Egli riprende una vecchia
proposta: quella per cui l’ Unione dovrebbe procedere ad una cernita di tutto questo materiale ed
organizzarne la stampa, magari a ciclostile.
Egli si prodiga quindi affinché venga forzata la creazione di detto materiale attraverso l’opportu-
no lancio di concorsi, quindi per mezzo di traduzioni dal croato e, infine, scegliere con criterio da
quanto può fornire il mercato italiano.
Venendo a parlare della rassegna egli saluta l'iniziativa presa da Radio Capodistria di organizzare
festival radiofonici, tuttavia è del parere che in nessun caso va abbandonata la forma delle Rassegne
tradizionali com’erano state concepite ed organizzate negli anni precedenti. a questo punto egli
rivolge alcuni appunti critici alle forme organizzative (soprattutto per quanto riguarda il funziona-
mento delle giurie) al I festival radiofonico organizzato da Radio Capodistria.
Parlando dell’attività del Dramma Italiano egli insiste nell'affermare che il Dramma Italiano è
soprattutto in funzione dell'Istria e non solo di Fiume. Analizzando quindi le varie difficoltà
finanziarie sorte per l’organizzazione delle “tournée” istriane, pensa che la migliore delle soluzioni
sia quella di affidare il Dramma all'Unione e che le sovvenzioni per i suoi giri artistici vengano
direttamente date, dal nostro potere, all’ Unione.
Egli si è infine soffermato sulla situazione delle nostre scuole. Dopo un accenno generico alla
loro posizione ed al loro ruolo egli ha in particolare analizzato il problema dei quadri. Si è detto
insoddisfatto dei quadri, in particolare di quelli usciti dall’Istituto magistrale di Fiume. In particolare
le loro debolezze si sono rivelate gravi dal punto di vista dell’educazione e della preparazione
ideologico-politica.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 85
ARMINIO S(C)HACHERL propone che l’intervento del compagno Borme venga considerato
come una correlazione dell’assemblea e pubblicato assieme alle relazioni presentate dal comitato
dell’ Unione.
Il presidente Appolinio Abrami mette ai voti la proposta che viene accettata all'unanimità.
ARRIGONI GIUSEPPE parla dell’attività del Circolo italiano di Cultura di Fiume constatando
che essa l’anno scorso è stata debole, tanto che il CIC di Fiume è stato superato da quello di Pola. Per
il futuro mentre continua normalmente l’attività del coro della Fratellanza è prevista la ricostruzione
della filodrammatica e il riadattamento della biblioteca. Si cercherà di mobilitare maggiormente gli
italiani e specialmente gli insegnanti delle scuole della minoranza nell’attività del CIC.
ALDO BRESSAN Afferma che nella relazione si sarebbe dovuto parlare di più di Radio
Capodistria data la sua funzione di unica stazione radio jugoslava con programmi in lingua italiana
per la minoranza. Bisogna notare poi che Radio Capodistria svolge anche una funzione importante
nell’ informare obiettivamente le masse italiane oltre confine sulla realtà sociale e politica del nostro
paese.
Da qualche tempo Radio Capodistria ha iniziato i programmi radio per le scuole della minoranza.
Sarebbe desiderabile una maggiore mobilitazione degli insegnanti nella compilazione di questi
programmi. Per il prossimo anno è previsto il II Festival dei CIC e un Festival per le scuole.
GRZINIC (Parenzo) Espone alcune difficoltà nell’attività del CIC di Parenzo, ma afferma che
recentemente sono stati dati alcuni spettacoli con discreto successo. Chiede aiuti, consigli e visite da
parte dell’Unione. A Parenzo sono in tutto molto pochi gli attivisti — cinque o sei — ed essi debbono
fare di tutto, anche gli attori, ecc.
Dice che la scuola italiana e quella croata sono state fuse senza che il CIC non ne sapesse niente.
Da qui sono sorti dei malumori che sono poi stati appianati. Dice che del quotidiano “La voce del
popolo” arrivano a Parenzo una ventina di copie che poi non vengono neanche tutte vendute. Critica
questo giornale poiché è secondo lui povero e poco interessante. La biblioteca comprende 4.000
volumi, ma sono tutti vecchi.
LUCIANO MICHELAZZI ci sono nella vita politica italiana atteggiamenti diversi nei riguardi
della minoranza italiana in Jugoslavia. Tre correnti politiche italiane cercano contatti con noi.
La prima corrente di Parri, progressiva, e il suo atteggiamento si può considerare positivo.
Positivo è anche l’atteggiamento dell’organizzazione giovanile che fa capo a Cucchi e Magnani. C’è
però una terza tendenza che non si può giudicare positiva: è la tendenza dei circoli irredentistici
italiani che ha trovato frequentemente la sua espressione sulle colonne del “Piccolo” di Trieste con
la pubblicazione di articoli di carattere storico e politico su tutti i problemi culturali, sociali e
organizzativi della minoranza italiana. Fino a poco tempo fa questa corrente politica negava o almeno
ignorava l’esistenza di una minoranza italiana in Jugoslavia; è positivo dunque almeno il fatto che
ora si riconosce la nostra esistenza. Però tutti noi italiani in Jugoslavia veniamo considerati come degli
irredentisti che lottano per il ritorno dell’Istria allo stato italiano. È evidente che con una tale corrente
politica noi non possiamo cercare dei contatti. Bisogna perciò essere sul chi va là e fare attenzione a
chi ci porge la mano. Saranno bene accetti gli scambi di visite di società artistico-culturali, ma
86 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
certamente non sarà bene accetta né si potrà permettere la tourné che la società irredentistica “Dante
Alighieri” vorrebbe organizzare in Istria. Noi dobbiamo dunque accettare contatti solo con quelle
correnti della vita politica italiana che hanno un atteggiamento positivo di fronte al nostro paese e alla
nostra minoranza e dobbiamo usare tutti i mezzi per esportare i nostri principi e far conoscere la nostra
prassi socialista oltre confine. Il problema essenziale non è quello di collegarsi con organizzazioni
italiane di oltre confine per ricevere da esse qualcosa, ma per esportare le nostre idee.
Il compagno Borme ha proposto consultazioni che i Circoli e 1’ Unione dovrebbero organizzare
con i lavoratori politici e sociali della minoranza. Ma l’ Unione degli Italiani non è un’organizzazione
politico- culturale, bensì un’organizzazione culturale-politica. L'attività politica, le iniziative politi-
che non sono il compito principale dell’ Unione e dei Circoli italiani di Cultura, ma solo un’attività
secondaria che deve essere svolta di tanto in tanto. Il campo della attività politica deve essere anche
per gli italiani l’unione socialista del Popolo lavoratore. Se per essi il campo dell’attività politica
fossero i Circoli italiani di Cultura si verrebbe a separare gli italiani dai compagni croati e sloveni e
a minare la fratellanza. Su questo problema sono esistite nel Comitato dell’Unione due tendenze:
l’una che sosteneva che l’attività politica degli italiani deve svolgersi nell'Unione socialista del
popolo lavoratore, l’altra che sosteneva invece che essa debba svolgersi nei Circoli italiani di Cultura
e attraverso l’ Unione degli italiani. Occorreva prendere una posizione di fronte a questo problema. Il
Comitato dell’Unione degli italiani dovrebbe avere sempre meno iniziative politiche, per esempio
non sarebbe suo compito quello di organizzare consultazioni di consigli scolastici perché queste
devono essere realizzate assieme con i consigli scolastici delle scuole croate. L'assemblea dovrebbe
chiarire la questione.
LUCIANO GIURICIN Parla sulle Società artistico-culturali operaie e in particolare dei problemi
finanziari che impediscono loro di svolgere una sempre più proficua attività. Egli ha portato ad esempio la
“Fratellanza” di Fiume che non può mai muoversi dalla sua sede per non averne i mezzi finanziari.
MIKA SPILJAK Porge i saluti del Comitato Centrale della Lega dei comunisti della Jugoslavia
e dell’Unione socialista del popolo lavoratore all’ Assemblea. L’ Unione degli italiani ha svolto una
grande funzione nella vita della minoranza finora. Grande è stato il suo lavoro prima che ci fossero i
problemi fondamentali dei rapporti fra il nostro paese e l’Italia. In questo periodo la vita degli italiani
non era ancora ordinata, la minoranza non aveva ancora una posizione ben determinata nel nostro
paese. L'Unione ha fatto molto per organizzare la vita della minoranza e legarla all’edificazione
socialista. Ora i problemi fondamentali dei rapporti con l’Italia sono risolti e di fronte all'Unione
stanno nuovi compiti. I) il compito principale è educare gli italiani ad un’attività sempre maggiore
negli organi di autogoverno (consigli operai, consigli scolastici, consigli di cittadini). L'autonomia e
i diritti degli italiani non si realizzano nei CIC e nell’Unione, ma nella loro funzione e nella loro
partecipazione all’attività delle organizzazioni sociali. Quanto più gli italiani si attivizzeranno nelle
varie organizzazioni sociali e nei vari organi di autogestione, tanto meno diverranno necessarie certe
attività che i circoli italiani e l'Unione degli italiani svolgevano finora. II) altro grande compito
dell’ Unione e delle CIC è la cura dello sviluppo della cultura nazionale. III) un compito per cui appena
oggi si sono create grandi possibilità di realizzazione è quello dell’azione socialista della nostra
minoranza sui connazionali in Italia. Oggi la situazione politica del nostro Paese rende sempre più
possibile una tale relazione. Dall’ultima assemblea, la situazione politica nel nostro paese è mutata.
Si sono normalizzati i rapporti con l’Italia con l'URSS, si è concluso il Patto balcanico e si intrecciano
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 87
sempre nuovi rapporti con il Vicino oriente e coi paesi dell'Occidente. Su nessun confine, oggi la
Jugoslavia ha dei nemici, essa svolge una funzione importante nella situazione politica mondiale,
nella lotta per la pace e la distensione internazionale. La normalizzazione dei rapporti con l'URSS,
che significa il riconoscimento da questa parte della nostra indipendenza è stata la condizione per la
normalizzazione e la distensione tra l'URSS e l'Occidente, dopo di ciò è cessato il tentativo da parte
dell’Occidente di trascinarci nel loro blocco e anche da questa parte è stata riconosciuta la nostra piena
indipendenza; anzi gli USA ci riconoscono come un elemento attivo di capitale importanza nelle
questioni europee e del Medio oriente, (Germania, Paesi dell’ Europa orientale, ecc.). Foster Dulles è
venuto a sentire il parere di Tito su questi problemi. Il punto di vista della Jugoslavia nella politica
internazionale, influisce anche sull’URSS (per esempio il suo atteggiamento di fronte all’India e alla
Birmania). E questo nostro punto di vista è quello della coesistenza pacifica e attiva. Coesistenza non
significa solo conservazione della pace, ma politica di classe, socialista, da noi e nel mondo, sia in
Occidente che in Oriente. Oggi è possibile il progresso dell’ umanità, la liberazione dall’arretratezza
solo con l’eliminazione del capitalismo privato, col socialismo; ecco perché è possibile la coesistenza
e la lotta in comune contro l’arretratezza con stati borghesi come l’Italia e l’Egitto. Non bisogna
dimenticare poi che il nostro paese ha una grande importanza per lo sviluppo delle forze progressive
nel mondo perché in esso si sono creati per la prima volta forme nuove di autogoverno operaio. Questi
sono gli argomenti con cui dobbiamo influire sulle forze socialiste positive in Italia.
V) elezioni
Il compagno Raunich presenta a nome della commissione di candidatura le seguenti liste:
comitato dell’ Unione: Giusto Massarotto, Andrea Benussi, Alfonso Bogna, Giuseppe Arrigoni,
Apollinio Abrami, Romano Benussi, Rodolfo Benic, Marcello Moscarda, Antonio Borme, Bruno
Fioranti, Dario Scher, Plinio Tommasin, Romano Bonetti, Ermanno Brussich, Alfredo Cuomo,
Nerina Bertoldi, Antonio Gorlato, Gino Gobbo, Ugo Romani, Matteo Scoccir, Luciano Michelazzi,
Ferruccio Gravina [Glavina], Giorrio [Giorgio] Gianbiastiani, Gildo Biasiol, Quicchi Gianni, Elia
Crollini, Agarinis, Davilla.
Comitato di Controllo: Dario Avancini, Alfredo Visentin, Arminio S(c)hacherl, Giovanni Sirotti,
Sergio Turconi, Giuseppe Fattori.
La lista, posta alle votazioni, viene accettata. Poi sorgono discussioni sul metodo di votazione.
Due tendenze: chi è per la votazione pubblica della lista e chi per votazioni segrete.
Viene poi richiesto lo statuto dell’Unione secondo cui le votazioni devono essere segrete e in tal
senso si decide definitivamente.
Hanno luogo le votazioni.
I lavori si riprendono alle 2,25.
Il compagno Massarotto, a nome del Comitato dell’Unione consegna dei premi a Nello Milotti,
Dario Scher, Giuseppe Moschieni, Mario Rotar, Mario Vlasich, Vittorio Jes, e ad un compagno di
Rovigno che designerà la società Marco Garbin.
Il compagno Raunich propone di inviare telegrammi di saluto al presidente Tito, al compagno
Bakarié ed al compagno Miha Marinko.
I telegrammi sono nell’allegato n. 4.
Sempre il compagno Raunich presenta una mozione di protesta contro il processo intentato agli
ex partigiani iniziato ad Udine.
88 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
Telegrammi e mozione vengono accettati all’ unanimità.
Prende quindi la parola il compagno Giusto Massarotto il quale dice che le conclusioni dei lavori
dell’ Assemblea saranno tratte dal nuovo comitato in base alle risultanze dei verbali. Accenna
all’intervento del compagno Michelazzi e in particolare alla parte in cui egli afferma una divisione
nel Comitato dell’ Unione. Egli [ritiene] che ciò non corrisponde a verità e che nessuno ha mai voluto
staccare il lavoro degli italiani dalle organizzazioni sociali e politiche di massa del nostro paese. Del
resto, dice, anche lo statuto chiarisce i compiti dell’Unione che sono principalmente quelli di
mobilitare gli italiani che vivono in Jugoslavia nel lavoro d’edificazione del socialismo.
Su invito del compagno Massarotto, vengono approvate le relazioni. Le votazioni si fanno
pubbliche per alzata di mano. Il voto è unanime.
Il compagno Luciano Giuricin, a nome della Commissione elettorale comunica i risultati delle
votazioni che sono i seguenti:
Massarotto Giusto 115 voti, Benussi Andrea 115, Bogna Alfonso 113, Arrigoni Giuseppe 116,
Abrami Apollinio 11I, Benussi Romano 115, Benic Rodolfo 112, Moscarda Marcello 114, Bonne
Antonio 116, Fioranti Bruno 115, Scher Dario 108, Tommasin Plinio 115, Bonetti Romano 112,
Brussich Ermanno 116, Cuomo Alfredo 110, Bertoldi Nerina | 14, Gorlato Antonio 110, Gobbo Gino
III, Romani Ugo 112, Scoccie [Scoccir] Matteo 114, Michelazzi Luciano 110, Giambastiani Giorgio
115, Glavina Ferruccio II 1, Biasiol Gildo III, Quicchi Gianni 110.
Pertanto questi compagni sono entrati a far parte del nuovo Comitato dell’Unione. Altri voti
hanno ricevuto: Crollini Elia 12, Agarinis 11, Favilla 12, Giuricin Antonio 2, Raunich Giacomo |,
Paliaga Giordano 1, Tarlao Gino 1, Makov Lidia 1.
I voti per il Comitato di controllo sono i seguenti: Avancini Dario 113, Visintin Alfredo 116,
S(c)hacher]l Arminio 116, Sirotti Giovanni 113, Turconi Sergio Il.
Pertanto il comitato di controllo è formato dai suddetti compagni. Hanno inoltre ricevuto i voti:
Fattori Giuseppe 3, Crollini 1, Benussi Romano 1.
Con la proclamazione dei risultati delle elezioni l’ assemblea dell’Unione degli Italiani si conclu-
de.
Sono le ore 15.
I VERBALISTI
Arminio S(c)hacherl
Sergio Turconi
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 89
VERBALE DELLA RIUNIONE DELLA SEGRETERIA
TENUTA IL 16 GENNAIO 1956
Presenti alla riunione: Massarotto, Benussi, Cuomo, Bogna. Assenti: Abrami, Gobbo, Tomasin.
Essendo i compagni in numero ridotto, si considera la presente riunione come una riunione
preliminare.
Si incomincia a discutere in merito all’andamento ed al più o meno successo ottenuto all’ Assem-
blea dell’ Unione tenuta nel novembre a Pola. Il compagno Benussi considera che l’ Assemblea in
generale è riuscita abbastanza bene, così pure afferma anche il compagno Massarotto, aggiungendo
però che l’intervento del compagno Michelazzi è stato abbastanza antipatico in quanto dalla sua
esposizione si potrebbe capire che in seno al Comitato dell’Unione esistono due tendenze. Il
compagno Massarotto propone che alla prossima riunione del comitato si chiarisca questo punto.
Il compagno Cuomo polemizza sull’intervento del compagno Michelazzi all’ Assemblea dicendo
che l’essenziale è di incanalare gli italiani nelle organizzazioni di massa, che dobbiamo staccare
l’attività degli italiani e che non siamo capaci di elevare un quadro di nazionalità italiana. La
discussione di Michelazzi va intesa in questo senso.
Il compagno Massarotto aggiunge che da quando esiste l’ Unione si sono sempre verificati e si
verificheranno anche nel futuro delle tendenze d’isolatismo di certi circoli italiani di cultura, tendenze
dovute allo scarso elevamento politico. Si pone il problema come fare per rompere queste tendenze.
Prima con l’apparato che avevamo ci era più facile controllare, ora, dobbiamo lasciare questo compito
alle autorità; cioè alle organizzazioni politiche del luogo.
Il compagno Benussi afferma che gli italiani che svolgono attività nei CIC sono oberati da altri
compiti e finiscono con lo svalutare l’attività da svolgere in seno ai CIC. In discussione privata con
Benussi il compagno Michelazzi ha esposto che il nostro Partito deve interessarsi di tutto, delle scuole
e così via. Cosa occorre che i CIC eleggano i rappresentanti per i Consigli scolastici. Il compagno
non vede alcun problema nella chiusura delle classi e delle scuole, dice che la scuola deve man mano
assorbirsi in quella croata. Allora il compagno Benussi si domanda cosa sta a fare l’ Unione ed i
Circoli. Stando così le cose l’ Unione non serve proprio a niente. A Parenzo il segretario del C. P. già
parla di una classe con 21 alunni che con il prossimo anno non esisterà più. A Torre e a Visinada
ugualmente. lo ho parlato con gli insegnanti ed ho constatato che sono demoralizzati. Il compagno
Benussi cita il caso dell’insegnante di Parenzo che per aver tenuto una lezione su Dante è stato più
volte chiamato dagli Affari Interni. Per Michelazzi questi non sono problemi. All’ultima Assemblea
a Pola il compagno Spiljak aveva incaricato il compagno Sirola di andare sul terreno per risolvere
certi problemi, ma a un mese di distanza Sirola non s’è ancora fatto vivo.
Il compagno Bogna dice che i CIC hanno poco per l’elevamento culturale della minoranza. Basta
vedere ciò dai bilanci. A Fiume per tutto il 1955 hanno speso la somma di dinari 5000 per la stampa.
Conseguenza logica è quindi che il CIC diventa solamente una betola.
Parla il compagno Cuomo che dice che i problemi esistono e che noi dobbiamo pensare come
risolverli. Secondo lui questi problemi dovrebbero venir risolti dal Komitet del luogo. Solo nel caso
in cui si vede che questi problemi seguitano, allora 1’ Unione come autorità, [deve] intervenire tramite
il Komitet. Se Sirola non è andato sul terreno all'Unione spetta il compito di richiamarlo al dovere.
Dobbiamo imparare i compagni dei CIC a rivolgersi per risolvere i loro problemi a chi di dovere.
Massarotto dice che non dobbiamo parlare solo teoricamente. Questi problemi non sono nostri
90 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
ma principalmente dei dirigenti locali. Qui all’ Unione si viene a sapere più facilmente di più località.
Ogni cittadino ha il diritto d’intervenire quando vede che qualcosa non va e così anche l’ Unione.
Dobbiamo però evitare che i problemi si rivolgano tramite l'Unione. Se si rivolgono all'Unione
indirizzarli a chi rivolgersi. Nostra deficienza è quella di non controllare l’attività dei CIC. Esistono
certe cose però che devono venir risolte in collaborazione con l’ Unione, ad esempio in merito a certi
problemi scolastici, dare suggerimenti in occasione a problemi diversi. Coordinare il lavoro della
stampa ecc.
Passando a parlare sulla questione della stampa, il compagno Bogna mette al corrente i presenti
della nostra richiesta di lire italiane per la compera di libri in Italia, della richiesta della casa editrice
Vallecchi di far smercio di suoi libri in Italia. Questo si potrebbe organizzare con una specie di
scambio tra EDIT e Vallecchi.
In merito all’antologia di scrittori jugoslavi ci si è messi in contatto con gli slavisti Urbani e
Salvini i quali sono entusiasti di una simile iniziativa e si prevede quindi un ottimo smercio in Italia.
La stessa cosa si prevede anche per il libro di Barbieri “L’uomo del vaticano”.
Massarotto propone di metterci in contatto con la “Jugoslavenska knjiga” che è stata autorizzata
e riceve sovenzioni per lo scambio con l’estero.
Si decide di tenere la riunione del Comitato dell’Unione a Rovigno il 10 febbraio. Ordine del
giorno: |. Programma di lavoro dell’Unione per il 1956; 2. Attività editoriale; 3. Questioni organiz-
zative e 4. Collegamento culturale con l’estero.
In relazione alla delegazione di giovani indipendentisti italiani si decide di prendere delle
decisioni concrete e di formare una commissione per organizzare l’ospitalità a questa delegazione alla
riunione del Comitato del giorno 20 febbraio.
Il compagno Cuomo accenna che in relazione all’esposizione del compagno Vukmanovic sulla
questione dei teatri, anche noi per il nostro Dramma italiano, dovremmo prendere misure economi-
che, diminuendo personale o altro.
Massarotto propone che Raunich si interessi sulla questione del Dramma per fornire una
relazione.
Si incarica il compagno Benussi di informarsi come stanno le cose in relazione agli svincoli.
Vedere poi quanti di loro hanno ripreso il cognome d’origine.
Dopo di che la riunione ha termine.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 91
RIUNIONE DEL COMITATO DELL’UNIONE
10 APRILE A ROVIGNO
PRESENTI: Benussi, Bogna, Arrigoni, Abrami, Benussi Romano, Moscarda, Borme, Fioranti,
Tomasin, Brussich, Cuomo, Bertoldi, Gorlato, Gobbo, Romani, Scoccir, Michelazzi, Glavina, Quic-
chi, Avancini, Schacherl, Sirotti Giovanni, Turconi Sergio, Elio Dessardo, Elda Sansa, un compagno
della “Nostra lotta”, il compagno Krajcer del Comitato distrettuale, ed altri ancora.
Ordine del giorno:
1.Applicazione delle conclusioni prese alla recente Assemblea.
2.Problemi della stampa.
3.Varie:
d)delegazione giovani italiani
e)Festival radiofonico
f)Cooptazione nel Comitato di ancora un membro.
Il compagno Benussi apre la riunione e fa una breve esposizione nella quale, tra l’altro, dice che
l’ Unione dall’ultima Assemblea ad oggi ha cercato di coordinare il lavoro tra i vari Circoli italiani di
cultura. Che molti Circoli sono stati attivi mentre altri non hanno dato alcuna attività. Il compagno
Benussi riporta inoltre che alla recente Assemblea la discussione fatta dal compagno Michelazzi ha
dato adito a delle interpretazioni secondo cui in seno all'Unione esistono due tendenze, cosa, la quale,
bisogna chiarire nell’odierna riunione.
In questo ultimo tempo mi sono recato spesso sul terreno ed ho visitato i Circoli italiani di cultura
di Isola, Pola Capodistria, ecc. 1 compagni mi hanno esposto le loro difficoltà ed abbiamo cercato
assieme di risolverle. Un fenomeno però che ho constatato generale è la questione delle sedi dei
Circoli italiani di cultura che in tutto i posti si cerca di occuparne i locali. Di questa cosa dovremmo
parlare nell’odierna riunione e prendere una soluzione in merito.
Dopo quella riunione in cui il compagno Spiljak a Zagabria aveva riunito i segretari di Partito
distrettuali della nostra regione, pareva finalmente risolto lo spinoso problema delle scuole, invece
sorgono ancora dei malcontenti. Ad Umago avevano già portato via i locali del Circolo, ma per
intervento mio personale li hanno ricevuto nuovamente. A Buie mancano compagni che dirigano il
Circolo perché quelli che potrebbero farlo sono stracarichi di compiti e altri non vogliono farlo per
paura di venir accusati di tenere per gli italiani.
Esistono poi delle opinioni secondo le quali 1’ Unione degli italiani non occorre più che esista, che
il suo ruolo oramai è finito. Questo è un errore madornale. L’ Unione per il momento deve esistere ed
esisterà fino quando ci sarà la minoranza. Le scuole diminuiscono annualmente di numero, certi
dirigenti dicono che in seguito si chiuderanno tutte le scuole e questo demoralizza molto gli
insegnanti, specie quelli di Parenzo. Ma se fossero coscienti dovrebbero combattere contro simili
elementi.
Se il Circolo italiano di cultura ha da risolvere dei problemi è inutile che si rivolga all’ Unione
degli italiani. Cerchi prima di risolvere con le autorità locali e, solo nel caso in cui non si trovi
comprensione sul terreno, allora rivolgersi all'Unione.
Compagni noi non possiamo dire che questi che ho citato non siano problemi, oppure se si
ammettono che siano che non vale la pena di risolverli perché sono piccoli. Noi come comunisti
dobbiamo ragionare e dire che qualsiasi problema, anche se piccolo, deve avere le sue soluzioni. È
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errato considerare che tutti gli scolari il cui nome termina in ® debbono andare alle scuole croate
anche contro la loro volontà. La scuola della minoranza italiana è socialista e da essa escono
solamente uomini socialisti per cui cosa occorre essere tanto pignoli. Nel distretto di Pola i problemi
della scuola sono stati risolti abbastanza bene. Solo a Parenzo sembra che non vada ancora bene.
Dico inoltre che in questo ultimo periodo i migliori Circoli sono risultati quelli di Fiume, Pola,
Dignano e un elogio particolare al Circolo di Isola.
TI compagno Benussi accenna poi al problema degli svincoli che in questo ultimo tempo, sono
numerosissimi. Invita i compagni poi, nella discussione a dire la loro opinione in merito alle ragioni
che inducono tanti compagni a chiedere lo svincolo.
In ultimo poi, il compagno Benussi accenna alla questione del Dramma Italiano, che in un primo
tempo era stato deciso di eliminare il Dramma ma che poi la cosa è stata risolta e non v'è più problema
in merito.
Dopo di che ha inizio la
DISCUSSIONE
Apre la discussione il compagno SCOCCIR di Capodistria il quale dice che anche a Capodistria
è sorto il problema riguardante la sede del CIC. Afferma che ora il CIC è costretto a svolgere la sua
attività in sole due stanze.
Afferma poi che problemi di intolleranza nazionale avvengono ogni giorno ma che però non
bisogna farci caso poiché questi fatti vengono provocati da persone ignoranti. Solo, quando questi
fatti vengono provocati direttamente da persone autorevoli la cosa è un po’ seccante. E per documen-
tare quanto esposto cita alcuni casi.
L'attività del Circolo di Capodistria va abbastanza bene ed ha incominciato ad essere attivo subito
dopo la chiusura delle opzioni e dopo il grande freddo di questa stagione. Funziona la filodrammatica,
il balletto, la mandolinistica, ecc.
Il compagno ARRIGONI accenna all’attività svolta dal CIC di Fiume che è molto buona. La
Fratellanza anche funziona bene, ecc. In relazione al problema della sede spiega come si siano svolti
i fatti: accenna che prima dissero che l’attività è minima e per questo non occorre la sede presente,
poi, avendogli dimostrato il contrario, dicono che il CIC non ha la possibilità di restaurare i locali che
un tempo erano di lusso. Spiega poi la questione del cambiamento di sede, ecc. Il CIC tiene delle
conferenze, concerti, rappresentazioni, ecc. alle quali partecipano molti membri della minoranza.
ll compagno MICHELAZZI dice che è costretto a rispondere al compagno Benussi in merito alla
discussione da lui sostenuta all’ Assemblea. Dice che deve correggersi lievemente e precisamente
ritirare la parola “correnti” ed al suo posto mettere “tendenze”.
Secondo il compagno Michelazzi in seno all’ Unione esistono due tendenze: la prima è quella di
occuparsi esclusivamente di piccoli problemi di intolleranza nazionale, tendenza questa che egli
considera errata; la seconda tendenza invece è quella secondo cui gli italiani debbono partecipare alla
vita sociale, debbono venirelevati culturalmente e politicamente.
Queste due tendenze esistono realmente. Dobbiamo togliere una buona volta dall’ordine del
giorno questi piccoli fatti di intolleranza nazionale. Se la minoranza è indietro politicamente è colpa
nostra. Perché nelle fabbriche non esistono problemi di intolleranza nazionale, perché nel consiglio
operaio italiani e croati discutono dei problemi di comune accordo. Questi sorgono solo nell'ambiente
culturale.
Per quanto riguarda il problema degli svincoli, secondo quanto dice il compagno Benussi sembra
siano dovuti a questi casi di intolleranza nazionale. Questo non è un problema della minoranza, ci
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 93
sono anche croati che vogliono scappare e questo è dovuto al problema economico. Per conto mio
non siamo marxisti se la pensiamo altrimenti.
Non esiste la tendenza di eliminare 1’ Unione bensì la funzione dell’ Unione è diversa. L'Unione
non può essere un doppione del SSRN. L’Unione deve svolgere un'attività dove la minoranza trovi
sfogo di quelle cose particolari che in seno al SSRN non può.
Sembra oggi che la minoranza sia attaccata da tutte le parti, che tutti siano nemici della minoranza
e così via. Questo è molto sbagliato.
Il compagno BORME risponde al compagno Michelazzi che la sua esposizione è unilaterale. Dice
che le due “tendenze” citate dal compagno sono due cose inscindibili che non si possono separare.
Bisogna tener conto di una tendenza ma anche dell’ altra. L'Unione ha sempre portato energicamente
a termine il suo compito e questo lo ha affermato anche il compagno Spiljak all’ Assemblea di Pola.
L’Unione è da elogiare per la sua attività. I piccoli avvenimenti di intolleranza nazionale che
avvengono ogni giorno sono cose che si potrebbero lasciar passare e di poco conto, ma quando queste
intolleranze avvengono da parte delle autorità allora no bisogna permettere che ciò avvenga.
Il compagno Spiljak nella sua esposizione a Pola ha condannato l’asserzione di Michelazzi, ha
detto che alla minoranza bisogna permettere uno sviluppo di minoranza come tale.
Ogni anno ritorna di moda il problema dalle scuole. L’Unione aveva formato una Commissione
per risolvere il problema. Questo problema pareva risolto, ma ora siamo nuovamente daccapo. Gli
insegnanti hanno ragione a lamentarsi quando vedono questa instabilità della popolazione scolastica.
Si dovrebbe istituire presso le scuole elementari italiane degli asili infantili dove si preparano i
bambini per la scuola, così, come esistono in lingua croata.
Ripeto poi le proposte da me fatte all’ Assemblea in merito alla pubblicazione di libri e di opuscoli
da smerciare in Italia per propagandare la nostra realtà socialista, in relazione poi alla raccolta di
materiale teatrale, musicale, ecc. di modo che la Casa editrice EDIT stampi a ciclostile diverse copie
da distribuire ai CIC che ne facessero richiesta per le loro attività.
Per quanto riguarda il problema del Teatro, precisamente del Dramma Italiano, penso che non
siano ancora mutate le condizioni per le quali è stato costituito, anzi, al contrario, dato il maggiore
sviluppo della minoranza è più che mai necessario. Bisogna tener solo in considerazione che il
Dramma deve avere un carattere regionale poiché la minoranza non risiede solamente a Fiume. Ma
questo dipende dalla questione finanziaria e l’unica soluzione sarebbe che il Dramma venisse
sovvenzionato dalla Repubblica e non pesasse esclusivamente sui bilanci della città di Fiume.
Prende la parola poi il compagno SCHACHERL il quale dice, rispondendo al compagno
Michelazzi, che è logico che nelle fabbriche non succedono e non si manifestano problemi di
intolleranza nazionale. Nelle fabbriche sono tutti d’accordo nella realizzazione dei diritti sociali. Ma
nell’ambiente culturale questi fatti se si verificano sono conseguenza logica, è più evidente. Di fatto
bisogna ammettere che ci sono elementi che hanno tendenze negative di eliminare le scuole della
minoranza. Logico ed ammissibile è che a molti non sono chiari i problemi delle scuole italiane, ad
esempio, anche a Zagabria ad una riunione della commissione scolastica della minoranza alcuni
compagni avevano detto di adottare l'insegnamento in lingua croata di alcune materie anche nelle
scuole italiane; ma una volta chiarita la questione sulla cosa non s’è discusso più. Di questi fatti invece
possono approfittarne alcuni elementi sciovinisti locali facendosi scudo con qualche dichiarazione
fatta da alcuni compagni del centro perché poco al corrente dei fatti.
Anch’io sono d’accordo con il compagno Borme che l’Unione deve interessarsi alla partecipa-
zione degli italiani alla vita sociale ma che d’altra parte non deve neanche trascurare questi fatti
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d’intolleranza nazionale. Noi dobbiamo smascherare gli elementi sciovinisti come pure quelli irre-
dentisti.
Ammetto però che fra gli insegnanti, specie quelli che non hanno fatto gli esami professionali
esiste la tendenza a pensare al loro futuro. Considerano una tragedia l’assimilazione della popolazione
scolastica italiana in quella croata. Io non la vedo invece così, sempre naturalmente tenendo conto
che questa assimilazione avvenga per vie naturali e non amministrative. La preoccupazione per il
futuro regna solo tra gli insegnanti mentre tra i professori no.
Il compagno MOSCARDA prendendo la parola critica 1’ Unione degli italiani che ha aspettato
tanto tempo dopo l'Assemblea prima di riunire il Comitato dell’Unione. Dice inoltre che questa
questione delle “correnti” doveva venir risolta prima e non attendere tanto tempo.
Alla recente Assemblea il compagno Spiljak ha, in poche parole, dato l’indirizzo d’attività
dell’Unione. Ha detto che l’ Unione deve preoccuparsi dell’elevamento culturale della minoranza,
della partecipazione degli italiani alla vita sociale, dello sviluppo dei rapporti con l’Italia. L’esposi-
zione fatta dal compagno Benussi non ha citato nulla di cosa è stato fatto dall’ Unione in questo senso.
Il compagno Michelazzi dice bene che dobbiamo tracciare una linea d'attività. Noi a Pola abbiamo
adottato le conclusioni dell’ Assemblea e si lavora in questo senso. All’infuori di un piccolo incidente
sorto per via della sede del CIC dove alcuni elementi hanno approfittato per lanciare la voce che si
vuole eliminare il CIC, tutto è andato per il meglio. L’attività è stata buona. La questione della sede
del CIC è così stato deciso, siccome a Pola non esiste una casa di cultura, di alzare di un piano l’attuale
casa in cui ha sede il CIC ed installarvi questa casa di cultura. Ma nessuno ha mai parlato che si vogli
far sloggiare il CIC.
Il compagno BORME riprende la parola e dice che l'osservazione fatta dal compagno Moscarda
in merito ai collegamenti con l’estero è buona. L’ Unione dovrebbe interessarsi in merito.
Afferma inoltre che quanto detto da Schacherl sulla questione che gli incidenti di intolleranza
nazionale succedono più nell’ambiente culturale che in quello operaio, è pienamente giusto. Nelle
fabbriche non c’è ragione che succedano simili cose.
Il compagno QUICCHI prende la parola e dice che l’attività del CIC di Pola va abbastanza bene.
Accenna però che il direttore dell’ Università popolare che ha sede nei locali del CIC s’è autoprocla-
mato il padrone dell’edificio. Tutti si rivolgono a lui per chiedere in prestito la sala per qualche
rappresentazione ed egli dispone di tutto. Questo ha portato a dei malcontenti fra i nostri compagni.
Ma queste sono piccole cose. In una riunione che avevamo tenuto pochi giorni fa con le maestre esse
si lamentano di incomprensione. Noi avevamo stabilito di organizzare per il I° Maggio uno spettacolo
per i bambini delle scuole italiane, ma i dirigenti delle scuole si sono opposti ed hanno detto perché
gli scolari italiani debbono essere più privilegiati.
Per quanto riguarda gli svincoli anchio sono del parere che questi che vanno via oggi sono operai
coscienti.
La fusione di tutte le scuole italiane ha portato a dei buoni risultati, solamente esiste un problema
per quanto riguarda le aule scolastiche per cui i bimbi sono costretti a giorni a venire a scuola al
pomeriggio ed altri al mattino.
Parla quindi il compagno JADREIJCIC il quale dice che per quanto riguarda le aule scolastiche il
problema non è solo per le classi italiane bensì anche per quelle croate. Per quanto riguarda poi il
direttore dell’ Università popolare è un elemento che è stato anche ultimamente richiamato all’ordine
dal Partito. Questi fatti che vengono riportati dovrebbero venir discussi anche altrimenti. Il più delle
volte succede che questi fatti vengono provocati più dagli italiani che dai croati. Per quanto riguarda
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 95
poi la rappresentazione per il I° Maggio che il CIC voleva organizzare. I ragazzi a scuola vivono
assieme ai croati, perché fare per loro delle rappresentazioni a parte?
Il compagno CUOMO accenna che nella riunione della Segreteria tenuta nel mese di gennaio si
aveva anche accennato a queste diversità di opinioni e pertanto si aveva concluso di discuterne in
merito anche all’odierna riunione. Relatore doveva essere il compagno Massarotto e ciò che è stato
esposto da Benussi non sono altro che opinioni personali che non hanno nulla a che vedere con
l’opinione della Segreteria. Io sono dell’opinione che è logico che l'Unione s’interessi sia di una
tendenza che dell’altra, ma penso invece che si voglia dare più importanza alla tendenza riguardante
i problemi di intolleranza nazionale che a quella di indirizzare gli italiani alla vita sociale ecc. Penso
che si cerchi di sviare i problemi della minoranza con scopi tendenziosi. Si cerca di criticare tutto e
di sminuire la partecipazione degli italiani alla vita sociale. Pochi sono oggi gli italiani che si elevano
politicamente ed ideologicamente. Qualcuno è che cerca di rompere l’unità fra gli italiani. Dall’ As-
semblea ad oggi, cosa abbiamo fatto per portare in atto le conclusioni? Niente. Si cerca solo di pescare
nel torbido i piccoli fatti e di creare con questi fatti dei problemi. Noi non dobbiamo erigersi come
difensori dell’italianità.
In merito al problema del Dramma italiano. Non si cerca di eliminare il Dramma bensì di
riorganizzarlo, che alcuni membri passino alla SACO “Fratellanza” e che lavorino in seno alla CIC.
Perché esigere dei privilegi solo perché siamo italiani. Il Dramma costa molto. Perché il nostro stato
deve pagare per tutto l’anno degli attori che danno in tutto 6 commedie. Poi c’è un altro problema,
perché il C. P. di Fiume deve sobbarcarsi tutte le spese del Dramma. Noi pensavamo di dare una parte
di questo danaro al CIC affinché non sia costretto a organizzare balli per vivere.
Il compagno BOGNA prende la parola e dice che non si può dire che l'Unione non ha fatto niente
dopo l'Assemblea. Il compagno Benussi è andato più volte sul terreno, gli altri membri della
Segreteria invece si sono poco recati sui posti a vedere come funzionano i CIC. È inutile qui stare a
ripetere qual è l'indirizzo d’attività dell’ Unione. Questo l’ Unione lo sa perché già tante volte s’è già
discusso in merito. Se esistono tendenze esse si verificano in basso ma no nell’Unione che sa la linea
da intraprendere.
I CIC spendono poco per l’elevamento culturale (biblioteche, ecc.) della minoranza. Basti citare
il caso del CIC di Fiume che nel corso del 1955 ha speso solo 5000 dinari per questo.
Il compagno BRUSSICH afferma che nel corso della discussione odierna ci siamo perduti in
polemiche. Noi oggi qui dobbiamo trovare o metodi di lavoro, si potrebbe discutere se il sistema di
lavoro e commissioni adottato dal Circolo di Pola è buono e se si potrebbe applicarlo anche negli altri
Circoli. Per quanto riguarda poi l’organizzazione della celebrazione per il I Maggio che avevamo
intenzione di organizzare per i bambini delle scuole italiane, penso che se si organizzano delle cose
che rientrano in seno delle nostre leggi tutto si può fare. Quando uno lavoro onestamente tutto è buono
quello che si fa.
Prende la parola il compagno ABRAMI il quale afferma che dalla discussione di oggi egli non è
per nulla riuscito ad intravedere le due tendenze a cui menziona il compagno Michelazzi. Sono
anch'io senz'altro del parere di non dare risalto a quei piccoli fatti di valore locale. D'altra parte sono
però d’accordo d’incanalare gli italiani nella vita sociale ma nello stesso tempo di educare gli italiani
nello spirito nazionale. Noi sappiamo che la linea dell’Unione è questa. Dobbiamo vedere se i CIC
seguono questa linea e non si vada avanti solo con l’organizzazione di balli e basta. Non è necessario
doppiare il lavoro del SSRN, ma ci sono delle località in cui bisogna fare anche questo. Ormai è chiaro
come che bisogna agire nelle scuole se si verificano dei problemi se gli alunni sono croati o italiani,
96 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
è chiaro che bisogna reagire immediatamente sul luogo. I CIC debbono interessarsi delle scuole, del
contenuto dell’insegnamento, il CIC deve essere di complemento al lavoro del SSRNIJ.
Il compagno KRAJCER del Comitato distrettuale di Pola porta i saluti alla presente riunione ed
augura un buon successo nel lavoro. Cosaeglipensa che l’ Unionedeve fare. In Jugoslavia il problema
nazionale è risolto. Nella nostra regione la situazione è tale che anche gli optanti non si sa bene se
sono italiani o croati. Gli uomini scappano oltre confine indipendentemente se sono italiani o croati
perché non comprendono la nostra vita e le nostre difficoltà e per conseguenza alla nostra questione
economica. Da noi si è fatto un grande passo in avanti con la costituzione dei consigli operai e questo
progresso è valido anche per la minoranza i cui membri oggi possono far parte di questi consigli
operai. Da noi non si guarda se nei consigli ci sono più italiani che croati, si guarda l’uomo che sia
bravo e dia buone garanzie. L’ Unione degli italiani non è solo necessaria per difendere i diritti della
minoranza, ma è necessario come una qualsiasi delle altre nostre organizzazioni.
Il compagno MICHELAZZI avanza le seguenti proposte: che l’ Unione si tenga informata di
quanti italiani fanno parte nei consigli operai e nella vita sociale in genere. Fare un’analisi di modo
che la prossima volta si possa discutere in modo esauriente. Poi in relazione ai rapporti con l’estero,
portare concretamente la cosa. In poche parole dare compiti più concreti alla Segreteria. Inoltre in
relazione alla scuola. Non conoscere solo i dati numerici ma anche come lavorano i Consigli scolastici
ecc. Conoscendo tutti questi dati si potrà più avere la possibilità di analizzare il lavoro degli italiani.
Prosegue il compagno JADREICIC dicendo che il metodo adottato dal CIC di Pola si è dimostrato
molto buono e che esso potrebbe venir adottato, dove ne esista la possibilità, anche negli altri CIC.
Il compagno MOSCARDA aggiunge che i CIC lavorino maggiormente con la gioventù per
preparare nuovi quadri dirigenti.
Prende la parola il compagno BENUSSI il quale dice che qualcuno vuol far credere che quanto
da lui esposto siano cose prettamente personali. Il compagno Benussi legge alcuni passi del verbale
dell’ultima riunione della Segreteria per far vedere che quanto da lui riportato è stato trattato
veramente dalla Segreteria. Afferma inoltre che non si può dire che l’ Unione non ha fatto nulla. Essa
ha sempre lavorato in linea con le conclusioni dell’ Assemblea. Il compagno Benussi afferma
categoricamente che non è vero che l'Unione si interessa esclusivamente dei piccoli problemi e
trascura i problemi principali. Che oggi si vuole accusare la Segreteria. Ma ognuno si prenda la
propria responsabilità come egli saprà rispondere per i propri atti.
A questo punto sorge un piccolo scambio di parole in cui i compagni affermano che nessuno ha
voluto accusare la Segreteria.
Il compagno BRUSSICH propone che all’odierna riunione si formi una Commissione che
stabilisca le tesi per un piano di lavoro da inviare a tutti i CIC.
In un primo tempo si fanno dei nomi per formare la Commissione, ma poi si conclude che le tesi
vengano preparate dalla Segreteria e che la Segreteria le invii ai CIC.
Si passa quindi al secondo punto dell’ordine del giorno.
La compagna ELDA legge una relazione che è allegata al presente verbale.
Dopo di ché ha inizio la discussione sui problemi della stampa.
Prende la parola il compagno QUICCHI il quale dice che a Pola esiste proprio un problema per
quanto riguarda la diffusione dei libri. Afferma inoltre che le maestre vorrebbero che il “Pioniere”
porti di più materiale per i ragazzi delle prime classi elementari. Manca il libro di aritmetica per la II
classe.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 97
Per la stampa propone che “Panorama” esca mensile con carta migliore e più pagine e che si
dedichi maggior spazio per le donne. Propone di organizzare a Pola una mostra del libro della EDIT
per poter vedere.
Il compagno SCHECHERL porta a conoscenza che Scuola Nuova non uscirà più e che al suo
posto si stamperanno a ciclostile dei sussidiari per gli insegnanti.
Il compagno GOBBO dice che a Pirano tra breve si aprirà una nuova tipografia così si migliorerà
il lavoro della EDIT.
La compagna ELDA dice che due o tre mesi fa la direttrice del Pioniere aveva tenuto una riunione
con tutte le maestre di Pola ma che a questa riunione non erano stati portati questi problemi.
Il compagno BORME dice che la EDIT dovrebbe raccogliere materiale musicale e filodramma-
tico da stampare a ciclostile e poi vendere ai CIC che ne fanno richiesta.
Propone inoltre che anche gli altri CIC organizzino la mostra del libro. Egli dice che subito dopo
Pola si potrebbe organizzare a Rovigno.
Il compagno BOGNA dice che la proposta di far uscire PANORAMA mensile non è buona. Con
questo la carta del giornale non migliorerebbe e si avrebbe un discapito invece di un miglioramento.
Il compagno GOBBO accenna alla possibilità della fusione tra la “VOCE” e “LA NOSTRA
LOTTA”. Dice che “LA NOSTRA LOTTA” in questo ultimo tempo è poco diffusa, si vendono circa
2000 copie. Poi anche c’è la questione che il distretto di Capodistria sovvenziona già la Radio con 15
milioni all’anno ed altri 5 per il suddetto giornale. Pensa invece che dando una parte di questi soldi
alla “VOCE” e facendola diffondere in quel territorio si avrebbe lo stesso risultato, mentre con i soldi
rimanenti sovvenzionare i CIC del territorio dando loro la possibilità di una maggiore attività.
Propone che si decida in merito nel corso dell’odierna riunione.
Ancor prima dell’intervento del compagno Gobbo il compagno Benussi porta a conoscenza il
Comitato che l'Unione ha organizzato delle riunioni a Pola, Fiume e Capodistria per discutere in
merito a queste consultazioni.
Il compagno MICHELAZZI dice che la proposta non è cattiva. Che attualmente la “VOCE”
riceve 15 milioni all’anno più i 5 della Nostralotta fanno 20 che il nostro stato deve sborsare, mentre
con solo 17 milioni la VOCE può benissimo uscire in sei pagine riportando materiale del territorio
dell’ex zona B. Le critiche e le proposte fateci in queste consultazioni sono state molto costruttive.
Per migliorare esteticamente il giornale non possiamo far nulla, ma come contenuto possiamo fare.
Il compagno BENUSSI propone che la Segreteria studi la cosa e poi la risolva.
In linea di principio tutti i presenti sono d’accordo per la fusione. Si propone che Michelazzi prenda
dei contatti con la Nostra lotta e presenti delle proposte concrete. Che tutto ciò si faccia entro questo mese.
Si passa quindi al terzo punto dell’ ordine del giorno.
Il compagno BENUSSI porta a conoscenza della questione della delegazione. Si conclude che la
Segreteria formi una Commissione e organizzi come e dove portare questi ospiti.
Per quanto riguarda il Festival radiofonico che la Segreteria prenda contatti con Radio Capodistria
e formi anche qui una commissione.
Si parla poi sulla questione del Dramma Italiano. Si dice che in nessun caso il Dramma deve venir
sciolto. Logico è che attualmente il Dramma pesa col suo bilancio su Fiume. Ma si dovrebbe trovare
una soluzione per ricevere la sovvenzione della repubblica e che il Dramma abbia un carattere
maggiormente regionale. Perché tramutarlo in filodrammatica non ci da alcuna garanzia.
Dopo di che la riunione ha termine.
98 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
COMMISSIONE IDEOLOGICO-POLITICA
La Commissione ideologico-politica s’è riunita il giorno 4-XI-1958.
Presenti: Benussi, Bradicic Elda, Fioranti Bruno. Assenti: Tomasin Plinio e Susanj Zdenka.
Sono state formate recentemente presso l’ Unione degli Italiani delle commissioni che dovranno
svolgere la loro attività in tutti i campi. Noi siamo stati nominati membri della Commissione
ideologico-politica e questo vuol dire che il nostro compito è quello di educare la nostra minoranza
attraverso i nostri Circoli. Dobbiamo lavorare politicamente più di quanto abbiamo fatto finora. Dalla
relazione presentata alla nostra IX Conferenza abbiamo constatato che esiste fra la nostra minoranza
un certo rilassamento per quanto riguarda l’attività politica, però dobbiamo ammettere che ciò si
verifica anche su scala nazionale. Certo è però che i nostri Circoli si sono dati maggiormente da fare
nel campo artistico-culturale che in quello politico. Questo rilasso dell’attività politica da parte dei
CIC ha portato di conseguenza ad una diminuzione di iscrizioni alla Lega dei comunisti di membri
appartenenti alla nostra minoranza. Se diamo uno sguardo al numero degli abitanti della nostra
minoranza e la percentuale degli appartenenti alla Lega possiamo chiaramente constatare che siamo
di gran lunga inferiori ai compagni jugoslavi.
Dobbiamo pure ammettere che la maggioranza dei dirigenti dei nostri Circoli sono oberati da altri
incarichi nelle altre organizzazioni politiche e sociali per cui non possono e non vogliono dedicarsi
al lavoro tra la minoranza. Se avessero un po’ di buona volontà troverebbero il tempo da dedicare alla
minoranza.
Esiste pure la tendenza in mezzo a qualche compagno che non sente di lavorare ed educare la
nostra minoranza dicendo che è superfluo lavorare con la minoranza a parte, cioè che tutti dovrebbero
imparare la lingua croata ecc. Possiamo ammettere che la nuova generazione può facilmente
apprendere la lingua croata al contatto con i compagni di lavoro, nelle cooperative, nelle fabbriche
ecc. Ma noi abbiamo centinaia e centinaia di vecchi agricoltori e operai che, anche se comprendono
qualcosa della lingua nazionale, ma nelle organizzazioni di massa dove vengono trattati problemi
politici ed economici essi non possono comprendere tutto il senso della discussione, e da questo
deriva che spesso i nostri compagni non sono attivi nelle organizzazioni di base.
Il lavoro politico nella nostra industria fra la nostra minoranza viene pure trascurato da parte di
certi dirigenti. I compagni della minoranza italiana hanno diminuito la loro attività. Per esempio le
riunioni di fabbrica si fanno dopo il lavoro ed a Fiume e Pola molti compagni per non perdere il treno
per rincasare non partecipano alla riunione e la loro attività è quindi minima. È quindi dovere dei CIC
in accordo con le cellule del terreno di attivizzare questi compagni nelle nostre varie organizzazioni
politiche e culturali.
Le conclusioni del VII Congresso non valgono esclusivamente per i compagni croati e sloveni,
ma anche per un più intenso lavoro politico e ideologico tra la nostra minoranza. Questo lavoro
specifico deve venir svolto dai compagni comunisti del Circolo Italiano di cultura.
Le constatazioni della nostra IX Assemblea sulla passivizzazione politica dei nostri connazionali
fanno ricadere la responsabilità sui comunisti italiani. Queste lacune devono venir eliminate entro il
più breve tempo possibile e questo sarà il compito della nostra Commissione.
I nostri circoli devono quindi interessarsi maggiormente delle scuole e dell'educazione che viene
data alla nuova generazione. Ed è proprio che nella scuola bisogna creare quella coscienza socialista
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 99
della nuova generazione. Inoltre poco abbiamo fatto per attivare il corpo insegnante nell’attività
politica. Dei 160-170 tra insegnanti e professori pochissimi fanno parte della Lega. In certe località
gli insegnanti sono isolati dal Circolo oppure essi stessi si tengono appartati dalle organizzazioni di
massa. Se qualcuno svolge qualche attività essa consiste nell’attività culturale, ma ben pochi sono
quelli che tengono conferenze politiche o su altri temi sociali. Nell’avvenire sarà necessario mobili-
tare in questo campo i compagni insegnanti.
Sarà pure necessario che la nostra Commissione si colleghi con i dirigenti delle organizzazioni
politiche nell’industria, affinché si tenga conto di quei lavoratori che hanno tutte le caratteristiche di
divenire dei buoni membri della Lega e che finora sono stati lasciati da parte.
In quanto alla stampa straniera che giunge nel nostro Paese, dobbiamo cercare di fare opera di
persuasione tra i nostri connazionali, consigliandoli di leggere la nostra stampa. Bisogna trovare il
modo di boicottare certa stampa scandalistica, romanzi fantastici ed altra letteratura gialla che
corrompe la coscienza della nostra gioventù.
Sulla nostra Commissione incombe un compito duro e difficile però noi siamo certi che con
tenacia e costanza ognuno di noi darà tutto di se stesso per portare a termine il suo impegno in breve
tempo la situazione esistente sarà migliorata.
Andrea Benussi
100 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
VERBALE DELLA RIUNIONE DELLA SEGRETERIA
DEL GIORNO 13-I- 1959
Presenti: Cuomo, Drog, Benussi, Glavina, Raunich, Gobbo, Abram, Moscarda, Bogna, Borme,
Michelazzi e il compagno Ante Soric. Assenti: Massarotto, Tomasin e Susanj.
Ordine del giorno:
1.Alcuni problemi del nostro lavoro futuro
2.Relazione della Commissione sulle scuole.
Il compagno Gobbo sottolinea che nella riunione odierna si dovranno prendere certe decisioni in
merito a nuove forme di lavoro, specie nel nostro campo editoriale. Afferma inoltre che la base di
questa riorganizzazione del lavoro non sta sulla questione finanziaria, per mancanza di mezzi ma per
una migliore e più buona applicazione dei fondi che vengono annualmente assegnati all'Unione.
Quindi le nuove forme di lavoro che sottoporremo oggi all’approvazione della Segreteria oggi sono
state ideate per un miglioramento generale del lavoro e per la diminuzione di alcune spese. Prima di
tutto s'è pensato di raggruppare VOCE, EDIT, Panorama, Pioniere e Unione in un unico Ente con
una unica amministrazione. Le sovvenzioni dovrebbero venir assegnate direttamente all’ Unione e
sarà essa a disporre completamente delle stesse. Anche il Dramma italiano dovrebbe essere sotto il
controllo diretto dell’Unione. Sarebbe veramente ancora da discutere sul ruolo del Dramma italiano
e se esso svolge la sua funzione come dovrebbe. Comunque queste sono cose che verranno discusse
più avanti e fintanto che il Dramma esiste esso dovrà dipendere dall’ Unione. Su questa base, in un
secondo tempo dovrà basarsi anche tutta l’attività pubblicistica. L'Unione italiana dovrà seguire
l’attività di tutti i poeti, scrittori, ecc. della minoranza.
Per svolgere questa plurilaterale attività l'Unione ha bisogno qui di una persona capace, di un
segretario tecnico che organizzi e si occupi di tutto, sempre in contatto con il segretario dell’ Unione.
Questo segretario tecnico dovrebbe essere il dirigente di questo nuovo Ente. Io penso che la persona
più idonea a svolgere questa funzione sia il compagno Giacomo Raunich.
Il compagno Benussi dice che risolvere il problema del Dramma italiano è una cosa molto
difficile. I fondi del Dramma vengono assorbiti dal Teatro. Egli pensa che il Dramma dovrebbe avere
una certa autonomia. Indi, legge il programma di lavoro del Dramma italiano presentato dal
compagno Ramous su richiesta della Segreteria dell’ Unione.
Il compagno GOBBO dice che nonostante più volte sia stato richiesto al compagno Ramous un
programma dettagliato d’attività nel quale siano specificate anche le spese, egli ha presentato oggi un
programma astratto dal quale non ci si può fare neanche la più pallida idea della situazione del
Dramma. Questo fatto è riprovevole in quanto si vede che il direttore del dramma italiano non è
approfondito sulle questioni della sua sezione.
Il compagno BORME sottolinea che prima di tutto la segreteria dovrebbe prendere una posizione
se il Dramma italiano deve o no esistere e poi appena in seguito stabilire la riorganizzazione del
Dramma.
Il compagno SORIC, afferma che finora il Dramma italiano non ha svolto la funzione che avrebbe
dovuto svolgere e che se esso continuerà la sua attività così come finora; una migliore soluzione
sarebbe quella di assegnare la stessa somma che ora viene assegnare al Dramma alle varie sezioni
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 101
filodrammatiche delle Società artistico-culturali della minoranza. Il profitto ne sarebbe maggiore.
Anche il compagno CUOMO è d’accordo nel dire che l’ Unione dovrebbe prendere una volta per
sempre una posizione nei confronti del Dramma italiano.
Il compagno SORIC precisa che c’è una grande differenza tra le altre minoranze in Jugoslavia e
la nostra. Mentre per le altre vengono assegnati circa 7-8 milioni di dinari all’ anno, la nostra nel 1959
ha richiesto 85.000.000. Dice inoltre che egli s’è approfondito sullo studio delle minoranze nel mondo
e che in nessun altro Paese esistono delle minoranze così largamente sovvenzionate dallo Stato.
Il compagno GOBBO e ABRAM obiettano qualche argomento.
Il compagno GLAVINA dice che bisogna prendere delle conclusioni in merito al nuovo indirizzo
di attività dell’ Unione e fa le seguenti proposte:
1.Tutti i mezzi finanziari vengano assegnati all’ Unione che li amministrerà;
2.Formazione di un ente editoriale dell’ Unione su base sociale che si occupi dell’attività editoriale
anche di quella amministrativa. Entro questo mese fare lo statuto di questo nuovo ente e legalizzarlo.
Che il compagno Raunich prepari lo statuto assieme ai dirigenti della VOCE, EDIT, Pioniere.
Preparare anche il nuovo bilancio e tutto questo molto in fretta.
3.Per quanto riguarda il dramma italiano penso che esso occorre solo se svolge la sua attività in
mezzo a tutta la nostra minoranza dell’Istria, altrimenti non sarebbe necessario. L’ Unione dovrebbe
prendere in mano questo problema, stipulare dei contratti d’affari con il teatro Ivan Zajc e vedere
come stanno le cose in generale.
4.AIl’EDIT togliere tutti i libri di letteratura. Essa dovrebbe occuparsi esclusivamente di libri
scolastici.
S.AI PIONIERE togliere la pagina a colori.
6.II PANORAMA da 36 pagine venga portato a 24.
7.Per la VOCE esiste il problema delle 6 o 4 pagine.
Anche il compagno GOBBO è d’accordo di fare un contratto con il Teatro ed è certo che questo
porterà a dei risparmi.
Il compagno ABRAM dice che se c’è il problema del risparmio non sia però il caso di restringere
l’attività. Egli non è d’accordo con la riduzione delle pagine del Panorama e di ridurre la VOCE a 4
pagine. Che questo nuovo ente veda di risparmiare e di ridurre la VOCE a4 pagine. Che questo nuovo
ente veda di risparmiare e di non sbollire. Dobbiamo essere sinceri che quello che abbiamo non è
molto e non sarebbe il caso di ridurlo ancora di più. Per quanto riguarda il Dramma sono d’accordo
che esso esista ma che però svolga la sua funzione tra la minoranza.
Il compagno RAUNICH afferma che l’importo richiesto quest'anno è veramente alto. Mentre da
una parte dobbiamo ridurre lo spreco, dall’altra dobbiamo anche ridurre qualcosa. Penso che per
quanto riguarda il Pioniere, levando la copertina a colori non perda molto. Una bella fotografia
potrebbe fare al caso. Con questa piccola riduzione si avrebbe già un risparmio di 120.000 dinari per
numero. Per quanto riguarda la VOCE se in 6 o 4 pagine sono del parere che la minoranza non
perderebbe niente se come prima si stampasse la pagina istriana e quella fiumana; cioè un determinato
numero di copie esca con la pagina fiumana e le altre, quelle che vanno in Istria con le pagine istriane.
Così praticamente la VOCE uscirebbe ogni giorno in 5 pagine.
Per quanto riguarda Panorama sarei del parere che invece di farlo uscire quindicinalmente con 24
pagine, di farlo diventare mensile con 48 pagine.
Per quanto riguarda la EDIT sono del parere che stampi esclusivamente i libri scolastici, che
importi dall’Italia libri di letteratura (e con questa attività invece di perdere guadagni) ed in più che
102 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
stampi qualche libro politico o qualche altro libro molto importante per il quale si farà una richiesta
separata della sovvenzione.
Il compagno BOGNA dice di essere d’accordo su quanto detto dal compagno Raunich solo che
è dell’opinione che Panorama piuttosto di uscire in 24 pagine esca una volta al mese in 48. Per quanto
riguarda la VOCE non è d’accordo che vada in 4 pagine.
Il compagno SORIC esprime il suo parere secondo il quale la VOCE dovrebbe diventare un
giornale settimanale tipo “Globus”.
Il compagno GOBBO ribatte che questa decisione non sarebbe opportuna e che la minoranza
perderebbe molto. Indi invita singolarmente ogni membro della Segreteria a dire il suo parere in merito.
Il compagno MICHELAZZI dice che se la VOCE va in 4 pagine in poco tempo la tiratura
scenderebbe considerevolmente tanto da compromettere l’uscita del giornale. Sarebbe quindi del
parere che oggi si decida o per la VOCE in 6 pagine o addirittura della VOCE settimanale. Per lui
altre alternative non ci sarebbero.
Il compagno MOSCARDA dice che da quando la VOCE è in 6 pagine i compagni della base sono
molto contenti. Quindi sostiene per le 6 pagine.
Il compagno BORME dice che passa una bella differenza tra un quotidiano e un settimanale, sono
giornali che hanno una diversa funzione. Mentre il quotidiano è un informatore politico un settima-
nale diverrebbe un surrogato di Panorama. Quindi egli è per la tesi o 6 pagine o piuttosto niente. Per
quanto riguarda la EDIT è d’accordo, invece per la riduzione di Panorama sarebbe ancora da
discutere.
Il compagno RAUNICH afferma anch'egli che un settimanale diverrebbe un secondo Panorama.
Mentre un quotidiano riporta i problemi tempestivi, segue gradatamente lo svolgimento degli stessi,
un settimanale deve limitarsi a trattare largamente senza seguire lo svolgimento di questi problemi.
Anch’egli non è d’accordo per il settimanale.
Il compagno GLAVINA non è d’accordo per il settimanale anche perché esso richiederebbe
personale maggiormente qualificato, ciò che è impossibile da noi. Per quanto concerne Panorama è
d’accordo per la sua uscita mensile in 48 pagine.
Il compagno BENUSSI è anch’egli d’accordo per le 6 pagine affermando che da quando la
VOCE è in 6 pagine ha ottenuto maggiori successi tra i lettori. Si dovrebbe però migliorare ancora,
istituire la rubrica peri contadini. Per quanto riguarda Panorama è d’accordo per mensile e 48 pagine.
Il compagno DROG è invece d’accordo con il compagno Soric per quanto riguarda di fare la
VOCE settimanale. Dice che il giornale non è tanto bello. Oppure se la VOCE restaa 6 pagine bisogna
migliorarla.
Il compagno CUOMO dice che per il momento non sarebbe il caso di discutere per la VOCE
settimanale. Siamo stati noi ad approvare le 6 pagine sebbene quella volta le condizioni erano anche
diverse (periodo della venuta in Jugoslavia di Alicata e probabilità di vendita del giornale anche in
Italia). Comunque sono d’accordo con Drog che bisogna migliorare il contenuto del giornale.
Per quanto riguarda Panorama si dovrebbe maggiormente rafforzarlo e non diminuirlo in quanto
penso che nel futuro egli resterà l’unico giornale della minoranza.
Il compagno SORIC dice che non dobbiamo farci l’illusione che i nostri giornali, come in genere
i giornali e le riviste di tutta la Jugoslavia superino tecnicamente quelli italiani. La nostra industria
grafica è ben lungi dal raggiungere un livello pari a quella italiana; noi però dobbiamo distinguerci
per il contenuto. La VOCE non ha niente di originale nonostante i suoi corrispondenti (grandemania).
La maggior parte del materiale riportato è tutto traduzione.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 103
Il compagno ABRAM dice che eliminando la VOCE si eliminerebbe l’unico giornale socialista
in lingua italiana. Egli non si fa illusioni sulla diffusione del giornale in Italia ma è significativo il
fatto che certi dirigenti del Partito comunista italiano del goriziano si fanno mandare la VOCE di
nascosto.
Il compagno RAUNICH dice che realmente in questo ultimo tempo il giornale è molto migliorato
anche dal lato linguistico. Solo che bisogna dare il ritmo.
Si conclude quindi:
1.La formazione dell’ente con amministrazione unificata
2.Direttore dell’ente il compagno Giacomo Raunich
3.Il PIONIERE senza la copertina a colori
4.Panorama mensile a 48 pagine
S.Per quanto riguarda la VOCE che il problema resti ancora vivo. Si preparino i bilanci con due
varianti per 6 e per 4 pagine. Nonché in seguito si faccia un “anketa” (sondaggio, nda) tra la
minoranza sull’opportunità o meno del quotidiano o settimanale.
6.Che la EDIT pubblichi esclusivamente libri di testo, qualche opuscolo politico, libri economi-
camente indipendenti e importanti dall’Italia e pubblicazioni.
7.Sì faccia quindi lo Statuto dell’Ente, si nomini il comitato direttivo e il Consiglio editoriale del
quale dovrebbero far parte rappresentanti di tutti i tre distretti e dell’ Unione.
8.Che i compagni Cuomo, Benussi e Glavina, assieme al compagno Raunich concretizzino
quanto di cui sopra (formazione dell’Ente, liquidazione degli attuali enti, ecc.) tenendo conto il lato
umano della faccenda, nel caso dei licenziamenti.
9.Non appena tutto questo sarà pronto (possibilmente entro la fine di questo mese ed al massimo
subito ai primi giorni di febbraio), indire la riunione del Comitato dell’ Unione. Il compagno Glavina
stabilirà la data precisa.
10.Per quanto riguarda il bilancio per il 1959 orientarci su quello che abbiamo ricevuto nel 1958
calcolando a parte il deficit di questi ultimi anni.
11.Si conclude che le sovvenzioni vengano assegnate all’ Unione dalla Repubblica di Croazia e
Slovenia in proporzione al numero degli abitanti.
12.Per quanto concerne il Dramma italiano che il direttore dello stesso prepari un programma
dettagliato e rispettivo bilancio. Si conclude che esso svolga la sua attività sotto il controllo e
l’amministrazione dell’Unione.
13.Alla riunione del Comitato trattare gli stessi punti dell’ordine del giorno della riunione
odierna.
Si passa quindi a trattare del problema della trasmissione in lingua italiana di Radio Fiume. Si
dice che essa è sotto ogni critica. Si conclude che il compagno Abram Mario di Radio Capodistria
s’incarichi di vedere se si potrebbe fare qualcosa di meglio, e che alla prossima riunione del Comitato
si sappia dire qualcosa in merito.
Dato che la riunione odierna s'è protratta fino a tardi, il punto dell’ordine del giorno sulle scuole
verrà svolto alla prossima riunione del Comitato.
A proposito dei problemi scolastici il compagno Soric sottolinea che essi devono venir risolti dai
vari Distretti e che non succeda come è avvenuto recentemente che il compagno Schacherl si rechi a
Zagabria per risolvere certi problemi mentre i compagni del distretto di Pola avevano già preceden-
temente risolto gli stessi.
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Il compagno Borme sottolinea però che per risolvere certi problemi specifici ci vuole un centro
presso l'Unione che consigli; ad esempio sui problemi dei quadri, del centro pedagogico, ecc. Il
distretto risolverà i problemi che riguardano le scuole del suo territorio e basta. Ci deve essere un
centro che coordini l’attività di tutte le scuole della minoranza.
Il compagno Soric dice che il centro deve avere un carattere consultivo che per risolvere ogni
problema si rivolga alle autorità competenti.
Il compagno Gobbo mette al corrente la Segreteria di essere stato informato dei due Comitati
distrettuali della Lega che il numero dei nostri connazionali appartenenti alla Lega va sempre più
diminuendo. Si conclude che gli attivi della Lega esistenti in seno ai Circoli e alle scuole dovrebbero
proporre per accogliere nella Lega quei compagni che svolgono la loro attività in seno a queste
istituzioni della minoranza, e che sono meritevoli di un tale riconoscimento.
Dopo di che la riunione ha termine.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 105
VERBALE DELLA RIUNIONE DELLA SEGRETERIA
TENUTA A POLA IL 7-III-1959
Presenti: Gobbo, Raunich, Benussi, Cuomo, Dessardo, Moscarda, Abram Mario, Abram Apollo-
nio, Karlo Mrazovic e Ante Soric da Zagabria, Ljubej da Lubiana, Jurcan del Komitet distrettuale di
Pola, un compagno del Komitet distrettuale di Capodistria e i compagni Crnobori e Kogoj Danica
rispettivamente del Consiglio per la cultura dei distretti di Pola e di Capodistria.
Il compagno Gobbo apre la riunione accennando brevemente allo scopo della stessa che non
sarebbe altro che una riunione preparatoria all'Assemblea straordinaria dell’Unione indetta per
l’indomani mattina che dovrà trattare i problemi editoriali della minoranza. Passa quindi la parola al
compagno Raunich che è stato incaricato dall’Unione a preparare un progetto di riorganizzazione
dell’attività editoriale.
Il compagno Raunich espone il suo progetto che in praticaè stato accettato precedentemente dalla
Segreteria dell’ Unione. Allo scopo di ridurre le spese e quindi la richiesta di bilancio sono state prese
le seguenti decisioni: di liquidare le aziende oggi esistenti e cioè la “VOCE” e la “EDIT” e formare
assieme all’ Unione un Ente unico con un’unica amministrazione. Di ridurre le pagine della rivista
“Panorama” da 36 a 24, di stampare la copertina del giornalino “Il Pioniere” non più a colori ma solo
in bianco e nero. Resta l’alternativa per “La voce del popolo” se in 6 o 4 pagine, cosa che dovrebbe
venir risolta oggi. Per ogni evenienza abbiamo preparato i bilanci con le due alternative. Se la VOCE
esce in 4 pagine occorrono 1 6.500.000. — se in 6=22.425.000.- din. Panorama con la riduzione otterrà
3.000.000.- di risparmio e Il Pioniere 1.500.000.- La Casa editrice EDIT verrebbe completamente
liquidata ed anche qui verrebbero ridotti altri 5 milioni. Si sopperirebbe alla liquidazione dell’EDIT
con l’importazione dall’Italia di libri per la minoranza. Questo nuovo Ente però dovrebbe preoccu-
parsi della stampa di libri scolastici per le scuole della minoranza.
Esiste il problema scottante del deficit della “VOCE” di 12.000.000.- di dinari. La Tipografia ha
denunciato la VOCE al Visi privredni Sud di Zagabria (Tribunale economico superiore, nda) e
quest’ultimo ha già inviato la disdetta di pagamento. Causa questo non si può fare la fusione perché
l’ Unione dovrebbe addossarsi anche i debiti per cui di conseguenza verrebbe bloccato anche il conto
corrente dell’Unione.
Prende quindi la parola il compagno Mrazovia il quale dice che il problema non sta nel dinaro
ma bensì nel suo impiego razionale e quanto più utile. Il fine principale della minoranza italiana
dev'essere l’edificazione del socialismo alla stregua degli altri uomini che vivono in Jugoslavia.
Compito dell’Unione e quello di attivizzare tutti gli italiani e per far di loro degli attivisti nel senso
di come detto più sopra deve cioè cercare che questi italiani partecipino attivamente nei Consigli
operai, nei consigli dei produttori, nelle comuni, ecc. e che diano il loro contributo alla costruzione
del socialismo. Nessuno in Jugoslavia vuole ostacolare l’attività degli italiani svolta nel senso
nazionale; anch'essi hanno i loro diritti, il diritto di sviluppare la loro cultura nazionale e le loro
tradizioni, e questi diritti non devono per nessuna ragione venir contrastati. Compito dell’ Unione è
quello di badare che gli italiani partecipino attivamente in tutte le organizzazioni sia del potere che
politiche e non allontanare gli italiani da queste organizzazioni per fare un'attività a parte. Non è il
caso di formare un piccolo stato in seno allo stato (mala drzava na drzavi, sic!). Lasciamo ai fori
politici i compiti politici e noi aiutiamoli per quanto concerne la minoranza, ma principalmente
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occupiamoci della nostra attività culturale. Il compagno Mrazovic dice di essere del parere che tutti
i giornali come pure l’attività editoriale in genere della minoranza passi sotto il diretto controllo
dell’ Unione socialista. In questo modo la minoranza goderà di maggiori utili. Come il Comitato
distrettuale si occupa del quotidiano “Novi List’ perché non avrebbe da occuparsi anche per la stampa
della minoranza italiana?
Dall'altra parte egli dice di non essere d’accordo che per risparmiare si debba ridurre delle pagine;
perché non ridurre invece altre spese e lasciare i giornali come stanno; per esempio la questione dei
giornalisti. Egli pensa che tutti quei giornalisti impiegati alla VOCE è impossibile lavorino 8 ore.
Inoltre dice che sarebbe molto da discutere sulla qualità del giornale. Perché invece non migliorare il
giornale e dare alla minoranza di più, fare in modo che questi milioni vengano assegnati, vengano
sfruttati al massimo e rendano di più. Per quanto riguarda il Dramma Italiano è del parere che quei
10 milioni assegnati quest'anno sarebbero stati molto più utili se assegnati a vari gruppi dilettantistici
della minoranza; ne goderebbero 1000 persone e non 10 come ora.
Il compagno Moscarda Marcello di Pola dice come la minoranza del distretto di Pola trovi piena
comprensione nell’autorità per risolvere certi problemi e come si lavori di comune accordo. Per
quanto riguarda “La voce del popolo” dice che il giornale è necessario per la minoranza e che non
sarebbe il caso di farlo settimanale, come si accennava in una riunione precedente. Per quanto
concerne poi il Dramma italiano dice che sarebbe una cosa ideale assegnare ai gruppi dilettantistici
dei vari Circoli delle somme di denaro affinché possano svolgere un’attività più proficua. Noi a Pola
abbiamo una sezione dilettantistica ma non abbiamo un insegnante per la stessa. Gli attori del
Dramma italiano potrebbero benissimo prestarsi per insegnare a questi gruppi dilettantistici.
Il compagno Dessardo dice che alla VOCE sono state fatte delle riduzioni di personale e che dopo
un attento esame le cifre richieste sono concrete, meno di così non si può. Egli vorrebbe inoltre
precisare che la tiratura della VOCE non è affatto piccola come si vorrebbe far intendere. Riporta i
seguenti dati e cioè che nel distretto di Fiume viene venduta una copia del giornale su ogni 12 abitanti.
Dice che la media è quasi come la vendita della ‘“Borba” che si vende in proporzioni | ogni 11 abitanti.
Il compagno Mrazovic dice che questo non è un paragone da fare. Che si sommino le tirature di
tutti i giornali che si vendono nel distretto di Fiume e poi si vedrà che la differenza è grande. Il
problema è che bisogna migliorare il giornale e ditfonderlo di più. Non per questo occorre fare un
giornale umoristico affinché la tiratura cresca, ma mantenga sempre una certa serietà.
Il compagno Abram Mario di Capodistria dice di non essere del parere che l’attività editoriale
della minoranza passi sotto il diretto controllo dell’Unione socialista. Egli pensa che l’ Unione degli
italiani sia l’unica che possa lavorare con la minoranza e che anzi sarebbe da criticare che l'Unione
lavora troppo poco politicamente.
Il compagno Mrazovic dice che la minoranza non deve vedere solo l'Unione ma bensì anche i
“Zzbor biraca” (consiglio degli elettori, nda) e le altre organizzazioni.
Il compagno Gobbo si sofferma a dire che l'Unione degli Italiani ancora prima dell’ Assemblea
di Isola sapeva che la stampa della minoranza non andava tanto bene e che c'erano problemi da
risolvere, come pure c’erano problemi da risolvere riguardanti le scuole. Ora, almeno per quel che
riguarda le scuole sembra che le cose vadano bene. Eravamo anche rimasti d'accordo che l’ Unione
non avrebbe dovuto risolvere direttamente i vari problemi ma consigliare e coordinare. E in questo
senso s'è lavorato finora. Per quanto concerne l’ Unione se è un organizzazione politica o culturale
penso che essa è parte integrante del fronte, ha lo stesso programma ed è di conseguenza un'attività
complementare del Fronte. Per svolgere questaattività deve però avere degli strumenti e uno di questi
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 107
è il giornale. Dato che Fronte e Unione sono una cosa sola sarebbe anche indifferente se i giornali
dipendessero dall’una o dall’altra organizzazione, ma perché ora cambiare quando l’Unione è in
grado di adempiere a questo compito. L'Unione ha formato una Commissione per la stampa della
quale fanno parte anche compagni degli organi repubblicani e distrettuali.
Per quanto concerne il Dramma italiano non siamo noi soli che dobbiamo risolvere questo
problema.
Per quanto riguarda il problema finanziario, la repubblica slovena per tramite dei compagni
Vilfan e Ljubej assicura di partecipare al finanziamento della nostra stampa in proporzione al numero
degli abitanti.
Riprende la parola il compagno Mrazovic e parla a proposito del Dramma italiano. Se il Dramma
avesse lavorato altrimenti sarebbe Stato forse anche necessario. Ad esempio, qui a Pola mancano
insegnanti per il gruppo filodrammatico; perché i componenti del Dramma non potrebbero prendersi
l’incarico di guidare gruppi filodrammatici, di prestar loro la loro opera di artisti?
È giusto che i Circoli italiani di cultura organizzino nella loro sede delle conferenze politiche o
svolgano altro lavoro ideologico tra la minoranza nella lingua nazionale; i problemi verranno appresi
con più facilità e si avrà una partecipazione alle discussioni più proficua. Però questa attività politica
e queste conferenze dovrebbero venir organizzate su iniziativa dell’Unione socialista perché questa
sarebbe un’attività dell’ Unione socialista svolta tra compagni che parlano la lingua italiana.
Per quanto concerne i giornali è del parere che dipendano dall’ Unione socialista distrettuale o
repubblicana. Non può essere come finora che 15 persone decidevano su tutto senza il suggerimento
di alcuno.
Parla quindi il compagno Abram Apollonio di Capodistria.
Egli dice di far parte della Segreteria dell’ Unione già da 10 anni e che da sempre è stato detto che
l’Unione fa parte integrante dell’Unione socialista. La minoranza è attiva nella costruzione del
socialismo e non vedo e non ho mai visto che l’ Unione degli italiani sia un’organizzazione a parte.
Constato invece che l’unico problema esistente è rappresentato dalla suddivisione della minoranza in
3 distretti e che in certi casi, per la soluzione di determinati problemi riguardanti la minoranza esiste
poca coordinazione. L’ Unione degli italiani ha cercato finora di coordinare e unificare l’attività della
minoranza tra i tre distretti.
L’ Unione degli Italiani ha avuto sempre in mano la questione della stampa. Il compagno Dessardo
è membro del Comitato dell’Unione come lo era prima anche il compagno Michelazzi; per cui il
problema della stampa era sempre all’ordine del giorno. È giusto che il denaro che viene impiegato
per il giornale deve dare il suo controvalore cioè essere utile alla minoranza; sono d’accordo che il
giornale ha delle manchevolezze, che abbiamo fatto poca azione di propaganda e così via, ma sono
anche del parere che l’ Unione degli italiani sia la più idonea ad occuparsi dei giornali della minoranza
anche per il fatto della coordinazione tra i tre distretti come accennavo prima. Del resto il giornale
anche oggi porta la testata con su scritto “organo dell’U.S.P.L.”
Per quanto riguarda il Dramma italiano non è che voglia difenderlo poiché qui ci sono numerose
manchevolezze, ma assegnando al Dramma ancora 1.500.000 dinari per le turnée in Istria gli attori
sarebbero impegnati con una settantina di rappresentazioni annue delle quali potrebbero godere gli
italiani di tutte le località. Assegnando invece soltanto 10.000.000 di dinari gli attori farebbero 16
rappresentazioni esclusivamente a Fiume.
Prende la parola il compagno CUOMO il quale dice che negli ultimi mesi l'Unione s’è occupata
di cose che non sono di sua competenza ma che devono venir risolte altrove. Dice che per quanto
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riguarda il lavoro di coordinazione tra i tre distretti esiste un organo repubblicano che può fare ciò.
Perché 1’ Unione degli italiani deve addossarsi dei compiti quando ci sono altri organi che hanno il
compito di risolverli. Per quanto concerne il Dramma discutiamo già da tanto tempo e siamo
d’accordo che così com'è ora non vale. Dobbiamo prendere una volta per sempre una decisione. Io
sono del parere che i mezzi finanziari assegnati al Dramma sarebbero molto più utili se assegnati alle
varie Società, come ad esempio la “Fratellanza”.
Il compagno Benussi Andrea dice di essere d’accordo che se il Dramma debba esistere solo a
Fiume è meglio non esista, ma se si assicurassero i mezzi per le turnee allora si avrebbe raggiunto un
bel risultato perché il Dramma verrebbe goduto da tutta la minoranza. E poi il Distretto di Fiume
assegna al teatro 150.000.000.- di dinari; a Fiume esistono 7000 italiani e il distretto potrebbe
benissimo aiutare anche il Dramma italiano con una piccolissima sovvenzione. Gli italiani del
distretto di Fiume partecipano al reddito nazionale con la cifra di 4 miliardi di dinari. In tutta la nostra
regione esistono 600 comunisti italiani e tutti sono attivi. Se il numero dei comunisti va diminuendo
la causa è nostra. Poco si lavora tra la minoranza perché si pensa che il lavoro che si svolge fra la
minoranza non è tanto importante. Ci sono nostri compagni che non frequentano il Circolo perché
oberati di lavoro in altre attività. In una località ci sono 70 comunisti attivissimi in altri campi ma che
non sono capaci di mantenere in piedi il Circolo italiano di cultura in questa stessa località si vendono
S copie de “La voce del popolo”. Questo è il non voler lavorare proprio tra la minoranza.
Il compagno Drog dice che non è il caso che un compagno debba frequentare la sede del CIC per
essere attivo tra la minoranza, ma che può benissimo fare dell’attività tra la minoranza altrove. Per
quanto riguarda “La voce del popolo” secondo egli è incompleta e non riporta tutto. Egli dice di non
comperare la VOCE perché in essa non trova quello di cui sente il bisogno. In relazione al Dramma
italiano è del parere che è più utile la SACO “Fratellanza” perché lavora tra la gente, mentre il
Dramma no.
Prende la parola il compagno Raunic il quale dice che o il Fronte o l’ Unione qualcuno deve pur
amministrare i 40 milioni che ci sono stati assegnati. Egli pensa che la miglior soluzione sarebbe
quella di rendere operativa la Commissione per la stampa come si aveva precedentemente previsto,
composta da compagni dell’Unione, e dei 3 distretti. In relazione al Dramma italiano dice che se si
ha intenzione di prendere qualche misura bisogna prenderla subito in quanto nel mese di aprile
vengono rinnovati tutti i contratti con gli attori, contratti che varranno per 2 anni.
Il compagno Ljubej da Lubiana dice che gli sembra che esistano due tendenze, una che difenda
l’attività della minoranza e l’altra che invece l’attacchi. Bisogna tener sempre presente che il lavoro
tra la minoranza è da considerarsi uguale a quello di qualsiasi altra attività.
Per quanto concerne il Dramma fare in modo che funzioni bene.
Che i giornali rimangano così come finora, solo è del parere che passino sotto il diretto controllo
dell’Unione socialista perché la politica deve dipendere dalle nostre organizzazioni politiche.
L’Unione degli Italiani abbia pure la propria Commissione per la stampa, servirà d’aiuto.
L’ Unione degli Italiani dovrà cambiare la sua intestazione da “organizzazione politico-culturale”
a “organizzazione artistico-culturale” perché in Jugoslavia non esistono altre organizzazioni politiche
all’infuori della Lega dei comunisti e dell’ Unione socialista.
La Slovenia parteciperà proporzionalmente al finanziamento delle spese. Per quest'anno ha
previsto di assegnare 3.500.000.- dinari.
Il compagno Ante Soric dice che bisogna tener presente di aver da fare con cittadini jugoslavi che
parlano l’italiano, cittadini jugoslavi che devono avere lo stesso trattamento di tutti gli altri cittadini
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 109
della Jugoslavia. Pertanto per risolvere i problemi delle scuole ci sono le Commissioni presso i
Distretti e le Repubbliche. I Circoli italiani di cultura debbono dipendere dai Consigli per la cultura
comunali, rispettivamente distrettuali e solo così potranno partecipare incorporati con gli altri
compagni all’attività generale. Nello Statuto dell’Unione il paragrafo riguardante i Circoli è male
impostato. Qui si parla solo in senso verticale e cioè che i Circoli devono essere collegati all’ Unione
ecc. ma non si accenna minimamente all’allacciamento con le altre organizzazioni.
Conclusioni: |. Rivedere completamente lo Statuto dell’ Unione.
2. Che il quotidiano porti la seguente testata:
“LAVOCEDELPOPOLO”
ORGANO DELL'UNIONE SOCIALISTA DEL POPOLO LAVORATORE DELLA JUGOSLAVIA PERLA
MINORANZA ITALIANA DEI DISTRETTI DI POLA, FIUME E KOPAR
3. Formare un consiglio editoriale composto da compagni rappresentanti i 3 distretti
e l'Unione. Formare un Comitato interredazionale.
110 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
VERBALE
RIUNIONE DELLA SEGRETERIA DELL’UNIONE
29-V- 1961
Presenti: Gobbo, Glavina, Michelazzi, Benussi, Abrami A., Abram M., Tomasin, Borme, Rau-
nich, Susan].
Ordine del giorno:
1.Esposizione sulla riunione interdistrettuale per i problemi della minoranza.
2.Statuto dell’ Unione
3.Rassegna
4.Varie
e)Centenario dell’unificazione italiana
f)Delegazione dell’ ANPI (Vidotto)
g)Ramous
al primo punto dell’ordine del giorno il compagno Michelazzi espone sugli argomenti trattati alla
riunione interdistrettuale per i problemi riguardanti i libri scolastici e la EDIT.
Per quanto riguarda i libri di testo sono state mosse delle critiche secondo le quali in certi punti
si parla della nazione italiana come di una nazione nemica e si pongono sotto falsa luce avvenimenti
storici, questo specie nei libri di storia. È stato deciso di formare una Commissione che entro la fine
di luglio esamini i libri di testo in parola e indichi alla EDIT quali sono da scartare.
In base alla riforma scolastica, quasi tutti i testi devono venir sostituiti. Nella compilazione dei
nuovi testi bisogna porre in risalto le cose accomunano l’Italia e la Jugoslavia. Si decide che se queste
modifiche valgono per le scuole della minoranza altrettanto devono valere anche per quelle della
maggioranza. Quindi è necessario accordarci precedentemente con l’autore di ogni libro. I libri della
minoranza vengono tradotti alla lettera da quelli croati.
L’Unione propone una Commissione che si incarichi di ciò. Composta: da un rappresentante
repubblicano della Croazia (in questo caso Grubisité), da un rappresentante della Slovenia, da un
rappresentante di ogni Zavod za Skolstvo (Istituto per l'Istruzione, nda)dei tre distretti, dall’intera
nostra Commissione scolastica più i compagni Zekar e Agostini.
Per quanto concerne il compendio di storia italiana per le scuole della minoranza sarebbe il caso
di farcelo scrivere da fuori. Questa è una cosa molto difficile e seria.
Il compagno Michelazzi informa inoltre dell’intenzione della EDIT di comperare una macchina
per stampare libri di modo che una buona parte dei libri scolastici potrebbero venir stampati con
maggiore sollecitudine.
Informa inoltre del nuovo ruolo e funzione della EDIT e precisamente che è stato accettato, anche
da parte di chi ci dà la sovvenzione, il principio di commercializzazione della EDIT. Sono stati
assegnati in questi giorni alla EDIT 8000 dollari per l’acquisto di libri La EDIT ha ricevuto
l’autorizzazione per l'importazione di giornali. (Accenna ai contrasti con la Jugoslavenska Knjiga).
Per quanto concerne lo Statuto dell’ Unione il compagno Gobbo accenna che nella compilazione
del nuovo Statuto si dovrebbero elaborare meglio certi concetti che siano più adeguati allo stato di
sviluppo attuale. Dice che nella compilazione si dovrà tener conto anche del linguaggio che deve
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 11l
essere aggiornato. Dal nuovo Statuto deve trasparire che l’ Unione è una organizzazione che prende
iniziative da sola e non aspetta direttive; deve far vedere che è una organizzazione che comprende la
più larga cerchia di simpatizzanti.
Oltre a quello che l'Unione ha fatto e sta facendo finora, essa ha raggiunto attualmente una
maturità per compiere anche una funzione esterna. Non sarà certamente una esportatrice di politica,
ma ha ugualmente dei compiti che solo essa può fare. In Italia le forze progressiste agiscono e
prendono sempre più piede, noi, come Unione, siamo all’oscuro di ciò. La nostra deve essere una
opera di collegamento con la Nazione italiana.
Dobbiamo essere aggiornati il più possibile sullo sviluppo progressista in Italia che per questioni
idiomatiche possiamo capire più bene degli altri. In questo caso siamo in obbligo di fornire anche al
nostro Partito un valido aiuto. Come gruppo etnico non ci deve restare indifferente quello che sta
succedendo di là. Se sono cose positive dobbiamo appoggiarle.
Vengono quindi proposti i seguenti aggiornamenti del vecchio statuto:
Art. |
L’ Unione degli Italiani è la comunità dei Circoli Italiani di cultura, delle Società artistico-culturali
e delle altre organizzazioni culturali e ricreative del gruppo etnico italiano, dei distretti di Capodistria,
Fiume e Pola.
Sono membri dell’ Unione degli italiani i Circoli Italiani di cultura, le SAC, le sale di lettura, le
comunità studentesche, i vari gruppi artistici-culturali, altre associazioni artistico-culturali, ecc.
Nominare poi nello Statuto le funzioni dell’Unione nei riguardi della EDIT e del Dramma
Italiano. Anche i compiti dell’ Unione verso le scuole, ecc.
Art. 2
L’Unione degli Italiani è sorta durante la L.P.L. come espressione della volontà degli Italiani e
no passiva come traspare dal presente Statuto. Si deve vedere la partecipazione degli antifascisti
italiani che accettano i punti programmatici del Partito: a) cacciata dell’occupatore, b) organizzazione
di una società su basi socialiste, c) soluzione democratica della questione nazionale. L’Unione degli
italiani entra a far parte del Fronte Popolare e si presta alla mobilitazione delle masse italiane nella
lotta armata, ecc.
Tra i compiti dell’Unione deve figurare la partecipazione della minoranza all’autogoverno ed
all’autogestione e a tutto il sistema comunale in genere; - tener conto dei rapporti internazionali e i
rapporti fra i popoli nel mondo dove si afferma la coesistenza.
-Tutelare, curare e arricchire il patrimonio culturale del gruppo etnico italiano.
-Tenendo conto della sua posizione l’ Unione degli italiani deve adoperarsi (o agire) affinché il
nostro gruppo etnico sia partecipe alle conquiste ed al pensiero del popolo italiano ed al pensiero ed
alla cultura dei popoli jugoslavi.
-Concorrere allo sviluppo delle scuole e di altri enti e associazioni culturali del gruppo etnico
nell’ambito dei diritti democratici garantiti al cittadino jugoslavo.
-Deve prodigarsi per la formazione di un cittadino cosciente, socialista, capace di divenire un
buon autogestore; contribuire alla sua formazione professionale e tecnica e facilitarlo per il suo
inserimento nella vita pubblica.
-L’Unione deve fungere da ponte tra i due paesi. Approfondire i rapporti tra le minoranze
nazionali jugoslave (scambi di esperienze).
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-L’Unione degli Italiani si preoccupa dei contatti e del collegamento con le altre organizzazioni
Jugoslave.
Art.4e 5
Ampliare nei particolari i mezzi e i compiti dell’unione.
La stesuradefinitiva dello Statuto viene affidata ai compagni Raunich, Battelli e Volghieri.
Per quanto concerne la Rassegna, si decide di tenere una riunione il 31 — V con i dirigenti dei vari
Circoli per stabilire nei particolari l’organizzazione di queste manifestazioni.
Si discute inoltre su chi invitare a queste Rassegne, e su altri particolari organizzativi.
Per il | di luglio con inizio alle ore 17 è indetta a Capodistria una riunione con i dirigenti dei
Circoli del capodistriano.
-Nelle varie il compagno Vidotto accenna all’opportunità di invitare una delegazione di apparte-
nenti all’ AMPI (Anpi, nda), per stabilire eventuali contatti. L’ Unione è in linea di principio d’accor-
do. L’invito però dovrebbe venir fatto da una associazione combattentistica jugoslava.
-Per quanto concerne la questione del compagno Ramous, si informa la Segreteria, che per
raggiunti limiti di età, il compagno in parola abbandona la direzione del Dramma Italiano. Si decide
di compilare da parte dell’ Unione una bella lettera di ringraziamento per l’attività prestata, di offrire
al compagno Ramous un piccolo ricordo e di proporlo per una medaglia.
-Il compagno Gobbo informa la Segreteria della celebrazione per il centenario dell’unità d’Italia
tenuta a Capodistria e della ripercussione politica derivata. Informa però anche del comportamento
non del tutto leale del console italiano di Capodistria, Zecchin, il quale mirando al carrierismo, non
svolge come si deve l’attività governativa italiana. Da molto tempo cerca di screditare i dirigenti della
minoranza italiana. prega i presenti di informare gli attivisti dei Circoli a premunirsi di questa attività
deleteria del console.
La riunione ha quindi termine.
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(Proposta, 12-V-1963)
Disposizioni i
Art. 1
L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume è un’associazione di carattere culturale nella quale
convergono, come organizzazioni autonome, i Circoli Italiani di Cultura e le società e gruppi culturali
e ricreativi del gruppo nazionale italiano dei distretti di Fiume, Pola e Capodistria.
Per l’attuazione dei compiti previsti da questo statuto i Circoli Italiani di Cultura possono
associarsi in consulte comunali, intercomunali o distrettuali. La struttura e l’attività di queste consulte
vengono regolate da propri statuti o regolamenti in armonia con lo statuto dell’Unione, previa
approvazione del comitato dell’Unione.
L’Unione degli Italiani può accettare come soci le società e gruppi culturali e ricreativi che
svolgono la loro attività in altri distretti della Jugoslavia e i cui membri sono di nazionalità italiana.
Costituita nel corso della Guerra Popolare di Liberazione come espressione della volontà degli
antifascisti dell’Istria e di Fiume di nazionalità italiana di dare il loro apporto alla lotta di liberazione,
al consolidamento dell’unità e della fratellanza e alla rivoluzione socialista dei popoli della Jugosla-
via. l’ Unione degli Italiani, nelle condizioni dell’edificazione del socialismo in Jugoslavia promuove,
cura, sviluppa e coordina le varie attività nel campo della cultura per garantire al gruppo nazionale
italiano della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, in armonia con i diritti e i doveri
costituzionali dei cittadini jugoslavi e nello spirito dell’autogestione di tutte le attività sociali, il più
libero sviluppo delle loro tradizioni e della loro cultura nazionale.
Art. 2
La denominazione dell’associazione è: Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume.
La sede dell’ Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume è a Fiume.
L’ Unione degli Italiani è persona giuridica.
Art. 3
L’Unione degli Italiani si pone i seguenti compiti:
-coltivare ed arricchire le tradizioni nazionali e il patrimonio culturale del gruppo nazionale
italiano della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia;
-promuovere iniziative per diffondere la cultura e per incrementare le attività artistico-culturali e
ricreative fra i cittadini del gruppo nazionale italiano della Repubblica Socialista federativa di
Jugoslavia;
-curare in particolare le attività editoriali, giornalistiche, teatrali e radiofoniche, completare le
biblioteche, organizzare corsi d'aggiornamento di lingua italiana, allestire mostre, convocare raduni
e convegni su problemi culturali e ricreativi;
-seguire ed incoraggiare, con l’aiuto delle comunità politico-sociali comunali e in casi particolari
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con l’aiuto diretto, la formazione di quadri artistico-culturali, di letterati e di intellettuali in genere
che possono degnamente esprimere le conquiste del pensiero, della cultura e dell’arte del gruppo
nazionale italiano della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia;
-collaborare strettamente con gli organi delle comunità politico-sociali per risolvere adeguata-
mente tutti i problemi relativi alle istituzioni scolastiche e alle altre di particolare importanza per il
gruppo nazionale italiano e porgere i propri consigli per la migliore applicazione di tutte le norme
relative ai rapporti con il gruppo nazionale italiano che sono previste dalla Costituzione, dalle leggi
e dagli statuti dei distretti e dei comuni;
-organizzare e curare la collaborazione tra le organizzazioni culturali ed artistiche del gruppo
nazionale italiano e le analoghe organizzazioni delle altre nazionalità della Jugoslavia, al fine di
concorrere a uno sviluppo armonico delle attività artistico-culturali del gruppo nazionale nell’ambito
dell’integrazione della cultura dei popoli della Jugoslavia;
-promuovere, curare e mantenere, per mezzo dei suoi organi ed istituzioni, quanto più proficui
contatti con istituzioni, uomini ed ambienti culturali italiani, al fine di arricchire costantemente il
patrimonio culturale del gruppo nazionale italiano della Jugoslavia delle conquiste del pensiero, della
cultura e dell’arte della nazione italiana;
-impegnarsi a diffondere fra i popoli della Jugoslavia il patrimonio e le conquiste del pensiero,
della cultura e dell’arte della nazionalità italiana e, nella nazione italiana, il patrimonio e le conquiste
del pensiero, della cultura e dell’arte di tutti i popoli della Jugoslavia, al fine di contribuire alla mutua
conoscenza e al consolidamento della stima reciproca tra i due popoli vicini.
Art.4
Per l’attuazione dei suoi compiti, 1’ Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume:
a) promuove, sprona e coordina l’attività dei Circoli Italiani di Cultura, delle società artistico-
culturali operaie e studentesche e delle altre organizzazioni del gruppo nazionale italiano;
b) aiuta i Circoli italiani e le società artistico-culturali del gruppo nazionale italiano;
c) promuove e organizza concorsi a premi letterari, mostre di pittura e di disegno, conferenze di
vario genere, rassegne artistico-culturali generali o per gruppi, dibattiti, raduni e convegni per
i membri del gruppo nazionale italiano;
d) aiuta gli organi dell’istruzione a risolvere i problemi delle istituzioni prescolastiche e scola-
stiche;
e) si interessa affinché il Dramma Italiano organizzi secondo un programma dei giri artistici
nelle varie località in cui vive il gruppo nazionale italiano;
f) analizza, discute e fissa orientamenti dell’attività dell’EDIT;
2) provvede nel limite del possibile ad arricchire le biblioteche dei Circoli Italiani di Cultura e
delle sale di lettura;
h) opera in generale per la più proficua attuazione di tutti i compiti che l'Unione degli Italiani
si pone nell’ Art. 3 del suo Statuto.
Organi dell’Unione degli Italiani
Art. 5
Il massimo organo dell’Unione è |’ Assemblea.
L’Assemblea può riunirsi in sessione ordinaria o straordinaria.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 115
L’ Assemblea ordinaria viene convocata ogni tre anni.
L’assemblea straordinaria viene convocata quando se ne presenti la necessità o su richiesta di
almeno un terzo dei membri dell’Unione.
Art. 6
L’ Assemblea dell’Unione è formata dai delegati eletti nelle Assemblee dei Circoli Italiani di
Cultura e delle società artistico-culturali e delle altre organizzazioni affiliate in ragione di 30 per la
zona di Fiume, 30 per la zona di Pola e 30 per il Capodistriano.
Art. 7
L’assemblea è deliberativa quando è riunita in sessione e sono presenti almeno due terzi dei
delegati eletti.
L’assemblea viene convocata dal Comitato dell’Unione con invito diretto ai delegati da fare
pervenire almeno 20 giorni prima della data stabilita per l’ assemblea.
Per l’ Assemblea straordinaria il termine è di 10 giorni prima della convocazione.
Art. 8
Nella sua sessione 1’ assemblea dell’ Unione:
a) elegge la presidenza dei lavori;
b) esaminale relazioni del Comitato dell’ Unione e del comitato di controllo ed apporta decisioni
in merito;
c) fissa l'indirizzo generale del lavoro dell’Unione per l’attuazione dei compiti previsti da
questo Statuto;
d) accoglie ed espelle i membri dell’ Unione;
e) emana, modifica e completa lo Statuto dell’ Unione;
Î) esonera dalle loro funzioni il Comitato dell’Unione e il comitato di controllo dell’Unione;
2) elegge il Comitato dell’Unione e il Comitato di controllo dell’ Unione.
Le decisioni dell’ Assemblea sono valide se per le stesse hanno votato oltre i 2/3 dei delegati
presenti.
Art.9
Per il lavoro dell’ Assemblea straordinaria valgono le disposizioni di cui agli articoli precedenti,
con la differenza che 1’ Assemblea straordinaria può decidere solo in merito a quei problemi che
figurano all’ ordine del giorno dell’atto di convocazione.
Art. 10
Il Comitato dell’Unione degli Italiani dirige e imposta l’attività dell’Unione nel periodo che
intercorre tra le due sessioni dell’ Assemblea ordinaria.
Il Comitato dell’Unione può avere da 15 a 19 membri.
Il Comitato si riunisce almeno 4 volte all’anno.
Il Comitato può essere convocato in qualsiasi tempo su richiesta di almeno un terzo dei suoi
membri.
Il Comitato apporta il regolamento sull’organizzazione interna dell’ Unione.
Il Comitato emana decisioni durante le sue sedute. Può riunirsi in seduta se è presente oltre la
116 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
metà dei suoi membri. le sue decisioni sono valide se approvate da oltre 2/3 dei membri presenti.
Il Comitato dell’Unione forma commissioni per lo studio e l’attuazione pratica dei compiti
dell’ Unione.
Ha le seguenti commissioni stabili: 1) 2) 3). Altre commissioni possono essere formate in caso
di necessità.
Art. Il
La prima seduta del Comitato dell’Unione si tiene immediatamente dopo la conclusione dell’ As-
semblea o entro otto giorni dell’ Assemblea per l’elezione del Comitato Esecutivo dell’ Unione degli
Italiani.
Il Comitato Esecutivo è formato dal presidente, da due vicepresidenti, dal segretario e dal
cassiere.
Il Comitato Esecutivo dell’Unione convoca la seduta del Comitato ai sensi del terzo capoverso
dell’articolo 10.
Art. 12
Il Comitato Esecutivo sbriga gli affari correnti per l’attuazione dei compiti dell’ Unione, da una
riunione all’altra del Comitato.
Art. 13
Il Comitato di Controllo dell’ Unione controlla l’attività e la gestione finanziaria dell’ Unione e
riferisce in merito al Comitato dell’Unione e dell’ Assemblea.
Il Comitato di Controllo è composto da cinque membri e prende decisioni a maggioranza
semplice di voti dei membri presenti.
Art.14
Tutti gli organi dirigenti dell’Unione vengono eletti di regola mediante votazione segreta. Essi
rispondono del proprio lavoro al corpo che li ha eletti e sono tenuti a presentare a questo la relazione
sul lavoro svolto.
Gli organi dirigenti dell’ Unione devono mettere a verbale quanto è stato discusso o deciso nelle
sessioni o nelle sedute.
Il verbale sul lavoro dell'Assemblea, del Comitato dell’ Unione e del Comitato Esecutivo viene
convalidato dal presidente e da due verificatori, mentre il verbale sul lavoro del Comitato di Controllo
viene verificato dal suo presidente e da un altro membro.
Membri dell’Uni li italiani
Art. 15
Membro dell’Unione può essere ogni Circolo di Cultura o altra organizzazione dei territori dei
distretti di Fiume, Pola e Capodistria ed altri ai sensi dell’articolo 1 Comma 3 il quale, dopo aver
presentato domanda di affiliazione assieme al versamento del canone previsto, ne sia accettato come
membro.
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 117
Art. 16
Quali membri dell’ Unione, i Circoli di Cultura hanno il diritto:
a) di essere rappresentati alle Assemblee dell’Unione da un dato numero dei soci secondo
l’importanza del C. I. C.
b) di presentare proposte per lo sviluppo e il miglioramento dell’attività culturale in tuttii campi
di attività dell’ Unione;
c) di inoltrare ricorsi all’ Assemblea e presso gli altri organi dell’Unione;
d) di usufruire dell’aiuto dell’ Unione degli Italiani;
e) di apportare in conformità allo Statuto dell’ Unione il proprio regolamento interno ed il
proprio piano di lavoro.
Art. 17
I membri dell’ Unione hanno il dovere:
a) di attuare le decisioni dell’ Assemblea e del Comitato dell’ Unione;
b) di informare la loro attività allo spirito dello Statuto dell’ Unione;
c) di eseguire nei rispettivi territori i compiti dell’Uione di cui all’articolo 2 di questo Statuto in
armonia con la linea generale dell’attività stabilita dall’ Assemblea;
d) di versare regolarmente il canone stabilito.
Art. 18
I Circoli Italiani di Cultura, che sono membri dell’ Unione, possono uscire dalla stessa su
decisione della loro Assemblea dopo avere adempiuto ai loro obblighi.
Art. 19
L'Assemblea dell’ Unione può espellere dall’ Unione i Circoli Italiani di Cultura:
a) che non adempiano ai compiti dell’Unione di cui all’articolo 2 del presente Statuto;
b) che non seguano la linea generale di lavoro stabilita dall'Assemblea dell’ Unione degli
Italiani;
c) che non adempiono ai loro compiti verso l'Unione.
Chi venta l’Uni
Art. 20
Davanti agli organi dello Stato e davanti a terze persone rappresenta l’ Unione, in quanto persona
giuridica, il presidente del Comitato.
In assenza del presidente del Comitato rappresentano l’ Unione degli Italiani i vicepresidenti per
ordine di elezione.
Timbro
Art. 21
L’Unione degli Italiani ha il suo timbro.
118 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
Il timbro è di forma circolare e porta scritta circolarmente la dicitura: UNIONE DEGLI ITALIA-
NI DELL’ISTRIA E DI FIUME.
lei fomioni
Art. 22
L’ Unione degli Italiani ha il suo bilancio annuale di entrate e di uscite. Il bilancio viene approvato
dal Comitato dell’ Unione degli Italiani e viene realizzato dal Comitato Esecutivo.
Art. 23
Le entrate dell’ Unione sono:
a) quote d’iscrizione e canoni annui dei Circoli Italiani di Cultura;
b) entrate di varie rappresentazioni, spettacoli ed altre attività organizzate direttamente
dall’ Unione;
c) dotazioni (sovvenzioni).
Art. 24
Dei beni e dei mezzi dell’ Unione dispone il Comitato dell’ Unione, che è tenuto a presentare
relazione circa il loro impiego all’ Assemblea dell’ Unione alla quale esso risponde del suo operato.
Art. 25
In caso di cessazione dell’Unione degli Italiani i beni patrimoniali della stessa divengono
patrimonio dei Circoli e delle altre organizzazioni affiliate.
L i interni dell’Uni
Art. 26
I rapporti interni dell’ Unione derivanti dall’attività svolta per l’esecuzione dei compiti di cui al
presente Statuto vengono regolati mediante regolamento sull’organizzazione interna del lavoro
dell’ Unione.
bicsgdatni
Art. 27
Questo Statuto è stato approvato dall’ Assemblea ordinaria dell’ Unione degli Italiani dell’Istria e
di Fiume, che si è tenuta a ............. Discrete
Questo Statuto entra in vigore con l’approvazione dello stesso da parte degli organi competenti.
Il presidente dei lavori
I verificatori
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 119
[Da “La Voce del popolo”, del 26 — X — 1963; Buie, UIIF 1963-65]
Indirizzo programmatico dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume
L’organicità e la sistematicità del nostro lavoro, la necessità di mobilitare tutte le nostre forze
disponibili per un’azione più intensa e più efficace esigono che venga fissato un indirizzo program-
matico chiaro e preciso comprendente il contenuto e le forme di lavoro della nostra associazione per
il prossimo periodo e indicante le lacune che dovranno essere colmate; su tale piattaforma dovrà
poggiare tutta la nostra attività, ad essa dovremmo ispirarci ed attenerci, attorno ad essa dovremmo
unire le nostre energie in unità d'intenti, e d'azione, tanto più che in ciò potremmo contare, come nel
passato, sulla comprensione e sull’aiuto concreto di tutti gli organi competenti della nostra comunità
socialista, che in più circostanze hanno non solo appoggiato le nostre iniziative, ma addirittura le
hanno sollecitate. Tale atteggiamento del resto è pienamente giustificato, poiché è ben salda la
consapevolezza che i problemi dei cittadini di nazionalità italiana non sono competenza esclusiva
dell’Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume, ma in primo luogo di tutta la nostra comunità e dei
suoi organi di autogoverno politico e sociale.
Principi generali
Fatta tale premessa, si ritiene opportuno sottolineare alcuni principi che a giudizio del comitato
costituiscono i presupposti indispensabili dell’impostazione generale da dare alla nostra attività
futura:
I) L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume non deve trascurare in nessun momento
l’apporto determinante che può e deve essere offerto dai fattori politico-sociali del terreno
all’atto dell’impostazione e dell’attuazione dei suoi compiti, sviluppando ulteriormente la
prassi positiva del passato, senza peraltro demandare ad altri la responsabilità e l'onestà che
derivano a lei dallo Statuto evitando di accontentarsi della semplice impostazione e trattazio-
ne dei problemi, lasciando quindi ad altri il compito di risolverli; 1’ Unione con i suoi organi
deve essere la più attiva, la più sensibile, la più dinamica e la più decisa nell’applicazione del
suo programma.
Il) L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, quale associazione culturale del gruppo
nazionale italiano, deve adottare tutte le misure atte a mobilitare le riserve ancora latenti per
imprimere un ritmo più sostenuto, più intenso alla propria azione, con l’intento preciso di
allargarla in estensione e in profondità, penetrando anche in quelle parti in cui la sua voce non
sì è fatta sentire o e stata troppo sommessa, sfruttando ogni situazione a tal fine favorevole,
creando gradualmente, dove non esistano ancora, le condizione per la maturazione di
determinate soluzioni, promuovendo arditamente nuove forme di attività giudicate idonee a
favorire una spinta in avanti, esigendo con decisione la soluzione di alcuni problemi che si
rimandano in anno in anno.
III) L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume deve assumere, per metodologia d'impostazione
e per stile di lavoro, una fisionomia sempre più seria e matura; deve consolidare le sue
posizioni autonome nella valutazione delle singole situazioni e in genere nella sua attività, e
120
IV)
Vv)
VI)
VII)
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
sviluppare al massimo la propria iniziativa, promuovendo singole azioni e non accontentan-
dosi di accettarle talvolta solo per suggerimento esterno, ponendosi sempre all'avanguardia
nell’espletamento della propria funzione.
La presenza dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, quale organizzazione facente
parte integrante di tutto il processo sociale, deve avvertirsi in tutte le situazioni della nostra
vita sociale; tale presenza è insostituibile in tutte le situazioni in cui sono oggetto di
discussione i problemi specifici del gruppo nazionale italiano.
L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume deve impegnarsi a fondo per l’attuazione
conseguente e completa del suo programma mediante la fattiva collaborazione di tutti i suoi
enti (Circoli italiani di cultura - Dramma italiano — EDIT - ecc.) e dei suoi singoli membri,
attenendosi e facendo rispettare in ogni occasione e a tutti i livelli i principi democratici della
direzione e delle responsabilità collettive, pretendendo da ognuno dei suoi affiliati il massimo
contributo alla realizzazione dei suoi compiti.
L’azione dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume deve tendere ad un risveglio in tutti i
campi del gruppo nazionale italiano; deve vigilare sulla validità ideale dei contenuti; deve
consolidare la fiducia che i connazionali hanno per le nostre istituzioni; deve allargare le
prospettive di uno sviluppo culturale in senso nazionale ancora più intenso e completo; deve
favorire con le sue iniziative un loro inserimento ancora più determinante nella vita sociale;
deve contribuire a spianare la via per un'affermazione sempre più piena dei nostri connazionali.
L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume deve attuare con azioni concrete e iniziative
adeguate la sua funzione di ponte nell’avvicinamento e nella collaborazione reciproca dei due
paesi confinanti, perfezionando tutto ciò che in tal senso finora è stato intrapreso ed è stato
coronato da successo, imprimendo a questa sua importante funzione un carattere di organicità
mediante un’accurata programmazione.
Programma di attività
Partendo da tali presupposti e attenendosi ai compiti fissati dallo statuto e dalle conclusioni
dell’ultima assemblea tenutasi a Rovigno e dal fatto che nel corrente anno (1963/64) ricorre il
ventesimo anniversario della fondazione dell’Unione, il programma di attività della nostra associa-
zione si articolerà come segue:
1) Celebrazione del Ventennale dell’Unione
Ci si riferisce alle celebrazioni sociali, che rappresentano qualche cosa di nuovo rispetto al
programma dello scorso anno; a tale scopo è stato elaborato un programma a parte dall’apposita
commissione, programma che è stato, nelle sue linee generali, inviato ai C. I. C.
2) Cura per la posizione dei connazionali nella vita sociale:
a)
b)
contributo all’elaborazione e alla stesura definitiva degli statuti comunali e quindi alla loro
conseguente applicazione — a tale scopo organizzare consultazioni e dibattiti pubblici (tavole
rotonde);
seguire costantemente la rappresentanza dei connazionali negli organi politico-sociali delle
comunità politico-sociali;
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 121
c)
d)
e)
a)
b)
c)
d)
e)
8)
h)
))
seguire e aiutare con proposte e suggerimenti adeguati la politica della formazione del personale
specializzato in genere e in particolare per le istituzioni del gruppo minoritario (istituzioni
scolastiche — enti comunali (bilinguismo) — stampa — società artistico-culturali, ecc.);
promuovere l’elevazione professionale ed ideologica dei connazionali per mezzo di corsi
speciali organizzati da parte delle università popolari, per mezzo delle apposite sezioni delle
scuole politiche, ecc.;
sollecitare la costituzione delle commissioni comunali per i problemi della minoranza presso
l’ Unione socialista del popolo lavoratore e renderle funzionali;
sollecitare l'emanazione della legge sulle scuole del gruppo nazionale italiano nella Repub-
blica socialista di Croazia.
3) Istituzioni prescolastiche e scolastiche:
curare la rete delle istituzioni scolastiche e prescolastiche, perfezionarla e adeguarla sempre
più alle condizioni reali del terreno; in particolare: risolvere il problema della scuola di Torre,
degli asili di Parenzo, Fiume, Pola, delle scuole degli apprendisti; proporre la formazione di
sezioni prescolastiche presso scuole elementari soprattutto se esistono già quelle della
maggioranza;
chiarire il problema delle iscrizioni: le iscrizioni alle scuole italiane devono essere libere,
poiché esse in base alla costituzione godono di uno status paritetico; eliminare ogni procedura
speciale all’atto dell’iscrizione;
promuovere l’analisi delle cause della sproporzione verificatasi in determinate località tra il
numero della popolazione italiana e quello degli alunni che si iscrivono alla scuola della
minoranza;
risolvere il problema dell’insegnamento integrale nella lingua materna: in alcune scuole
qualche materia viene ancora insegnata in lingua croata (Parenzo, Dignano, Umago, Fiume);
regolare la vita interna della scuola a partire dalla sua amministrazione per arrivare ai corpi
insegnanti (formulari bilingui — una delle due lingue nei dibattiti di natura didattico-pedago-
gico, ecc.);
impostare e risolvere il problema dell’autonomia didattico-pedagogica delle sezioni italiane
nelle scuole miste e parallelamente a ciò definire legalmente lo status del vicedirettore delle
scuole miste;
sollecitare la nomina degli ispettori scolastici per le scuole di I grado rispettivamente per
quelle di II grado dato che una proposta in tal senso è stata già avanzata dalla commissione
scolastica dell’Unione;
promuovere la formazione di centri didattici comunali o di più comuni assieme per assicurare
un aiuto costante, uno scambio di esperienze e una coordinazione delle iniziative nell'opera
di riforma delle nostre scuole (centro didattico del buiese: Buie, Umago, Cittanova, - centro
didattico di Rovigno: Rovigno, Parenzo — centro didattico di Pola: Pola, Dignano, Gallesano
— centro didattico di Fiume: tutte le scuole di Fiume — centro didattico di Capodistria:
Capodistria, Pirano, Isola);
portare a terntine la stesura di un piano e programma d’insegnamento unitario per i ginnasi;
accelerare la realizzazione del piano delle pubblicazioni dei libri di testo; a tale proposito
studiare la possibilità di giungere alla collaborazione con specialisti italiani per la compila-
zione di determinati libri di testo;
122
k)
m)
n)
0)
p)
q)
r)
s)
a)
b)
c)
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
risolvere il problema dell’importazione di determinati testi per i ginnasi e di determinato
materiale didattico (schedari per l’insegnamento elementare — biografie — ecc.);
attirare l’attenzione delle librerie di certi comuni sulla opportunità di mostrarsi più sensibili
verso i libri di testo delle scuole italiane;
impostare la corrispondenza interscolastica in triplice direzione (tra le scuole del gruppo
nazionale, tra le scuole del gruppo nazionale e quelle della maggioranza, tra scuole del gruppo
nazionale e alcune scuole italiane), affinché tale iniziativa si inserisca quale utile mezzo di
esercitazioni linguistiche, di conoscenze reciproche e perché porti anche all’apporto dei
giovanissimi alla funzione di ponte della nostra associazione;
procedere all’abbonamento e stabilire una fattiva collaborazione trale nostre scuole e i singoli
lavoratori culturali con alcune riviste didattico-pedagogiche dell’Italia (Riforma della scuola
— Cooperazione educativa, ecc.) e con l’apposita cooperativa del Movimento di cooperazione
scolastica che costruisce mezzi didattici per colmare almeno in parte la mancanza di un
periodico specializzato e il problema di certo materiale didattico e inoltre per favorire la
divulgazione delle nostre esperienze nel campo della lotta per una scuola veramente moderna
e democratica;
promuovere la formazione di gruppi letterari e di arti figurative presso tutte le nostre scuole
allo scopo di favorire l’attività creativa e quella delle redazioni scolastiche per la collabora-
zione e la diffusione della nostra stampa;
continuare la prassi positiva dell’organizzazione dei seminari estivi di perfezionamento
professionale degli insegnanti delle nostre scuole estendendola a quelli delle istituzioni
prescolastiche, tenendo conto anche nel futuro della preziosa collaborazione di docenti
italiani; sollevare il problema dell’opportunità di estendere i seminari che si tengono in
febbraio nel Capodistriano, anche agli altri centri dell'Istria e di Fiume, adottando a tale scopo
speciali forme organizzati ve;
organizzare visite di gruppi di insegnanti alle nostre scuole italiane, che per indirizzo e
risultati di lavoro si sono distinte e presentano affinità o identità d'impostazione e di soluzione
di determinati problemi di natura didattico-pedagogica;
promuovere il perfezionamento professionale dei nostri insegnanti per quanto concerne la
lingua materna in Italia;
formare bibliotechine circolanti anche per le scuole e specialmente per quelle delle località
minori.
4) Cultura:
impostare seriamente l’attività delle conferenze quale mezzo importante dell’elevazione
culturale; a tal fine elaborare un piano di conferenze interessanti e mobilitare i CIC per la
parte organizzativa di questa iniziativa; parallelamente intraprendere misure concrete, in
accordo con gli organismi a ciò addetti, per organizzare un ciclo sistematico di conferenze
con relatori qualificati provenienti dall’ Italia;
potenziare ulteriormente il patrimonio librario delle biblioteche dei CIC e delle scuole e
adottare misure divulgative e culturali per la diffusione della lettura (inserzioni di recensioni
dei nuovi libri sulla stampa — organizzare dibattiti tra i lettori nell’ambito dei Circoli, ecc.),
mediante l'importazione sistematica;
promuovere l’allestimento, almeno una volta all’anno nei principali centri dell’Istria, di
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 128
d)
a)
b)
c)
d)
e)
8)
a)
b)
c)
d)
e)
a)
b)
mostre ambulanti del libro italiano, offrendo la possibilità ai connazionali di fare acquisti sul
posto e organizzare [per la] circostanza serate letterarie quale forma di promozione di singole
opere e di singoli autori;
riordinare e arricchire la sezione del museo civico di Rovigno dedicata al contributo degli
italiani alla L. P. L. e all’edificazione socialista.
5) Attività artistica:
curare l’organizzazione delle tradizionali rassegne in modo che qualitativamente e quantita-
tivamente diventino migliori;
procedere seriamente alla raccolta e alla pubblicazione del materiale necessario per l’attività
artistica (cori — copioni per filodrammatiche, bozzetti vari, ecc.);
studiare la possibilità di organizzare un nuovo festival: quello della canzone del bambino,
riservato ai bambini delle istituzioni prescolastiche e scolastiche;
procedere alla registrazione del materiale folkloristico e impostare un’apposita nastroteca;
porgere l’aiuto al Dramma italiano per il suo rafforzamento organizzativo, per una politica di
repertorio qualitativamente all’altezza e corrispondente alle necessità dell’elevazione cultu-
rale e artistica dei connazionali, per la programmazione di giri artistici quanto più efficienti
per partecipazione di pubblico (mobilitando i CIC e introducendo il sistema degli abbona-
menti che lega gli spettatori al teatro); formare a tal fine un consiglio di gestione;
iniziare quanto prima l’attività del teatro dei burattini e collegare questa iniziativa con le
scuole e le istituzioni prescolastiche;
curare l’organizzazione di “Serate letterarie” per il tramite del Circolo dei poeti, artisti e
letterati.
6) Attività creativa:
porgere al Circolo dei poeti, letterati e artisti per il suo rafforzamento organizzativo (elabo-
razione e approvazione definitiva dello statuto, programmazione dell’attività, ecc.);
promuovere per il tramite del circolo dei poeti, letterati e artisti il bando dei concorsi,
ampliandone i limiti e i campi (vedi programma a parte);
curare l’allestimento di mostre di pittura e di scultura, di disegno infantile, di fotografia
artistica, ecc. per il tramite del Circolo dei poeti, letterati e artisti;
procedere, in accordo con il museo civico di Rovigno, all’ apertura di una mostra permanente
di arti figurative dei membri del Circolo dei poeti, letterati e artisti; la medesima iniziativa
potrebbe ripetersi in qualche località dell’Istria onde popolarizzare i nostri giovani artisti;
promuovere convegni di poesia, arte, ecc. con la partecipazione di artisti qualificati jugoslavi
e italiani (almeno un convegno del genere all’anno).
7) Attività editoriale e radio
analizzare il ruolo svolto sinora dalla nostra stampa e adeguarlo maggiormente alle esigenze
in tale campo dei connazionali e ai compiti dell’Unione; indirizzare la nostra stampa a
sollevare tempestivamente i problemi e farli oggetto di pubblico dibattito;
intraprendere iniziative rivolte a lumeggiare meglio certi problemi e a porli all'attenzione
degli organi competenti, suscitando l’interesse dei lettori attorno ai medesimi (organizzazioni
di dibattiti pubblici, di tavole rotonde, ecc.);
124
c)
d)
e)
p)
a)
b)
c)
d)
e)
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126
intensificare la collaborazione con giornali e riviste dell'interno e dell’Italia per un’informa-
zione sistematica sull’attività del gruppo nazionale italiano;
programmare l’invio dei nostri giornalisti a specializzarsi all’estero e intraprendere le misure
adeguate per il tramite degli organismi competenti;
introdurre il sistema del “Mese della nostra stampa”, da ripetersi ogni anno, in ottobre, in
coincidenza con l’anniversario della fondazione della Voce quale mezzo di diffusione,
ingaggiando i CIC e le scuole per un’azione coordinata ed efficace;
dare maggiore consistenza organizzativa alla rete dei corrispondenti e adottare misure per
migliorare la rete di distribuzione e il suo funzionamento;
iniziare la pubblicazione della nuova “Rivista di varia cultura” con i fini già esposti e
appoggiandosi in special modo sul Circolo dei poeti, letterati e artisti;
intensificare la pubblicazione dei quaderni politici;
iniziare la pubblicazione di collane di opuscoli di altro contenuto;
pubblicare il libro-documento sulla partecipazione degli italiani alla LPL “Fratelli nel sangue”,
risolvere definitivamente il problema dell’importazione della stampa italiana;
porgere aiuto per una regolare attività delle sezioni italiane di Radio Fiume e Radio Pola;
analizzare il ruolo finora svolto da Radio Capodistria nell’ opera di popolarizzazione della vita
del gruppo nazionale italiano, quale ente importante e coadiutore dell’azione informativa e
dell’elevazione culturale che si prefigge l’ Unione;
adottare periodicamente il sistema delle conferenze stampa per una più ampia informazione.
8) circoli italiani di cultura
procedere al rafforzamento organizzativo dei CIC e delle sale di lettura e al perfezionamento
ed eventuale ampliamento della loro rete (vedi: Albona, Dignano, Parenzo, Torre, Valle,
Buie, Cittanova, ecc.);
impostare seriamente il problema dei soci dei circoli e delle sale di lettura (rinnovare le
iscrizioni, approfittando delle medesime per un’azione mobilizzatrice su scala capillare —
distribuire i nuovi tesserini, ecc.);
promuovere, dove esistono le condizioni favorevoli, la formazione di nuove sezioni nell’am-
bito dei CIC (fotoamatori - filatelia — gruppi letterari, ecc. — sezioni giovanili, senza intaccare
l’attività della gioventù studentesca);
procedere alla formazione delle consulte distrettuali dei CIC e aiutare a precisare il proprio
programma di lavoro;
elaborare un piano efficiente di scambi, soprattutto tra Circoli maggiori e quelli minori per
porgere un concreto aiuto e ciò quanto prima;
organizzare un giro artistico dei migliori complessi dei CIC nell’interno del nostro paese e in
Italia;
favorire la collaborazione di alcuni CIC con enti affini progressisti della vicina repubblica
allo scopo di giungere a uno scambio di stampa, libri, materiale politico, mostre, ecc.;
promuovere presso i CIC la formazione di gruppi ricreativi.
9) Amministrazione dell’Unione:
Creare presso l’Unione l’evidenza e la cartoteca di tutte le nostre attività, per mezzo di una
documentazione precisa e aggiornata;
A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 125
b) Risolvere il problema della partecipazione proporzionale delle Repubbliche, al finanziamen-
to di tutti gli enti dell’Unione (Radio — Dramma, ecc.);
c) Impegnare la commissione dell’Unione, il Circolo dei poeti, letterati e artisti e i Circoli
italiani di cultura, le scuole, il Dramma, l’EDIT e in genere tutti gli enti dell’associazione
nell’elaborazione definitiva e particolareggiata del programma e nella sua attuazione.
126 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126
SAZETAK
U ovom ێlanku autor smjesta pod istragu jedno od najkompleksnijih i
najtezih razdoblja povijesti zajednice istarskih i rijeèkih Talijana, odnosno
dekadu 1955-1964, za vrijeme kojeg se provodio sloZen proces brojéanog
smanjenja i oslabljenja istarskih Talijana u politiékoj, kulturnoj i
lingvistitkoj sferi.
Posebice su analizirani problemi vezani uz kulturne krugove, skolske
institucije i izdavatke djelatnosti Talijanske etniéke skupine preko
skupova Tajnistva, Predsjednistva i Komiteta organizacije Talijana. Rijec
Je o vrlo vaZnim izvorima arhiva koji svjedoée ne samo o atmosferi u
kojoj je djelovala Talijanska Nacijonalna Zajednica (zatvaranje talijanskih
Skola, kulturnih centra, promjena toponomastike) veé i o suprostavije-
nosti unutar same upravljatke grupe koja otkriva dvije struje ili frakcije:
jedna se usmjeravala ka ukupnom ukljuéivanju Talijana u socijalistiéki
proces a druga je pokuSavala uévrstiti odredenu autonomju. ZapoCinju
se medu ostalim analizirati i prvi odnosi sa nacionalnom maticom koji
se sredinom 50-tih godina poèinju polako nazirati ali se uobliCuju tek
u narednom desetljeéu.
POVZETEK
Avtor èlanka obravnava eno najbolj kompleksnih in tezavnih obdobij
zgodovine Skupnosti istrskih in reskih Italijanov, desetletje 1955-1964,
ko je zapleten proces privedel do itevilînega padca in preoblikovanja
politiéne, kulturne in jezikovne vloge istrskih Italijanov.
Najveùja pozornost je posvetena tezavam kulturnih kroZkov, solskih
ustanov in zaloZnistva italijJanske narodnostne skupnosti, o katerih priéajo
zapisniki s sej sekretariata predsednistva in odbora zdruZenja Italijanov.
Gre za zelo pomembne arhivske vire, ki priéajo ne le o ozraòju, v
katerem je delovala italijanska skupnost (ukinjanje italijanskih Sol in
kulturnih kroZkov, spreminjanje toponomastike), temveè tudi o naspro-
tovanjih znotraj samih vodilnih kadrov Italijanov, ki so privedla do
nastanka tveh tokov oz. taborov: eden se je zavzemal za popolno
vkljuditev Italijanov v socialistiéni proces, drugi pa za ohranitev dolotene
samostojnosti skupnosti. Predstavljeni so tudi prvi odnosi z matiîno
domovino, ki so bili sredi petdesetih let zelo sumljivi, ki pa so se
udejanjili Sele v naslednjem desetletju.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 127
GLI ANNI DIFFICILI (1971-1987)
Il percorso storico dell’Unione degli Italiani
dall’ Assemblea di Parenzo al ‘dopo Borme”
EZIO GIURICIN
Centro di ricerche storiche CDU 325.15(=50):930” 1971/1987”
Rovigno
Nel testo si ripercorrono le principali tappe di uno dei periodi più difficili e complessi, e, insieme, più
significativi della storia dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume: quello che va dalla XIV
Assemblea dell’UIIF ( Parenzo, 23 maggio 1971) sino alle Conferenze UIIF sulla socializzazione
(Parenzo, 14 dicembre 1984, e Pirano, 22 novembre 1985) e alla Petizione sui problemi della
minoranza promossa da Gruppo ’88 (Capodistria, dicembre 1987). Un periodo contrassegnato da una
delle più importanti fasi di risveglio politico, civile e culturale del gruppo nazionale cui seguì, quale
conseguenza dei moti nazionalistici in Croazia e della repressione attuata dal regime jugoslavo, la
destituzione (il 13 settembre del 1974) del presidente Antonio Borme ed un lungo momento di stasi
per la comunità nazionale italiana che si protrarrà praticamente sino alla metà degli Anni ottanta. Con
l'emergere, prima, dell’azione e delle proposte riformatrici dei giovani riuniti attorno alla Commis-
sione giovanile dell’UIIF, e quindi con le Tesi sulla socializzazione promosse dalla Seconda
Conferenza dell’ Organizzazione (Parenzo, 1984 e Pirano, 1985), si aprirà, anche se con difficoltà,
una nuova fase di apertura, di trasformazione e di rilancio politico del gruppo nazionale che culminerà
con la petizione, la tribuna pubblica e le altre importanti iniziative di Gruppo ’88.
La XIV Assemblea dell’UIIF di Parenzo segnò l’ultima tappa della rinascita
della comunità italiana, iniziata negli anni Sessanta. Stavano ormai esaurendosi le
spinte democratiche manifestatesi allora nella società jugoslava: timide aperture
che, se da una parte avevano dato linfa a forze autenticamente liberali e riformatri-
ci, dall’altra contribuirono a ridestare il nazionalismo più sfrenato.
La ripresa dell’UIIF e l’acquisizione di una maggiore soggettività politica e
sociale dell’Organizzazione della minoranza giunte alla massima espressione con
l’ Assemblea di Parenzo incontrarono una durissima battuta d’arresto. Gli obiettivi
programmatici sanciti dall’ Unione di quel periodo suscitarono l’immediata reazio-
ne dei movimenti nazionalisti e delle forze politiche della maggioranza, determi-
nando una frattura insanabile che si sarebbe risolta con la defenestrazione di Borme
128 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155
nel 1974 e la normalizzazione delle strutture dell’UIIF ad opera delle autorità
Jugoslave.
I momenti più difficili, di aperta ostilità, iniziarono in Croazia con il propagar-
si dei movimenti nazionalisti (confluiti nel “Masovni Pokret”) che si erano svilup-
pati con il pieno appoggio delle strutture dello Stato e del Partito, e grazie alla
complicità dei mass-media.
In Istria e a Fiume il nazionalismo assunse aspetti del tutto particolari. Bersagli
principali divennero il gruppo nazionale italiano e le sue istituzioni: V’UIIF, il
quotidiano “La Voce del Popolo”, il Centro di ricerche storiche di Rovigno e, in
particolare, la collaborazione UIIF-UPT che si stava espandendo, con notevoli
successi, in tutti i campi.
I primi attacchi diretti alla comunità italiana vennero promossi da alcuni
intellettuali croati dell’Istria che facevano capo al “Cakavski Sabor”, fra i quali il
letterato Zvane Crnja, fondatore e responsabile della rivista “Dometi”.
Fu proprio questa pubblicazione ad avviare la polemica contro le “Tesi sul
bilinguismo” elaborate nel 1970 dai massimi organismi socio-politici della regione
assieme all’UIIF.
Gli esponenti del “Cakavski sabor” e della rivista “Dometi” si scagliarono, in
particolare, contro la bozza dello Statuto comunale di Rovigno, considerato allora,
sul piano dei diritti e degli strumenti di tutela della comunità italiana, il più
avanzato in Istria. Il loro fine dichiarato era quello di difendere le zone “tradizio-
nalmente e storicamente croate di Canfanaro e di Gimino dall’invadenza italiana”.
Da rilevare che lo Statuto non prevedeva l’applicazione del bilinguismo
integrale in queste aree del comune rovignese, bensì l’introduzione dell’insegna-
mento della lingua italiana, quale lingua dell’ambiente sociale, anche nelle scuole
croate (per parificarle alle istituzioni italiane nelle quali l’insegnamento della
lingua croata era stato sempre obbligatorio e favorire così un clima di attiva
comprensione e convivenza).
L’atteggiamento assunto dai nazionalisti creò fortissime tensioni in Istria. Si
arrivò a volgari metodi di linciaggio morale nei confronti di esponenti del gruppo
nazionale, con l’invio di lettere anonime e insinuazioni di ogni tipo. Le forze naziona-
liste vennero sostenute direttamente dal clero croato che inviò alla stampa e a tutte le
principali istanze politiche una petizione sottoscritta da una novantina di sacerdoti
istriani. Si trattava di una chiara protesta nei confronti dello Statuto rovignese e del
bilinguismo in particolare. Scontato e prevedibile il risultato della manovra: la
1“ dvojeziènosti u Istri”, Dometi, n.10 (1970), p.90.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 129
polemica accantonò definitivamente l'approvazione dello Statuto rovignese?.
Lo stesso accanimento si ebbe nei confronti del “Programma d’azione” appro-
vato dalle strutture politiche del Comune di Pola, che fissava i principi, in materia
di bilinguismo, che avrebbero dovuto ispirare il futuro Statuto comunale. Il docu-
mento stabiliva infatti le norme e i criteri applicativi del bilinguismo da introdurre
a Dignano e Gallesano, a Pola città, Sissano e Fasana.
Anche in questo caso le polemiche innescate dalle forze nazionaliste croate
sortirono l’effetto desiderato: il “Programma d’azione” non venne mai approvato).
Il Centro di ricerche nel mirino
Il nazionalismo decretò la fine del dibattito costituzionale e statutario portato
avanti sino ad allora con tanto entusiasmo e tante speranze. Purtroppo il processo
di crescita civile, democratico e politico del gruppo nazionale venne bruscamente
interrotto.
Venne preso di mira il Centro di ricerche storiche di Rovigno che, fin dalla sua
nascita, si era effettivamente rivelato uno dei punti di forza della presenza culturale
italiana in Istria e un insostituibile fattore della collaborazione con la Nazione
Madre in campo scientifico e in quelli culturale, storico ed editoriale.
Ad un anno dalla fondazione, il Centro presentò al pubblico il primo volume
della collana degli “Atti”. La cerimonia si svolse il 21 febbraio del 1971 nella sede
del CIC di Dignano. Alla manifestazione seguì lo scoprimento della lapide, nella
vicina Barbana, in onore di Pietro Stancovich, autore della “Biografia degli uomini
illustri dell’Istria”, opera di cui il Centro e l’UIIF, (nel quadro della collaborazione
con l’Università Popolare di Trieste) avevano voluto promuovere la ristampa.
L’iniziativa venne duramente criticata dalla rivista “Dometi” in un commento
firmato dal suo caporedattore Zvane Crnja*.
L’intervento innescò un’aspra polemica con il Centro rovignese sulle pagine
del “Glas Istre-Novi List”.
In questo periodo iniziò inoltre un’ampia azione propagandistica e “patriotti-
ca” (promossa dalle autorità politiche e dalle emergenti forze del nazionalismo
? Archivio del Centro di ricerche storiche di Rovigno (=ACRSR), “Promemoria dell’ UIIF”, fascicolo (=f.)
5047/86.
3 La Voce del Popolo, 18 giugno 1970 e ACRSR, Foglio di informazioni dell’UIIF, n.1 (1970).
4 “Naert odgovora”, Dometi, n. 4-5 (1971), pp. 124-125.
5 Glas Istre-Novi List, 4 e 17 marzo, 19 e 21 aprile, 2 e 19 maggio 1971.
130 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155
croato) a favore del prestito pubblico per la realizzazione del traforo del Monte
Maggiore (tunnel stradale la cui funzione, secondo gli slogan politici del momento,
sarebbe dovuta essere quella di “collegare meglio e vincolare in modo indissolubile
l’Istria alla Croazia”). L'azione venne contrassegnata da una serie di manifestazio-
ni e persino da eccessi nazionalistici che l’UIIF non esitò a condannare sin
dall’ Assemblea di Parenzo del maggio 1971.
Da qui le accuse e le insinuazioni lanciate nei confronti dell’UIIF, fatte
immediatamente proprie anche dai massimi fori politici e ampiamente divulgate da
quasi tutta la stampa della maggioranza.
L’Organizzazione della comunità italiana aveva compiuto allora una scelta
molto difficile e coraggiosa: i documenti, le conclusioni, i principi programmatici
sino allora approvati dall’ UIIF non si limitavano a criticare duramente il naziona-
lismo croato ma mettevano sotto accusa, per le inadempenze e le vessazioni
perpetrate ai danni della minoranza, l’intero apparato statale e di partito.
La resa dei conti nei confronti dell’Unione ebbe inizio subito dopo la svolta
decisiva di Karadordevo, nel dicembre del 1971; evento che determinò la “liquida-
zione” ufficiale e la repressione del nazionalismo in Croazia, ma anche la rimozio-
ne della linea liberale e riformista ai vertici della Federazione e in tutte le altre
repubbliche della Jugoslavia.
Le vittime alla pari degli aggressori
Le strutture di potere, in seguito alla svolta di Karadordevo, dopo avere
eliminato, anche se solo di facciata, le forze nazionaliste, decisero di concentrare
la loro attenzione sull'Unione degli Italiani per cercare di opporsi alle istanze e
condizionare l’azione di un’Organizzazione che, con Borme, era riuscita a raggiun-
gere un elevato grado di autonomia e ad assumere, via via, sempre maggiore peso
e soggettività politici.
Durissime furono infatti le conclusioni della Conferenza regionale della Lega
dei comunisti di Fiume (riunitasi il 10 dicembre del 1971), così come le prese di
posizione assunte dal Comitato centrale della LC croata (alla XXIII seduta, il 12,
14 dicembre 1971). La Lega dei comunisti volle porre strumentalmente sullo stesso
piano il ruolo sostenuto dalle forze nazionaliste croate in Istria ed a Fiume e quello
esercitato dall’UIIF, identificando paradossalmente le vittime con gli aggressori®.
6 Vjesnik, 13,14 e 16 dicembre 1971; La Voce del Popolo, 17 dicembre 1971.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 131
La reazione della comunità fu immediata. Il Comitato dell’ UIIF, riunitosi a
Fiume il 23 dicembre del 1971, protestò decisamente denunciando una “manovra
tesa a rovesciare la situazione ed i fatti, ed a colpire le strutture del gruppo
nazionale che si erano opposte per prime, e spesso da sole, contro ogni manifesta-
zione di nazionalismo”? All’inizio del 1972 vi furono altre prese di posizione da
parte dei massimi organismi politici regionali; le autorità stavano cercando di
dimostrare che il nazionalismo croato in Istria — guidato, a parer loro, esclusiva-
mente da gente “venuta da fuori”’— era stato poco più di un fuoco di paglia.
L’intento evidentemente era di giustificare il loro operato e di proteggere quei
dirigenti locali che si erano compromessi col nazionalismo.
Mentre le autorità stavano cercando di scagionare da ogni responsabilità gli
esponenti delle forze nazionaliste e del “Masovni pokret”, sul banco degli accusati
venne posta quasi dappertutto l’ UIIF (anche se ci furono diversi distinguo, come a
Rovigno, da parte di dirigenti della maggioranza che avevano collaborato attiva-
mente con la comunità e contribuito all’affermazione dei diritti costituzionali e
statutari della minoranza).
L’UIIF si trovò completamente isolata a causa della pesante offensiva politica
scatenata nei suoi confronti dalle strutture di potere regionali e repubblicane e
dell’azione generale di disinformazione condotta dai mass-media.
Da qui la decisione della Presidenza dell’UIIF di elaborare un ampio “Prome-
moria” (Memoriale) per illustrare all’opinione pubblica il ruolo, gli indirizzi
programmatici, le istanze e, soprattutto, la vera storia dell’ Unione degli Italiani e
del gruppo nazionale. Il documento venne sottoposto all’attenzione di tutti gli
organismi politici e le strutture istituzionali jugoslave, dai comuni alla Federazio-
ne.
Emblematiche furono le conclusioni assunte alla Nona Conferenza elettorale
della LC del Comune di Pola (25 aprile 1972); assise nel corso della quale vennero
pesantemente criticati i contenuti del nuovo Statuto dell’UTIF approvato a Parenzo.
L’UIIF voleva assumere — secondo le strutture di partito polesi — il “ruolo di una
vera e propria organizzazione socio-politica, diventare un partito; principi questi
che non potevano essere accettati, come non poteva essere accolta la proposta di
costituire delle Comunità degli Italiani al posto dei Circoli di cultura nelle località
in cui vivevano gli appartenenti al gruppo nazionale italiano*.
? La Voce del Popolo, 29 dicembre 1971.
8 ACRSR, f. 5047/86.
132 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155
Il primo voltafaccia
Ulteriori appunti furono mossi nei confronti dell’UIIF dal Comitato di coor-
dinamento dell’ ASPL regionale di Fiume (28 aprile del 1972), che stigmatizzò
duramente l’atteggiamento assunto dall’Unione degli Italiani, o meglio, come si
affermò nel documento, da una parte della sua direzione, nei confronti del traforo
del Monte Maggiore?.
Le critiche riguardavano le prese di posizione dell’ UIIF relative al nazionali-
smo croato e al ruolo assunto dal Cakavski Sabor e dalla rivista “Dometi” in
particolare. Inaccettabili furono definiti gli articoli della “Voce del Popolo” nei
quali si commentavano questi fenomeni. L° ASPL decise inoltre di avviare un’ap-
profondita analisi della situazione e dei problemi riguardanti i diritti costituzionali
del gruppo etnico italiano.
Nel giugno del 1972 l’analisi era pronta. La relazione, elaborata da un apposito
gruppo di lavoro nominato dal Comitato intercomunale LC e dall’ ASPL regionale,
con l’apporto di Emma Derossi Bijelajac e Ivan Miskovié del Comitato Centrale
della LC croata (CC LCC), venne immediatamente trasmessa agli attivi delle
organizzazioni socio-politiche comunali.
I principi su cui si basava il nuovo “materiale” ribaltavano completamente le
volontà espresse nei documenti del 1970 (le “tesi sui diritti del gruppo nazionale”
elaborate congiuntamente dall’UIIF e dall’ ASPL e approvate dai massimi fori
politici regionali nonché lo “Statuto Modello” del 1970 che doveva servire da base
per la nuova elaborazione degli Statuti comunali istriani). Il dibattito sulle tesi
venne rinviato “a tempi migliori”, al momento cioè in cui si fosse stabilizzata la
situazione politica del Paese.
Una delle contraddizioni più evidenti riguardava il ripristino del fattore nume-
rico quale condizione per la concessione dei diritti costituzionali alle minoranze.
Risultava così che nessun comune istriano si sarebbe potuto considerare mistilin-
gue, nemmeno quello di Rovigno al quale, per ovvie ragioni, era stato deciso di
aggiungere anche l’abitato di Gimino, per mettere così in minoranza gli italiani.
Naturalmente era impensabile che nelle scuole croate si studiasse anche l’italiano.
Un no deciso venne espresso pure alla richiesta di autonomia, all’autogoverno e
alle esigenze specifiche dell’ Unione degli Italiani. La risposta delle autorità fu che
tali concessioni avrebbero potuto “portare l’UIIF a mettersi in concorrenza con le
organizzazioni socio-politiche ufficiali”. Gli italiani, peranto, — si ribadiva — se
? Ibidem.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 133
volevano continuare ad esistere “dovevano operare esclusivamente nel campo
culturale”.
Nel documento la Lega e l’ ASPL espressero chiaramente l’intenzione, inoltre,
di prendere parte attiva nella scelta dei quadri dirigenti dell’ UIIF. Venne rifiutato
il principio della “rappresentanza qualificata”. Vennero inoltre valutati negativa-
mente i contenuti della collaborazione con l’UPT, ritenuti “inaccettabili e privi di
alcun fondamento giuridico”.
Rinnegare Parenzo
Si registrò una brusca inversione di tendenza che, se attuata in pieno, avrebbe
portato il gruppo nazionale ai tempi bui degli anni Cinquanta. Da qui la mobilita-
zione generale dell’UIIF e di tutte le sue istituzioni in difesa dei diritti della
comunità.
Il primo grosso scontro ebbe luogo il 2 ottobre 1972 nella seduta congiunta
delle commissioni per le questioni nazionali della LC intercomunale e dell’ ASPL
regionale, dove furono messi a confronto la citata “Analisi sulla posizione degli
appartenenti al gruppo etnico italiano” e il “Promemoria” presentato dall’ UIIF.
Due testi, opposti ed antitetici, che risultavano essere irrimediabilmente inconci-
liabili!9,
Il documento dell’Unione venne liquidato sin dalle prime battute di questa
riunione, perchè ritenuto “inaccettabile”.
I pochi rappresentanti del gruppo nazionale presenti diedero subito battaglia
criticando il fatto che nell’elaborazione del documento presentato dalle autorità la
minoranza non fosse stata mai interpellata. A queste argomentazioni venne rispo-
sto con arroganza e persino con minacce. I maggiori responsabili della Lega e
dell’ ASPL, Drago Vlahinié e Ante Ferlin, intimarono all’ Assemblea dell’UIIF di
“rinnegare i principi e le decisioni assunte a Parenzo”. Alla fine però, in conside-
razione delle obiezioni opposte da alcuni esponenti delle forze politiche locali e
della minoranza, l’ assise concluse di aggiornare il dibattito sino alla chiarificazione
defintiva dei problemi e delle divergenze.
10 ACRSR, f. 4630/86.
134 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155
Nascono le Comunità degli Italiani
Per l'Unione degli Italiani rimanevano valide le decisioni approvate a Paren-
zo. I suoi organismi erano impegnati nella realizzazione dell’indirizzo programma-
tico e dei dettami dello Statuto. Tra i compiti principali dell’Unione vi era quello
di promuovere la costituzione delle Comunità degli Italiani (che dovevano suben-
trare, avviando un profondo processo di riforma dell’assetto organizzativo, sociale
e politico del gruppo nazionale, ai Circoli italiani di Cultura).
Il Comitato dell’UIIF riunitosi a Pola il 10 ottobre 1972 volle fare un primo
bilancio dell’attività e delle iniziative promosse dall’Organizzazione della mino-
ranza. L'organismo affrontò alcuni punti chiave del programma dell’Unione: la
costituzione delle Comunità, l’introduzione dell’autogoverno (di strumenti atti ad
assicurare cioé una maggiore autonomia e la piena soggettività politica, culturale,
didattica ed economica delle strutture della minoranza) e l’elaborazione della sfera
dei diritti del gruppo nazionale nell’ambito dei nuovi statuti comunali !'.
In base alle informazioni pervenute dalla base le Comunità degli Italiani
risultavano essere state costituite ufficialmente in tutte le località all’infuori di Pola
e Gallesano, dove le autorità politiche avevano opposto fortissime resistenze. Il
compito principale dell’Unione — queste le decisioni unanimi del Comitato —
doveva essere quello di concludere quanto prima il processo di “trasformazione”
delle strutture associative dell’etnia, al fine di assicurare loro un ruolo sociale e
politico preminente e più incisivo.
L'argomento venne affrontato nuovamente nel corso di una seduta congiunta
della Presidenza dell’UTIF con i presidenti di tutti i sodalizi, il 6 dicembre del 1972.
In quell’occasione vennero presentate delle dettagliate informazioni, località per
località, che rilevavano l’estrema articolazione organizzativa delle singole Comu-
nità. Rimaneva purtroppo aperta la questione della trasformazione in Comunità del
Circolo Italiano di Cultura di Pola, a causa degli ostacoli frapposti delle autorità
politiche locali!?. Tra il 26 dicembre del 1972 e il 10 gennaio del 1973 nel corso di
vari incontri e riunioni tra i massimi esponenti politici regionali (LC e ASPL) e i
rappresentanti dell’UIIF, vennero individuate delle linee di “compromesso” che
contribuirono ad attenuare, almeno temporaneamente, le divergenze".
!! ACRSR, Appunti Glavina.
1? Ibidem.
13 Ibid.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 135
L’ inversione di tendenza
Durante questi incontri i massimi dirigenti dell’ ASPL assunsero dei toni più
concilianti riconoscendo che “erano stati commessi alcuni errori e mancanze nei
confronti della minoranza e dell’ UIIF”. Alcuni rappresentanti delle autorità politi-
che regionali giunsero sino al punto di ‘considerare valide buona parte delle tesi e
delle istanze formulate dall’ UIIF nel 1970”. Alla luce di queste considerazioni le
due parti stabilirono di “operare di comune accordo per contribuire allo sviluppo
di un nuovo clima politico e di convivenza in quell’area”4.
Quali i motivi di questo repentino mutamento degli orientamenti politici? Le
strutture politiche jugoslave erano impegnate allora ad affrontare una nuova fase
del dibattito sugli emendamenti costituzionali e l’avvio di una radicale riforma
degli statuti comunali. Si stavano manifestando delle spinte significative tese ad
assegnare maggiore autonomia alle singole repubbliche (la Costituzione jugoslava
del 1974, infatti, riconoscerà alle unità federali il ruolo di veri e propri Stati). Un
contesto che imponeva alle autorità della Croazia di allentare momentaneamente
la “morsa” nei confronti delle minoranze e di ricercare, con una manovra che si
dimostrerà essenzialmente strumentale e “di facciata”, delle linee di intesa anche
con i gruppi nazionali.
Nella seduta della Presidenza del 7 febbraio 1973, 1’ UIIF ribadì l’esigenza di
individuare delle soluzioni volte ad assicurare una maggiore uniformità di tratta-
mento giuridico della minoranza tra le repubbliche di Slovenia e Croazia. L’Unio-
ne richiese in quell’occasione un incontro con i massimi vertici politici della
Slovenia e il diritto di nominare un proprio rappresentante nella Commissione di
esperti del Comitato misto italo-jugoslavo.
Era ormai evidente che nello schema della nuova Costituzione della Repub-
blica Socialista di Slovenia sarebbero state introdotte delle soluzioni legislative più
avanzate rispetto a quelle previste dalla Croazia, soprattutto per quanto atteneva la
facoltà delle minoranze di “organizzarsi in comunità autogestite”. Secondo l’Unio-
ne tali forme di tutela si sarebbero dovute estendere pure alla Croazia".
A questo scopo vennero organizzate alcune importanti riunioni con i massimi
esponenti della LC e dell’ ASPL della Croazia e della regione istro-quarnerina. Fu
così che il 23 maggio del 1973 le Commissioni regionali per le questioni nazionali
della LC e dell’ ASPL approvarono, nel corso di una seduta congiunta, la proposta
14 Ibid.
!5 La Voce del Popolo, 6 agosto 1972.
136 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155
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Antonio Borme alla XIV Assemblea dell’Unione (Parenzo, 1971)
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 137
di costituire delle “specifiche comunità autogestite” anche per gli appartenenti al
gruppo nazionale italiano dell’Istria e di Fiume, alla stregua di quelle previste dalla
nuova legislazione slovena nel Capodistriano!°.
Il dibattito costituzionale
In contrasto con la linea tracciata dai massimi fori socio-politici regionali, a
Pola le autorità locali continuavano ad operare in quel momento contro gli elemen-
tari interessi del gruppo nazionale. Le autorità locali, infatti, sottoposero a dibattito
pubblico, il 19 maggio 1973, una nuova bozza di statuto comunale che non teneva
conto delle istanze della comunità italiana e delle indicazioni contenute nel “Pro-
gramma d’azione” formulato dall’ Unione nel 1970. Il nuovo testo riconosceva lo
status di “zone nazionalmente miste” solamente alle località di Dignano, Gallesano
e Sissano, escludendo i centri di Pola e di Fasana. Erano stati introdotti, ancora una
volta princìpi basati esclusivamente sul fattore numerico. Vi fu una generale alzata
di scudi da parte del gruppo nazionale, che obbligò i fattori politici locali a
riformulare, parzialmente, il testo dello Statuto, il quale comunque venne approva-
to in una versione assolutamente non corrispondente ai bisogni e alle aspettative
della comunità".
Superati definitivamente gli ostacoli e le resistenze opposti dalle autorità
locali, venne finalmente costituita, il 5 settembre del 1973, anche la Comunità degli
Italiani di Pola, chiudendo così la complessa fase di “trasformazione” dei sodalizi
della minoranza, segnata da notevoli difficoltà, contrasti e divergenze politiche "5.
Nel corso del dibattito pubblico sugli emendamenti costituzionali nelle Comu-
nità degli Italiani vennero organizzati comizi e tavole rotonde seguiti con interesse
e partecipazione da centinaia di connazionali. L’UIIF volle promuovere inoltre, in
questo periodo, un’importante iniziativa allo scopo di sensibilizzare l’opinione
pubblica ed informare adeguatamente la maggioranza sui problemi e le istanze del
gruppo nazionale italiano.
!6 La Voce del Popolo, 6 ottobre 1973.
!7 ACRSR, Foglio d'informazioni dell'UIIF, n.1.
18 La Voce del Popolo, 6 settembre 1973.
138 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155
Il “Foglio d’informazioni” dell’UIIF
Nacque così l’idea di pubblicare un “Foglio di informazioni” (Bollettino)
dell’Unione degli Italiani (in lingua croata e slovena). L'iniziativa era ritenuta
indispensabile data la poca obiettività e la mancanza di sensibilità dimostrate della
stampa croata e slovena nei confronti dei problemi della comunità italiana.
Il primo numero del “Foglio”, uscito all’inizio di ottobre, comprendeva
un’analisi comparativa dei nuovi schemi delle costituzioni croata e slovena, e
denunciava il notevole divario esistente tra i due testi per quanto atteneva la
posizione, il ruolo e i diritti della comunità nazionale!?.
La costituzione slovena aveva accolto buona parte delle richieste avanzate
dall’ Unione, mentre quella croata non solo le aveva ignorate, ma aveva persino
respinto le proposte degli organismi socio-politici dell’area istro-quarnerina, i
quali avevano ipotizzato di costituire, sull’esempio delle CIA previste in Slovenia,
come già rilevato, delle comunità autogestite per gli appartenenti alla comunità
italiana anche in Istria ed a Fiume?®.
Il primo (ed unico) numero del “Foglio di informazioni” offriva inoltre
un’ampia panoramica relativa alla posizione giuridica ed ai diritti previsti dagli
statuti comunali nell’area istro-quarnerina e denunciava l’ involuzione registrata, in
questo campo, negli ultimi anni, con la messa al bando dello “Statuto modello”.
Processi inquisitori
Il “Foglio di informazioni” divenne il pretesto per dare inizio ad una nuova,
ancor più aspra, campagna di accuse nei confronti dell’UIIF. I rilievi contenuti
nella pubblicazione ponevano in risalto le gravi responabilità accumulate dalle
autorità politiche della Croazia che, negli ultimi decenni, avevano perseguito una
pesante politica assimilatrice e di “contenimento” nei confronti della comunità
italiana. Quasi tutti i comitati comunali della Lega dei comunisti dell’Istria e di
Fiume intentarono dei veri e propri “processi politici” nei confronti dell’UIIF. Il
primo a lanciare l'attacco con accuse diffamanti fu il Comitato della LC polese?'.
Dopo Pola fu la volta del Comitato comunale della LC di Fiume. Anche in
!° La Voce del Popolo, 6 ottobre 1973.
20 Ibidem.
2! Glas Istre-Novi List, 3 novembre 1973.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 139
questa occasione non venne preso di mira solo il “Foglio”, ma l’attività comples-
siva, l’indirizzo programmatico e lo Statuto dell’UIIF, approvati all’ Assemblea di
Parenzo. Quasi tutti i comitati della LC della Regione si erano associati all’atto di
accusa. L’azione promossa dalle strutture locali del Partito unico attendeva ora solo
l’avallo conlusivo e l’“imprimatur” del Comitato intercomunale della Lega. Un
atto che avrebbe inevitabilmente comportato anche l’applicazione di “severe mi-
sure nei confronti di singoli e di istituzioni”.
Secondo gli organismi della LC le posizioni dell’ UIIF “stavano falsando la
vera situazione degli italiani in Jugoslavia ed aderendo in pieno alle tesi degli
irredentisti d’oltreconfine”. Interessanti pure alcune segnalazioni che ben illustra-
vano il carattere delle riunioni dei vari comitati della Lega convocati per discutere
sul “Foglio d’informazioni” dell’ UIIF. La maggior parte dei rappresentanti politici
presenti, infatti, non sapeva nemmeno quali fossero i contenuti del Foglio “incri-
minato” né aveva mai avuto in visione una copia dello stesso. Le accuse più pesanti
comunque riguardavano un passo in cui gli autori definivano “travagliata” l’esi-
stenza della comunità italiana dal dopoguerra in poi.
Il Comitato regionale della LC inferse il colpo finale. Furono subito messi
“sotto accusa” e richiamati alle “responsabilità di partito” i cinque membri della
redazione del Foglio, appartenenti tutti alla Presidenza dell’Unione (Luciano
Giuricin, responsabile, Antonio Borme, Giovanni Radossi, Corrado Iliasich e Leo
Fusilli). L’imputato principale però non poteva essere che il Presidente Antonio
Borme il quale ben presto divenne oggetto di ogni tipo di indagini e di controlli,
sia da parte delle autorità politiche che di quelle di polizia. Nei suoi confronti i
servizi di sicurezza jugoslavi, (come verrà reso noto solo alla alla fine degli anni
Ottanta) aprirono un voluminoso dossier di oltre mile pagine?.
Le reazioni dell’ Unione
Una prima e immediata risposta a quesa campagna venne dalla Presidenza
dell’UIIF?4. In questa occasione, l’ Organismo espresse il grave stato di inquietu-
dine presente nelle file della comunità italiana in seguito alle accuse gratuite ed
ingiustificate rivolte al Foglio di informazioni dell’ UIIF.
22 La Voce del Popolo, 7 novembre 1973.
23 “Relazione di Ernest Cukrov alla Commissione per le questioni nazionali dell'ASPL regionale”, La Voce
del Popolo, 15 marzo 1988.
24 La Voce del Popolo, 8 novembre 1973.
140 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155
L’UIIF inoltre protestò per il fatto che queste critiche erano state rivolte all’
Organizzazione della comunità italiana senza consentire ai suoi rappresentanti
ufficiali di difendersi, ovvero di esprimere, nelle sedi adeguate, i punti di vista e le
posizioni della minoranza.
Secondo il Comitato dell’Unione — come rilevato dai resoconti de “La Voce
del Popolo” — si trattava di un vero e proprio “atto intimidatorio teso a bloccare le
istanze e le rivendicazioni avanzate dall’ UIIF nell’ambito del dibattito sugli emen-
damenti costituzionali e statutari”. Da qui l'appello dell’ Unione a “farla finita con
le insinuazioni e le accuse di irredentismo, puntualmente indirizzate alla minoranza
italiana ogni qual volta questa chiedeva l’attuazione dei propri diritti”??.
La requisitoria zagabrese
L'ultima doccia fredda venne registrata nel corso della riunione di una dele-
gazione dell’ UIIF con alcuni tra i principali esponenti del CC LC della Croazia,
tenutasi a Zagabria il 29 novembre del 1973. A nulla valsero le ragioni esposte dal
presidente Borme e dai suoi collaboratori.
In quell’occasione gli esponenti repubblicani (guidati dall’alto funzionario
Marinko Gruié) espressero delle accuse pesantissime nei confronti dell’ UIIF?°,
La causa del deteriorarsi dei rapporti interetnici e del pesante clima politico in
Istria venne attribuita esclusivamente ai dirigenti dell’ UIIF, mentre venivano posti
in secondo piano i danni provocati dal nazionalismo croato che, sino alla riunione
di Karadordevo, aveva trovato ampi spazi ed appoggi nelle stesse strutture della
LC repubblicana e regionale. All’ Unione venne intimato di allontanare quanto
prima “tutti coloro che avevano contribuito alla realizzazione del tanto deprecato
Foglio di informazioni e, naturalmente, di sospendere immediatamente la sua
pubblicazione”.
Netto fu inoltre il rifiuto della LC della Croazia di adeguare e di uniformare
lo schema costituzionale di quella repubblica, per quanto atteneva i diritti della
comunità italiana, alle soluzioni giuridiche adottate in Slovenia. Per gli esponenti
politici croati non si trattava che di “assurde speculazioni”. L'Unione venne
25 Ibidem.
26 ACRSR, Appunti Glavina.
27 Ibidem.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 141
sollecitata a riformulare i propri orientamenti programmatici e le proprie istanze.
Quanto successo aZagabriaera la dimostrazione più chiara che il conflitto non
poteva avere più alcuna via d’uscita e che, di conseguenza, si sarebbero profilati
all'orizzonte dei momenti ancora più difficili per il gruppo nazionale.
Il 1974 può essere considerato uno dei periodi più critici di tutta la storia della
comunità nazionale italiana in Jugoslavia.
Già nel mese di marzo scoppiò un’altra delle numerose crisi nelle relazioni fra
Italia e Jugoslavia per la delimitazione dei confini e la sovranità sulle Zone A e B
dell’ex Territorio Libero di Trieste (questione che avrebbe trovato una composi-
zione definitiva, l’anno successivo, solo con la firma degli Accordi di Osimo).
Si sviluppò un pesante clima di tensione, acuito dallo scambio di note diplo-
matiche e da manifestazioni di piazza. Si giunse, pur indirettamente, sino alla
minaccia delle armi e alla mobilitazione, da parte jugoslava, di migliaia di riservisti
dell’esercito. La situazione non poteva che ripercuotersi negativamente sul gruppo
nazionale e l’attività dell’UIIF.
L’azione intimidatrice nei confronti dell’Unione e dei suoi dirigenti, rivolta in
particolare contro il presidente Antonio Borme, continuò imperterrita.
A Rovigno il Presidente dell’ UIIF, con un’azione orchestrata dall’alto, venne
espulso dalla Lega dei comunisti. Il provvedimento, infondato e del tutto arbitrario,
era dettato dalla necessità di fornire un pretesto alla sua destituzione anche dalla
carica di presidente dell’ Unione.
In questo periodo, inoltre (maggio-giugno 1974) furono messi sotto accusa a
quindi allontanati i maggiori esponenti delle organizzazioni socio-politiche e delle
strutture municipali di Rovigno, rei di avere appoggiato le posizioni dell’Unione.
L’eliminazione di molti dirigenti politici della maggioraza favorevoli alle tesi del
gruppo nazionale (non solo a Rovigno e in altri comuni, ma anche a livello
regionale) indebolì notevolmente la posizione della comunità italiana”.
La Conferenza internazionale sulle minoranze
L’azione repressiva venne momentaneamente bloccata in occasione della
Conferenza internazionale sulle minoranze svoltasi a Trieste dall’ 11 al 14 luglio
del 1974? Durante i preparativi per l’organizzazione della Conferenza, le autorità
28 “Presentazione di G. Radossi”, Etnia, vol. III (1992), CRSR.
29 ACRSR, f. 4685/85, vedi anche La Voce del Popolo, 1 1, 12, e 25 luglio 1974.
142 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155
Jugoslave tentarono, con numerosi pretesti, di escludere il presidente Borme dalla
guida della delegazione dell’UIIF. Venne avanzata la proposta di dare vita ad
un’unica delegazione ufficiale jugoslava assieme ai rappresentanti di tutte le altre
minoranze della Federazione. La reazione immediata e risoluta dell’UIIF e delle
forze politiche italiane permisero a Borme non solo di presenziare al Convegno,
ma anche di presentare, a nome dell’UTIF, una dettagliata relazione sui problemi,
la situazione e le istanze della minoranza italiana in Jugoslavia?®.
I rappresentanti di alcuni partiti italiani proposero all’UIIF di denunciare
pubblicamente, nel corso della Conferenza, i pesanti attacchi mossi dalle autorità
Jugoslave contro il gruppo nazionale e le manovre tese a rimuovere i suoi massimi
dirigenti.
Allo scopo di evitare uno scandalo internazionale e le gravi ripecussioni che
ne potevano derivare (in una fase delicata che stava preludendo alla stipulazione
degli Accordi di Osimo), le autorità politiche slovene promisero di intervenire a
sostegno di Antonio Borme e di convincere le autorità croate e federali a desistere
dagli attacchi contro |’ UIIF.
La delegazione dell’ Unione, alla luce di queste promesse (che in seguito non
sarebbero state mantenute), decise di non compromettere i lavori della Conferen-
2001.
Le diplomazie italiana e jugoslava (impegnate allora in trattative per l’elabo-
razione degli Accordi che sarebbero stati successivamente siglati ad Osimo)
avevano ventilato l’ipotesi di coinvolgere direttamente nei negoziati — per la parte
concernente i diritti delle comunità nazionali e le relazioni culturali — pure i
rappresentanti delle minoranze slovena in Italia e italiana in Jugoslavia.
La Presidenza dell’ UIIF (nella seduta del 7 febbraio del 1973) decise, alla luce
delle proposte formulate allora dalle diplomazie, di nominare, quale rappresentante
dell’Unione, nell’ambito dei negoziati per la definizione degli Accordi di Osimo,
il presidente Antonio Borme. La proposta di coinvolgere nelle trattative anche ai
rappresentanti delle minoranze venne successivamente accantonata.
In concomitanza con la Conferenza di Trieste, il 12 luglio ebbe luogo il primo
incontro ufficiale tra una delegazione dell’UIIF e la Giunta regionale del Friuli-
Venezia Giulia. Un incontro importantissimo che segnò l’inizio della fattiva
collaborazione anche con quest’amministrazione regionale e il coinvolgimento
diretto delle strutture della Regione autonoma nei programmi e gli interventi
culturali avviati, a partire dal 1964, dall’ Università Popolare di Trieste.
30 Ibidem.
3 ACRSR, Appunti Glavina.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 143
La destituzione di Borme
Spentisi definitivamente i riflettori sulla Conferenza internazionale delle mi-
noranze di Trieste riprese l’azione repressiva delle autorità politiche croate nei
confronti dell’UIIF; azione che si sarebbe conclusa pochi mesi dopo con la
destituzione del presidente dell’Unione degli Italiani. L’esautorazione doveva
riguardare inizialmente tutti i componenti la Presidenza. L’azione si sarebbe
dovuta inoltre estendere anche a diversi membri del Comitato ed ai dirigenti delle
principali istituzioni del gruppo nazionale.
I condizionamenti ai quali furono sottoposti numerosi dirigenti dell’ UIIF
produssero conseguenze estremamente negative e di vasta portata.
Dato il deciso e ripetuto rifiuto del presidente Antonio Borme di rassegnare le
dimissioni, richieste insistentemente dalle autorità croate, ebbe inizio un’ esaspe-
rante opera di convincimento rivolta soprattutto ai membri della Presidenza
dell’UIIF iscritti alla Lega dei comunisti. Nei loro confronti fu esercitata ogni sorta
di pressioni e di minacce, al punto da costringerli ad agire contro la propria
coscienza.
Il 6 settembre nel corso di una riunione promossa a Fiume dai vertici dalla LC
e dall’ ASPL (presieduta dai dirigenti Vlahinic e Ferlin) l’ Unione venne sottoposta
ad un vero e proprio “ultimatum”. Alla luce di questi fatti lo stesso giorno si riunì
la Presidenza dell’UIIF (seduta straordinaria, cui non presenziò il presidente) per
decidere il da farsi. Venne prospettata la soluzione di rassegnare le dimissioni
collettive, in segno di protesta e di solidarietà con il presidente Borme. Nel corso
del dibattito emersero però vari distinguo e divergenze che, di fatto, impedirono ai
presenti di adottare una linea comune. Naufragata l’ipotesi delle dimmissioni
collettive (e considerato che le dimissioni di una parte sola dei componenti la
Presidenza sarebbe risultata inutile e controproducente) l’ Organismo si piegò al
diktat del potere”.
Il presidente Antonio Borme venne “esautorato” nella drammatica seduta del
Comitato, tenutasi a Pola il 13 settembre 1974 su “precisa richiesta delle organiz-
zazioni socio-politiche regionali delle Repubbliche socialiste di Croazia e di
Slovenia e sostituito dal facente funzioni Luigi Ferri” (come rilevato nell’ articolo
pubblicato dalla “Voce del Popolo” del 16 settembre 1974).
In quell’occasione il Comitato volle ribadire, in un comunicato trasmesso agli
32 “Testimonianza di Apollinio Abram”, La Voce del Popolo, 14 marzo 1988,
33 “Testimonianze di Glavina, Iliasich e Giuricin”, La Voce del Popolo, marzo 1988.
144 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155
organi di stampa, che “tutta l’attività svolta sino a quel momento era stata condotta
collegialmente e in piena sintonia con il Presidente, nel rispetto dello Statuto
dell’UIIF e del suo indirizzo programmatico”.
La “fretta” con cui le autorità politiche avevano imposto la destituzione di
Borme era certamente da ascriversi — in quel momento — all’obiettivo di eliminare
una voce “scomoda” in una fase delicata dei negoziati per gli Accordi di Osimo.
Tra gli obiettivi delle autorità vi era anche quello di porre “sotto controllo” le
imminenti celebrazioni per il Trentesimo della fondazione dell’UIIF; di evitare
cioé che i dirigenti della comunità potessero sfruttare quell’importante tribuna per
denunciare le prevaricazioni subite o rivendicare ancora una volta con forza le
istanze e i diritti della minoranza. Le celebrazioni del Trentennale, infatti, si
svolsero nella più assoluta “normalità”, senza Borme, (dopo essere state più volte
rimandate) ad Albona, il 29 settembre, alla presenza delle più importanti autorità
politiche e statali?”.
In base allo Statuto dell’UIIF allora in vigore il Presidente avrebbe potuto
essere destituito solamente dal massimo organo politico e deliberativo dell’Orga-
nizzazione, ovvero dall’ Assemblea, che sull’argomento non fu mai interpellata.
Il dopo-Borme
Con la destituzione del presidente Borme si diffuse in seno ai connazionali un
senso di costernazione e di profonda amarezza, che contribuì a segnare per lungo
tempo l’attività dell’UIIF e a determinare un clima generale di sfiducia nelle
prospettive di sviluppo del gruppo nazionale.
L’operazione di definitivo “smantellamento” delle conquiste realizzate
dall’ Unione venne portata a termine proprio in questo periodo. Una fase lunga e
complessa — quella del “dopo-Borme” — caratterizzata da una profonda involuzione
dei diritti e dei livelli di tutela della comunità, dall’ annullamento di ogni spazio di
autonomia e di soggettivita e da una timida e larvata lotta delle strutture dell’ UIIF
in difesa, almeno in parte, delle posizioni acquisite.
La grave crisi che aveva investito l’UIIF con la destituzione di Borme e i duri
attacchi condotti dalle strutture politiche jugoslave avrebbero potuto seriamente com-
promettere i rapporti di collaborazione con l’Università Popolare di Trieste. Fortuna-
34 Verbale della riunione del Comitato dell’UIIF. 13 settembre 1974, ACRSR, f. 1695/74.
35 La Voce del Popolo, 30 settembre 1974.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 145
Conferenza UIIF (Parenzo, 1984)
tamente grazie all'alto livello raggiuto negli anni precedenti dalla collaborazione,
al suo consolidarsi all’interno del tessuto del gruppo nazionale, e, soprattutto, all’inte-
resse delle autorità jugoslave a non incrinare i rapporti con l’Italia in seguito alla sigla
degli Accordi di Osimo, le relazioni con l’ UPT non solo non subirono alcuna battuta
d’arresto ma, al contrario, conobbero una nuova stagione di crescita.
A rompere il ghiaccio fu la Giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia, la
quale, in ottemperanza agli accordi stabiliti nel primo incontro con l’UIIF del
luglio 1973, decise di consolidare i rapporti di colaborazione con il gruppo nazio-
nale italiano e di devolvere nuovi stanziamenti a favore dell’UPT estendendo così
il campo degli interventi culturali. Il 21 febbraio 1975 ebbe luogo a Trieste un
nuovo incontro tra una rappresentanza dell’ Unione e la Giunta regionale. In quella
occasione venne siglato un accordo ed elaborato un programma integrativo di
interventi e di iniziative rivolte a potenziare l’attività dell’UPT?°,
L’interessamento espresso dalla Giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia e
la costante attenzione rivolta alla comunità italiana dalla Nazione Madre contribui-
36 ACRSR, f. 3886/84 e 4685/84.
146 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155
rono a modificare in parte anche gli atteggiamenti delle autorità politiche croate e
slovene.
La “piattaforma ideale”
Il 15 maggio 1975, un gruppo di lavoro nominato dai Comitati esecutivi della
Lega dei comunisti della Croazia e della Slovenia, elaborò un documento denomi-
nato “Schema di piattaforma ideale per l’elaborazione dello Statuto dell’Unione
degli Italiani dell'Istria, di Fiume e del Litorale sloveno”, con l’intento preciso di
annullare l’indirizzo programmatico e lo statuto approvati dall’UIIF nel 1971”.
L’operazione veniva promossa ufficialmente — queste le giustificazioni forma-
li adotte delle autorità — “per adeguare i documenti fondamentali dell’Unione ai
nuovi principi costituzionali della Croazia e della Slovenia”.
Secondo il documento l’UIIF non poteva essere più riconosciuta quale ‘“sog-
getto autonomo ed autogestito”, in quanto i diritti e i doveri del cittadino e del
lavoratore si dovevano “realizzare unicamente nell’ambito delle organizzazioni
socio-politiche e delle strutture del sistema”. Pertanto, compito delle associazioni
dei gruppi nazionali doveva essere quello di “coltivare e sviluppare la cultura e le
altre peculiarità nazionali, delegando ogni altro problema all’ Alleanza Socialista e
al Partito”, \
Il documento non si limitava a stabilire dei principi, bensì contemplava anche
clausole e norme dettagliate sul ruolo e il funzionamento dei vari Organismi
dell’ Unione. L'Unione avrebbe dovuto — in base alle disposizioni delle autorità —
“limitarsi ad emanare uno statuto che rispecchiasse fedelmente i contenuti di
questa piattaforma ideale, ed astenersi dall’approvare altri documenti politici o
indirizzi programmatici”?
L’“irredentismo” dell’EDIT
Lo schema della “Piattaforma ideale” venne posto al vaglio della Commissio-
ne per le questioni nazionali dell’ ASPL regionale il 20 ottobre 1975‘.
37 ACRSR, f. 2089/76.
38 Ibidem.
39 Poid.
4 Ibid.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 147
Veniva offerta per la prima volta l’opportunità di partecipare al dibattito, in
questo modo, anche ai rappresentanti dell’ UIIF che, sino a quel momento, non
erano stati interpellati ufficialmente sui contenuti di un documento che riguardava
direttamente il futuro assetto della loro Organizzazione.
I rappresentanti dell’ UIIF, intervenendo in questa sede, dopo avere espresso il
loro rammarico peri metodi seguiti dalle autorità, constatarono che la “Piattaforma
ideale” non corrispondeva “né alle aspettative, né alle esigenze della comunità
italiana e delle sue istituzioni”.
In quell’epoca venne inoltre avviata una durissima campagna di accuse nei
confronti della casa editrice “Edit”. Il Ministro agli Interni M. Uzelac mosse infatti
dei pesanti attacchi nei confronti della casa editrice, nella quale, secondo lui,
stavano “spirando nuovi aliti di irredentismo””!.
La manovra suscitò viva indignazione in seno al gruppo nazionale e tra i
dipendenti della casa editrice. I pesanti attacchi all’“Edit” erano evidentemente
frutto di un disegno teso ad intimidire quegli esponenti delle pubblicazioni e degli
organi d’informazione del gruppo nazionale che si erano esposti maggiormente
sostenendo le posizioni e le istanze dell’ Unione degli Italiani.
Il Convegno di Abbazia
Concluso il processo di “normalizzazione” dell’ UIIF, le autorità politiche
cercarono di legittimare l’azione condotta nei confronti della minoranza e di
stabilire almeno una parvenza di “legalità”.
A questo scopo venne organizzato ad Abbazia, il 30 ottobre 1975, il primo
Convegno regionale delle Commissioni assembleari (comunali) per i problemi
nazionali‘.
Gli organismi, istituiti in base alla nuova Costituzione croata, si riunirono la
prima volta allo scopo di effettuare un’accurata analisi delle disposizioni relative
ai diritti del gruppo nazionale italiano previste dagli statuti comunali.
Nel corso del convegno venne constatata la notevole discrepanza e diversità,
per quanto atteneva i livelli di tutela della comunità, esistente tra gli statuti
comunali delle varie località dell'Istria e del Quarnero. In diverse occasioni le
norme previste dagli statuti comunali erano persino più restrittive e scarne di quelle
previste dalla costituzione repubblicana.
4! ACRSR, f. 4270/84.
42 ACRSR, f. 2090/76.
148 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155
Uno dei temi dibattuti ad Abbazia riguardava l’attuazione pratica delle norme
costituzionali e statutarie; attuazione che spesso risultava essere contrassegnata da
enormi inadempienze, ritardi e lacune.
Tra le varie conclusioni del Convegno quella secondo cui le disposizioni degli
Statuti comunali non potevano essere considerate sufficienti a garantire, da sole,
l’affermazione dei diritti e un’adeguata tutela del gruppo nazionale. Ad esse
avrebbero dovuto essere affiancate altre e più efficaci misure di carattere politico,
amministrativo e sociale allo scopo di realizzare compiutamente il dettato costitu-
zionale.
La sigla degli Accordi di Osimo (10 novembre 1975) contribuì ad alleviare lo
stato di profonda tensione, di disagio e di sfiducia nel quale si trovava ad operare
la comunità italiana ed a migliorare, anche se parzialmente, la posizione della
minoranza. La firma del Trattato permise infatti di ufficializzare i rapporti tra
l’ Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e 1’ Università Popolare di Trieste, e di
aprire un nuovo capitolo nelle relazioni tra la comunità e la Nazione Madre.
Statuto e UIIF riformati
Erano fondate quindi le speranze che i nuovi rapporti tra i due Paesi, oltre che
incrementare la collaborazione e l'amicizia reciproca, contribuissero a creare pure
un nuovo clima di convivenza e di tolleranza nella regione, a tutto vantaggio del
gruppo nazionale e delle sue istituzioni.
Non tutto però stava procedendo nel senso e la direzione auspicati. Le autorità
regionali dell’area istro-quarnerina continuarono infatti a procrastinare la convo-
cazione dell’ Assemblea dell’ UTIF; organismo che si sarebbe potuto riunire — a loro
avviso — solo a conclusione del processo di “trasformazione” dell’assetto statutario
dell’Unione.
Il 15 ottobre del 1976 la Commissione per le questioni nazionali dell’ ASPL
regionale di Fiume decise di sottoporre al vaglio lo schema di statuto del’ UIIF e di
discutere le indicazioni e le osservazioni pervenute da parte delle commissioni
comunali per le nazionalità”.
I preparativi tesi a “riorganizzare” 1’ Unione degli Italiani procedettero ancora
per lungo tempo. Solo nel maggio del 1977 le autorità politiche della Croazia e
della Slovenia decisero di sciogliere ogni riserva e di dare il via libera alla
convocazione dell’ Assemblea dell’ UIIF.
43 ACRSR, f. 2089/86.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 149
La XV Assemblea dell’ Unione degli Italiani ebbe luogo a Pola, il 13 maggio
1977, a distanza di sei anni dalla precedente storica Assemblea di Parenzo”.
Si trattò di un’assise formale, nel corso della quale venne presentato il bilancio
dell’attività degli ultimi anni, sottacendo le ragioni della crisi ed i motivi che
determinarono la defenestrazione di Borme. Particolare risalto venne dato all’atti-
vità culturale che stava registrando un notevole incremento grazie allo sviluppo
costante dei rapporti di collaborazione con l’UPT.
Si concludeva così un periodotra i più importanti e, insieme, più difficili nella
storia dell’Organizzazione del gruppo nazionale; un periodo che sarebbe stato
caratterizzato dall’uscita definitiva di scena anche di alcuni tra i più stretti collabo-
ratori di Borme e dei componenti la dirigenza dell’ UIIF eletti nella prima metà
degli anni Sessanta.
L’ Assemblea, prima di sciogliersi, volle compiere un atto di giustizia morale
ed esprimere ancora una volta, nonostante le pressioni delle autorità, piena solida-
rietà nei confronti del presidente destituito: nel corso dell’assise, infatti, la Com-
missione di controllo rilevò ufficialmente che l’esautorazione di Borme fu “un atto
illegale, in aperto contrasto con lo Statuto dell’ UIIF”.
Un mese più tardi, il 17 giugno 1977, si svolse a Capodistria la prima sessione
costitutiva della I Conferenza dell’ UIIF, un organismo che rifletteva i dettami del
nuovo Statuto concepito in base alle disposizioni ed ai suggerimenti delle autorità
politiche della Croazia e della Slovenia. Il nuovo documento, il cui schema
fondamentale era stato elaborato dall’ ASPL, mise al bando definitivamente i
principi statutari e programmatici fissati dall’ UIIF nel 1971.
Il cambio della guardia
Molti furono i disagi e le incognite alla vigilia della Conferenza. Lo si deduce
dal verbale della riunione preparatoria, indetta il 4 luglio dai vertici dell’ ASPL, per
concordare la scelta dei candidati alle massime cariche dell’ Unione”.
In quest'occasione, dopo avere rilevato che i criteri per la scelta dei quadri
sarebbero stati “più rigidi rispetto al passato”, i rappresentanti politici presenti si
opposero decisamente alla candidatura e alla rielezione di quei dirigenti che
avevano collaborato con Borme. Vennero esclusi inoltre (per quanto atteneva la
carica di presidente) i candidati provenienti dalla Slovenia dato che “la parte
4 ACRSR, f. IV/1977.
45 Verbale della riunione, ACRSR, f. 4010/85.
150 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155
preponderante degli italiani si trovava in territorio croato e non sarebbe stato
conveniente richiamare alla responsabilità i compagni di un’altra Repubblica”.
Alcuni dei candidati proposti dalle autorità rinunciarono subito, mentre altri
accettarono la candidatura per “disciplina di Partito”. Venne formulata una rosa di
nomi che più tardi fu modificata. Gli ultimi ritocchi si ebbero il giorno stesso della
Conferenza quando, al posto del candidato proposto dal Partito, venne eletto
l’allora caporedattore della “Voce del Popolo” Mario Bonita, succeduto a Paolo
Lettis nella guida del giornale‘.
A questa Conferenza seguì un periodo di proficua attività culturale animata da
un rinnovato slancio nella collaborazione con l’UPT e una timida, ma graduale
ripresa dell’impegno politico. Mario Bonita, in seguito ai primi inevitabili scontri
con le autorità, non venne più ricandidato alla funzione di presidente (nel 1983) a
causa della presunta impossibilità — una condizione imposta dai vertici dell’ ASPL—
di “rinnovare per la seconda volta il suo mandato”.
Di scena i giovani
Alla seconda sessione della prima Conferenza dell’UIIF, svoltasi ad Umago
nel dicembre del 1978, si costituì la Commissione giovanile dell’ Unione con il
compito di stimolare le giovani generezioni ad inserirsi nella vita e nelle strutture
del gruppo nazionale e ad acquisire maggiore consapevolezza della propria appar-
tenenza nazionale. Vennero organizzate ben nove edizioni della “Festa giovanile
dell’ UIIF” (che comprendeva incontri culturali e sportivi, dibattiti, tavole rotonde,
spettacoli) in varie località dell’Istria con la partecipazione di migliaia di giovani**.
Tali iniziative contribuirono a risvegliare forze e potenziali un tempo assopiti
stimolando indirettamente l’affermazione e la crescita, anche sul piano politico, dei
primi movimenti d’opinione in seno alla comunità. Nel marzo del 1981, a Buie,
alla Terza sessione della Prima Conferenza dell’UIIF, nacque inoltre la Commis-
sione per le attività sportive e ricreative.
Nell’assise successiva, svoltasi a Pola 1’ 11 giugno del 1982, 1’ UIIF espresse
notevole preoccupazione per il notevole calo numerico dei connazionali rilevato
all’ultimo censimento (1981). Fra le cause, denunciate all’assemblea, l’inarresta-
46 Ibidem.
4? ACRSR, f.1V/1977.
48 AA.VV, Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume 1944-1984, Fiume, 1985.
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E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 151
Riunione della Presidenza dell’UIIF (Rovigno, 21 febbraio 1986)
bile processo assimilatorio determinato da un contesto politico e sociale sfavore-
vole e penalizzante per la minoranza.
In meno di un ventennio, ad esodo concluso, era stato registrato un calo
superiore al 60 per cento degli italiani.
Nell’ambito di quell’assemblea venne affrontato inoltre il problema della
mancata ricezione di TV Capodistria in vaste zone dell’Istria e di Fiume a causa
del rifiuto della Croazia di installare un ripetitore sul Monte Maggiore*®.
Bilinguismo e socializzazione
Una delle iniziative più significative avviate dalla rinnovata dirigenza
dell’ UIIF agli inizi degli anni Ottanta, fu quella relativa alla “socializzazione della
lingua e della cultura italiane” nel territorio di insediamento storico della comunità.
49 “La IV sessione ordinaria della I Conferenza dell’UIIF e la sessione costitutiva della II Conferenza
dell’UIIF (Pola, 1982; Fiume, 1982) ”, Documenti, vol. VII (1984), CRSR, Pola.
152 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155
Si trattava di un progetto politico di ampio respiro che si prefiggeva di
estendere l’uso della lingua e della cultura italiane e di fare sì che queste diventas-
sero, con l’ausilio di appropriati strumenti politici, giuridici, didattici, informativi
e per mezzo della graduale introduzione del bilinguismo, un patrimonio e una
risorsa del territorio.
Le tesi sulla socializzazione costituivano la naturale continuazione e l’ulterio-
re approfondimento del concetto di “bilinguismo integrale” elaborato dall’ UIIF
all’inizio degli anni Settanta. Il progetto era suffragato, tra l’altro, dall’emergere di
un rinato interesse, in quest'area, per la lingua, la cultura e la civiltà italiane.
L’importante progetto politico venne coronato, alla Terza sessione della Se-
conda Conferenza dell’UIIF, svoltasi a Pirano il 22 novembre 1985, dall’ approva-
zione delle “Dieci tesi sulla socializzazione”. Le tesi dell’UIIF sostenevano l’in-
troduzione del bilinguismo diffuso, lo sviluppo di nuovi rapporti tra maggioranza
e minoranza, l’obbligo e la responsabilità della maggioranza di garantire — con
opportuni strumenti giuridici, politici e sociali — la piena parità della componente
italiana e l’esigenza di favorire l’avvento di un clima di attiva convivenza.
Le deliberazioni della Conferenza di Pirano (a completamento di quelle
approvate l’anno precedente all’assise UIIF di Parenzo) costituivano per molti
aspetti un’anticipazione dei principi e delle impostazioni progettuali che la nuova
Unione Italiana ed i regionalisti della dieta Democratica Istriana avrebbero pro-
mosso a partire nel 1991”.
Nuove ripercussioni
I progetti politici e culturali dell’ UIIF in quel periodo stavano evidentemente
precorrendo i tempi. Erano infatti inaccettabili per le autorità politiche del momen-
to le istanze relative alla socializzazione e le richieste di bilinguismo avanzate dalla
comunità.
Si verificarono ben presto, quindi, come già avvenuto nel passato, dei contrasti
con le principali strutture di potere (ASPL e Lega dei comunisti).
Le prime avvisaglie del nuovo clima politico si avvertirono alla fine del 1985
in occasione della cerimonia di inaugurazione della sede della CI di Rovigno
(Palazzo Milossa), restaurata, per il tramite dell’UPT, con il contributo del Gover-
no italiano. L'Unione e la Comunità rovignese, quale segno di riconoscenza nei
5O “Ia II e III sessione ordinaria della Il Conferenza dell’UlIF (Parenzo, 1984; Pirano, 1985)”, Documenti,
vol.VIII (1986), CRSR, Pola.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 153
confronti della Nazione madre, proposero di affiggere all’esterno dell’edificio una
targa bilingue. La proposta venne respinta dalle autorità jugoslave. L’atteggiamen-
to provocò un irrigidimento nei rapporti tra i due stati e, per poco non sfociò in un
vero e proprio incidente diplomatico?'.
Alcune istituzioni del gruppo nazionale, in particolare il Centro di ricerche
storiche di Rovigno, vennero sottoposte con vari pretesti ad ispezioni e controlli da
parte di autorità militari e di polizia. Lo statuto del CRS venne respinto dal
Tribunale di Fiume e la sua legittimità venne rimessa alla Corte Costituzionale
della Croazia.
La Lega dei comunisti del Comune di Fiume diramò un documento “riservato”
nel quale si rilevavano “il potenziale ruolo di quinta colonna e i pericolosi atteg-
giamenti irredentistici dell’ UIIF”.
Si scatenò quindi una vera e propria campagna di stampa contro l’ Unione,
seguita da un’aspra polemica tra l’“Unità” (ed altre testate italiane), che avevano
preso le difese della minoranza, e il quotidiano zagabrese “Vjesnik”. Venne
inscenato persino un processo per spionaggio nei confronti di un connazionale allo
scopo di influenzare e intimorire le strutture della minoranza.
Il clima condizionò pesantemente la dirigenza della comunità italiana impe-
gnata, in quel periodo, a preparare le elezioni per il rinnovo dell’ Assemblea e della
Presidenza dell’UIIF. Notevoli furono le ingerenze e le pressioni delle autorità
politiche”.
I nuovi vertici politici del gruppo nazionale, in un contesto che determinò il
rimpasto quasi completo della Presidenza dell’ Unione vennero eletti alla Terza
conferenza dell’ UIIF a Rovigno, il 19 dicembre 1986 (dieci componenti la Presi-
denza uscente, compreso il segretario, su undici complessivi, a causa delle pressio-
ni attuate dalle autorità, non furono ricandidati o rinunciarono ai loro incarichi).
La comunità nel periodo successivo si trovò ad affrontare, oltre al problema
dei finanziamenti sempre più esigui, anche quello seguito all'approvazione di una
Legge federale sull’uso delle lingue delle nazionalità creata appositamente per il
Kosovo ma destinata a limitare fortemente i diritti di tutti i gruppi minoritari. Ad
accrescere le tensioni contribuirono le proposte di modifica avanzate in Croazia
alla Legge sulle istituzioni scolastiche che, se accolta, avrebbe compromesso
definitivamente lo sviluppo delle scuole italiane in Istria e a Fiume”.
SI Ibid., vedi anche l’”’Intervista ad Ennio Machin, presidente dell'ASPL regionale”, Glas Istre-Novi List,
16 marzo 1986.
52 ACRSR, f. 4070/90 e La Voce del Popolo, 27 marzo 1986.
53 Panorama, n.2 (1988).
154 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155
La reazione e il riscatto del gruppo nazionale, alla luce dei profondi mutamenti
che, alla fine degli anni Ottanta segnarono la scena politica e sociale jugoslava ed
europea, risultarono inevitabili.
Nel 1987 centinaia di cittadini firmarono una Petizione che denunciava il
profondo malessere del gruppo nazionale italiano.
Il dibattito che ne scaturì portò alla nascita di alcuni Movimenti d’opinione
(come Gruppo ’88) che contribuirono in modo significativo alla crescita civile e
democratica di quest'area, preludendo ai processi di rinnovamento e alle grandi
trasformazioni che, negli anni successivi, avrebbero interessato il gruppo nazionale
italiano e la società istriana.
E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 155
SAZETAK
U ovom radu autor prikazuje etape jednog od najtezih i najsloZenijih
razdoblja iz proslosti Talijanske unije za Istru i Rijeku, tj. zbivanja koja
su se odvijala od 14. sjednice Talijanske Unije za Istru i Rijeku (odrzane
u Poretu 23. svibnja 1971.) pa do konferencija o socijalizaciji (Poreò,
14. prosinca 1984., Piran 22. studenog 1985.), te peticije o problemima
manjina, koju pokreée Grupa ’88 (Kopar, studeni 1987.). To je faza
koju obiljezava budenje politiéke, kulturne i gradanske svijesti medu
Clanovima nacionalne manjine, nakon éèega, uslijed nacionalistiékih
pokreta u Hrvatskoj i represije jugoslavenskog rezima, dolazi do
smjenjivanja predsjednikta A. Bormea (13. rujna 1974.) te do
dugogodisnjeg razdoblja stagnacije za talijansku nacionalnu manjinu, koja
Ce se protegnuti sve do sredine osamdesetih godina.
Nakon pojave reformatorskih pokreta koje predvode mladi, okupljeni u
Komisiji za mladez TUIR-a, i Teza o socijalizaciji koje su proiza$le iz druge
Konferencije ne bez prateéih potreskoda, javlja se nova faza otvaranja i
obnove nacionalne manjine, koja ée dosegnuti vrhunac pokretanjem
peticije, polititke tribine i drugih znatajnih inicijativa Grupe ’88.
POVZETEK
Besedilo predstavlja glavne faze enega najbolj teZavnih in zapletenih,
vendar tudi pomembnih obdobij zgodovine Skupnosti istrskih in reSkih
Italijanov, od XIV, skupStine Italijanske Unije za Istro in Reko (Poreò,
23. maja 1971) do konferenc IUIR o socializaciji (Poreé, 14. decembra
1984, Piran, 22. novembra 1985) in do Peticije o problemih manjfine,
ki jo je spodbudila Skupina ’88 (Koper, december 1987). Gre za
obdobje, ki ga je oznafevala ena najpomembnejsih faz politièénega,
civilnega in kulturnega prebujanja narodnostne skupnosti, kateri sta kot
posledica nacionalistiénih gibanj na Hrvaskem in represije jugoslovan-
skega rezima sledila odstavitev (13. septembra 1974) predsednika
Antonia Bormeja in dolgotrajni zasto) italijanske narodnostne skupnosti
do srede osemdesetih let. Z delovanjem in z reformistiénimi predlogi
mladih, ki so se zdruzili v Mladinski odbor IUIR-a, in s Tezami o
socializaciji, ki jih je pripravila druga konferenza organizacije (Poreò,
1984, Piran, 1985), bo prislo do nove faze odprtosti, sprememb in
politiîénega zagona, ki bo dosegla svo] visek s peticijo, s politiéno tribuno
in z drugimi pomembnimi pobudami Skupine ’88.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 157
ITALIANI IN JUGOSLAVIA E SLOVENI IN ITALIA DI FRONTE
AL PROCESSO D’INDIPENDENZA DELLA SLOVENIA
(1990-1992)
STEFANO LUSA
Centro di ricerche storiche - Rovigno CDU 323.15(450+497.4/.5)" 1990/1992”
Fondazione Franca e Diego de Castro — Torino
Le minoranze nazionali, nell'ex Venezia-Giulia, non furono soggetti passivi nel processo di disgre-
gazione della Jugoslavia. La loro azione incise, non sempre marginalmente, nei rapporti tra Slovenia
ed Italia. Ancora una volta però emerse la maggior attenzione che Lubiana aveva (ed ha) per i propri
connazionali all’estero. La vicenda della mancata firma slovena, del Memorandum trilaterale sulla
tutela della minoranza italiana in Slovenia e Croazia, fu il primo brutto colpo per quelle “grandi
speranze” che la comunità italiana riponeva nella Nazione madre dopo la caduta del muro di Berlino.
In Italia e nell’ex Jugoslavia esiste una diversa sensibilità per la tutela delle
proprie minoranze all’estero. Negli anni settanta, nel corso della trattativa che
portò agli Accordi di Osimo, il capitolo relativo alla loro protezione vi entrò, grazie
alla volontà di Belgrado e, soprattutto, di Lubiana che chiedeva adeguate garanzie
per i propri connazionali in Italia.
L’ambasciatore italiano di allora in Jugoslavia, G. Walter Maccotta, ammise
di non aver condiviso le preoccupazioni sulla posizione delle comunità nazionali
che considerava “sufficientemente tutelate, dalla democrazia parlamentare in Ita-
lia, dal federalismo e plutietnismo in Jugoslavia”'. La convinzione rimaneva quella
che “i pochi italiani rimasti in Dalmazia ed Istria avevano deciso di farlo “per scelta
ideologica o per interesse materiale”.
Fu questo uno dei pregiudizi che gravava, e che continuò a pesare, sulla
comunità italiana.
Dopo l’esodo si sviluppò, così, una crescente dicotomia nel grado d’ attenzione
! G.W. MACCOTTA, “Osimo visto da Belgrado”, Rivista di studi politici internazionali, n.1/237, gennaio-
marzo 1993, p. 66.
? Idem.
158 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
dei governi e dell’opinione pubblica nei confronti dei loro connazionali rimasti
dall’altra parte del confine.
In pratica “lo stato italiano esprimeva riservo nei confronti della sua minoran-
za nell’ex Jugoslavia e per molto tempo non volle avere con essa contatti ufficia-
li”?. A suffragio di ciò basti dire che negli anni ’80 fu l’ambasciatore jugoslavo in
Italia, Marko Kosin, che intervenne per far ricevere a Roma una delegazione
dell’ Unione degli italiani dell’ Istria e di Fiume (UIIF). Ad onor del vero va, però,
ricordato che contatti diretti tra esponenti minoritari e rappresentanti del Governo
italiano erano del tutto impensabili senza il placet del regime comunista. L’UIIF
aveva, infatti, sovranità limitata nei rapporti con la nazione d’origine ed in genere
nella sua azione politica. I primi tentativi di avviare un dialogo diretto risalivano,
effettivamente, solo ai primi anni 80. Fu l'allora presidente dell’organizzazione,
Silvano Sau, a provare ad instaurare dei contatti. Chiese, infatti, udienza alla
Farnesina, “ufficialmente per discutere dei problemi di TV Capodistria”*, di cui era
direttore. Venne ricevuto dal sottosegretario Mario Fioret. Ne seguì un incontro
segretissimo ed informale a Tricesimo, tra cinque esponenti di spicco della comu-
nità nazionale: Silvano Sau, Luciano Monica, Giovanni Radossi, Ezio Giuricin e
Mario Bonita ed il sottosegretario Fioret accompagnato dal suo collaboratore
Gianfranco Facco Bonetti. Al colloquio parteciparono anche due esponenti
dell’ Università popolare di Trieste (UPT), Luciano e Alessandro Rossit. L’istitu-
zione del capoluogo giuliano aveva iniziato a collaborare con 1’ UIIF già nel 1964
ed era di fatto l’unico contatto tra l’Italia e la minoranza. La presenza dei due
dirigenti dell’UPT, probabilmente, serviva a rassicurare Fioret sul fatto che la
delegazione che si era presentata fosse un rappresentante qualificato della comuni-
tà dei rimasti. Sau, in effetti, si guardò bene dall’informare delle sue intenzioni la
presidenza dell’UIIF, di cui probabilmente non si fidava e, si limitò a diramare
cinque inviti personali, precisando che se uno solo avesse rinunciato, il tutto
sarebbe saltato. “Nel corso dei colloqui con Fioret per la prima volta venne
ipotizzato un possibile intervento della nazione madre a favore della sua comunità
all’estero”.
AI di là di ciò, in ogni caso, i problemi della minoranza italiana non erano
certamente un grosso pensiero per la Farnesina, basti pensare che l’ ambasciatore
3 M. KOSIN, Zatetki slovenske diplomacije z Italijo 1991-1996, Fakulteta za druzbene vede, Ljubljana,
2000, p. 52.
4 Testimonianza resa all’autore da Silvano Sau nell’ottobre 2001.
5 Idem.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 159
Kosin, fu chiamato, nel corso del suo incarico, soltanto una volta, dal ministero
degli esteri italiano, per discutere della comunità italiana. L'occasione fu il censi-
mento del 1981, che aveva visto una notevole diminuzione del numero di italiani
in Jugoslavia.
Le aperture della Jugoslavia verso l’economia di mercato
Con la svolta verso il libero mercato della società jugoslava, che iniziò a
prendere piede a metà degli anni ‘80, sembravano potersi schiudere nuove possi-
bilità anche per la piccola comunità italiana. In Italia, attraverso la minoranza
slovena, o per meglio dire attraverso la sua componente di sinistra, passavano
molte delle transazioni tra i due paesi, ora c’era chi iniziava a ipotizzare che un
analogo ruolo potesse venir giocato anche dagli italiani in Jugoslavia ed in questo
senso vi furono anche dei segnali che parvero incoraggianti.
Il Memorandum d’Intesa del 1988 tra Italia e Jugoslavia, assegnava a Belgra-
do 300 milioni di dollari di crediti a tassi agevolati. Nel pacchetto d’interventi
erano previste anche iniziative concrete a favore della minoranza italiana. Un altro
passo importante, in questo senso, si registrò nell’autunno del 1989, quando ad
Umago s’incontrarono i capi di governo d’Italia e di Jugoslavia, Giulio Andreotti
e Ante Markovié, per stipulare un protocollo economico che ammontava a 1000
miliardi di lire. “Strade, ferrovie, banche, energia, agroindustria”%, erano i campi
in cui ci si impegnava a collaborare.
Tra le iniziative che fecero da corollario al vertice, ci fu anche la firma
dell’accordo che sanciva la nascita del Business Innovation Center (BIC) di
Capodistria o per meglio dire dell’ Esten European Innovation Center (EEIC), che
doveva essere l’incubatrice della base economica della minoranza italiana in Istria
ed, in generale, uno stimolo per la piccola e media impresa della regione. Il tutto
venne accompagnato anche dalla promessa che il Governo italiano avrebbe presen-
tato la Legge di tutela della minoranza slovena in Italia. L'impegno fu concretiz-
zato nel febbraio del 1990 con il documento stilato del ministro Antonio Maccani-
co. La tematica delle minoranze, in quel momento, comunque, non sembrò essere
centrale né per l’Italia che, a dire il vero, non aveva mai accentuato il problema, né
per la Jugoslavia che pareva più attenta a salvare le malandate casse dello stato.
65M. SIMONOVICH, “Protocollo economico per mille miliardi”, La Voce del Popolo, 23 dicembre 1989.
160 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
Della base economica resta solo la prima pietra
La comunità italiana in Jugoslavia si stava rendendo conto che per soprav-
vivere, al di là dei governi, avrebbe dovuto costituire una propria base econo-
mica e lo strumento era stato individuato e si chiamava BIC o EEIC che dir si
voglia.
Lo sconvolgimento della realtà jugoslava, però, ora rischiava di mettere a
soqquadro quel progetto, ma gli esponenti della minoranza tirarono certamente un
sospiro di sollievo quando, il 6 giugno 1990, Lojze Peterle, nuovo capo del governo
sloveno, il primo uscito da libere elezioni dopo il 1945, partecipò a Trieste alla
firma dell’atto costitutivo del BIC di Capodistria. Poi, assieme al presidente del
Consiglio regionale del Friuli - Venezia Giulia, Adriano Biasutti, presenziò, ad
Ancarano, alla posa della prima pietra dello stabile che sarebbe dovuto essere
ultimato in un anno. Non restò che la prima pietra. Esattamente 12 mesi dopo, la
Commissione per le nazionalità dell'Assemblea repubblicana slovena, oltre a
lamentare che in generale le sue delibere non trovavano riscontro negli organismi
esecutivi, sottolineò, che nulla si stava muovendo per la costituzione della struttura.
Col passare del tempo s’iniziò a percepire che la base economica per la minoranza
era sempre più una chimera. Anche Unione italiana aveva risollevato il problema
nel maggio del 1991, quando, nella Piattaforma ed orientamenti programmatici
per l’incontro con il presidente della presidenza e con il presidente del consiglio
esecutivo della repubblica di Slovenia, inviata al presidente Kudan e al premier
Peterle, chiedeva “sostegno alle iniziative di collaborazione economica con la
vicina Repubblica italiana e le sue Regioni” e voleva che ‘in tal senso il Governo
della Repubblica di Slovenia si impegni a partecipare finanziariamente alla realiz-
zazione dell’infrastruttura dell’ E.E.I.C. Capodistria”.
Tra le iniziative che furono avviate in quel periodo, la Comunità autogestita
della nazionalità di Isola chiese di poter beneficiare, nel processo di denazionaliz-
zazione, di parte del patrimonio immobiliare di proprietà sociale. Se ne parlò
anche al Parlamento, in sede di commissione per le nazionalità, dove gli esponenti
isolani affermarono che: “I gruppi nazionali hanno il diritto di partecipare alla
ripartizione di quella proprietà che da bene sociale diventerà statale, per cui va
? Piattaforma ed orientamenti programmatici per l’incontro con il presidente della presidenza e con il
presidente del consiglio esecutivo della repubblica di Slovenia, 27 maggio 1991 (per gentile concessione del
presidente della Giunta esecutiva dell’UI, M. Tremul).
8 Idem.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 161
valutata la possibilità che parte di loro diventi proprietà dei gruppi nazionali,
soprattutto quanto ha attinenza con i valori culturali”.
La comunità italiana, in questo modo, sarebbe potuta diventare erede di parte
del patrimonio che la cultura veneta aveva lasciato nei territori d’insediamento
storico, in qualche modo il legittimo proprietario di parte dei “beni abbandonati”
passati in mano pubblica. Sull'argomento, però, nella stessa comunità italiana non
ci fu una piena identità di vedute.
Il cimento della democrazia e le minoranze
Nei primi mesi del 1990 la comunità slovena in Italia era in fermento: si stava
discutendo della proposta di Legge di tutela presentata da Maccanico. Il testo non
aveva riscosso eccessivo entusiasmo all’interno della minoranza ed anche a Lubia-
na aveva destato più di qualche perplessità. La Slovenia, intanto, aveva imboccato
con fermezza la strada della democrazia ed i partiti erano oramai impegnati nella
corsa al voto per le elezioni in programma nell’aprile del 90.
I cambiamenti democratici, in Slovenia, offrivano nuove prospettive di dialo-
go, i circoli della minoranza slovena in Italia, non legati alla sinistra, avevano
trovato, finalmente, anche nella madrepatria degli interlocutori. Così, 1’ Unione
Economico Culturale Slovena (UECS), “perse automaticamente la posizione pri-
vilegiata di cui aveva goduto per decenni nei rapporti con Lubiana, e di conseguen-
za buona parte della sua autorità a livello locale””!°. All’interno dell’organizzazio-
ne, si parlava, oramai, apertamente di perestrojka.
I mutamenti che coinvolsero la società ebbero i loro effetti anche nei rapporti
tra le comunità nazionali. Sino a quel momento la solidarietà tra le minoranze era
un dogma ideologico, che però aveva funzionato sempre a senso unico. Ben poche,
infatti, potevano essere le pretese della comunità italiana nello stato totalitario. Ora
il dialogo doveva essere reimpostato su altre basi e con la svolta democratica si capì
che andava ridisegnata la strategia delle minoranze, anche nei contatti reciproci.
Agli inizi del 1990 si registrarono alcuni incontri tra esponenti della comunità
nazionale italiana in Jugoslavia e di quella slovena in Italia.
Alla fine di febbraio, ad esempio, una delegazione dell’UIIF incontrò, a
? R. APOLLONIO, “La comunità italiana chiede concrete garanzie di sviluppo”, La Voce del Popolo, 28
febbraio 1991.
!0 M. KACIN WOHINC, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni in Italia, Venezia, 1998, p.132.
162 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
Trieste, gli esponenti dell’ Unione slovena (US). L’iniziativa era innovativa, visto
che i colloqui non avvenivano con l’ala sinistra degli sloveni in Italia, ma con il
loro partito etnico. Per gli sloveni il tema era sempre lo stesso, oramai da decenni:
l’approvazione di una soddisfacente Legge di tutela che regolamentasse i loro
diritti, mentre gli italiani in Jugoslavia si trovavano alle prese con la democratiz-
zazione e il passaggio all’economia di mercato, sia della società sia della loro etnia.
Un processo, questo, che avrebbe potuto mettere a rischio i diritti acquisiti nel
passato regime. Sul piano teorico, infatti, la tutela minoritaria, soprattutto in
Slovenia, era esemplarmente regolata.
Nel corso dei colloqui, tra UIIF e US, si concordò “che gli esponenti della
minoranza italiana si sarebbero adoperati presso il Governo di Roma per l’accogli-
mento di una Legge di tutela tale che soddisfi gli sloveni in Italia, mentre i
rappresentanti dell’Unione slovena nei loro contatti con gli esponenti politici
sloveni avrebbero posto anche la questione della minoranza italiana in Slovenia”!!.
L’idea sembrava ottima ed avrebbe consentito, alle minoranze, di mantenere un
ruolo indipendente e slegato dagli stati nazionali e domiciliari evitando il rischio
di essere strumentalizzate.
La strategia concordata venne rispettata, almeno per un periodo.
Quando, nella seconda metà del 1990, in quattro comuni della provincia di
Trieste si manifestò la volontà di abolire le carte d’identità bilingui, tra coloro che
fecero sentire la loro voce ci fu anche il presidente dell’ UIIF, Silvano Sau.
Alcuni mesi dopo i colloqui, invece, gli esponenti di US, nel corso di un
incontro con la coalizione del Demos, che aveva appena vinto le politiche in
Slovenia, si “adoperarono per il mantenimento ed il rafforzamento della tutela per
la minoranza italiana ed ungherese”. Lo stesso partito nel dicembre del 1990, in
una serie di proposte inerenti la nuova Costituzione, sottolineò, che per quanto
riguardava la minoranza italiana ed ungherese, il documento “non deve diminuire
i diritti, ovvero: deve ancora consolidarli”'5. Particolare rilievo venne dato al fatto
che vi fosse, alla Camera, una rappresentanza delle comunità nazionali.
!M.R, “Manjtini si bosta pomagali”, Delo, 26 febbraio 1990.
!? “Delegacija Slovenske skupnosti obiskala Demosa”, Primorski dnevnik, 26 aprile 1990.
13 “Predlogi SSk o vpraSanju manjsinske problematike v novi slovenski ustavi”, Primorski dnevnik, 20
dicembre 1990.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 163
Le paure della comunità italiana
Se con la possibile indipendenza della Slovenia, anche per la minoranza
slovena in Italia stava per realizzarsi il “sogno secolare” dello stato nazionale, lo
sfaldamento della Jugoslavia, per molti italiani residenti in Istria, rischiava di
mettere a repentaglio l’esistenza stessa della comunità italiana. Così, sin dal
momento in cui si era fatta strada l’idea della creazione di nuove entità statali, la
comunità nazionale italiana aveva manifestato qualche preoccupazione. Il proble-
ma non era, certo, il nuovo assetto democratico, anzi, negli anni ’80, proprio
esponenti della minoranza italiana avevano promosso dibattiti a livello globale
sulla necessità di liberalizzare la società; l'esempio più eloquente fu Gruppo 88. Il
movimento era nato da una petizione firmata, nel dicembre 1987 a Capodistria, da
centinaia di cittadini. Nel documento veniva posto l’accento sui problemi della
minoranza italiana ed era nato dalla reazione ad una proposta di legge federale che
avrebbe limitato i diritti delle minoranze in campo linguistico. Il provvedimento,
voluto più per il Kosovo che per l’Istria, era servito da pretesto, anche, per porre
l’accento su questioni di carattere generale. Così, i firmatari della petizione “de-
nunciavano il disegno di trasformare la Jugoslavia in uno Stato autoritario e
centralistico, sempre meno sensibile alle esigenze di decentramento e di autono-
mia, politica e nazionale, delle sue componenti”"*.
Nel 1990, però, all’interno della comunità ci si rendeva sempre più conto, che
la questione che si ponevaera che, con il progressivo cammino verso l’indipenden-
za delle due repubbliche, un confine avrebbe potuto, in tempi brevissimi, dividere
l’Istria e, con essa, anche la minoranza italiana.
Il problema, però, era ancora più acuito dal fatto che in Jugoslavia non
esistevano norme di tutela uniformi. Ci si trovava, infatti, alla presenza di diritti
alquanto diversi: in Slovenia lo standard era quello più elevato, mentre in Croazia
esistevano sostanziali differenze tra l’ex Zona B e il resto della penisola istriana e
Fiume, mentre non era prevista nessuna garanzia per le aree della Dalmazia.
Nonostante il migliore assetto giuridico e le minori pressioni nazionalistiche,
però, per assurdo, il gruppo più a rischio era proprio quello in Slovenia. Vista la
sua esiguità numerica (circa tremila persone), non poteva sperare di sopravvivere
senza gli altri ventisettemila connazionali residenti in Croazia. Proprio dal resto
dell’Istria provenivano, infatti, molti insegnanti delle scuole italiane e numerosi
ME, GIURICIN, ”’La comunità italiana dalla conclusione del secondo conflitto alla rinascita degli anni '80”,
(a cura di) T. Favaretto, E. Greco, // con fine riscoperto, Milano, 1997, p.104.
164 S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
impiegati di Radio e Tv Capodistria. Un altro fattore di non secondaria importanza,
era quello delle istituzioni. La minoranza italiana disponeva di una serie di struttu-
re: casa editrice, centro di ricerche storiche, teatro, che in caso di divisione
sarebbero rimaste al di là del confine.
Per Franco Juri — vignettista, deputato della democrazia liberale nel primo
parlamento democraticamente eletto, ambasciatore sloveno in Spagna e, poi, se-
gretario di stato agli esteri — il pericolo era che con la “confederalizzazione della
Jugoslavia e senza un adeguato assetto regionale dell’Istria, la minoranza italiana
sia ancora più divisa tra due stati indipendenti, il che probabilmente significherà la
sua definitiva assimilazione”.
La vittoria del Demos
La svolta vera e propria, per le due minoranze venne, comunque, dopo le prime
elezioni democratiche in Slovenia, con la vittoria della coalizione del Demos, che
univa i partiti che volevano rompere con il passato regime.
Già il 6 giugno, poco dopo l’insediamento del nuovo esecutivo, il premier,
Lojze Peterle, disse che ‘il governo avrà un eguale rapporto con tutte le componen-
ti della minoranza slovena”. Il cambio di rotta, però, voleva mutare soltanto i
rapporti di forza all’interno della minoranza e non significava assolutamente un
disimpegno o una diminuzione del grado d’attenzione delle forze politiche slovene
per questa realtà. La Slovenia, così, continuò a farsi latrice degli interessi della
propria comunità in Italia e diede chiaramente ad intendere che nulla sarebbe
cambiato, anzi, che ora l’attenzione sarebbe stata anche maggiore. Così “gli
esponenti sloveni in tutti gli incontri con i rappresentanti italiani ponevano l’ accen-
to sull’insufficiente tutela, sulle difficoltà e sulla cattiva posizione della minoranza
slovena e richiedevano, che la questione venisse sistemata con urgenza e con
benevolenza”. Il ministro degli esteri, Dimitrij Rupel, non mancò di promettere
un più forte interessamento per gli sloveni della provincia di Udine. La Slavia
veneta era una delle zone più emarginate del mondo minoritario e la Legge di
tutela, presentata dal ministro Maccanico, non la favoriva. Nel provvedimento,
15 R. SKRLI, “Strasilo Sudetskih Nemcev blodi po Vzhodni Evropi”, Primorske novice, 12 ottobre 1990.
16 M. RENKO, B. SULIGOI, “Prednost imajo majhna podjetja”, Delo, 7 giugno 1990.
!7 M. KOSIN, “Slovenska manjsina v slovensko italijanskih odnosih”, Rasprave in Gradivo, Institut za
narodnostna vprasanja, Ljubljana, 1998, p. 57.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 165
infatti, questa realtà non veniva equiparata al resto degli sloveni residenti in Italia,
ma si parlava di una non ben definita “comunità slavofona”.
Sino a quel momento, infatti, le autorità jugoslave avevano soprattutto puntato
sulla tutela degli sloveni della provincia di Trieste e Gorizia, occupandosi meno di
quelli della provincia di Udine. Del resto, il territorio della Slavia veneta, era
passato sotto sovranità italiana sin dal 1866, in seguito alla guerra che aveva visto
Prussia ed Italia contrapposte alla monarchia asburgica. All’epoca “i portavoce dei
suoi 35.000 abitanti furono chiamati, secondo l’usanza entrata in vigore con
l’unificazione italiana, ad esprimersi in favore del Regno sabaudo con un plebi-
scito. Nei giorni 21 e 22 ottobre 1866, tutti gli aventi diritto, con una sola eccezione
votarono per il ‘sì’’’!5. Ora il nuovo governo sloveno voleva dare chiaramente ad
intendere che aveva cambiato rotta e che intendeva occuparsi anche di quest'area.
Il mutamento più incisivo della politica di Lubiana, nei confronti dei propri
connazionali in Italia, però, ebbe una data ben precisa: il 21 giugno 1990. Quel
giorno una delegazione, guidata dal presidente dell’ Assemblea repubblicana, Fran-
ce Buéar e, con al seguito, anche il viceministro degli esteri, Zoran Thaler, fece
tappa a Trieste. Dopo aver incontrato i vertici regionali, la delegazione slovena,
ricevette nella sede del consolato jugoslavo, una rappresentanza della minoranza.
La richiesta di Lubiana fu esplicita: per coordinare i rapporti con noi costituite un
organismo che sia ‘un qualificato interlocutore per il Governo ed il Parlamento
sloveno”. Il messaggio era chiarissimo: superate le divisioni perché non ci sarà
più dialogo privilegiato con nessuno. Si trattava, quindi, di trovare una sintesi nel
frastagliato mondo della minoranza. Dalla riunione, però, emerse anche un altro
segnale che ci aiuta a capire qual era l’importanza che il nuovo Parlamento sloveno
ascriveva alla minoranza. Il neoeletto presidente dell’ Assemblea repubblicana,
France Buéar, nel corso dell’incontro, propose che alla Camera “in futuro non si
facesse nessun passo serio nei rapporti con il Friuli-Venezia Giulia, se prima non
si fossero consultati gli sloveni in Italia”?°, Appariva, quindi, chiaramente quanto
Lubiana avrebbe tenuto conto della posizione della comunità slovena nei rapporti
con i vicini e la cosa trovò conferma al momento del riconoscimento internazionale
della Slovenia.
Anche se la comunità italiana fu sufficientemente coinvolta nel processo di
democratizzazione della Slovenia, tuttavia, la sua adesione nei singoli partiti era
!8 M. KACIN WOHINC, J. PIRJEVEC, op.cit, p. 23.
!° I GRUDEN, “Pogovor s slovenci”, Dnevnik, 22 giugno 1990.
20 M. RENKO, “Slovenska delegacija v Trstu”, Delo, 22 giugno 1990.
166 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 157-196
tutt'altro che equamente distribuita. La minoranza poteva contare, nelle tre camere
dell’ Assemblea repubblicana, su sei esponenti, tre eletti ai seggi specifici, ad essa
riservati, ed altrettanti entrati in Parlamento attraverso le liste di partito. A fronte
di una buona presenza, anche di eminenti personalità nelle formazioni legate al
precedente regime, vi era una quasi totale assenza nei partiti della coalizione
Demos. Le ragioni parevano essere almeno tre. Innanzitutto vi era il legame di
molti esponenti di spicco della minoranza con gli ideali della sinistra o, per meglio
dire, il passato regime era riuscito a coinvolgere gli italiani inserendoli nella
struttura secondo il principio che “perfino i conflitti nazionali diventano più
controllabili, fintanto che i rappresentanti politici di ogni minoranza possono
sfamarsi alla mangiatoia comune”?!. In secondo luogo esisteva la paura di inclu-
dersi nelle strutture partitiche che avrebbero rischiato di etichettare i singoli
provocandone, forse, anche, l’esclusione dal mondo della minoranza ed infine si
doveva tener conto del carattere marcatamente nazionale, di stampo quasi ottocen-
tesco, della maggioranza delle formazioni politiche che erano sorte ex novo in
Slovenia. I nuovi “padroni del vapore”, così, non sempre riuscirono a comprendere
le esigenze e le paure della minoranza.
Nel vecchio sistema comunista i diritti delle comunità nazionali erano un
postulato che non poteva venir messo in discussione. Ora tutto il capitolo della
tutela minoritaria sarebbe dovuto essere riscritto nell’ambito della radicale riforma
dello stato. Per gli italiani e gli ungheresi si trattava, quindi, di impostare una dura
battaglia per il “mantenimento dei diritti acquisiti”. Così, ci fu una generale levata
di scudi quando, al momento della presentazione della prima bozza di Costituzio-
ne, non si fece accenno alcuno ai diritti particolari delle minoranze autoctone.
La democratizzazione interna 3
Era quello il tempo in cui anche nella comunità italiana tirava aria di demo-
cratizzazione. Si sentiva l’esigenza di superare la dimensione dei “vecchi circoli di
cultura di stampo staliniano”. Tra il 25 ed il 27 gennaio 1991 si svolsero le prime
consultazioni democratiche nell’ambito minoritario, che avrebbero dato vita
all’ Assemblea costituente, che avrebbe dovuto trasformare l’organizzazione degli
italiani. Così, poco più di un mese dopo, a Pola, 1° Unione degli italiani dell’Istria
e di Fiume, si trasformò in Unione italiana (UI). Alla guida dell’organizzazione salì
2 E.J. HOBSBAWM, I! secolo breve, Milano, 2000, p.170.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 157-196 167
Antonio Borme, il leader defenestrato 17 anni prima per volere del regime. La
rottura con il passato era netta, anche se all’interno dell’ Assemblea, il Movimento
per la costituente, che aveva guidato la fronda del rinnovamento, non riuscì ad
ottenere la maggioranza assoluta. In un clima, nel quale, in Slovenia e in Croazia,
si voleva giungere alla riconciliazione nazionale, anche la comunità italiana sentiva
la necessità di fare i conti con il proprio passato e voleva confrontarsi con coloro
che abbandonarono l’Istria scegliendo la via dell’esodo. I tentativi di avviare il
dialogo con il mondo degli andati ed il nuovo rapporto che si voleva instaurare con
la nazione madre destarono qualche preoccupazione tra i politici in Slovenia. Il
ministro degli esteri, Dimitri} Rupel, non mancò di rilevare, riferendosi agli italiani
d’Istria, che “occorrerà metterli in guardia sulle implicazioni internazionali per
quello, che a volte sembra, si dedichino”?? e Franco Juri costatò, in quel periodo,
che le nuove autorità democratiche in Slovenia e Croazia non erano immuni dal
preconcetto che legava gli italiani al fascismo ed all’irredentismo. Tali sospetti, del
resto, non vennero mai del tutto fugati, così, il ministro per gli sloveni nel mondo,
Janez Dular, nel marzo del 1991, sottolineò “che la minoranza italiana nei suoi
contatti con alcune organizzazioni ed organismi in Italia era troppo poco seletti-
va”?3. Nonostante il Demos non nascondesse le proprie simpatie per il mondo della
diaspora slovena, che in molti casi aveva scelto la via dell’esilio per evitare di
vivere in un regime comunista, ci fu sempre uno spiccato scetticismo su un
possibile ritorno degli esuli italiani. Lo stesso Dular precisò che “non tutti i casi
erano politicamente accettabili, perciò la questione non poteva essere trattata in
pacchetto”?*. Come dire riconciliazione sì, purché sia solo nazionale.
Lubiana, comunque, temeva spirali revisionistiche, aveva paura, cioè, che in
caso di proclamazione dell’indipendenza, potessero venir messi in discussione i
trattati internazionali stipulati tra Italia e Jugoslavia e con essi le norme che
regolavano il confine tra i due paesi. In ogni modo, fu lo stesso premier italiano,
Giulio Andreotti, a mandare a dire agli sloveni, e poi a confermarglielo anche di
persona, che Roma non avrebbe aperto un contenzioso confinario, ma il timore
rimase. Pertanto, Lubiana fu alquanto restia a toccare temi che erano stati regolati
con il diritto d’opzione previsto dal Memorandum di Londra e poi con gli Accordi
di Osimo ed il Trattato di Roma.
22 €. MOSCARDA, “La dichiarazione di Rupel”, La Voce del Popolo, 14 giugno 1990.
23 R. $KRLIJ, “Manjzine spet v vlogi Trojanskega konja in drobiza za barantantanje?”, Primorske novice, 26
marzo 1991.
24 Idem.
168 S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
Interlocutori privilegiati
Se i contrasti tra le nuove autorità slovene e la comunità italiana si fecero
sentire, non mancarono nemmeno i problemi con la minoranza slovena. L’apertura
del consolato italiano a Lubiana, ai primi di dicembre del 1990, fece registrare un
significativo attrito con la componente di sinistra della comunità slovena in Italia.
Durante i discorsi ufficiali, sia il presidente sloveno, Milan Kudan, sia il ministro
degli esteri italiano, Gianni De Michelis, sottolinearono l’importanza delle mino-
ranze. Il problema, però, fu che alla cerimonia parteciparono soltanto gli esponenti
di Unione slovena, mentre non furono invitate le altre componenti della minoranza
in Italia. Quella di scegliersi gli interlocutori era una pratica che piaceva ancora ai
vertici sloveni e che verrà tentata, senza successo, anche negli anni a venire.
L’UECS protestò fermamente per l'accaduto, ricordando che, in un’occasione
così importante, sarebbe stato necessario che gli esponenti sloveni avessero sentito
il parere della minoranza. Era, infatti, questa una prassi che si stava consolidando.
Contrariamente a quanto si poteva ipotizzare, la risposta del capo dello stato, Milan
Kuéan, non fu per nulla evasiva o di circostanza e ammise che “era stato fatto un
errore”? e volle garantire che analoghi scivoloni, in futuro, non sarebbero più
accaduti.
Intanto la Slovenia marciava rapidamente verso il referendum sull’indipen-
denza. La comunità italiana non sapeva bene a che santo votarsi. Così, se da una
parte non mancarono gli appelli per il sì, dall’altra si volle assumere un atteggia-
mento neutrale come se la questione riguardasse esclusivamente il popolo sloveno.
In realtà l’ostacolo era sempre rappresentato dal confine che sarebbe nato in Istria
tagliando in due la minoranza.
Il plebiscito del 23 dicembre 1990 superò anche le più rosee previsioni. I
residenti in Slovenia votarono compatti per il progetto politico dei vertici sloveni,
l’ampissimo margine ottenuto fugò anche gli ultimi dubbi su quella che era la
volontà incontrovertibile nella Repubblica più sviluppata della Federazione. Il
presidente Kuéan, alla vigilia del voto e immediatamente dopo, fece tappa a Trieste
e Gorizia, dove incontrò gli esponenti della minoranza slovena, spiegò loro le
ragioni di quella scelta e confermò, ancora una volta, l’attenzione di Lubiana per
le sue comunità all’estero.
A livello regionale erano tempi cupi per gli sloveni in Italia. L'atteggiamento
assunto dal sindaco di Gorizia, Scarano, alle audizioni sulla Legge di tutela delle
25 “Milan Kuéan in D. Rupel odgovarjata na pismo SKGZ”, Primorski dnevnik, 19 dicembre 1990.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 169
minoranze aveva provocato malcontento tra le fila della comunità nazionale. C'era,
poi, la questione del divieto dell’uso dello sloveno in alcuni consigli comunali, cui
andava aggiunta quella delle carte d’identità bilingui a Duino Aurisina. Se il
ministro degli interni, Vincenzo Scotti, da una parte aveva escluso che potessero
essere cancellate da un provvedimento amministrativo, dall’altra ipotizzava la
possibilità che i cittadini potessero ottenere il documento anche esclusivamente in
italiano mediante una norma inserita nella Legge di tutela degli sloveni (sic!). In
quel periodo si fece sentire la grave crisi al quotidiano della minoranza, il Primor-
ski dnevnik. Le 7500 copie vendute giornalmente non bastavano a coprire le spese
e l’azienda operava in forte perdita. Si mossero sia il mondo politico sloveno, che
però chiedeva la pluralizzazione del giornale, sia i politici locali italiani. Si stava
frattanto discutendo della Legge sulle aree di confine ed in quest'ambito si era
ipotizzata anche una parziale soluzione dei problemi finanziari delle minoranze. La
situazione era tutt'altro che rosea anche per la comunità italiana, dove la crisi
economica, legata allo sfacelo della Jugoslavia, si faceva pesantemente sentire.
Così, anche La Voce del Popolo di Fiume, il quotidiano della minoranza italiana,
stava attraversando una gravissima crisi finanziaria. Su tutto poi pesava il clima di
grave incertezza dettato dalla situazione contingente.
La proclamazione dell’indipendenza
Il 25 giugno 1991 la Slovenia proclamò l’indipendenza. Tra i cinque punti
della Carta costituzionale fondamentale sull’autonomia e l’indipendenza della
repubblica di Slovenia trovarono posto anche le minoranze: “Alle Comunità
italiana e magiara nella Repubblica di Slovenia e ai loro appartenenti sono garantiti
tutti i diritti stabiliti dalla Costituzione della Repubblica di Slovenia e dalle
convenzioni internazionali vigenti”.
Per Lubiana, comunque, erano tempi durissimi. Di lì a poco iniziò, infatti, la
“guerra dei confini”, cioè, il contrasto tra Armata federale e Difesa territoriale per
il controllo dei valichi di frontiera. In una situazione estremamente fluida, il
Ministero per l’informazione, guidato da Jelko Kacin, usò magistralmente i mass-
media. Un ruolo di non secondaria importanza, nel processo di affermazione
internazionale della causa slovena, venne giocato, anche, dalla comunità italiana e
da quelle che sembravano poter diventare sue istituzioni. Radio e TV Capodistria
26 Costituzione della Repubblica di Slovenia, Ljubljana, Uradni list Republike Slovenije, 1992, p. 7.
170 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
fecero sentire in Italia, direttamente in italiano la voce di Lubiana. Le due emittenti,
allora, potevano contare su una capillare rete che irradiava il loro segnale nella
Penisola. Il trasmettitore in onde medie di Radio Capodistria venne portato alla
massima potenza, 300 kw, così, dalla Svezia alla Libia, si poteva udire quanto stava
accadendo, mentre molte delle immagini della guerra in Slovenia e dei carri armati
Jugoslavi che erano scesi nelle strade, partirono proprio dalla sede di TV Capodi-
stria. Tanti giornalisti della comunità nazionale italiana si esposero in prima
persona per raccontare “dal fronte” quello che stava accadendo.
Anni più tardi “grazie” alle “lungimiranti” decisioni della RTV di Slovenia e
alla connivenza del Governo, la struttura di ritrasmissione del segnale in Italia di
radio e TV Capodistria venne smantellata e, successivamente, venne ridotta, di
dieci volte anche la potenza del trasmettitore in onde medie di Radio Capodistria,
che fu portata da 100 a 10 kw. Nate per propagandare il socialismo di stampo
jugoslavo in Italia, notevole fonte di reddito grazie agli introiti pubblicitari, eviden-
temente non servivano più (sic!).
Dopo la proclamazione dell’indipendenza la Slovenia aveva bisogno di alleati.
Partiti, uomini politici e semplici cittadini, cercarono di attivare tutti i loro contatti
in Italia. Un ruolo importantissimo, in questo senso, fu giocato dalla comunità
slovena che aveva amicizie, ed anche qualche influente presenza, soprattutto nelle
forze del centrosinistra, così, “la minoranza slovena durante l’aggressione alla
Slovenia aiutò molto attivamente la nazione madre. In Italia venne condotta una
vasta campagna d’informazione a favore della Slovenia. La Banca di credito di
Trieste e la Banca agricola di Gorizia, con i loro fondi, consentirono indisturbate
relazioni commerciali della Slovenia con l’estero?”. La comunità slovena, però,
rese anche un altro servizio a Lubiana, mise a sua disposizione la sua capacità di
analisi della società italiana. Diventò, così, un vero e proprio osservatorio privile-
giato. Non era certo un caso se il 4 maggio del 1991 fu proprio uno sloveno di
Trieste, Bogo Samsa, a rilevare sul Delo, come il sì italiano, al riconoscimento
della Slovenia, sarebbe potuto arrivare passando attraverso le regioni: convincere
il Friuli-Venezia Giulia, il Veneto e poi la potente Lombardia, in questo modo si
sarebbe giunti sino a Roma e non solo. Fu esattamente quello che avvenne.
Il rapporto, però, non fu a senso unico visto che anche nel pieno del conflitto
nell’ex Jugoslavia, Lubiana non volle dimenticare la propria minoranza. Alla fine
di luglio, a Ragusa, andò in scena il vertice dell’Esagonale. Sulla riunione spirava-
no venti di guerra. Nonostante i problemi, nei colloqui tra i ministri degli esteri di
27 M. KOSIN, “Slovenska manj5ina... , op.cit, p. 59.
S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quadérni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 171
Italia e Slovenia, Gianni De Michelis e Dimitri) Rupel, il Capo della diplomazia
slovena chiese un intervento a favore della comunità slovena in Italia. La Legge di
tutela, infatti, aveva nuovamente subito uno stop e si faceva sempre più reale
l’ipotesi che il provvedimento non sarebbe potuto essere approvato prima della
scadenza della legislatura. Significativo rilevare come Rupel, in un momento di
incertezza assoluta per le future sorti del suo paese, abbia voluto porre l’accento
anche su quel problema. Era un altro segno evidente della particolare attenzione
che la Slovenia aveva nei confronti delle proprie comunità all’estero ed era anche
il segno che tra gli interessi vitali dello stato rientrava, certamente, anche la tutela
delle minoranze.
Il confine e la strategia italiana
Il progressivo favore che la causa slovena riscosse nelle regioni di Alpe-Adria
e la contingente situazione internazionale, legata al crescente appoggio tedesco alle
istanze di Slovenia e Croazia, fece sì che anche la politica italiana, inizialmente
contraria al riconoscimento, assunse una linea sempre più favorevole alle richieste
di Lubiana e Zagabria. Roma, in pratica, si preparava ad un evento che, oramai,
sembrava ineluttabile. Per dirla con De Michelis: “A quell’epoca (fine 1991)
perdemmo perché dovevamo pagare il conto di Maastricht. Avevamo appena
concluso il trattato sull’Unione Europea, che costringeva Bonn alla cessione del
marco. In cambio i tedeschi pretesero, fra l’altro, il riconoscimento di Slovenia e
Croazia”?8,
Si trattava quindi di tracciare altre strategie in funzione della nuova realtà. Il
programma venne enunciato il 2 settembre 1991, quando Gianni De Michelis parlò
alla Commissione esteri della Camera sulla situazione in Jugoslavia. Bisognava
superare i disagi creati alla minoranza italiana dal confine in Istria, rendere
possibile l’acquisto di immobili in Slovenia e Croazia da parte degli esuli e
giungere a nuovi accordi di collaborazione economica. Saranno proprio queste le
linee guida della politica estera italiana nei confronti di Slovenia e Croazia e non
cambieranno, né con gli avvicendamenti alla Farnesina né con il naufragio del
“vecchio sistema partitocratrico”.
La questione della tutela della minoranza italiana in Slovenia e Croazia iniziò
28G. DE MICHELIS, “La lezione di Belgrado: ripensare 1’ Europa insieme alla Russia”, Limes, n. 5, 2000,
op.cit., pp. 36-37.
172 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
così ad assumere sempre maggior rilievo. De Michelis, infatti, affermò: “Innanzi-
tutto ... vi è il problema della nostra minoranza ... il processo in atto la divide in
due perché un confine che era solo amministrativo, diventerà statuale o parastatua-
le, e questo indebolirà una comunità che tiene molto alla sua unità”.
Era la prima volta che le istanze della comunità italiana in Jugoslavia trovava-
no tanta rispondenza a livello governativo. Il punto chiave, per il Ministro, però,
non era “solo di ottenere tutte le tutele possibili, ma anche di ottenere uguali tutele,
vale a dire che non vi sia una tutela maggiore in Slovenia e una minore in
Croazia”?0,
La questione entrò così sul tavolo della trattativa bilaterale, anzi trilaterale. Il
problema venne sollevato anche dai componenti di una delegazione della Camera
dei deputati che, nel settembre 1991, giunsero in visita a Lubiana.
L’Unione italiana, intanto, elaborò la sua strategia. In un promemoria del 5
settembre 1991, spedito alla Farnesina — “constatando la drammaticità della situa-
zione in cui si trova coinvolta la Comunità Italiana in Jugoslavia, tenendo conto dei
mutamenti in atto nella realtà jugoslava che prevedibilmente porteranno alla piena
affermazione della sovranità statale delle Repubbliche di Croazia e di Slovenia”?'
— si chiedeva “la stipulazione di un accordo trilaterale di tutela internazionale della
minoranza tra la Repubblica italiana e le Repubbliche di Croazia e di Slovenia, che
contempli:
a) l’unitarietà della Comunità Italiana nel territorio del suo insediamento
storico, da attuare con lo sviluppo di forme amministrative dell’autonomia locale
che assicurino l’identità degli strumenti organizzativi della minoranza, la libertà di
circolazione, di iniziative e di impiego dei connazionali, una politica di sviluppo e
di pianificazione comune e il riconoscimento dell’Unione Italiana quale unico e
legittimo rappresentante della Comunità Italiana in Slovenia e Croazia;
b) l’uniformità di trattamento giuridico-costituzionale al più alto livello nel
garantire l’autonomia politica, economica e culturale della minoranza;
c) la facoltà permanente di controllo, da parte dello Stato italiano, del rispetto
e della realizzazione dei termini dell’accordo”?°.
Si voleva inoltre che all’ Unione italiana fosse garantito “il diritto di parteci-
29T. FAVARETTO, E. GRECO, I! confine riscoperto, Milano, 1997, p.182.
30 Idem.
3! Promemoria diUnione italiana al Ministero degli esteri, 5 settembre 1991 (per gentile concessione del
presidente della Giunta esec. dell’UI, M. Tremul).
32 Promemoria...,cit.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 173
pare a tutte le fasi di preparazione dell’accordo e di esprimere un parere vincolante
prima della sua firma”*, nonché “di intervenire alla Conferenza di Pace sulla
Jugoslavia dell’ Aia, nelle sedi e nelle forme adeguate, per partecipare alla defini-
zione delle disposizioni che regoleranno la tutela della minoranza”**.
Il momento, però, era delicatissimo. Per gli sloveni l’obiettivo era l’indipen-
denza ed ogni ostacolo frapposto su questa via era incomprensibile. Del resto ci si
rendeva sempre più conto, anche nel litorale sloveno che il confine, oltre che una
dolorosa scissione, costituiva sempre più la linea di demarcazione tra la pace e la
guerra, tra l’instabilità e la stabilità, insomma, tra l'Europa ed i Balcani.
Così, il crescente interesse dell’Italia per la sua minoranza e le richieste della
comunità italiana vennero accolte con stupore e fastidio in Slovenia. Lubiana, che
sino a quel momento credeva di poter essere tratta ad esempio in materia di
concessioni alle minoranze, pareva non accettare che, d’un tratto, Roma iniziasse
ad occuparsi dei bisogni della sua comunità, come del resto faceva la Slovenia per
i suoi connazionali in Italia. Scriveva l’accademico Ciril Zlobec, membro della
presidenza slovena, l'organismo che a quel tempo coadiuvava il Capo dello stato:
”All’improvviso, come tutto sta a dimostrare, abbiamo anche in Slovenia uno
scottante problema minoritario: il nuovo confine tra due nuovi stati in Istria”.
Alla fine del 1991, comunque, si era entrati in una fase dove, la comunità
italiana di Jugoslavia, aveva “grandi speranze”. Era in qualche modo generalizzata
la convinzione che l’Italia fosse disposta a recepire le sue istanze. A suffragare
questa idea venne anche nell’ottobre del 1991 l’incontro a Venezia tra il presidente
italiano, Francesco Cossiga, e le delegazioni dell’UI e degli esuli, che, in qualche
modo, avrebbe potuto segnare la riconciliazione tra le due componenti.
Tra il 1991 ed il 1992 Roma adottò, effettivamente, tutta una serie di provve-
dimenti che “denotavano la presa di coscienza dell’esigenza di garantire la salva-
guardia del gruppo etnico italiano”. Si andava dalla Legge sulle aree di confine,
che incentivava la collaborazione economica e finanziava direttamente alcune
attività delle minoranze, alle disposizioni, approvate il 23 dicembre del 1991, a
favore dei cittadini jugoslavi di etnia italiana ‘costretti ad abbandonare le zone di
guerra”. Da rilevare che, nell’applicazione della normativa, un importante ruolo
33 Idem.
34 Idem.
35 C. ZLOBEC, “Obrobje treh naci]”, Delo, 17 ottobre 1991.
36 G. DE VERGOTTINI, “La rinegoziazione del Trattato di Osimo”, Rivista di studi politici internazionali,
n. 1/237, gennaio-marzo 1993, p. 80.
174 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
venne svolto dalle Comunità degli italiani che furono chiamate a rilasciare un
certificato necessario per l’ottenimento del Permesso di soggiorno.
Le due minoranze su fronti contrapposti
Se l’Italia iniziò a porre la questione della tutela della minoranza italiana, la
Slovenia non aveva mai smesso di rilevare l’urgenza di giungere ad un migliora-
mento della posizione della minoranza slovena in Italia. Lo rimarcò, il 16 settembre
1991, anche il presidente sloveno, Milan Kuéan, nel corso della sua visita in
Friuli- Venezia Giulia. “Il presidente della regione Biasutti rilevò che le autorità
regionali si stavano adoperando per una quanto più rapida approvazione della
Legge di tutela globale. Lui stesso sottolineò la questione della tutela della mino-
ranza italiana, che adesso era divisa con il confine tra due stati, e l’urgenza di
regolare le richieste degli esuli”. Era una delle prime volte, se non la prima in
assoluto, che veniva postoa livello bilaterale il problema degli esuli, mentre quanto
le autorità regionali si stessero adoperando per risolvere i problemi degli sloveni in
Italia emerse chiaramente in seguito.
Intanto, nell’autunno del 1991, in questo clima di estrema incertezza, si
registrò una progressiva incrinatura nei rapporti tra la minoranza italiana in Slove-
nia e Croazia e quella slovena in Italia.
Dopo che alla Conferenza di pace dell’Aia si stabilì che si sarebbe parlato
anche di minoranze, nel settembre del 1991, 1’ Unione economico culturale slovena
si adoperò “per un’azione coordinata degli sloveni in Italia e degli italiani in Istria
e propose colloqui con l’Unione italiana”* per far partecipare direttamente ai
lavori le comunità nazionali. La minoranza slovena iniziò ad avere paura di essere
immolata sull’altare del riconoscimento. Sino a quel momento la tutela della
comunità “jugoslava” in Italia e di quella italiana in Jugoslavia era stato un
problema che veniva discusso, a livello di rapporti internazionali, congiuntamente.
Ora, se all’ Aia, di minoranze e di garanzie per esse, si fosse discusso, quella
slovena in Italia avrebbe rischiato di rimanere fuori.
I politici della comunità slovena non mancarono di far sentire la loro voce.
Così il consigliere regionale di Unione slovena, Bojan Brezigar rilevò che “anche
se la Slovenia era giovane e a livello internazionale ancora inesperta, tuttavia, non
37 M. KOSIN, “Slovenska manj$ina ..., op.cit., p.59.
38 “SKGZ za udelezbo manjsin pri delu mirovne konference”, Primorski dnevnik, 12 settembre 1991.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
Milan Kuéan, predseànik predsrd-
stva RS: po pagoverib s predstavnik
PoloSaj cheh
pravna-Jormulnett smislu limbglj iena.
diti. Nacin uremicevanijà te DAlotitue Bb
sprico razli&iih razmer v republikali do
neke mere razlien, venda to re bo
valo na enako nastopunje obch repu i
razmerju do zueznih organo» in do
drugiN republik; tudi ne (kar se mî zdi,
duje precej pomembro) giede preizkuSa:
| nja mo3nosti in interesov drugih repu-
blik, cu Konéua pride do pravih razgano
ron 9. motnosti, da no prostoru sedarije
de uitivije pride de ustanovilte nome
ki je lohko semo Der
Bi, et temeljeta na pra;
SAMOSTOJNA SLOVENTJA 1991
so Ue mapbofise
REPUBLIKA SLOVENIJA
® Po rina: 20.254 kvadratnih kilometrov
® Doliina meja: suhozemna in re$na 1160 km, morska 46;6 km: 2 Avttrijo 324,
# Hrvazko 546, 2 Italijo 202, Madzarsko 88 km
Dolina morake ob le: 37 lim
Najvoetji kraji: Liublìana 268.681, Maribor 105.431, Celle 42,155. Kcani 37.109,
Velenje 27.341. Koper 24.606, Novo mesto 22.618, Jeseriice 18.948, Nova Gorica
14.774, Murska Sobote 13.854
Najvidji vrbogi: Trigiav 2964 în. Skrlavica 2740 m. Veliki Mangart 2679 m
Noejdaijia krafke jama: Postyjnska jama, 19.495 in
flo prebivalstwa: 1.974.838
Gostota prabiv'alatve: 97 ljudi na kvadrasni kilometer
Narodnostne struktuza: Siovenci 90.52, Hrvati 2,94, Stbi 2,23, Musiunani 0,71
Medîan 0,50. Cmogorci 0.17. Makedenci 0,17, Itatijani 0,12. Albanci 0,10.
Romni 0.08, ostale narodnosti 0,11, opredeljeni Kat Jugoslovani 1,76, ostato 0,59
odstotiàa
Atevito obtifi: 62
Najvebja obtina} Tolmin - 940 kvadratnih kilometrov
Najgosteje peselfena obéina lizvzeta Ljubljana ia Maribor): Izola - 499 Judi
na kvadratni kilometer
Nejredkeje naseljene obtina: Tolmin - 22 }judi na kvadiatni xilometer
Stevilo stenovenj: 689.389
Velikost gospodinjstev; povpretno 3,1 fiana
Stevilo zapostenih: 765.900
Stevilo brezposelnib: 70.405
REFERENDUM 23.DECEMBRA 1990
Vpredanja: Ali naj Republika Slovenija postano samostojna in nuodvisna diZava?
DA: 1.289.369 cziroma 93,6 udistoliea volilnih uprasitencev
è 57.800 oziroma 4 odstotke Voliinih upraviténcae,
i
{
|
il
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Lage Peterle, predsednik stovenske
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Kaj pridekujete uf sveta po 28. juniju%
*Pritakuzemo, do do svet pre) alt ale)
una slovensko drfave. nekatem pre),
drugi agnese, in du do nat korak'ocenjen
kot 2uécetek dejanskega razrefevanja ju-
gastovanzke krize na novih otmomal
. Naceino gledano, Slevenija ne bi smela
inti obsojena zaredi uporabe prarice do
samoodiotbe. (otovo Fs v Sio nasta-
fanje novih drdav ni vsem pe
Siero ne Feli biti vel trovo preti
tega kumcepta. $ svojim iorakom, ki
io: kot cecetek suverenizocije pia
slovanskià republik, pa ridimo mofuust,
175
nih interesih, Nyeni temeli di bili da
psem Gilnuri nu enotnem trygu.*
‘2,412 alt 0; odstotka. da pride v Jugostuvisi do novih porezav,
na novih asnorali
Pagina del giornale “Primorske Novice” (25 giugno 1991)
era così ingenua da accettare solo un’unilaterale internazionalizzazione della tutela
della minoranza italiana”.
Brezigar non mancò, nemmeno, di definire strano il comportamento della
minoranza italiana, che si stava occupando solo del confine in Istria e dell’interna-
zionalizzazione della sua tutela come se nulla, attorno ad essa, stesse accadendo.
La solidarietà tra le minoranze stava finendo; in ogni modo, se per la minoran-
za slovena nulla cambiava (rimanevano, quindi, i problemi di sempre), per gli
italiani d’Istria e Dalmazia la situazione stava mutando radicalmente.
In un incontro, a ottobre, tra gli esponenti della comunità italiana ed il ministro
Rupel, erano state nuovamente sollevate la questione dell’ uniformità di trattamen-
to e quella relativa ai problemi causati dal confine in Istria. Nell'occasione era stata
anche presentata la richiesta di giungere ad un memorandum trilaterale e un’ ana-
loga proposta era stata consegnata anche al ministro degli esteri croato, Zvonimir
Separovié e al capo della diplomazia italiana, Gianni De Michelis.
39 R. SKRLI, “V Haagu samo u paru”, Primorske novice, 11 ottobre 1991.
40 Memorandum sulle ragioni, cit.
176 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
Il 24 settembre 1991 a Capodistria era, infatti, stato elaborato dall’UI il
Memorandum sulle ragioni e le modalità della tutela internazionale della comuni-
tà nazionale italiana nelle repubbliche di Slovenia e Croazia, da presentare alla
Conferenza di pace sulla Jugoslavia. Nel testo si precisava che “la tutela interna-
zionale da attuare con la sigla di un trattato internazionale che impegni la Croazia,
la Slovenia e l’Italia, è l’unico modo di salvaguardare la continuità di una Comu-
nità, come quella Italiana, indissolubilmente legata, a prescindere da ogni divisione
amministrativa o delimitazione confinaria, a comuni radici e tradizioni. È insieme,
l’unico modo per scongiurare la scomparsa di una cultura nel rispetto dei principi,
universalmente riconosciuti, di salvaguardia degli equilibri etnici e dei valori
dell’ambiente umano e sociale, valori che andrebbero irrimediabilmente perduti
con una divisione territoriale e statale che non dovesse tener conto della specifica
esigenza di proteggere, attraverso nuove, più elevate forme di collaborazione
internazionale, l’integrità umana, organizzativa, culturale e civile di una Comuni-
“MA
Nel documento venne altresì toccato anche un altro problema, tutt'altro che
marginale, quello dei processi di privatizzazione e di denazionalizzazione che
erano in atto nelle due repubbliche ex socialiste. Si voleva che fosse assicurata “la
possibilità di acquisizione di proprietà immobiliari da parte della Comunità Nazio-
nale Italiana come soggetto collettivo nonché la gestione autonoma da parte della
Comunità Nazionale, delle istituzioni pubbliche (scuole, mezzi di informazione,
ecc.) che ad essa fanno riferimento””'.
I vertici della minoranza si stavano rendendo conto che, al di là della facciata,
realmente rischiavano di rimanere esclusi, come soggetto collettivo, dalla riparti-
zione della proprietà sociale ed in secondo luogo, sapevano che non avevano il
controllo né delle scuole né dei mezzi di informazione che formalmente esistevano
per la comunità italiana. L'influenza che potevano esercitare su queste istituzioni
era quindi marginale ed indiretta. Ci si rendeva conto che nulla si stava gestendo
(escluso il Centro di ricerche storiche) e che si sarebbe rischiato di continuare a
gestire nulla. Il problema per i nuovi dirigenti di Unione italiana era quello di dare
soggettività al gruppo nazionale, così, nello stesso documento non si mancò di
rilevare che: “attuata la statalizzazione degli enti pubblici ed introdotte le leggi di
mercato nell’economia e nei rapporti di proprietà, la Comunità Italiana si trovereb-
be in una situazione di pesante emarginazione sociale ed economica, con tutte le
4! Ibidem.
4 Ibid.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 177
conseguenze che ne deriverebbero per la conservazione e lo sviluppo dell’identità
nazionale”.
Roma e Lubiana iniziano a discutere di minoranze
A metà ottobre 1991, Rupel incontrò nella capitale italiana De Michelis per
discutere di iniziative economiche e non solo. Il Ministro sloveno non mancò di
rilevare: “Quando parlammo di minoranze legai subito il riferimento all’accordo
tripartito (Italia, Croazia e Slovenia) alla regolarizzazione della posizione della
minoranza slovena in Italia”*.
Se l’Italia aveva tracciato la sua strategia, anche la Slovenia non aveva dubbi:
l’accordo si può fare se vi sarà un’analoga intesa sulla tutela degli sloveni. Gli
stessi esponenti della comunità slovena in Italia insistettero su questo punto e
Lubiana aveva sempre affermato di voler ascoltare la sua minoranza.
Intanto, deputati e forze politiche spingevano, sempre più, il Governo italiano
verso il riconoscimento di Slovenia e Croazia. Tra il 21 e il 22 ottobre si discusse
della questione alla Camera dei deputati. In aula si approvò una risoluzione in cui
si chiese il riconoscimento dei due paesi e l’ottenimento delle massime garanzie
per la comunità italiana. In quei giorni De Michelis non mancò di sottolineare
l’urgenza dell’accoglimento della Legge di tutela per la minoranza slovena.
Il 27 ottobre 1991, il Capo della diplomazia italiana ricevette, a Trieste, gli
esponenti della comunità slovena ed una delegazione di Unione italiana. Il Ministro
promise il suo impegno per cercare di sveltire l’iter di approvazione della Legge di
tutela, ma non mancò di criticare alcuni politici regionali, “che a Lubiana si
presentano come amici degli sloveni e poi a casa propria non fanno nulla per
loro”. De Michelis rimarcò inoltre che “gli accordi di Osimo erano superati e che
bisognava nuovamente discutere di essi con i nuovi partner, anche in quella parte
che riguarda la tutela minoritaria”. Alla Slovenia la cosa non sarebbe certamente
dispiaciuta, ma in Friuli-Venezia Giulia, più che la tutela della minoranza italiana,
la preoccupazione di molte forze politiche era rivolta alle possibili ripercussioni sul
piano regionale di eventuali concessioni fatte alla minoranza slovena. Si sapeva,
infatti, quanto l’elettorato fosse sensibile a questi argomenti. In molti partiti
43 D. RUPEL, Skrivnost drzave: spomini na domate in zunanje zadeve 1989-1992, Ljubljana, 1992, p. 206.
44 L. KANTE, “Bo rimski parlament do maja le sprejel zascitni zakon?”, Delo, 28 ottobre 1991.
45 Idem.
178 S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
bruciava ancora lo scotto pagato dopo gli Accordi di Osimo, quando nel capoluogo
giuliano nacque la Lista per Trieste e raccolse ampi consensi rubando voti ai alle
forze tradizionali.
Nel corso dell’incontro con Unione italiana, il Ministro annunciò anche che
una sua delegazione sarebbe andata alla Conferenza di pace. "I rappresentanti della
minoranza italiana, all’ Aia, richiesero un trattamento unitario ... e ciò al massimo
livello raggiunto"“ garantito da un accordo tra Roma, Lubiana e Zagabria. Venne-
ro, così, proposti tre emendamenti al Piano di pace, ma il 15 novembre 1991, il
ministro per gli sloveni nel Mondo e le comunità nazionali, Janez Dular, affermò
che "la minoranza, con la sua visita all’ Aia, aveva provocato una posizione assurda,
visto che l'accordo Carrington intende richiedere alla Slovenia una tutela minore
rispetto a quella già in atto”‘”. Nonostante l’irritazione, per quanto stava avvenen-
do, però, nel corso del dibattito sulla politica estera al parlamento sloveno, Lubiana
accettò il principio della tutela internazionale delle minoranze.
La protezione delle comunità nazionali, era così diventato il tema caldo dei
colloqui bilaterali tra Roma e Lubiana e “molto si parlò anche di tutela delle
minoranze” a Nuova Gorizia, quando, per la prima volta, un capo di stato
straniero mise piede sul suolo sloveno dopo la proclamazione dell’indipendenza.
Il presidente italiano, Francesco Cossiga, infatti, aveva preso a pretesto il suo
viaggio in Friuli-Venezia Giulia per passare il confine ed incontrare il suo omologo
Kuéan. Se non era ancora un riconoscimento formale, indubbiamente, però, si
trattava di una promozione sul campo, anche se furibadito che il sì italiano sarebbe
giunto assieme a quello degli altri paesi europei. Nel corso dei colloqui Kuèan
rilevò che la Slovenia “continuerà a garantire alla minoranza italiana un alto grado
di tutela, superiore agli standard europei” ed auspicò che altrettanto accadesse in
Italia. Cossiga, dal canto suo, rassicurò il presidente sloveno sulla questione della
tutela della minoranza in Italia ed aggiunse a proposito degli italiani in Istria che
“l’Italia si interesserà e tutelerà questa minoranza, senza intromettersi in questioni
interne”,
AI vertice dell’Esagonale di Venezia il presidente Kuèan e il ministro degli
esteri De Michelis, parlarono nuovamente di comunità nazionali e s’ipotizzò che il
discorso sarebbe potuto essere ripreso nel corso della visita di Kutan e TuOman a
Bonn.
46 B. SULIGOJ, “Italijanska manjsina je bila zadovoljna s pogovari v Haag”, Delo, 4 novembre 1991.
4) IDEM,“Meja v Istri ni evropska”, Delo, 16 novembre 1991.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 179
Le minoranze tentano il dialogo
Alla fine di novembre si registrò il primo incontro ufficiale tra la minoranza
italiana e quella slovena, dopo la nascita di Unione italiana. Lo scenario fu quello
del Consiglio regionale di Trieste. Dopo anni di solidarietà tra le minoranze, ora,
trovare una linea d’azione e una strategia comune, sembrava difficile. La minoran-
za italiana voleva un accordo internazionale sulla sua tutela, quella slovena insiste-
va che contemporaneamente ci sarebbero dovute essere precise garanzie anche per
lei. Il minimo comune denominatore, comunque, era la volontà, almeno a parole,
di rimanere soggetto sia nei confronti della madrepatria sia degli stati domiciliari,
ma la posta in gioco, per tutti, era troppo alta.
I politici sloveni, comunque, continuavano a mandare rassicurazioni ai loro
connazionali all’estero e a precisare che le minoranze in Slovenia erano ben
tutelate. Così, ad esempio, nel corso di un incontro con la comunità slovena, il
ministro per l’informazione, Jelko Kacin, rimarcò che lo “stato sloveno ha il dovere
morale ed il diritto, a tutti i livelli (iniziando dai rapporti bilaterali con Roma) di
adoperarsi acciocché gli sloveni, che vivono fuori dai confini della nazione madre,
siano quanto meglio tutelati”, mentre il presidente Kuéan sottolineò, che la
“Slovenia ha con le proprie minoranze, l’ungherese nel Prekmurje e l’italiana in
Istria, conti chiari, visto che sono maggiormente tutelate rispetto a quanto richiesto
dagli standard internazionali”.
Da rimarcare un fatto, che forse ai più sembrerà insignificante e riguarda più
la forma che la sostanza. In questa fase, quando si parlava delle “proprie minoran-
ze”, il riferimento era agli italiani ed agli ungheresi che vivono in Slovenia, mentre,
successivamente, con lo stesso termine ci si riferirà sempre più spesso alle comu-
nità slovene all’estero. Sarà anche questo un segno di come le minoranze saranno
sempre più prese sotto l’ala protettrice della nazione madre.
48 M. KOSIN, Zacertki.., op.cit., p. 59.
4 IDEM, “Slovenska manj$ina ..., op.cit., p. 60.
50 Ibidem.
5! S. T., “Nova Slovenija si res prizadeva za evropsko zaslito vseh manjsin”, Primorski dnevnik, 21
novembre 1991.
52 L. KANTE, “Slovenija bo zavarovala vse pravice manjsin”, Delo, 16 dicembre 1991.
180 S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
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Militari lungo il confine tra Jugoslavia e Italia
Verso il riconoscimento
Il 15 dicembre 1991 i paesi dell’Unione europea (UE) decisero, su proposta di
De Michelis, di posticipare di un mese il riconoscimento di Slovenia e Croazia. Il
Ministro italiano non voleva che l'UE, in pieno processo integrativo, giungesse
spaccata su una questione così delicata. Il riconoscimento venne così subordinato
ad una sorta d’esame di fronte alla Commissione d’arbitrato. Per l’instaurazione di
relazioni diplomatiche si chiedeva il rispetto dei principi dell’ Atto finale di Helsin-
ki, della Carta delle Nazioni Unite, e della Carta di Parigi per la nuova Europa,
particolare accento venne dato soprattutto alla tutela delle minoranze e all’inviola-
bilità dei confini.
Sin dall’inizio, comunque, emerse che per la Slovenia non ci sarebbero stati
problemi. La valutazione trovò conferma anche nei colloqui del 18 dicembre 1991,
a Graz, tra il presidente sloveno, Milan Kuéan e Lord Carrington che presiedeva la
Conferenza di pace. In ogni modo, la Germania, che agli inizi di dicembre aveva
promesso che avrebbe dato luce verde entro Natale alle due entità, mantenne la
parola data ed il 19 dicembre riconobbe Slovenia e Croazia. Contemporaneamente
giunse il sì anche di Svezia ed Islanda. De Michelis dichiarò immediatamente che
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 181
l’Italia, il 15 gennaio 1992, avrebbe riconosciuto “quelle repubbliche jugoslave, che lo
richiederanno entro il 23 dicembre e che dichiareranno di adoperarsi per il rispetto dei
criteri fissati. Tra di esse ci saranno, sicuramente, Slovenia e Croazia".
Il rinvio del riconoscimento, orchestrato da De Michelis, però, lasciò un po”
d’amaro in bocca a Lubiana, che, alla vigilia del vertice europeo del 15-16
dicembre 1991, pensava di avercela oramai fatta. Il Ministro italiano giunse, il 21
dicembre, nella capitale slovena, in sostanza all’indomani della decisione presa a
Bruxelles per spiegare l'accaduto ai politici sloveni. De Michelis volle subito porre
l’accento sui pericoli di un mancato sì congiunto e rilevò quanto fosse importante
trovare anche il favore di Stati Uniti e Russia, una volta ottenuto quello dei paesi
dell’Unione. Il Capo della diplomazia italiana ribadì che l’Italia avrebbe ricono-
sciuto la Slovenia il 15 gennaio del 1992, ma pose la questione del Memorandum
d’intesa tra Croazia, Italia e Slovenia sulla tutela della minoranza italiana. La
posizione slovena in merito era risaputa sin dai primi colloqui tra Rupel e De
Michelis. Il premier Peterle affermò “le minoranze sono come una specie di cartina
al tornasole dei rapporti bilaterali. Una corretta regolamentazione della loro posi-
zione contribuirà ad ancora migliori rapporti tra i due paesi” e pose l’accento
“sulla regolamentazione giuridica della posizione della minoranza slovena in
Italia. De Michelis sottolineò l’impegno del Governo italiano a regolare la tutela
della minoranza slovena e la disponibilità a firmare un protocollo speciale. Il dottor
Rupel propose che, prima del 15 gennaio, si incontrassero le delegazioni dei due
paesi per stilare, anche, il documento sulla tutela della minoranza slovena e De
Michelis fu daccordo”.
A livello politico la situazione, quindi, era risolta. La Slovenia accettava il
trilaterale sulla minoranza italiana e l’Italia un protocollo su quella slovena. Ora si
trattava “soltanto” di definire i termini dei documenti.
Si ponevano però subito alcune domande. Quanto era sentita la questione
minoranze nell’opinione pubblica dei due paesi? Quanto i rispettivi governi sareb-
bero stati disposti a sacrificare ed anche a rischiare per i loro connazionali all’este-
ro? La cura degli sloveni rimasti fuori dai confini nazionali era una costante della
“politica estera” di Lubiana, anche in Jugoslavia. Le preoccupazioni per le sorti
della esigua comunità italiana rimasta nelle “terre perdute”, invece, non era certo
un tema che riusciva a riscaldare gli animi in Italia, dove ben pochi sapevano
53 M. DRCAR-MURKO, “De Michelis: vse po naèrtu”, Delo, 20 dicembre 1992.
5 M. KOSIN, Zacetki..., op.cit., p. 63.
55 Ibidem.
182 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
perfino della sua esistenza. Come abbiamo visto in precedenza, soltanto in questo
periodo le istanze della comunità nazionale italiana iniziavano a venir recepite a
livello governativo. Gli italiani d’Istria, però, credevano di aver finalmente trovato
un alleato nel Governo italiano ed, in fondo, pensavano che l’Italia sarebbe riuscita
a ottenere adeguate garanzie per il loro futuro, ma in concomitanza con l’avvicinarsi
del riconoscimento a Trieste si creò un rumoroso fronte che andava “dai missini a
qualche esponente socialista, allarmatissimo che il Memorandum possa in qualche
modo influire sulla regolamentazione della minoranza slovena in Italia”.
Alla fine di dicembre, alla vigilia della trattativa tra i tre paesi, Unione italiana
accolse un documento sui principi generali che avrebbe dovuto contenere il
Memorandum d'’intesa tra le repubbliche di Croazia, Slovenia ed Italia per la tutela
della comunità nazionale italiana.
La Giunta Esecutiva dell’Unione Italiana, nella sua seduta del 31 dicembre 1991, riunitasi in
sessione congiunta con i presidenti delle Commissioni assembleari coordinati dal Presidente dell’ As-
semblea, ha all’unanimità approvato il seguente documento:
PRINCIPI GENERALI DEL MEMORANDUM D'INTESA
TRA
LE REPUBBLICHE DI CROAZIA, SLOVENIA ED ITALIA
PER
LA TUTELA DELLA COMUNITÀ NAZIONALE ITALIANA
AI fine di garantire la completa eguaglianza di diritti, nel quadro delle disposizioni specitiche
destinate a salvaguardare il carattere etnico e l’avanzamento culturale ed economico quale prospettiva
di esistenza e sviluppo per la Comunità Nazionale Italiana, componente autoctona sul territorio del
suo insediamento storico (area istro-quarnerina e dalmata), l’ Unione Italiana formula i seguenti
principi per la stipula dell’Intesa trilaterale tra le Repubbliche di Croazia, Slovenia e Italia:
1) La Comunità Nazionale Italiana è parte costituente degli Stati in cui vive. Essa realizza i propri
diritti specifici e particolari all’interno delle articolazioni democratiche e civili dello Stato di diritto.
2) Si garantisce l’unità etnica della Comunità Italiana che, prima unitaria, si trova ora divisa in
due Stati autonomi e sovrani. Si assicura l’unità e l’indivisibilità delle sue strutture (associative,
politiche, economiche, culturali, scientifiche, di ricerca e altre), nonché la soggettività dell’Unione
Italiana, quale organizzazione unitaria e rappresentativa della Comunità Italiana stessa.
3) Si assicura l’uniformità di trattamento giuridico-costituzionale nei territori del suo insediamen-
to storico, partendo dalle soluzioni più avanzate o favorevoli attualmente in vigore nelle Repubbliche
di Slovenia e Croazia e ulteriormente perfezionate, ai sensi del presente Memorandum e della
prossima Intesa trilaterale.
4) ] diritti sono garantiti, a prescindere dalla consistenza numerica, attraverso strumenti giuridi-
co-costituzionali, ai singoli individui e alla Comunità, quale soggetto collettivo, per consentire pari
56 “A Oriente nulla di nuovo”, // Meridiano, 5S novembre 1992, p. 15.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 183
opportunità nella partecipazione alla gestione dello Stato (delle sue strutture, forme rappresentative
e legislative, istituzioni ed enti), delle autonomie e dei poteri locali. A tale fine vengono istituite
qualificate forme di rappresentanze garantite.
5) Si assicura la soggettività della Comunità Nazionale Italiana, mediante forme rappresentative
dirette ed attive, nelle sedi ed istanze in cui vengono prese decisioni che influiscono sulla sua
posizione, nonché altre forme organizzative autonome a cui lo Stato trasferisce determinate funzioni
di sua competenza, perla realizzazione dei propri interessi.
6) Leggi, normative ed altri atti generali riferiti alla realizzazione dei diritti e della posizione della
Comunità Italiana, vengono accolti con il consenso dei suoi legittimi rappresentanti.
7) Si riconosce, ai cittadini di nazionalità ovvero madrelingua e cultura italiana, il diritto alla
riacquisizione della cittadinanza italiana, accanto a quella croata e slovena.
8) Autonomia gestionale, di sviluppo e programmazione degli enti e istituzioni della Comunità
Italiana, inseriti nel sistema pubblico e sovvenzionati dallo Stato e/o dai Comuni: istituzioni scolasti-
che, universitarie, culturali, scientifiche e di ricerca, mezzi d'informazione (stampa, radio e TV) e
case editoriali. Essi, come anche altri enti e istituzioni, non inseriti nel sistema pubblico statale, —
soggetti economici pubblici e privati, enti bancari e finanziari, e altri — debbono poter fare riferimento
al potenziale rappresentato dall’intera Comunità Nazionale. Gli Stati forniscono gli strumenti norma-
tivi e legislativi necessari per rendere tali enti e istituzioni operanti su tutto il territorio in cui è
storicamente insediata la Comunità Nazionale Italiana, indipendentemente dalla divisione ammini-
strativa e statuale.
9) Si riconosce, alla Comunità Nazionale Italiana, il diritto ad un proprio specifico sistema di
educazione e istruzione unitario.
10) Introduzione, con disposizioni legislative, della lingua italiana, nell’area d’insediamento
storico della Comunità Nazionale, quale lingua ufficiale, accanto a quella croata/slovena, come pure
nella nomenclatura topografica bilingue. Introduzione, nelle scuole di ogni ordine e grado, dell’inse-
gnamento della lingua italiana - con fondamenti di cultura - come lingua dell’ambiente sociale.
11) Inserimento della Comunità Nazionale Italiana, quale soggetto collettivo, nella riforma dei
rapporti di proprietà in atto nelle Repubbliche di Slovenia e Croazia, assicurandone la possibilità di
acquisizione di proprietà immobiliari e demaniali - in maniera naturale e legale - storicamente riferite
alla presenza e alla creatività della componente italiana.
12) Si assicura, da parte degli Stati, la libertà di circolazione ed impiego sul territorio d’insedia-
mento storico, individuando, con opportuni strumenti, diritti e prerogative identici a quelli ricono-
sciuti ai propri cittadini. Anche a tale fine viene creata nell’area istro-quarnerina, una zona di libero
scambio e circolazione per le popolazioni ivi residenti.
13) Si assicurano particolari forme di tutela alle popolazioni italiane nelle località di Plostine e
Zara e si avvia un processo che porti alla loro parificazione al livello dell’area istro-quarnerina.
14) Il diritto della Comunità Nazionale Italiana a partecipare, a pieno titolo, in tutte le fasi della
elaborazione e stipula dell'Intesa trilaterale e alla concretizzazione dei suoi strumenti applicativi. Il
testo dell'Intesa deve essere accolto con il consenso dell’Unione Italiana.
A) Approvare congiuntamente e rendere operanti, entro sei mesi, i principi, i diritti e le clausole
contemplati dal Memorandum, mediante la stipula di un’Intesa trilaterale di tutela della Comunità
Nazionale Italiana.
184 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
B) Estendere, con applicazione immediata, le disposizioni degli accordi internazionali già
stipulati, su tutto il territorio dell’insediamento storico della Comunità Italiana.
C) Promulgare delle Leggi quadro o delle Leggi specifiche, per l'applicazione delle disposizioni
convenute, entro un anno dalla sigla del presente Memorandum.
D) Definire, entro un anno dall’approvazione del Memorandum, un piano di interventi a sostegno
della Comunità Italiana.
E) I governi di Croazia, Slovenia ed Italia, si impegnano a favorire, con adeguati strumenti di
carattere legislativo, la ricomposizione della componente italiana lacerata dall’esodo.
F) Istituire forme di controllo internazionale dell’attuazione e del rispetto dei termini del
Memorandum e del Trattato”.
Il documento riaffermava tutti quei principi che erano stati posti nei mesi
precedenti ed in pratica non si discostava molto dalla strategia enunciata alla
Camera dallo stesso De Michelis. I punti cardine rimanevano unitarietà, uniformità
di trattamento, libera circolazione nell’area di insediamento storico ed effettiva
gestione delle istituzioni. Significativa, però, anche la richiesta volta a favorire la
ricomposizione della componente italiana lacerata dall’esodo.
Nell’opinione pubblica italiana, oramai, l’idea del riconoscimento riscuoteva
un ampio consenso e le istanze della comunità dei rimasti erano del tutto marginali
in: questo contesto. A fugare anche gli ultimi dubbi venne l’abbattimento, da parte
dei caccia Federali, di un elicottero con quattro osservatori italiani della Comunità
europea. Roma richiamò per consultazioni l'ambasciatore Vento da Belgrado,
mentre De Michelis affermò che: ”’L’Italia seguirà le decisioni dell’Unione euro-
pea ed il 15 gennaio riconoscerà la Slovenia e la Croazia”.
In una situazione alquanto definita tutto era pronto per i colloqui di Zagabria
tra Croazia, Italia e Slovenia che avrebbero dovuto portare alla finalizzazione dei
documenti sulla tutela delle minoranze. L’8 gennaio, alla vigilia dell’incontro, la
delegazione unitaria della comunità slovena in Italia, richiese che si giungesse ad
un accordo particolare tra Italia e Slovenia “sulle tutela della minoranza slovena su
tutto il territorio dove essa vive”. La questione riguardava, ancora una volta,
l’estensione delle norme alla provincia di Udine. Si voleva inoltre che venissero
definiti i tempi per l'approvazione del provvedimento.
I colloqui di Zagabria si svolsero sia a livello trilaterale sia bilaterale. Nella
5? Principi generali del Memorandum d’intesa trale repubbliche di Croazia, Slovenia ed Italia perla tutela
della comunità nazionale italiana, 31 dicembre 1991(per gentile concessione del presidente della Giunta esec.
dell’UI, M. Tremul).
58 “Ohladitev odnosov med Rimom in Beogradom po sestrelitvi helikopterja z opazovalci”, Primorski
dnevnik, 9 gennaio 1991.
59 M. KOSIN, “Slovenska manjtina ... , op.cit., p. 59.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 157-196 185
prima fase congiunta, le parti “concordarono che sulla posizione e la tutela della
minoranza italiana avrebbero firmato un particolare memorandum trilaterale”,
La delegazione italiana “aveva fatto intendere che l’accoglimento di questo
testo era la condizione per il ... riconoscimento di Slovenia e Croazia”!
Nel corso dei colloqui si giunse alla finalizzazione del Memorandum d’intesa
tra Croazia, Italia e Slovenia sulla tutela della minoranza italiana in Croazia e
Slovenia che si ispirava a quattro principi fondamentali:
È La conferma del carattere autoctono ed il riconoscimento dell’unicità e delle
caratteristiche specifiche della minoranza italiana e allo stesso tempo la
necessità di un suo equo trattamento in entrambi gli Stati.
2. Il riconoscimento della rappresentatività legale, nell’ambito delle leggi di
Croazia e Slovenia, della più rappresentativa organizzazione della minoran-
za italiana, attualmente l’Unione Italiana, come unica organizzazione che
rappresenta la minoranza italiana in entrambi gli Stati.
Si Conferma dell’uniformità di trattamento della minoranza italiana, basata sui
diritti acquisiti esistenti, inclusi quelli che derivano da strumenti internazio-
nali. Conferma dei nuovi diritti che derivano dagli atti costituzionali e da
altre leggi della Croazia e della Slovenia con l’impegno a mantenere tale
uniformità.
4. Nelle aree di entrambi gli Stati dove vive la minoranza: è garantita la libertà
di movimento per i cittadini croati e sloveni che appartengono alla minoran-
za italiana; la libertà di lavoro per i cittadini croati e sloveni, membri di
questa minoranza, che sono impiegati in attività quali le istituzioni, le
scuole, i mass-media eccetera; la salvaguardia dalla discriminazione dovuta
alla cittadinanza con riferimento anche ai cittadini croati e sloveni che già
lavorano’.
“La portata pratica del memorandum già si limitava all’affermazione di
principi che avrebbero dovuto ispirare le future convenzioni sulla parità di condi-
zione e sull’unità di trattamento della minoranza italiana”, ma la valenza politica
era notevolissima perché avrebbe, in primo luogo, fatto sentire molto meno, alla
60 IDEM, Zacetki..., op.cit., p. 66.
€! Ibidem.
62 T. FAVARETTO, E. GRECO, op.cit., p.167.
63 G. CONETTI, “Aspetti giuridici delle relazioni dell’Italia con la Slovenia e la Croazia”, (a cura di T.
FAVARETTO, E. GRECO, op.cit., p. 54.
186 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
comunità italiana, gli effetti negativi causati dal nuovo confine che divideva
l’Istria.
Le richieste di Unione italiana erano più ampie, ma in sostanza le principali
istanze vennero recepite. Nel corso della trattativa fu giudicato subito inaccettabile,
da Slovenia e Croazia, che “le autorità consolari italiane avessero il diritto di
vigilare sull’applicazione del memorandum”®. Tra le altre proposte rigettate,
anche quella “che voleva la garanzia agli esuli della possibilità di acquistare
immobili in Istria”?
Marko Kosin, che di lì a poco sarebbe diventato ambasciatore sloveno aRoma,
dopo aver ricoperto un’analoga finzione per la Jugoslavia, rileverà: “Nel testo
siglato del memorandum a noi non andava bene, che all’Unione italiana fosse
riconosciuto lo status di rappresentante unico della minoranza italiana, perché ciò
non era in armonia con la nostra costituzione, ma alla fine accettammo questa
soluzione per evitare complicazioni politiche’”*.
Chiuso il capitolo trilaterale toccò agli esponenti di Roma e Lubiana sedersi
dietro ad un tavolo per giungere ad un’intesa bilaterale sulla tutela della minoranza
slovena in Italia. Si partì subito da due posizioni contrapposte. L’ Italia propose un
generico impegno a presentare in Parlamento quanto prima la Legge di tutela
globale; la Slovenia invece chiese garanzie più precise. Dopo una trattativa che
durò fino a tarda notte, il documento venne ampliato inserendo nel preambolo
alcuni riferimenti all’autoctonia della minoranza slovena e agli impegni internazio-
nali già esistenti sulla tutela della comunità slovena. L’intesa era composta da due
punti. Nel primo i governi concordavano che l’accordo bilaterale, previsto dal Memo-
randum trilaterale sulla tutela della minoranza italiana in Slovenia, fosse implementato
con norme che riguardavano la tutela della minoranza slovena in Italia, ispirate al
riconoscimento del carattere autoctono della comunità; mentre nel secondo si precisa-
va che l’Esecutivo italiano, si sarebbe impegnato acciocché il Parlamento approvasse
in tempi rapidi la Legge di tutela della comunità slovena e che avrebbe tenuto conto,
con favore, gli emendamenti proposti dalla minoranza slovena.
Paradossalmente, però, con il passare delle ore, la posizione negoziale della
Slovenia si faceva sempre più forte. L°11 gennaio, Lubiana tirò un sospiro di
sollievo. Era arrivato il responso della Commissione d’arbitrato (o Badinter) edera
una promozione a pieni voti. “A seguito dell’esame della Costituzione slovena ed
64 M. KOSIN, Zatetki..., op.cit., p. 68.
65 Ibidem.
66 Ibid.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 187
in particolare delle numerose e dettagliate norme ivi contenute sulla condizione
delle minoranze, la Commissione concludeva nel senso di ritenere sussistessero per
la Slovenia le condizioni per il riconoscimento”’”. Qualche riserva invece venne
espressa per la Croazia.
Il responso giunse all'indomani dei colloqui di Zagabria. La Slovenia, oramai,
sapeva che il 15 gennaio i paesi dell’Unione europea l’avrebbero riconosciuta e
poteva essere abbastanza sicura che l’Italia avrebbe fatto lo stesso. In fondo, in
dicembre, era stato lo stesso Ministro degli esteri italiano ad agire per evitare crepe,
in sede comunitaria, sull’ex Jugoslavia, ed era stato lui stesso a proporre la formula,
che poi era stata applicata, del posticipo. C’era, poi, la questione dei quattro
osservatori morti e quindi l’ampio sostegno dell’opinione pubblica italiana per la
causa di Slovenia e Croazia. Così, il giorno stesso che la “Commissione Badinter”
presentò i suoi pareri, il Ministero degli esteri sloveno giudicò insoddisfacente il
testo dell’accordo bilaterale “soprattutto perché non definiva il territorio dove
viveva la minoranza slovena autoctona e perché non conteneva norme che certifi-
cassero che la tutela minoritaria sarebbe stata eguale e garantita in tutte e tre le
province (Trieste, Gorizia, Udine)”®.
Ottenere norme di tutela adeguate anche per gli sloveni della Slavia veneta,
non puntando solo su quelli delle province di Trieste e Gorizia, era stata una delle
maggiori innovazioni della politica della Slovenia democratica nei confronti della
sua minoranza. Scriverà, infatti, alcuni mesi più tardi Rupel: “L’Italia, com’è
risaputo, non riconosce la minoranza slovena nella provincia di Udine, ma prima o
poi dovrà riconoscerla”99.
Ad alleggerire ulteriormente la pressione su Lubiana, il 13 gennaio, arrivò il
sì del Vaticano. La chiesa non aveva, certamente, giocato un ruolo secondario nel
processo di riconoscimento delle due repubbliche cattoliche dell’ex Jugoslavia.
In ogni modo la situazione appariva alquanto complicata. In questa fase entrò
in gioco, in maniera sempre più rilevante, il Parlamento sloveno. Venne così
convocata la Commissione per i rapporti internazionali. Ricorderà il ministro degli
esteri, Rupel: “Sentii pareri molto contrastanti. Naturalmente volevano l'accordo
bilaterale senza che firmassimo quello trilaterale”?
L’organismo, si allineò al parere del Ministero degli esteri e, giudicò insoddi-
7 G. CONETTI, opccit., p. 52.
68 M. KOSIN, Zacetki..., op.cit., p. 68.
6° D. RUPEL, Srecanja in rashajanja, Ljubljana, 2001, p. 323.
70 IDEM, Skrivnost... op.cit., p. 240.
188 S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
sfacente l’intesa. Ai lavori parteciparono anche alcuni esponenti della minoranza
slovena in Italia. Il 14 gennaio si tentò a Gorizia un’ultima mediazione e Rupel si
recò nel capoluogo isontino, forte del sostegno dei deputati.
Anche in Italia gli accordi sulla tutela delle minoranze avevano messo in
subbuglio, a livello regionale, i partiti politici. Alla vigila dell’incontro con Rupel,
il sottosegretario agli esteri Vitalone ebbe un colloquio con il presidente regionale
della Democrazia cristiana, Bruno Longo, quest’ultimo più che del “trilaterale” era
preoccupato dell’accordo “bilaterale”, pertanto chiese “che non venisse accolto
nessun accordo sulla minoranza slovena, visto che il memorandum bilaterale
siglato a Zagabria per loro era inaccettabile e alla vigilia delle elezioni politiche,
nelle zone di confine, avrebbe provocato un terremoto”. A quel punto, l’Italia non
fu più disponibile a discutere di untesto che, comunque, era insoddisfacente anche
per la parte slovena. Il capo del governo, Peterle, con alcuni esponenti della
comunità slovena in Italia, cercò di elaborare un’intesa di minima, ma non si riuscì
a trovare il bandolo della matassa.
I contatti tra Gorizia e Lubiana si fecero frenetici. Alla delegazione slovena
saltò particolarmente agli occhi, la presenza, nel capoluogo isontino, del presidente
della giunta esecutiva di Unione italiana, Maurizio Tremul.
“Nel corso della sessione plenaria il sottosegretario Vitalone disse che del
documento bilaterale, sulla minoranza slovena, non erano soddisfatti né il Parla-
mento sloveno né i partiti politici italiani e che la delegazione italiana a Zagabria
aveva superato il suo mandato, siglando l’accordo, quindi, non era possibile
discuterlo. Propose che il giorno successivo, a Roma, con la firma del Memoran-
dum trilaterale, i ministri De Michelis e Rupel rendessero una dichiarazione alla
stampa sulla tutela della minoranza slovena. Questa dichiarazione avrebbe avuto,
certamente, un grande risalto internazionale, anche se giuridicamente non avrebbe
impegnato l’Italia e, perciò, non sarebbe stato necessario portarla in Parlamento””?,
La parte slovena, invece, avrebbe “voluto almeno una dichiarazione congiunta
o in ultima istanza una dichiarazione unilaterale solenne del Ministro degli este-
HPA,
Restava ferma, quindi, la posizione di Lubiana, che non si sarebbe firmato
l’accordo trilaterale se non si fosse ottenuto qualcosa per la minoranza slovena,
mentre, seppur in maniera meno convinta, in Italia si continuava a dire che senza
?l M_ KOSIN, Zacetki..., op.cit, p. 70.
?2 Ibidem, p. 71.
73 Ibid., p. 70.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 189
la firma del Memorandum non ci sarebbe stato il riconoscimento.
Nella notte tra il 14 ed il 15 gennaio, a Lubiana, ci fu un’altra riunione della
Commissione per i rapporti internazionali, alla quale parteciparono anche il presi-
dente del Parlamento, France Buéar, il premier, Lojze Peterle, ed una rappresen-
tanza degli sloveni in Italia. “Quest’ultimi si dissero contrari a qualsivoglia cedi-
mento all’Italia. ... Il ministro Rupel, seppur tra le righe, propose la firma dell’ac-
cordo tripartito, ma la maggioranza dei membri ed anche Peterle e Buèar furono
nettamente contrari. Il rappresentante della minoranza italiana, Roberto Battelli,
espresse la sua preoccupazione personale per l’evolversi dei fatti, affermando ...
che si sarebbe giunti ad un irrigidimento nei rapporti con l’Italia, il che avrebbe
gravato soprattutto sulle genti di confine e sulla minoranza. Alla fine su proposta
di Peterle fu accolta la decisione che ... non ci sarebbe stata la firma, ma che la
Slovenia avrebbe reso una dichiarazione in cui si impegnava, nonostante tutto, a
rispettare i dettami del memorandum, si esprimeva rammarico per il mancato
accordo sulla tutela della minoranza slovena in Italia e si proponeva la prosecuzio-
ne della trattativa”.
Nel motivare la mancata firma, Peterle spiegò che la dirigenza slovena aveva
tenuto conto “soprattutto della dichiarazione della rappresentanza unitaria degli
sloveni in Italia”.
Nella lettera, che Rupel inviò a De Michelis, venne sottolineato il rammarico
per il fatto che l’Italia avesse rinunciato al Memorandum d'’intesa tra Slovenia ed
Italia sulla tutela della minoranza slovena, che era stato siglato. Così, rimarcò il
Ministro, non si erano realizzate le aspettative slovene che si potesse giungere ad
un accordo anche sulla tutela della minoranza slovena in Italia. Per tali ragioni, si
precisò, che la Slovenia non poteva firmare il Memorandum trilaterale. Nella
missiva Rupel, però, garantì che Lubiana era pronta a “rispettare ed applicare,
come se lo avesse firmato””° il documento sulla tutela della minoranza italiana.
Così il 15 gennaio 1992, a Roma, il ministro degli esteri croato, Zvonimir
Separovi6, firmò un accordo trilaterale monco, che Zagabria, poi, avrebbe faticato
a rispettare.
74 “Rupel ne bo odsel v Rim na podpis memoranduma”, Delo, 15 gennaio 1992.
75 ”Manjsini na obeh straneh meje morata biti delezni enake zascite”, Delo, 15 gennaio 1992.
76 M. KOSIN, “Slovenska manjSina ..., op.cit., p. 64.
190 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
Il riconoscimento della Slovenia
L’Italia fu il XXV paese che riconobbe la Slovenia. La dichiarazione del
Ministro degli esteri sloveno bastò all’Italia, secondo la prassi internazionale
questa, infatti, diventava vincolante per la Slovenia. Il Governo italiano prese “con
soddisfazione” conoscenza della lettera di Rupel, ma De Michelis ribadì che
l’assoluta parità di trattamento tra minoranza slovena ed italiana non era possibile
“se non altro per le diverse vicende storiche delle due minoranze””?. Ricordò
l’esodo ed il fatto che ora la comunità italiana viveva in due stati diversi, mentre,
nulla cambiava per la minoranza slovena.
Il presidente del Friuli-Venezia Giulia, Vinicio Turello, non mancò di preci-
sare che il riconoscimento confermava “l’azione svolta dalla Regione in tutti questi
mesi””8. A congratularsi direttamene con gli esponenti sloveni andò, a Lubiana,
una delegazione della DC regionale, guidata dal segretario Longo (sic!).
Il ministro Rupel, in un documento del 22 aprile 1992, scrisse in merito al
mancato trilaterale che “il ministro degli esteri, De Michelis, ha, lui stesso, offerto
buone soluzioni per gli sloveni in Italia, ma i suoi alleati di coalizione non hanno
voluto aiutarlo; inoltre i problemi sono intricati a causa del locale nazionalismo di
destra antisloveno””?. La comunità italiana in Slovenia e Croazia, dunque, aveva
puntato decisamente sul sostegno della madrepatria ed in qualche modo era stata
tradita. Il trilaterale avrebbe dovuto essere l’indicatore di quanto l’Italia era
disposta a sostenere le sue istanze e la mancata firma provocò non poco scoramen-
to. Il presidente della giunta esecutiva di Unione italiana, Maurizio Tremul, non
mancò di condannare l’atteggiamento dei vertici della minoranza slovena che
avevano “strumentalizzato a propri fini un problema vitale per la minoranza
italiana, interrompendo in tal modo il dialogo tra le due comunità”. La leadership
di Unione Italiana si riunì il 16 gennaio, a Capodistria, per valutare la situazione
dopo il “no” sloveno alla firma del trilaterale. Alla fine venne emesso un comuni-
cato di cinque punti in cui l’organizzazione degli italiani prendeva posizione
sull’accaduto:
l. L’ Unione Italiana esprime disapprovazione e amarezza per gli atteggiamenti
e le decisioni assunte dagli organismi statali della Slovenia ai quali si chiede
77 S. ARCELLA, “Cossiga in ‘missione ”, /! Piccolo, 17 gennaio 1992.
78 “Amarezza'’ di esuli e Unione”, I! Piccolo, 17 gennaio 1992.
79 D. RUPEL, Srecanja..., op.cit., p. 323.
80 «A marezza’ di esuli e Unione”, /! Piccolo, 17 gennaio 1992.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 191
ora di dare delle precise risposte in merito alle soluzioni che intendono
adottare per mantenere fede agli impegni formalmente assunti sinora, e
tutelare adeguatamente, uniformemente e nella sua unicità, la minoranza
italiana, in uno spirito realmente democratico e europeo. Auspica al contem-
po che il Memorandum d’Intesa siglato tra Italia e Croazia venga quanto
prima sottoscritto anche dalla Repubblica di Slovenia.
2: L’Unione Italiana respinge categoricamente il criterio di reciprocità quale
base per regolamentare la posizione e i diritti delle minoranze e sviluppare
rapporti di collaborazione cooperazione interstatali.
3: L’Unione Italiana condanna fermamente l’atteggiamento assunto dalle
strutture della minoranza slovena in Italia che hanno strumentalizzato a
propri fini un problema vitale della minoranza italiana, interrompendo in tal
modo il dialogo tra le comunità.
4. L’Unione Italiana sollecita l’urgente e inderogabile approvazione degli
accordi bilaterali previsti dal Memorandum d’Intesa siglato a Roma, e rileva
l'esigenza di partecipare attivamente, con specifiche proposte ed istanze,
alla concretizzazione e all’applicazione di tali accordi.
S. L’Unione esprime il più vivo apprezzamento per la responsabile azione
svolta dalle Repubbliche italiana e croata, ai fini della stipulazione del
Memorandum d'’Intesa a favore della minoranza italiana*'.
Nonostante tutto, i cinque punti furono meno duri di quanto i ‘falchi’ avreb-
bero voluto. Alla fine prevalse la linea moderata, quella “diplomatica”, caldeggiata
da Tremul e Battelli, sfavorevoli ad una totale chiusura. Tuttavia, la posizione
dell’ Unione italiana incontrò, anche, delle reazioni negative all’interno della stessa
minoranza italiana. Il demoliberale, Franco Juri, che guardava alla questione da
un ottica diversa, forse, oramai, più di partito, scrisse che: “La firma di Rupel in
calce al documento trilaterale avrebbe significato la sua fine politica e forse
l’inizio di una destabilizzazione dei delicati equilibri che si vanno faticosamente
creando al centrosinistra. È inutile dire che un simile sviluppo sarebbe stato per
le minoranze ben più deleterio della mancata firma slovena. Chi conosce un po’
di alfabeto politico, sa bene che la leadership di Lubiana, per mantenere un
minimo di dignità di fronte alla propria opinione pubblica, non aveva altra scelta
che quella del rifiuto”*. Juri invitava a superare lo scoglio del confine “senza
8! “Comunicato”, La Voce del Popolo, 17 gennaio 1992.
82 Fi JURI, “La miopia dell’Unione Italiana”, La Voce del Popolo, 20 gennaio 1992.
192 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
padrini romani”** e affermava, rivolto all'Unione italiana, che “l’attacco brutale
alle strutture della minoranza slovena corrisponde esattamente agli interessi (for-
temente destabilizzanti) di chi, oltre confine, continua a ubriacarvi e consigliarvi
malissimo. Dividi et impera? Tra le minoranze litiganti hanno in fondo goduto
sempre i poteri che a queste tendono a concedere il meno possibile”**. Se 1’ Unione
italiana imputava il naufragio alla Slovenia ed all’egoismo della minoranza slove-
na, di tono diametralmente opposto era la reazione della comunità slovena in Italia,
che, invece, vedeva nel Governo di Roma e nei politici regionali le cause del
fallimento della trattativa. In questo senso mantenne un’esemplare compattezza al
di là delle profonde differenze ideologiche esistenti tra le singole componenti. Il
senatore comunista Stojan Spetié chiese chiarimenti in Parlamento sul ritiro
dell’assenso italiano all’ Accordo bilaterale di tutela della minoranza slovena, che
aveva originato la mancata firma del trilaterale da parte di Lubiana. Spetid sottoli-
neò, che il comportamento italiano era da condannare “perché questa volta il
Governo aveva nuovamente ceduto alle pressioni della destra triestina e non aveva
sfruttato l’occasione unica di garantire alla propria minoranza in Istria adeguate
norme di tutela”. Il senatore di etnia slovena non mancò di rilevare che ciò era
stato fatto perché non si erano voluti prendere impegni nei confronti degli sloveni
in Italia.
Intanto gli esponenti della minoranza slovena in Italia chiesero un incontro
con l’Unione italiana per chiarire l’accaduto. Nella lettera che venne inviata si
precisò che ciò che stava accadendo “sicuramente non era nell’interesse delle
minoranze”*°, Gli spazi per il dialogo però non c'erano più; gli sloveni in Italia e
gli italiani in Slovenia e Croazia dopo i contrasti legati all’accordo trilaterale e
bilaterale sarebbero stati, oramai, incapaci di sviluppare una politica propria e con
l’aggravarsi del contenzioso tra i due paesi sarebbero stati sempre in balia dei due
governi. Così, per gli italiani d’Istria, rappresentati dall’ Unione italiana, il punto di
riferimento con cui dialogare fu più Roma, che Lubiana o Zagabria, mentre per gli
sloveni in Italia, la sede dove portare le proprie istanze, diventò sempre più
Lubiana. Del resto, quella di appoggiarsi sulla nazione madre era una prassi ben
radicata, almeno nell’ala sinistra della comunità slovena in Italia, che da questa
collaborazione aveva tratto, pure, non pochi vantaggi economici. Anche per queste
83 Ibidem.
84 Ibid.
85 “Italija priznala Slovenijo”, 17 gennaio 1992.
86 “Polemike niso v interesu manjsin”, Primorski dnevnik, 18 gennaio 1992.
S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 193
ragioni storiche la differenza parve, sin da subito, evidente: da una parte c’era una
nazione che seguiva le sorti della sua minoranza con estrema attenzione, dall’altra,
invece, si faceva ancora difficoltà a distinguere tra cittadinanza e nazionalità. Gli
italiani d’Istria, poi, non s’erano ancora scrollati di dosso la fama di “titini
venduti”, mentre, a livello d’opinione pubblica, l’attenzione per la minoranza
italiana era praticamente inesistente.
Cossiga e la minoranza
Subito dopo il riconoscimento della Slovenia fu lo stesso presidente italiano,
Francesco Cossiga, a prendere in mano le redini del gioco. Così il 16 gennaio
scrisse al suo omologo sloveno, Kuèan, per comunicargli la decisione del suo
Governo. Il 17 gennaio 1992 il Capo dello stato italiano fu il primo presidente di
un paese straniero che venne in visita in Slovenia e Croazia dopo il riconoscimento.
Nel corso del vertice, tra i due presidenti, non si poté evitare quello che era
stato il tema caldo delle ultime settimane: le minoranze. Kuéan disse che “la
Slovenia garantirà, alla minoranza italiana, tutela secondo i più alti standard
europei e libertà di comunicazione con quella parte del popolo italiano che vive in
Croazia e con la madrepatria. Nel contempo espresse la speranza che l’Italia si
comporterà in maniera analoga garantendo un uguale status agli sloveni nel
Friuli-Venezia Giulia”,
Cossiga, dal canto suo, affermò che si sarebbe impegnato acciocché tra i due
paesi si giungesse alla firma di un accordo sulla tutela delle minoranze. Parlando
della comunità italiana, però, non mancò di affermare “che rappresenta un nucleo
che dopo la seconda guerra mondiale in gran parte ha lasciato la sua terra natia””*5,
Forse si poteva leggere in queste parole, un cambio di rotta, una diversa attenzione,
che dalla tutela della minoranza italiana si sarebbe presto spostata sui diritti degli
esuli, su cui avevano iniziato a puntare la Democrazia cristiana triestina e, soprat-
tutto, la Lista per Trieste.
Il giorno successivo, i due presidenti fecero tappa a Pirano dove, nella sede
della Comunità degli italiani “Giuseppe Tartini”, era in programma un incontro con
una delegazione dell’ Unione italiana. Cossiga fu accolto in maniera calorosissima,
nonostante in passato si fosse lasciato andare a qualche “picconata” anche nei
87 M. KOSIN, Zacetki..., op.cit., p. 77.
88 Ibidem.
194 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
Pirano e il suo campanile
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confronti della minoranza italiana in Istria. Gli esponenti di Unione italiana
vollero, ancora una volta, esprimere tutto il loro disappunto per la mancata firma
slovena del memorandum, mentre Cossiga gettò acqua sul fuoco. “La storia pesa
nei suoi aspetti validi e meno validi sul problema delle minoranze italiane in
Slovenia e Croazia, come sulle minoranze slovene e croate in Italia”?*.
Il Presidente pose l’accento sull’impegno sloveno di rispettare il trilaterale,
anche se non era stato firmato, invitando la minoranza ad “abbinare due elementi:
la fedeltà alla sua identità nazionale storica, culturale e linguistica e la lealtà alle
istituzioni delle due repubbliche di cui fa parte”. Le “grandi speranze” della
comunità italiana vennero forse così ancora un po’ deluse.
Il presidente di Unione italiana, Antonio Borme, non riuscì a nascondere il suo
malumore e al termine dei colloqui di fronte ai giornalisti sbottò: “Si specula sulla
nostra lealtà — accusa Borme — non vogliamo che venga confusa con servilismo””.
Il problema delle minoranze, però, nei primi mesi del 1992, stava passando in
secondo piano. La cosa risultò evidente dall’incontro a Roma tra i due capi di
governo, Peterle ed Andreotti, del febbraio del 1992, dove si costatò che ci sarebbe
voluto tempo per trovare una soluzione. Il Premier sloveno ribadì che Lubiana
intendeva “rispettare il memorandum di tutela della minoranza italiana, anche se
formalmente non l’aveva firmato””. Il messaggio, comunque, fu chiaro: prima di
riprendere la questione avrebbero dovuto passare le elezioni politiche in Italia e,
forse, anche quelle in Slovenia. Da quel momento, nella trattativa bilaterale, tra
Italia e Slovenia rimase sul piatto principalmente la tutela della minoranza slovena
in Italia. Dall’ottobre del 1992 per l’Italia il problema preminente sarà quello degli
esuli. Era, infatti, quella una problematica che riusciva ad appassionare maggior-
mente le forze politiche e l’opinione pubblica, soprattutto, in Friuli-Venezia Giulia.
8° M. SIMONOVICH, “Fedeli alla nazione e leali con lo Stato”, La Voce del Popolo, 20 gennaio 1992.
90 Ibidem.
9 R. BIANCHINI, L. COEN, “Il Presidente: ‘Ma io parlavo di assistenza”, Repubblica, 20 gennaio 1992.
92 “Potreben bo éastoda vprasanje manjsin bo reseno”, Primorski dnevnik, 5 febbraio 1992.
196 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196
SAZETAK
Nacionalne manjine na nasem podruéju nisu bile pasivni subjekti koji
su tek promatrali proces raspada Jugoslavije. Prava prekretnica manjine
uslijedila je nakon prvih demokratskih izbora, pobjedom koalicije Demos,
koja je okupila stranke Cija je namjera bila raskinuti sa starim, proòlim
rezimom. Nova slovenska vlada javno je iskazala svoju orijentaciju, kao
i manjeru da otpoène dijalog sa svim nacionalnim manjinama na
podruéju drZave. Kanila je takoder povesti brigu o Slovencima u okrugu
Udina, a ne samo o onima u Trstu. Nova vlast u Ljubljani nije stalno
i s jJednakim razumijevanjem pratila potrebe i bojazni talijanske manjine
u Sloveniji.
Talijanska Unija razradila je niz dokumenata koje je dostavila
sluzbenoj Ljubljani, Zagrebu i Rimu, u kojima se zahtijeva potpisivanje
trilateralnog sporazuma o zaîtiti manjinskih prava od strane Republike
Italije, Republike Hrvatske te Republike Slovenije. Najbitnija natela
dokumenta ticala su se istovjetnog odnosa prema manjini. Sa svoje
strane, Slovenija je vezala trilateralni sporazum uz ona) o zaìtiti
manjinskih prava Slovenaca u Italiji. To je izazvalo nemalu zabrinutost
politiétkih snaga u pokrajini Friuli-Julijska krajina, koje su izrazile svoju
bojazan glede reperkusija Sto bi mogle uslijediti nakon toga. Na kraju,
u pomanjkanju sporazuma koji bi $titio prava slovenske manjine u Italiji,
Ljubljana nije potpisala trilateralni memorandum, ved je izjavila da Ce
ga poîtivati kao da je potpisan. SluZbeni Rim je, svejedno, priznao
Sloveniju 15. sijeîéna 1992., zajedno s ostalim zemljama Europske
zajednice. Od tog trenutka pitanje zastite talijanske manjine prestaje
biti u sredistu paZnje priliktom razgovora izmedu dviju drZava.
POVZETEK
Narodnostne manjsine bivse Julijske krajine niso bile pasivni subjekti v
procesu razkrajanja Jugoslavije. Njihovo delovanje je vplivalo — vedkrat
ni bilo le obrobno —- na odnose med Slovenijo in Italijo. Tudi takrat
je prillo na dan, da je Ljubljana posvetala (in Se posveta) vetjo
pozornost svojim sonarodnjakom na tujem. Dejstvo, da slovenka stran
ni podpisala trilateralnega memoranduma o zaciti italijanske manjSine
v Sloveniji in na Hrva$kem, je bilo prvi motan udarec za “velike upe”,
ki jJih je italifanska skupnost imela do matièéne drZave po padcu
berlinskega zidu.
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 197
MOSAICO FOIBE: NUOVE TESSERE
GIACOMO SCOTTI
Fiume CDU 949.4/.SIstria:323.281”°1943”
L’autore fornisce nuovi contributi allo studio ed alla comprensione del fenomeno degli infoibamenti
verificatisi in Istria nella seconda metà del settembre 1943, nel corso dell’insurrezione popolare
antifascista resa possibile dall’uscita dell’Italia dalla guerra, dallo sfacelo dell’esercito italiano e dal
crollo quasi totale delle strutture statali italiane nella penisola istriana.
L’autore situa quei massacri (alcuni compiuti da delinquenti comuni) dei quali furono vittime non
soltanto italiani ma anche numerosi croati, nella cornice storica e nella situazione peculiare dell’Istria,
tracciando un rapido excursus delle violente persecuzioni attuate dal regime mussoliniano contro le
popolazioni slave. Accenna, nel contesto, per la prima volta, a infoibamenti compiuti da quello stesso
regime proprio nella penisola istriana.Negli altri capitoli viene fornita una cronaca degli eventi
politici e militari nel periodo settembre-ottobre ’43 in Istria (fino all’accupazione della provincia da
parte delle truppe naziste ed alle stragi da esse compiute), facendo conoscere i contenuti di alcuni
documenti del Partito comunista croato e delle forze partigiane croate, evidenziandone le parti in cui
direttamente o indirettamente si accenna agli infoibamenti, all'eliminazione dei “nemici del popolo”
ed ai rapporti, quasi sempre tesi fino ai limiti dello scontro, con gli attivisti del Partito comunista
italiano e i dirigenti italiani dell’antifascismo istriano.
I venti anni di squadrismo e poi venne la guerra
Per una giusta comprensione del fenomeno delle foibe istriane — ma compren-
sione non significa affatto giustificazione di quei crimini — è assolutamente neces-
sario inserire la questione nel contesto storico in cui si verificò e nel quadro più
ampio del periodo tra la fine della prima e lo svolgimento della seconda guerra
mondiale. Un periodo che fu particolarmente tragico per una larga parte della
popolazione istriana venutasi a trovare inserita nel territorio periferico, di frontiera,
del Regno d’Italia; di un’Italia per di più privata, quasi subito dopo il primo
conflitto mondiale, della democrazia parlamentare e delle libertà, asservita al
regime fascista; di un’Italia programmaticamente e politicamente negata a gover-
nare con giustizia territori plurietnici, plurilingui e multiculturali in quanto spinta
198 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
dal suo governo fascista a realizzare un preciso programma di oppressione e
snazionalizzazione dei propri sudditi cosiddetti a/logeni e alloglotti nei territori
orientali.
**R E
Quando terminò la prima guerra mondiale e nell’Istria ex austro-ungarica
sbarcarono le truppe italiane, nella regione risiedevano circa duecentomila croati e
sloveni autoctoni (ne erano stati registrati 225.423 nell’ultimo censimento austria-
co del 1910) e cioè il 58 per cento della popolazione totale. Era una popolazione,
quella slava, formata in prevalenza da contadini; la popolazione italiana invece era
composta per lo più da lavoratori dell’industria, da artigiani, da commercianti e
proprietari terrieri presenti più o meno compattamente nelle cittadine costiere quali
Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Orsera, Rovigno, Dignano,
Pola, Albona e in alcuni centri maggiori dell’interno o poco lontani dalla costa
quali Buie, Montona, Pinguente e Pisino. Ancor prima della firma del Trattato di
Rapallo del 1920 che assegnò definitivamente l’Istria all’Italia, quando ancora la
regione era soggetta al regime di occupazione militare, la popolazione dell’Istria si
trovò di fronte allo squadrismo italiano in camicia nera, parzialmente importato da
Trieste, che in quella regione si manifestò con particolare aggressività e ferocia,
servendosi non soltanto dell’olio di ricino e del manganello. Gli stessi storici
fascisti, tra i quali spicca l’istriano G.A. Chiurco, vantandosi delle gesta degli
squadristi e glorificandole nelle loro opere, hanno abbondantemente documentato
i misfatti compiuti — dagli assassinii di antifascisti italiani quali Pietro Benussi a
Dignano, Antonio Ive a Rovigno, Francesco Papo a Buie, Luigi Scalier a Pola ed
altri — alla distruzione delle Camere del lavoro ed all’incendio delle Case del
popolo, alle sanguinose spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola, ecc.
Questi misfatti continuarono sotto altra forma dopo la presa del potere a Roma
da parte di Mussolini, con la creazione del regime fascista. Ancora una volta il
risultato fu disastroso soprattutto per gli “allogeni” istriani: furono distrutti e/o
aboliti tutti gli enti e sodalizi culturali, sociali e sportivi della popolazione slovena
! Cfr: D. SEPIC, “Istra uoti konferencije mira: talijanska okupacija Istre 1918. i istarski Hrvati” (L’Istria
alla vigilia della Conferenza di pace: l’occupazione italiana dell’Istria nel 1918 e gli istriani croati), Zbornik
Historijskog arkhiva Jazu, vol. IV, Zagabria, 1961; AA.VV, /stra i Slovensko Primorje (L’Istria e il Litorale
sloveno), Belgrado, 1952; AA.VV, Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera, Trieste-Istria-Friuli
1919-1945, Udine, 1974; E. APIH, Dal regime alla resistenza. Venezia Giulia 1922-43, Udine, 1960.
2 Cfr. G.A. CHIURCO, Storia della rivoluzione fascista, 5 vol., Firenze, 1928.
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 199
e croata; sparì ogni segno esteriore della presenza dei croati e sloveni, vennero
abolite le loro scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti
nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo; con un decreto del 1927
furono forzosamente italianizzati i cognomi di famiglia (in alcuni casi il cambio
dei cognomi fu attuato con tale diligenza che due fratelli, o padre e figlio,
ricevettero due cognomi diversi), furono italianizzati anche molti toponimi; mi-
gliaia di persone finirono al confino (Tremiti, Ustica, Ponza, Ventotene, S. Stefano,
Portolongone, Lipari, Favignana, ecc.) o nel migliore dei casi, se dipendenti statali,
specialmente ferrovieri — furono trasferiti in altre regioni d’Italia; nelle chiese le
messe poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata e slovena
dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, queste stesse lingue furono caccia-
te dai tribunali e dagli altri uffici, bandite dalla vita quotidiana. Gli allogeni o
alloglotti furono discriminati perfino nel servizio militare, finendo nei cosiddetti
“Battaglioni speciali” in Sicilia e Sardegna. Alcune centinaia di democratici
italiani, socialisti, comunisti e cattolici che lottarono per la difesa dei più elemen-
tari diritti delle minoranze subirono attentati, arresti, processi e lunghi anni di
carcere inflitti dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato. I principali “covi
sovversivi” furono Rovigno, Pola e il bacino carbonifero di Albona-Arsia.
Mi è capitato per le mani un libro sulla storia dell’ Alpina delle Giulie? e sulle
vicende dei consoci di quella società alpinistica fra i quali l’irredentista, poi
fascista e, sotto il fascismo, ministro dei Lavori Pubblici, Sua Eccellenza Giuseppe
Cobolli Gigli. Costui, figlio del maestro elementare sloveno Nikolaus Combol,
classe 1863, italianizzò spontaneamente il cognome nel 1928 anche perchè sin dal
1919 si era dato uno pseudonimo patriottico, Giulio Italico. Divenuto poi un
gerarca del fascismo, prese pure un secondo cognome, Gigli, dandosi un tocco di
nobiltà. Questo Giuseppe Cobolli Gigli, autore anche di opuscoletti altamente
patriottici, (tra i quali // fascismo e gli allogeni, da “Gerarchia”, settembre 1927, in
cui si sosteneva la necessità di eseguire quella che oggi chiamiamo pulizia etnica,
da realizzare attraverso la sostituzione delle popolazioni “allogene” autoctone con
coloni italiani provenienti da altre provincie del Regno), volle tramandare ai
posteri, trascrivendola, una particolare canzoncina in voga fra gli squadristi di
Pisino. Il paese sorge sul bordo di una voragine che — scrisse il Cobol-Cobolli Gigli
introducendo le strofe — /a musa istriana ha chiamato Foiba, degno posto di
sepoltura per chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese, le caratteristiche
nazionali dell’Istria. Quindi chi, fra i croati, aveva la pretesa, per esempio, di
3 L.1. SIROVIG, Cime irredente, Torino, 1996.
200 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
parlare nella lingua materna, correva il pericolo di trovar sepoltura nella Foiba. Ed
ecco la canzoncina tramandataci da Sua Eccelenza (testo dialettale e traduzione
italiana a fronte):
A Pola xe l’Arena, A Pola c’è l’Arena,
la Foiba xe a Pisin: a Pisino c’è la Foiba:
che i buta zo in quel fondo in quell’abisso vien gettato
chi ga certo morbin chi ha certi pruriti.
E achi con zerte storie E chi con certe storie
fra i piè ne vegnerà, ci capita tra i piedi,
disèghe ciaro e tondo: ditegli chiaro e tondo:
feve più in là, più in là. fatti più in là, più in là.
Dal che si vede che il brevetto degli infoibamenti spetta ai fascisti e risale agli
inizi degli anni Venti del XX secolo.
Dopo 60 anni, una testimonianza
Pare, inoltre che gli infoibamenti non rimasero allo stato di progetto e di
canzoncine. Riportiamo qui, riprendendola dal quotidiano triestino “Il Piccolo” del
5 novembre 2001, la testimonianza di Raffaello Camerini, ebreo, classe 1924, che
ricorda fatti avvenuti in Istria all’inizio degli anni Quaranta: Nel luglio del 1940,
ottenuta la licenza scientifica, dopo neanche un mese, sono stato chiamato al
lavoro “coatto”, in quanto ebreo, e sono stato destinato alle cave di bauxite, la cui
sede principale era a S.Domenica d’Albona.
Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 — poi sono stato trasferito
a Verteneglio — ha dell’incredibile. La crudeltà dei fascisti italiani contro chi
parlava il croato, invece che l’italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio
cognome croato o sloveno, con altro italiano, era tale che di notte prendevano di
forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li
trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove c'erano delle
foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro.
Quando queste cavità erano riempite, ho veduto diversi camion, di giorno e
di sera, con del calcestruzzo prelevato da un deposito di materiali da costruzione
sito alla base di Albona, che si dirigevano verso quei siti e dopo poco tempo
ritornavano vuoti. Allora, io abitavo in una casa sita nella piazza di Santa
Domenica d’Albona, adiacente alla chiesa, e attraverso le tapparelle della finestra
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 201
della stanza ho veduto più volte, di notte, quelle scene che non dimenticherò finchè
vivrò.
Io ne sono uscito indenne perchè ero sotto il controllo dei carabinieri del
luogo, ove lavoravo, ove ero obbligato, due volte alla settimana, a firmare il
registro verde “Presenza ebrei” (...) Mi chiedo sempre, pur dopo 60 anni, come un
uomo può avere tanta crudeltà nel proprio animo. Che educazione hanno ricevuto
quelle persone dai propri genitori e che insegnamento hanno ricevuto nella scuola
italiana fascista, ove insegnavano “libro e moschetto, fascista perfetto” ?
Sono stati gli italiani, fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far
sparire i loro avversari. Logicamente, i partigiani di Tito, successivamente, si sono
vendicati usando lo stesso sistema.
E che dire dei fascisti italiani che il 26 luglio 1943 hanno fatto dirottare la
corriera di linea — che da Trieste era diretta a Pisino e Pola — in un burrone con
tutto il carico di passeggeri, con esito letale per tutti (...) Io ho lavorato fra Santa
Domenica d’Albona, Cherso, Verteneglio sino all’agosto del 1943 e mai ho veduto
un litigio, di qualsiasi genere, fra sloveni, croati e italiani (quelli non fascisti).
L’accordo e l’amicizia era grande e l’aiuto, in quel difficile periodo, era reciproco.
Un tanto per la verità, che io posso testimoniare.
Per gli slavi il risultato del ventennio fascista e del triennio bellico 1940-43 fu
la fuga dall’Istria di circa 60.000 persone, metà delle quali trovò rifugio nelle due
Americhe e l’altra metà nell’ex Jugoslavia. Sul piano ideologico il risultato fu che
nella stragrande maggioranza questi esuli istriani slavi si schierarono sui fronti di
due estremismi: andarono a rafforzare le file comuniste oppure quelle nazionaliste
degli ustascia e oriunasci, due fronti opposti ma accomunati dall’odio contro
l’Italia. Il movimento comunista jugoslavo, sia notato per inciso, era di per sè
alimentato da una forte tendenza nazionalista e questa tendenza fu nutrita anche da
un profondo sentimento anti-italiano nelle organizzazioni del PC croato e sloveno,
come dimostra la politica condotta nei riguardi dell’Istria, della Venezia Giulia e
Dalmazia da alcuni leader di quei due partiti negli anni della Resistenza e in
particolare dal massimo esponente del comunismo sloveno Edvard Kardelj.?* A
questa tendenza ed a questa politica nazionalista-espansionista e non all'ideologia
comunista vanno addebitati alcuni “eccessi” compiuti in Istria immediatamente
dopo l’armistizio del settembre 1943 e le cosiddette “deviazioni” verificatesi
3a Atteggiamenti ed atti nazionalistici anti-italiani sono documentati in: G. SCOTTI, Juris, juris! All’attacco
— La guerra partigiana ai confini orientali d’Italia 1943-1945, Milano, 1984 (si cfr. ampia bibliografia alle pp.
327-336) e P. SEMA - A. SOLA - M. BIBALO, con la collaborazione di Gino SERGI (Giacomo SCOTTI),
Battaglione Alma Vivoda, Milano, 1975.
202 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
sempre in Istria dopo il maggio 1945 con il ritorno anche degli esuli croati di
tendenza nazionalista. La conseguenza di tutti gli “errori”, “deviazioni” e, in
genere, di una politica della mano pesante, fu l'esodo di 200-250.000 persone,
italiani, croati e sloveni insieme, senza distinzione. Uno di questi esuli, il rovignese
prof. Sergio Borme, attualmente a Pavia, ha scritto: (...) la questione delle foibe.
Molti commentatori hanno ritenuto di poterla indicare nell’ideologia comunista
dimenticando che il “confine sul Tagliamento” era stato l’obiettivo del nazionali-
smo slavo molto prima che il regime jugoslavo nascesse. Facendo proprio
quell’obiettivo, l'ideologia si metteva al servizio del nazionalismo e non viceversa
(...) Alla guida della Croazia e della Slovenia troviamo oggi personaggi che erano
stati le colonne portanti del regime, ma una metamorfosi così repentina e radicale
sarebbe stata impossibile se l’adesione all’ideologia (dell’internazionalismo co-
munista) fosse stata reale e convinta*.
Purtroppo a rafforzare il nazionalismo anti-italiano nelle file del Movimento
partigiano di liberazione e dei partiti comunisti sloveno, croato e montenegrino fu
ancora una volta il fascismo mussoliniano che nella seconda guerra mondiale portò
l’Italia ad aggredire i popoli jugoslavi. Quell’aggressione tra il 6 aprile 1941 e l’inizio
di settembre 1943 fu caratterizzata, come documenta lo storico triestino Teodoro Sala,
non soltanto dalle brutali annessioni delle Bocche di Cattaro, di larghe fette della
Croazia e di una parte della Slovenia, ma anche da una lunga serie di crimini di guerra
compiuti da speciali reparti di occupazione, fra i quali di distinsero per ferocia le
Camicie Nere, per ordine dello stesso Mussolini e di alcuni generali: si giunse alle
scelte più draconiane dei comandi militari italiani. Ne derivarono rapine, uccisio-
ni, ogni sorta di violenza perpetrata (...) a danno delle popolazioni.
Il fuoco e il sangue
Nelle regioni della Croazia annesse all'Italia dopo il 6 aprile ‘41, si ripetè
quanto avvenuto in Istria dopo la Grande Guerra: si ricorse ad ogni mezzo per la
snazionalizzazione e l’assimilazione, provocando inevitabilmente l’ostilità delle
popolazioni, come annotava un rapporto del comandante del XII battaglione moto-
rizzato dei Regi Carabinieri con sede a Susak (divenuta Sussa) dell’8 agosto 1941:
Il contegno delle popolazioni nuove annesse, già riservato e indifferente, ha preso
4 Il Piccolo, 17 settembre 1996.
5 L'Espresso, 19 settembre 1996.
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in questi ultimi giorni aspetto di palese e accentuata ostilità nei nostri riguardi°.
Nella toponomastica, per cominciare da questo aspetto non cruento dell’occu-
pazione, fu recitata una vera e propria tragicommedia, avendo come regista il
prefetto della Provincia del Carnaro e dei Territori Aggregati del Fiumano e della
Kupa, Temistocle Testa. Con suo decreto dell’8 settembre 1941 fu ordinato di
adottare senza indugio i nomi italiani di tutti quei luoghi (comuni, frazioni,
località) che erano da secoli italiani e che la ventennale dominazione jugoslava ha
trasformato in denominazioni straniere. Così località del profondo territorio inter-
no lungo il fiume Kupa e nel Gorski Kotar divennero: Belica = Riobianco, Bogovié
= Bogovi, Brusié = Brissi, Buzdohanj = Buso, Crni Lug = Bosconero, Cabar =
Concanera, Glavani = Testani, Jelenje = Cervi, Kaéjak = Serpaio, Koziji Vrh=
Montecarpino, Medvedek = Orsano, Orehovica = Nocera Inferiore, Padovo =
Padova, Peéine = Grottamare e via traducendo o inventando. Trinajstici, presso
Castua, divenne Sassarino in onore della divisione “Sassari” che vi teneva un
reparto...
Ma ben presto, dopo aver battezzato città, comuni, villaggi e frazioni, si passò
a distruggere col fuoco quelli, fra di essi, che non tolleravano l’italianizzazione né
l'occupazione. In data 30 maggio 1942 il Prefetto Testa, in virtù dei poteri
conferitigli dal R.D.Legge del 18.V.1942 — XIX n.452 per i Territori Aggregati alla
Provincia di Fiume, rese noto con pubblici manifesti di aver fatto eseguire l’inter-
namento nei campi di concentramento in Italia di un numero indeterminato di
famiglie di Jelenje (non ancora Cervi) dalle cui abitazioni si erano allontanati
giovani maggiorenni senza informarne le autorità. Testa era convinto che essi
avessero raggiunto nei boschi i ribelli arruolandosi nelle file partigiane per com-
mettere azioni di banditismo, ladronerie e terrorismo. Non potendo sconfiggere e
catturare i partigiani che combattevano in casa propria e per la propria libertà, Testa
se la prendeva con le famiglie. Ma non si limitò alla loro deportazione. Il manifesto
rese noto: sono stase rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20
componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia. Si ammoniva,
infine, che la rappresaglia sarebbe continuata. Infatti continuò.
Già il 4 giugno di quell’anno gli uomini del II Battaglione Squadristi di Fiume
incendiarono le case dei villaggi: Bittigne di Sotto (Spodnje Bitinje), tutte ad
eccezione di dieci; Bittigne di Sopra (Gornje Bitnje), tutte eccetto la scuola e due
officine di un ente agricolo italiano; Monte Chilovi (Kilovée), tutte eccetto la
chiesa, la Casa dei ferrovieri e quattro case private; Rattecevo in Monte (Ratetevo),
©Cfr. Bollettino, n.1 (1976), Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione del Friuli - Venezia
Giulia, Trieste.
204 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
tutte le case, esclusa la chiesa. Lo stesso giorno, nel capoluogo comunale di
Primano (Prem) fu incendiata una casa. A Kilovée furono fucilate 24 persone ma
le vittime furono molte di più, come si apprende dal manifesto fatto affiggere dal
comando del battaglione a scopo intimidatorio, perchè i corpi di molte vittime della
spedizione punitiva erano disseminati per i campi ed i fascisti, in attesa di rinforzi,
non si erano arrischiati a contarli.
Sempre nei dintorni di Fiume, a Cernik-Cavle, furono arrestate 25 persone; a
Hreljin i fascisti fecero irruzione in 15 case, saccheggiandole, spaccando tutto e
arrestando chi ci abitava. A Pasac fecero una vera e propria strage di persone
innocenti: il 25 novembre 1941, era un martedì, ammazzarono una donna incinta,
suo marito, un uomo anziano e un giovane, ferirono un bambino e numerosi altri
abitanti, saccheggiarono il paese e caricarono sui camion, deportandoli in prigioni
italiane, la maggior parte degli abitanti. A Lukezi fu ammazzato un vecchio di 70
anni... A Krasica penetrarono di nottte nelle case del paese, saccheggiarono tutto
quel che poterono, spararono alla cieca, arrestarono varie persone.
Il 21 novembre, siamo ancora al 1941, un reparto di circa 150 camicie nere
raggiunse il villaggio di Podhum e, di notte, andarono di casa in casa a svegliare
gli abitanti chiedendo loro se avessero visto dei ribelli comunisti muoversi per i
boschi. L’indomani mattina, dopo aver bloccato le strade che portavano al paese,
fermarono tutti i passanti chiedendo di esibire le carte d’identità; a molti fecero
togliere le scarpe e i vestiti, spingendoli poi nudi nelle loro case. Quella fu soltanto
un’azione intimidatoria, ma il nome di Podhum diverrà ben presto sinonimo di
massacro.
Non c’è villaggio sul territorio di quelli che furono chiamati Territori Aggre-
gati e/o Annessi a contatto con l’Istria e la regione del Quarnero, occupati fino al
settembre 1943, che non abbia avuto case bruciate o sia stato interamente raso al
suolo; non ci fu una sola famiglia che non abbia avuto uno o più membri deportati
oppure fucilati.
Queste vittime andarono ad aggiungersi a quelle che avevano subitole atrocità
del ventennio fascista fra le due guerre mondiali nei territori della Venezia Giulia,
Istria e Fiume comprese, passate all’Italia dopo il 1919.
Nel volume Slom Kraljevine Jugoslavije (Il crollo del Regno di Jugoslavia,
Belgrado 1982) il suo autore Velimir Terzié, all’epoca generale in congedo
dell’ Armata jugoslava, calcolò che le vittime provocate in Jugoslavia durante la
seconda guerra mondiale dall’ occupazione italiana furono circa 749.000 (gli ita-
liani lasciarono dietro di sé il deserto) e precisamente: 437.935 persone uccise,
64.512 invalidi, 131.250 obbligati ai lavori forzati, 109.437 deportati nei campi di
concentramento, 7.450 nei campi per prigionieri di guerra. A sua volta lo studioso
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croato Zerjavié, in polemica con Terzié ed altri autori serbi, nel suo libro Gubici
stanovni$tva Jugoslavije u drugom svjetskom ratu (Perdite della popolazione della
Jugoslavia nella seconda guerra mondiale, Zagabria 1989), riduce notevolmente le
cifre delle perdite civili provocate dagli occupanti italiani, calcolando che nei
territori della Croazia e Slovenia annessi e/o occupati dall’Italia i civili uccisi
furono circa 178 mila. Sommando a queste le perdite montenegrine, si arriva a poco
più di 200.000. Non sono i 438 mila morti indicati dal Terzié, ma siamo pur sempre
di fronte a un orrendo bilancio di sangue. Restano infine gli invalidi, i deportati.
Sull'argomento, lo storiografo Carlo Spartaco Capogreco scrive: In Jugosla-
via il soldato italiano, oltre che quello del combattente ha svolto anche il ruolo
dell’aguzzino, non di rado facendo ricorso a metodi tipicamente nazisti quali
l’incendio dei villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le deportazioni in massa dei civili
e il loro internamento nei campi di concentramento.‘ Più avanti, dopo aver
denunciato i “tanti silenzi e rimozioni”, i “buchi neri” e la “relativizzazione dei
crimini fascisti” che avvolgono la storia dell’occupazione italiana dell’ex Jugosla-
via, Capogreco si sofferma sulle “condizioni disumane” dell’internamento dei
civili tenute nascoste purtroppo dalla storiografia italiana e perciò oggi “estranee
al bagaglio culturale degli italiani”. Il Capogreco, in particolare, evidenzia: primo,
durante il ventennio fascista il numero dei condanati e confinati “slavi” della
Venezia Giulia e dell’Istria fu particolarmente elevato, e non a caso dal giugno
1940 al settembre 1943 la maggioranza degli “ospiti” dei campi di concentramento
italiani era costituita da civili sloveni, croati e montenegrini; secondo, il numero
totale dei civili internati dall’Italia fascista superò di diverse volte quello comples-
sivamente raggiunto dai detenuti e confinati politici antifascisti in tutti i 17 anni
durante i quali rimasero in vigore le “leggi eccezionali”; terzo, più di 800 italiani,
fra alti gerarchi civili e comandanti militari, furono denunciati per crimini di guerra
commessi durante la seconda guerra mondiale alla War Crimes Commission
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. I campi di concentramento nei quali
6a C.S. CAPOGRECO, “Una storia rimossa dell’Italia fascista. L’intermamento dei civili jugoslavi (1941-
1943)”, Studi storici, n.1/2001. Sull'argomento si consultino, dello stesso autore, “Per una storia_dell’internamento
civile nell’Italia fascista (1940-1943)”, Italia 1943-1945. Storia e memoria a cura di A. L. Carlotti, Milano 1996,
e “L’oblio delle deportazioni fasciste: una “questione nazionale”, Nord e Sud, n. 6/1999.
6 Sui crimini di guerra commessi nelle regioni occupate dalle truppe italiane nell’ex’Jugoslavia dal 1941
al 1943 si consultino: E. COLLOTTI, “Sulla politica di repressione italiana nei Balcani”, La memoria del nazismo
nell'Europa di oggi, a cura di L. Paggi, Firenze, 1997; T. FERENC, La provincia "italiana" di Lubiana, Documenti
1941-1942, Udine 1994; G. PIEMONTESE, Ventinove mesi di occupazione italiana nella Provincia di Lubiana.
Conciderazioni e Documenti, Lubiana 1946; M. CUZZI, L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943),
Roma, 1998; D. SEPIG, “La politique italienne d’occupation en Dalmatie 1941-1943”, Le systémes d'occupation
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furono rinchiusi più di centomila civili croati, sloveni, montenegrini ed erzegovesi
erano disseminati dall’ Albania all’Italia meridionale, centrale e settentrionale,
dall’isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova
e Monigo nel Veneto. Tra i più malfamati campi di concentramento, oltre a quelli
sopra ricordati, ci furono pure Renicci nei pressi di Anghiari (Arezzo), Fraschette
di Alatri (Frosinone), Cairo Montenotte (Savona), Poggio III Armata e Castagne-
vizza nei pressi di Gorizia, Tavernelle in provincia di Perugia, Pisticci, Ferramonti.
A questi vanno aggiunti i campi di internamento di Corropoli, Lanciano,
Pollenza, Sassoferrato, Scipioni, Lipari, Ustica eccetera. Non si contano, poi, i
campi “di transito” che funzionavano lungo tutta la costa adriatica. Ricorderemo
subito quelli di Fiume, di Buccari (Bakar) e Portoré (Kraljevica) ad est di Fiume.
Scrive Capogreco: // campo di Fiume fu uno dei primi ad essere aperto, nell’estate
del ’41: nonostante il turn-over degli internati, la loro presenza media si mantene-
va sulle 2.000 unità. Quello di Buccari, uno dei campi di concentramento più
importanti, fu attivo dal marzo 1942 sino al luglio 1943, mentre quello di Kralje-
vica fu presto limitato al solo internamento ebraico. In Dalmazia campi di interna-
mento e di transito furono istituiti a Vodice, O$ljak, Zlarin, Divulje, sulle isole di
Ugliano (Ugljan) e Melada (Molat). Quest’ ultimo fu definito da monsignor
Girolamo Mileta, vescovo di Sebenico, “un sepolcro di viventi”. L’elenco è
largamente incompleto. In quei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel
solo lager di Arbe ne morirono 4.000 circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per
denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie. A proposito ecco un documento del
15 dicembre 1942. In quella data 1° Alto Commissario per la Provincia di Lubiana,
Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell’XI Corpo d’Armata il rapporto di un
medico in visita al campo di Arbe dove gli internati presentavano nell’assoluta
totalità i segni più gravi dell’inanizione da fame. Sotto quel rapporto il generale
Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: Logico ed opportuno che campo di
concentramento non significhi campo d’ingrassamento. Individuo malato = indi-
viduo che sta tranquillo. Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò
un fonogramma al Comando dell’XI Corpo in cui si parlava di briganti comunisti
en Yugoslavie 1941-1945, Belgrade 1963; T. FERENC, “Si ammazza troppo poco". Condannati a morte, ostaggi,
passati per le armi nella Provincia di Lubiana 1941-1943. Documenti, Ljubljana 1999; P. BRIGNOLI, Santa
messa per i miei fucilati. Le spietate rappresaglie italiane contro i partigiani in Croazia, dal diario di un
cappellano,_Milano, 1973. Per il periodo fra le due guerre cfr.: LL CERMELI, Sloveni e croati in Italia fra le due
guerre, Trieste 1974; E. APIH, /talia, fascismo ed antifascismo nella Venezia Giulia 1918-1943, Bari 1966; M.
KACIN-WOHINC - J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni in Italia 1866-1998, Venezia 1998; M. KACIN-WOHINC,
“I programmi fascisti di snazionalizzazione di sloveni e croati nella Venezia Giulia”, Storia contomporanea in
Friuli, n. 19/1988.
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passati per le armi e sospetti di favoreggiamento arrestati. In una nota scritta a
mano il generale Mario Robotti impose: Chiarire bene il trattamento dei sospetti
(...) Cosa dicono le norme 4c e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo
poco! L'ultima frase è sottolineata. Il generale Robotti alludeva alle parole d’ordi-
ne riassuntive del generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in
Slovenia e Croazia (Supersloda) il quale nel marzo del 1942 aveva diramato una
Circolare 3C nella quale si legge: // trattamento da fare ai ribelli non deve essere
sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da quella testa per dente. Una
frase che ci fa ricordare l’eccidio di Gramozna Jama in Slovenia dalla quale furono
riesumati nel dopoguerra i resti di un centinaio di civili massacrati durante l’occu-
pazione per ordine delle autorità militari italiane.
Furonoalcune migliaia i civili ribelli falciati dai plotoni di esecuzione italiani,
dalla Slovenia alla “Provincia del Carnaro”, dalla Dalmazia fino alle Bocche di
Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici
ordini di generali dell’esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti.
In una lettera spedita al Comando supremo dal generale Roatta in data 8 settembre
1942 (N. 08906) fu proposta la deportazione della popolazione slovena. /n questo
caso -scrisse- si tratterebbe di trasferire masse ragguardevoli di popolazione, di
insediarle all’interno del regno e di sostituirle in posto con popolazione italiana.
Il figlio di Nazario Sauro (l’eroe della Prima guerra mondiale), Italo Sauro, in un
“Appunto per il Duce”, nel quale riferisce un suo colloquio con 1’ SS — Brigade
fuehrer Guenter lo informava tra l’altro: Per quanto riguarda la lotta contro i
partigiani, io avevo proposto il trasferimento in Germania di tutta la popolazione
allogena compresa tra il 15 e i 45 anni con poche eccezioni, ma i tedeschi dissero
di no”.
Andremmo troppo lontano se volessimo citare altri documenti, centinaia, che
ci mostrano il volto feroce dell’Italia monarchica e fascista in Istria e nei territori
? Per meglio inquadrare la figura dell’autore di questa orribile proposta, ricordiamo subito alcune date: il 1
ottobre 1943 viene istituito dagli occupatori tedeschi l’ Adriatisches Kiinstenland, il Litorale Adriatico con capitale
Trieste, comprendente la Venezia Giulia, il Friuli e la Provincia di Lubiana già annessa all'Italia. Questa vastissima
regione fu così praticamente annessa al Terzo Reich. Gaulaiter (Governatore) viene nominato Friedrich Reiner,
suo vice Wolsseger. In Istria i tedeschi nominarono prefetto l’italiano Ludovico Artusi e viceprefetto il croato
Bogdan MogoroviC. Il 7 ottobre il bollettino tedesco fornì un primo bilancio della repressione in Istria, informando:
Sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi. Altri 4.900 sono stati catturati, fra cui gruppi di ufficiali e soldati
badogliani, dunque italiani. Il 23 ottobre il bollettino germanico parlò di /3.000 banditi uccisi o fatti prigionieri,
sempre in Istria. Quei “banditi” erano italiani, oltre che sloveni e croati. L'8 dicembre dello stesso anno si costituì
in Istria, armato dai tedeschi, sotto il comando tedesco, al servizio dei tedeschi, il Reggimento “Istria” della Milizia
Difesa Territoriale, suddiviso in tre battaglioni, al comando di Libero Sauro. Un uomo che, tradendo il sublime
sacrificio del padre, assistè impassibile alla distruzione del monumento a Nazario Sauro a Capodistria. I Tedeschi
lo demolirono col pretesto che era un punto di riferimento per l'aviazione alleata!
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Preparativi prima dell’estrazione delle salme
Jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale. Gli stupri, i saccheggi
e gli incendi di villaggi si ripetevano in ogni azione di rastrellamento*. Tuttavia,
trattandosi qui dell’ Istria, vogliamo accennare rapidamente almeno a pochi episodi
che precedettero di pochi mesi i fatti del settembre 1943.
Podhum ed altre stragi
Nell’estrema parte nord-orientale dell’ Istria, alle spalle di Abbazia, le autorità
militari italiane intrapresero all’inizio di giugno 1942 un’azione prettamente terro-
8 Una documentazione di questi crimini la si può trovare nel mio libro Bono Taliano (Italiani in Jugoslavia
1941-43), Milano, 1977; nel volume AA.VV, La dittatura fascista, Milano, 1984, nel quale Teodoro Sala dedica
un corposo capitolo a “Fascismo e Balcani. L'occupazione della Jugoslavia” e in altre opere. Fra quelle di autori
croati segnaliamo D. TUMPIG, Nepokorena Istra: sjecanja i dokumenti (L’Istria indomita, ricordi e documenti),
Zagabria, 1975.
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ristica contro le famiglie dalle quali risultava assente qualche congiunto, sicchè
potevano ritenere che avesse raggiunto le file dei “ribelli”’ (partigiani). Un comu-
nicato del generale Lorenzo Bravarone informò che il 6 giugno erano state arrestate
e deportate nei campi di internamento in Italia 34 famiglie per un totale di 131
persone di Kastav/Castua, Maréelji/Marcegli, Rubessi, San Matteo (Vi$kovo) e
Spincici; i loro beni mobili, compreso il bestiame grosso e minuto, furono confi-
scati o abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case incendiate, dodici
persone vennero passate per le armi senza alcun processo.
Ancora più terribile fu la sorte toccata agli abitanti della zona di Grobnik/Grob-
nico, a nord di Fiume. I maestri elementari Giovanni e Franca Renzi, mandati dal
regime a “italianizzare” i bambini croati del villaggio di Podhum annesso alla
Provincia del Carnaro nel 1941, erano diventati malfamati nella zona per i maltrat-
tamenti e le punizioni inflitte a quei bambini colpevoli unicamente di non appren-
dere rapidamente la lingua italiana. Tra l’altro, il maestro, affetto da TBC, soleva
sputare in bocca ai disgraziati alunni a lui affidati quando sbagliavano un verbo o un
vocabolo. Finirono ammazzati da non si sa chi il 10 giugno 1942. A un mese di
distanza, risultati vani i tentativi di individuare gli uccisori dei due insegnanti, e
insoddisfatto della spedizione punitiva compiuta il 6 giugno, il prefetto di Fiume,
Temistocle Testa, ordinò una rappresaglia sanguinosa: reparti di camicie nere nei
quali furono mobilitati per l'occasione anche numerosi giovani fascisti italiani di
Fiume, insieme a reparti delle truppe regolari, irruppero nel villaggio di Podhum
all’alba del 12 luglio. Rastrellata l’intera popolazione, questa fu condotta in una cava
di pietra presso il campo di aviazione di Grobnico, mentre il villaggio veniva
saccheggiato e poi incendiato. Il fuoco distrusse 370 case di abitazione e 124 altri
edifici; oltre mille capi di bestiame grosso e 1300 di bestiame minuto furono portati
via, 889 persone rispettivamente 185 famiglie finirono nei campi di internamento
italiani: 412 bambini, 269 donne e 208 maschi anziani. Altri 91 maschi furono
fucilati nella cava: il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13 anni appena.
Il 64.enne si chiamava Juraj (Giorgio), il tredicenne Filip, ma avevano lo
stesso cognome: Petrovié. Dal folto gruppo dei fucilati due riuscirono a fuggire,
nonostante fossero feriti. Uno di essi, Ivan Cuculié, ha lasciato una testimonianza
che oggi si può leggere in un libro di lettura per le scuole della regione di Fiume.
Traduciamo: ‘“Scappai dal luogo dell’eccidio i 112 luglio. Era domenica. Al
mattino mia moglie era scesa a Susak con un carico di legna da ardere sulle spalle,
per venederla. Alle otto arrivò un camion di soldati ne lcentro del villaggio. Un
soldato venne da me, mi consegnò un manifesto da affiggere ed io lo affissi. Il
manifesto, firmato dal prefetto di Fiume, Temistocle Testa, diceva che eravamo
liberi di muoverci soltanto dalle otto alle dieci pomeridiane, dopo di che si doveva
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tornare tutti a casa. ‘Chi sarà sorpreso fuori casa dopo quell’ora— diceva l'affisso
— verrà passato per le armi’. Ma subito dopo arrivò un altro soldato che mi intimò:
‘Fuori, via!’ costringendomi a uscire di casa e seguirlo. Camminando davanti a
lui, vidi che fuori del paese erano stati già condotti una decina di compaesani.
Intorno al villaggio, dentro il villaggio e sulle alture intorno ad esso ogni passag-
gio era bloccato da isoldati italiani.
Ci condussero in direzione dell’aeroporto di Grobnico e della piana di
Grobnicko Polje. A un centinaio di metri di distanza dalle ultime case de lpaese
ci fecero fermare. Sul posto trovammo già raccolti un centinaio di uomini, una
donna e alcuni ragazzi minorenni. Vedemmo pure, ai margini del villaggio, alcuni
camion con a bordo quattro lanciafiamme.
Il nostro gruppo, intanto, fu circondato da un fitto cordone di soldati. Furono
anche piazzate alcune mitragliatrici pesanti con le canne puntate verso di noi. Ci
fecero sedere per terra. In motocicletta arrivò poi un brigadiere de icarabinieri
che conoscevo: era in servizio a Jelenje, si chiamava Menaldo Luigi. Si avvicinò
a un maggiore dell’esercito e subito dopo, leggendo un foglio ad alta voce,
cominciò a fare nomi e cognomi degli uomini risultati nel rastrellamento del paese.
Da tempo avevano raggiunto nel bosco i partigiani. Ad ogni nome e cognome
seguiva il numero della casa. Cinque di costoro, però, erano lì presenti, risposero
all’appello, non erano andati a fare i partigiani. Li separarono subito dal gruppo;
poi misero in disparte i vecchi e i ragazzi. Ciò fatto, condussero i primi cinque ai
piedi di un’altura, circa 200 metri distante. Sentiamo alcune raffiche di mitraglia,
seguite da colpi di pistola, i colpi di grazia.
I soldati del plotone di esecuzione tornarono da noi, presero altri quindici
uomini e spinsero anche quelli verso il luogo della fucilazione. Poi, per la terza
volta il brigadiere, il maggiore e alcuni altri ufficiali scelsero un gruppo di uomini
da ammazzare. Fra questi c’ero anch’io. Arrivati ai piedi della collinetta, scorsi
dapprima due carri armati e poi il mucchio di cadaveri. A terra, fra i carri, erano
piantate le mitragliatrici servite dai soldati.
Dal villaggio si levavano già le fiamme e colonne di fumo dalle case bruciate.
Ci misero con la faccia rivolta alla collina, poi le mitragliatrici presero a sparare.
Una pallottola mi prese alla gamba destra, un’altra alla scapola. Nonostante il
dolore lancinante, continuai a fuggire verso la collina. Poi caddi sfinito, ma riuscii
a trascinarmi verso un folto cespuglio sulla pietraia e mi nascosi. Vidi correre
nella mia direzione anche un altro paesano, Josip Reljac di 17 anni; era ferito
anche lui. Avendo perso di vista me, i soldati concentrarono il fuoco su di lui,
inseguendolo. Così rimasi nascosto nel cespuglio e mi salvai. Fortunatamente,
come seppi dopo, riuscì a salvarsi anche l’altro giovane che era scappato. Lasciai
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il mio rifugio appena verso sera, quando i soldati se ne erano già andati dopo aver
distrutto completamente il paese portandosi via tutto il bestiame e la popolazione.
Col buio mi avviai verso il bosco. Il nostro villaggio continuava a bruciare... ”. (Da
IVOB i socijalistiéka revolucija — citanka iz zavicajne povijesti Rijeke i rijeckog
podrucja / La LPL e la rivoluzione socialista — Libro di lettura di storia locale di
Fiume e del territorio fiumano, a cura di Antun Giron e Petar Stréié, Zagabria 1975)
Con un telegramma spedito il 13 luglio a Guido Buffarini Guidi, sottosegreta-
rio al Ministero degli Interni, Testa lo informò: /erisera tutto l’abitato di Pothum
nessuna casa esclusa est raso al suolo et conniventi et partecipi bande ribelli nel
numero 108 sono stati passati per le armi et con cinismo si sono presentati davanti
ai reparti militari dell’armata operanti nella zona, reparti che solo ultimi dieci
giorni avevano avuto sedici soldati uccisi dai ribelli di Pothum stop Il resto della
popolazione e le donne e bambini sono stati internati stop.
Il generale di brigata Umberto Fabbri, comandante del V Gruppo Guardie alla
Frontiera (GAF) aveva comunicato in quello stesso periodo che un suo reparto, in
collaborazione con la Milizia di frontiera di Zamet (oggi sobborgo di Fiume) aveva
incendiato diverse case di famiglie sospettate di mantenere legami con i ribelli nel
bosco. La rappresaglia fu eseguita per ordine dell’Eccellenza il Prefetto di Fiume.
Secondo un documento della Commissione peri crimini di guerra, stilato il 20
settembre 1945, nel solo Comune di Castua subirono spedizioni punitive diciasset-
te villaggi; soltanto in cinque non ci furono fucilati, nei rimanenti furono passate
per le armi 59 persone, altre 231 1 furono deportate e precisamente 842 uomini, 904
donne e 565 bambini; furono incendiate 503 case e 237 stalle.
Sempre nella zona di Fiume, il 3 maggio 1943, per ordine del solito Testa, reparti
di Camicie Nere e di fanteria rastrellarono il villaggio di Kukuljani e alcune sue
frazioni, portarono via tutto il bestiame, saccheggiarono le case, deportarono la
popolazione e quindi appiccarono il fuoco alle abitazioni, alle stalle e agli altri edifici
covi di ribelli, distruggendo completamente 80 case a Kukuljani e 54 a Zoretici. Nei
campi di internamento finirono 273 abitanti di Kukuljani e 200 di Zoretici.
Queste sanguinose persecuzioni indiscriminate contro la popolazione civile
slava furono denunciate anche da eminenti personalità politiche italiane di Trieste,
tra cui i firmatari di un Promemoria presentato il 2 settembre 1943 da un “Fronte
nazionale antifascista” al Prefetto Giuseppe Cocuzza. Siamo a un mese e mezzo
circa di distanza dalla caduta del regime fascista e a meno di una settimana dalla
capitolazione militare dell’Italia. Nel documento, riportato in sunto da Roberto
Spazzali nel volume Foibe: un dibattito ancora aperto si fa una denuncia in alcuni
punti drammaticamente circostanziata, soprattutto sul tema delle vessazioni, degli
arresti, delle devastazioni e delle esecuzioni sommarie operate con grande discre-
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zionalità da bande di squadristi che avevano goduto per troppo tempo della mano
libera e della compiacenza di certe autorità. Nell’iniziativa era evidente, oltretutto,
un diffuso senso di paura per una vendetta che avrebbe potuto abbattersi indiscri-
minatamente sugli Italiani dell’ Istria come reazione alla tracotanza del Regime e dei
suoi uomini più violenti che in Istria e nella Venezia Giulia avevano usato strumenti
e atteggiamenti fortemente coercitivi nei riguardi delle popolazioni slave.
Alla luce di questi fatti, dunque, vanno visti gli avvenimenti del settembre
1943 in Istria.
Il L’armistizio, l’insurrezione
Alla notizia della capitolazione militare italiana, diffusasi anche in Istria nel
tardo pomeriggio dell’8 settembre, in quella penisola ci fu una generale, pressochè
spontanea rivolta popolare che coinvolse in egual misura le popolazioni italiane nei
centri costieri e quelle croate e slovene nell’interno. Nell’uno e nell’altro caso (e
fatte le solite eccezioni) gli insorti mostrarono simpatia e solidarietà con le truppe
in grigio-verde che altrettanto spontaneamente avevano estrinsecato la propria
gioia per la “fine della guerra”, mentre la punta offensiva della lancia fu rivolta in
alcuni casi contro i Carabinieri, la Polizia di Stato e soprattutto contro i gerarchi
fascisti. Sporadicamente, nell’interno, si fece di tutta l’erba un fascio edi vocaboli
“fascista” e “italiano” ebbero un unico significato. Le strutture militari dello Stato
non opposero alcuna resistenza (fece eccezione Pola dove contro i manifestanti fu
aperto il fuoco per ordine del Comando di guarnigione e si ebbero tre morti fra i
civili), sicchè nel giro di pochi giorni — entro 1’ 11 settembre — le armi dell’esercito
e dei carabinieri passarono agli insorti. Senza colpo ferire cedettero le armi i
presidi, piccoli e grandi, di Antignana, Lanischie, Pisino, Cerreto, Castel Lupoglia-
no, Rozzo, Pinguente, Canfanaro, Rovigno, Carnizza, Altura, Arsia, Parenzo e via
via di altri centri presidiati da reparti di Alpini, di Fanteria costiera, di Carabinieri
e Guardia di Finanza.
A dirla alla maniera di una fonte nazional-comunista croata, dovremmo
scrivere così: in quell’ondata insurrezionale furono disarmati circa 8.000 soldati
italiani, quasi tutte le stazioni dei carabinieri, delle guardie di finanza e della
milizia fascista che, simili a una ragnatela, si estendevano in tutta l’Istria per
mantere il popolo sottomesso. Nel tipico linguaggio da agit-prop degli anni Cin-
quanta del secolo appena tramontato, la medesima fonte aggiungeva, però: Di
particolare importanza è il fatto che a questa insurrezione popolare, che portò alla
distruzione del potere italo-fascista, accanto ai Croati dell’Istria presero parte in
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 213
massa gli antifascisti italiani dell'Istria, nella comune lotta per la libertà
dell’Istria. A comprova della partecipazione degli italiani all’insurrezione la fonte
croata ricorda i fatti di sangue del 9 settembre a Pola, da noi appena accennati poco
prima: A Pola, quel giorno, ci fu una strage. Le autorità italiane, alle quali i
lavoratori (?) avevano chiesto le armi per battersi contro i tedeschi fortificatisi a
“Scoglio Olivi” (si trattava di un piccolo reparto preesistente all’armistizio, ndr),
fecero aprire il fuoco sulla folla affluita ai Giardini, oggi Piazza dell’Unità e
Fratellanza; gli allievi della Scuola sottufficiali della Marina da guerra, guidati
dal capitano dei carabinieri Cassini (recte: Casini), uccisero tre operai — Cicogna-
ni Luciano (recte: Giuliano), Zachtila Giuseppe e Zuppini Carlo — ferendo un gran
numero di altri. Le forze dell’Esercito, della Marina militare e delle altre armi
presenti nella Piazzaforte di Pola — oltre ventimila uomini — sarebbero state
sufficienti non solo ad aver ragione delle poche centinaia di tedeschi presenti in
città dalla fine di luglio, ma anche di unità ben maggiori, se i comandi del XXIII
Corpo d° Armata e dell’ Ammiragliato (ammiraglio Gustavo Stazzieri, comandante
della base navale da circa tre mesi) avessero rispettato le clausole dell’armistizio e
lo stesso proclama di Badoglio. Invece ci si affrettò a trattare con i tedeschi in loco
e ad essi furono poi ceduti i pieni poteri civili e militari. Ci si ricordò della dignità
nazionale unicamente ordinando la partenza delle navi da guerra e degli aeroplani
efficienti alla volta di Malta. Così, lo stesso 9 settembre, mentre da una parte si
sparava sulla folla ai Giardini, i velivoli in grado di volare lasciarono l’aeropoto di
Altura e si misero in navigazione le unità navali con in testa la corazzata “Giulio
Cesare” /e cui artiglierie avrebbero potuto battere le truppe germaniche qualora
fossero penetrate in città, come giustamente annota lo storico Guido Rumici.®®
Non va dimenticato, però che numerosi soldati, soprattutto all’interno dell’Istria,
si unirono agli insorti e, più tardi, ai reparti partigiani.
La penisola istriana era, quasi interamente, nelle mani degli insorti. Sembrava
un trionfo, ma non era così.
Il 12 settembre il Comando italiano di Pola, quello stesso che il giorno 9 aveva
ordinato che si soffocasse nel sangue il tentativo dei patrioti locali di opporsi ai
tedeschi, consegnò a un loro reparto di soli 300 uomini l’intera Piazzaforte. Quattro
unità marittime in riparazione all’ Arsenale, circa 15.000 uomini in uniforme e 400
prigionieri politici e detenuti comuni che si trovavano nel carcere cittadino finirono
nelle mani del nemico. Alcune migliaia di ufficiali e marinai italiani, avendo
8a G. RUMICI, Infoibati (1943-19450. I nomi, i luoghi, i documenti, Milano, 2002. Si legga, in particolare,
il capitolo secondo: Settembre 1943. L’armistizio italiano.
214 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
rifiutato l’offerta di servire l’invasore, furono caricati su carri merci ferroviari per
essere deportati in Germania ai lavori forzati. Soltanto una minoranza di militari,
con in testa le Camicie Nere —come scriverà il triestino Boris Gombaè (“Istria,
Trieste e Gorizia nel settembre-ottobre ’ 43”, Panorama, Fiume, 15 dicembre 2001)
— passò al servizio dei germanici. Fra i loro collaboratori ci furono moltissimi
carabinieri che svolgevano il ruolo di sorveglianza dei prigionieri italiani e non
esitarono a sparare sui fuggiaschi, come peraltro testimonierà uno di loro sul
quotidiano L'Unità del 4 settembre 1983. Parte dei militari italiani destinati dai
tedeschi ai lager, e precisamente duemila, furono ammucchiati nelle puzzolenti
stive della petroliera “Reggina” da 10.000 tonnellate e avviate a Venezia, da dove
saranno anch’essi caricati su un lunghissimo treno di carri bestiame diretto in
Germania. In mano italiana, a Pola, restava unicamente l’ amministrazione civile,
ma anche questa sarà ben presto sottomessa ai poteri militari dello straniero.
La svolta in Istria si ebbe il 13 settembre.Quel giorno si capì definitivamente
che su tutto incombeva la grave minaccia tedesca. Così in piena autonomia,
spontaneamente, gli improvvisati capi del movimento insurrezionale di Parenzo,
Rovigno ed Albona, tutti italiani, decisero di opporsi con le armi all’avanzata dei
Tedeschi. Una decisione presa anche sull’onda di una terribile notizia giunta da
Pola. Quel 13 settembre nel capoluogo istriano, con l’aiuto dei loro carcerieri, i
detenuti politici e comuni rinchiusi nel carcere di Via dei Martiri riuscirono ad
evadere. Inseguiti da pattuglie tedesche con il supporto di manipoli di fascisti,
furono in gran parte abbattuti con le armi; gli altri, catturati, finirono impiccati agli
alberi di via Medolino o fucilati in località Montegrande, alla periferia della città.
Alcune fonti indicano in 25 il numero dei trucidati. Fu questo il primo grande
eccidio di civili nella serie di massacri compiuti dall’esercito tedesco in Istria nel
settembre/ottobre del °43 (Gombaè, op. cit.). Furono anche questi sanguinosi
episodi, frutto del connubio infame e infamante dei fascisti italiani con i nazisti
tedeschi a versare benzina sul fuoco dell’insurrezione popolare istriana e a dare
forza alla resistenza armata. Una resistenza che, contrariamente a quanto vorreb-
bero far credere gli “storici” simpatizzanti per quei fascisti che consegnarono
migliaia di connazionali ai carnefici tedeschi, non fu alimentata dall’odio verso gli
italiani. Lo dimostra il fatto, documentato anche dal patriota istriano Diego de
Castro che furono proprio sloveni e croati delle regioni interne dell’ Istria ad aiutare
i soldati italiani sbandati a salvarsi dopo l’8 settembre." Il vescovo di Trieste
85 D, de CASTRO, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1945, 2
voll., Trieste 1981.
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 215
dell’epoca, Mons. Antonio Santin, di origine istriana (rovignese) testimoniò all’
epoca, e precisamente il 18 settembre sul settimanale della Diocesi Vita Nuova (e
poi in Trieste 1943-1945, Udine 1963): Migliaia e migliaia di questi carissimi
fratelli (i militari italiani, ndr) furono vestiti, nutriti, accolti, difesi; essi trovarono
l’amore e il calore di una famiglia che si estendeva a tutte le case e a tutti i
casolari. A loro volta nel loro libro Fratelli nel sangue (Fiume, 1964) Aldo Bressan
e Luciano Giuricin, quest’ultimo istriano, citano testimoni diretti di quei fatti,
scrivendo: Va sottolineato ancora una volta che la popolazione (...) porse ogni
aiuto possibile alle migliaia e migliaia di soldati italiani demoralizzati (...) che
cercavano di raggiungere l’opposta sponda dell’ Adriatico.
Sull’aiuto fraterno porto dalla popolazione istriana — croati, sloveni e italiani
senza distinzione - ai militari italiani sbandati nei giorni immediatamente succes-
sivi all’armistizio, concordano tutte le fonti obietive. A quelle citate ne aggiungia-
mo ancora una. Descrivendo la situazione in Istria e nella Regione Giulia, Guido
Rumici scrive: In tutta la regione si assistette alla fuga precipitosa di decine di
migliaia di soldati e di marinai che in tutta fretta abbandonaro caserme e instal-
lazioni militari, sbarazzandosi di armi, divise e munizioni e cercando di intrapren-
dere, singolarmente o a gruppi, la strada del ritorno verso le proprie famiglie.
Quasi tutti, insieme ai militari italiani affluiti in Istria da Fiume e dalla vicina
Slovenia, cercarono di raggiungere Trieste. Ne/ loro peregrinare, spesso a piedi,
per boschi e campagne, ricevettero appoggio e solidarietà dalla popolazione
locale che si prodigò spesso rischiando anche in prima persona, per portar loro
soccorso e sostegno, ospitandoli, nascondendoli, sfamandoli e aiutandoli a rag-
giungere la meta. Con ciò non si vuole negare che ci furono anche sporadici
episodi di “caccia al fascista”, in realtà agli italiani, provocati da atteggiamenti di
odio nutrito verso costoro da singoli “capi” cosiddetti partigiani, come avremo
modo di documentare.
I primi conflitti a fuoco nella penisola istriana avvennero il 12 settembre,
domenica, contro due colonne tedesche: una scendeva da Trieste verso Parenzo e
Rovigno lungo la costa occidentale con l’intento di raggiungere Pola (dove riuscì
infatti ad arrivare); un’altra, partita da Pola, cercava di salire lungo la costa
orientale. I primi caduti fra gli insorti, purtroppo numerosi, furono italiani e croati,
massacrati nei pressi di Tizzano, a nord di Parenzo, poi presso il Canale di Leme a
nord di Rovigno e infine sulla strada che da Dignano porta a Pola. Gli scontri con
la seconda colonna, che invece fu respinta, si ebbero sulla strada tra Arsia e
8 G. RUMICI, op.cit.
216 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
Piedalbona ed a Berdo presso Vines sempre nell’ Albonese. Si trattava di distacca-
menti della 71a Divisione germanica, circa 300 uomini.
Questi rapidi accenni agli avvenimenti del 9-13 settembre (sui quali avremo
modo di tornare, dando più ampie informazioni) servono per introdurre un primo
documento inedito, di fonte croata, dal quale apprendiamo quale fu la linea seguita
in Istria dagli esponenti della Resistenza e del Partito comunista della Croazia, quali
furono secondo loro gli errori commessi nella regione e quale atmosfera vi regnava.
Un documento dell’ottobre 1943
Nel 1983, a Pisino, a cura degli Archivi storici di Pisino e Fiume, fu pubblicato
un fascicolo (XXVI) contenente un saggio dello storico fiumano croato Antun
Giron nel quale l’autore inserì integralmente la Relazione di Zvonko Babié-Zulja
sulla situazione in Istria verso la fine di ottobre 1943. Il documento’ fu inviato alla
Sezione politico-informativa del Comando supremo dell'Esercito popolare di
liberazione e dei Distaccamenti partigiani della Croazia. L’autore, Zvonko Babié,
era responsabile dell’ Ufficio Agitazione e Propaganda del Comando della V Zona
operativa della Croazia (nel dopoguerra sarà ministro dell’industria). Scritta a
macchina su sei pagine, datata 6 novembre, la relazione descrive il viaggio
compiuto dal suo autore nella seconda metà di ottobre, fornendo informazioni ed
osservazioni raccolte nell’Istria occidentale e centrale.
Per quanto riguarda l'insurrezione popolare nella penisola del 9-12 settembre,
vi si legge: La presa del potere e del materiale (bellico) si è svolta per lo più in
maniera improvvisata da parte di Comandi di Posto arbitrariamente autodefinitisi
tali e costituiti in tutta fretta in singole località; non sempre questi cosiddetti
Comandi erano all’altezza del compito e tanto meno degni di fiducia. La popola-
zione è insorta spontaneamente, ha preso in mano le armi, ma non si può parlare
in alcun modo di reparti militarmente organizzati e di una dirigenza militare. I
quadri dirigenti sono arrivati dalla Jugoslavia più tardi, con notevole ritardo.
Inoltre ho sentito critiche sull’inadeguatezza e incapacità di molti componenti di
rango inferiore di questa struttura dirigente. Per l’intero territorio dell’Istria
venne costituito un unico Comando di regione, e per comandante fu scelto il
compagno Ivan Motika, il quale, d’intesa con la dirigenza istriana, da parte nostra
(cioè da parte del Comando della V zona della Croazia, ndr) è stato incaricato di
? Titolo originale /zvjeStaj Zvonka Babica-Zulje 0 prilikama u Istri krajem listopada 1943. godine.
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 217
assumere anche la direzione del ROC Istria (ROC=Rajonski Obavjestajni Centar,
ovvero Centro Rionale di Controspionaggio, ndr). Questa nomina (di Motika) è
stata interpretata dalla popolazione dell’Istria come nomina a comandante gene-
rale militare dell’Istria, rispettivamente a commissario militare generale nel senso
dato a questo titolo dai Commissari italiani nei territori annessi.
I compiti del ROC, va precisato, erano i medesimi dell’Ozna, i servizi di
polizia segreta dell’esercito partigiano jugoslavo che in seguito diventeranno
Udba. All’epoca in cui visitò l’Istria, Zvonko Babié era responsabile di quei servizi
per il Litorale croato, che estese la propria giurisdizione in Istria. La relazione del
Babié è l’unico documento in cui Ivan Motika, all’epoca laureato in giurispruden-
za, viene indicato come massimo esponente militare e politico delle forze insurre-
zionali/partigiane in Istria, mentre tutti gli altri documenti lo danno come coman-
dante militare partigiano di Pisino e, più tardi, presidente del tribunale popolare
istituito dal Comando militare partigiano nel settembre 1943 per giudicare i
cosiddetti “nemici del popolo”. In realtà Motika fu nominato vicecomandante del
Comando istriano croato-sloveno costituitosi il 16 settembre (sostituito il 24
settembre dal Comando Operativo dell’Istria), aggiungendo alla carica militare
l’incarico peculiare di massimo responsabile del servizio di polizia politica (ROC).
Cometale egli ebbe sicuramente un ruolo non certo secondario negli arresti, nelle
carcerazioni e negli interrogatori dei prigionieri, come pure negli eccidi delle
foibe avvenuti principalmente durante la caotica ritirata delle forze partigiane
incalzate dall’offensiva tedesca di ottobre, che portò all’occupazione dell’intera
Istria, come scrive Luciano Giuricin nel saggio “Il settembre ’43 in Istria e a
Fiume” (Quaderni del CRS, Rovigno, vol.XI/1997, p.106). I cosiddetti tribunali
del popolo funzionarono nelle peggiori condizioni possibili, alla mercè di “giudici”
che talvolta erano persone che avevano avuto a che fare con la legge come
pregiudicati e criminali comuni: contrabbandieri, ladri e peggio che ora si serviva-
no di quei “tribunali” per sfogare bassi istinti di vendetta. Sull’attività di questi
tribunali nulla si dice nel rapporto di Zvonko Babié-Zulja, e tuttavia vi si trova un
non fugace accenno ad arresti e liquidazioni, un’operazione qui definita “epurazio-
ne” ovvero “lotta contro i nemici del popolo”. Ecco il brano: Nel periodo in cui
abbiamo esercitato il potere in Istria, i Comitati popolari di liberazione hanno
trovato scarsa espressione, la popolazione non ha d’altra parte compreso le
funzioni di questi CPL. Il popolo insorto riteneva definitiva ormai la liberazione
dell’Istria e non era preparato né politicamente né moralmente a condurre un’ul-
teriore lotta ... La lotta contro i nemici del popolo è stata condotta in maniera
disuguale, sicchè in alcune località è stata del tutto insufficiente mentre in altre è
stata radicale.
218 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
Qui si vuol dire che in alcune zone i fascisti vennero lasciati in pace, soltanto
qualche grosso gerarca locale fu chiamato a rendere conto del proprio operato; in
altre, invece si fece di tutta l’erba un fascio.
Sintomatico, a tale riguardo, è il fatto che in molte località gli Istriani si sono
rifiutati di attuare le esecuzioni, al punto che certi Comandi di Posto riferivano nei
loro rapporti di aver liquidato i condannati a morte, nonostante la cosa non fosse
vera. Si è manifestata pure l’ignoranza, la mancata conoscenza dei veri nemici del
popolo e l’assenza di informazioni sui loro crimini, circostanza questa che adesso,
con ritardo, si ritorce contro di noi.
È un’ammissione del fatto che furono catturate e liquidate anche delle persone
- fascisti e no — ritenute sì colpevoli di crimini, ma senza che questi “crimini”
fossero stati accertati, documentati. Il rapporto continua:
Il territorio più radicalmente ripulito (dei “nemici del popolo”, ndr) è quello
di Gimino, paese natale di Motika, e quello del Parentino. Un altro errore: nessuno
ha mai pensato a costituire campi di concentramento, sicchè i nemici del popolo
sono stati puniti unicamente con la morte. Fra le altre persone arrestate c’era pure
un prete, che dietro intervento del vescovo di Pola e Parenzo è stato rimesso in
libertà.
Questo rapporto, a parte alcuni dettagli, combacia nei suoi giudizi generali con
quelli che ritroviamo in altre relazioni scritte per i vertici della Resistenza in
Croazia da altri emissari inviati in Istria: Jakov Blazevié quale delegato del CC del
PCC e del Parlamento partigiano (ZA VNOH), Marko Belinié, Milutin Baltié, Oleg
Mandié e Mate Krsul giunti in Istria tra l’ottobre 1943 e i primi mesi del 1944. Per
inciso va detto che Zvonko Babi6, del quale qui è stata citata una piccola parte del
rapporto, venne in Istria con lo specifico compito di organizzare la rete di spionag-
gio partigiano, ed in questo lavoro venne affiancato da Ivan Motika. Il suo rapporto
è particolarmente dettagliato sugli eventi seguiti all’invasione tedesca della regio-
ne e sulla collaborazione dei fascisti istriani con i tedeschi.
Scontri con tedeschi e fascisti
L’esposizione aiuta a capire meglio anche gli eccessi, manifestatisi con gli
infoibamenti, di quelli che furono gli inizi della lotta partigiana sul territorio
dell’ex Provincia di Pola nei primi giorni successivi all’8 settembre 1943. La
direzione della lotta fu assunta dal Comitato Popolare di Liberazione dell’Istria,
con sede a Pisino, la cui “giurisdizione” non superava la linea del fiume Dragogna,
oltre il quale operavano i Comitati sloveni. Durante tutto il periodo del nostro
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 219
potere in Istria — si legge nel rapporto — ci sono stati scontri armati a carattere
locale con tedeschi e fascisti, con sporadici ma importanti successi e momenti di
eroismo (da parte delle forze insurrezionali, ndr).
Come già accennato, i primi combattimenti si ebbero al Bivio di Tizzano, sul
Canale di Leme e nei pressi di Albona, ma il primo sangue fu versato a Pola, senza
combattere. (Abbiamo già riassunto telegraficamente l’episodio del 9 settembre
nel capoluogo istriano e non ci ripeteremo).
A Rovigno, invece, esponenti di vari partiti antifascisti costituirono un prov-
visorio “Comitato di Salute Pubblica” (10 settembre) che sei giorni dopo, il 16
settembre, sarà sostituito da un “Comitato rivoluzionario” sostenuto da una forma-
zione armata di comunisti del PCI che avevano creato nel frattempo un “Fronte
nazionale partigiano” sotto la guida militare di Giusto Massarotto e Mario Cherin.
Del Comitato facevano parte, per citare solo i personaggi di maggiore spicco,
Giuseppe-Pino Budicin e Aldo Rismondo. Tra il 9 e il 10 settembre, intanto, anche
Albona, Buie, Parenzo ed altri centri costieri furono teatro di azioni insurrezionali
e in tutta la penisola, eccetto Pola, il potere passò nelle mani di Comitati popolari
di liberazione. Nell’Istria interna, più o meno compattamente abitata da croati, ci
fu un’insurrezione massiccia di contadini.
A Pisino si costituì il Comando militare partigiano di cui fece parte anche
l’italiano Giorgio Sestan. Sotto il suo comando e quello di Ivan Motika, nella notte
fra il 12 e 13 settembre una formazione partigiana locale bloccò alla stazione
ferroviaria un treno carico di marinaretti italiani che i tedeschi stavano deportando
in Germania: il lungo convoglio, con a bordo tremila e più ragazzi, venne circonda-
to, i marinai furono liberati (altri due treni erano stati fermati già prima di arrivare
a Pisino) e poterono avviarsi con mezzi di fortuna, aiutati dalla popolazione, in
direzione di Trieste e dell’Italia. Una cinquantina di essi si unirono alle formazioni
antifasciste istriane. Nello scontro due tedeschi furono uccisi ed altri quattordici
catturati e successivamente rinchiusi nel Castello dei Montecuccoli, dove saranno
trovati dai loro camerati all’inizio di ottobre. Altri militari tedeschi che scortavano
i tre convogli con i prigionieri italiani sfuggirono per il momento alla cattura, ma
ventidue di loro saranno presi dagli insorti istriani l'indomani e il 14 settembre.
Non furono risparmiati, ma passati per le armi nelle vicinanze di Gallignana, come
scrive il sacerdote don Ivan Grah nell’almanacco cattolico per il 1999 /starska
Danica in un articolo intitolato “Istarske jazovke” e cioè “Le foibe istriane”.
Mentre un poco ovunque in Istria i soldati delle varie specialità, dopo aver
abbandonato caserme ed armi, aiutati dalla popolazione, si dirigevano verso Trie-
ste per tornare alle loro case, entro il 12 settembre si costituirono nella regione
alcune decine di battaglioni partigiani con circa 10.000 uomini, croati e italiani.
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Intanto 1’ 11 settembre, guidata da collaborazionisti, fascisti istriani, scese da
Trieste lungo la costa occidentale una forte colonna tedesca che venne affrontata
al Bivio di Tizzano, là dove dalla camionabile Trieste-Pola si dirama il tratto
Parenzo-Caròiba. Mentre era in corso la consegna delle armi agli insorti istriani da
parte di una piccola colonna di soldati italiani avviatisi verso la città di San Giusto,
gli uni e gli altri furono attaccati dalle truppe germaniche. Soldati italiani e insorti
(questi formavano il “Battaglione Parentino”) risposero uniti agli attaccanti, impe-
gnando una sanguinosa battaglia. Il bilancio delle perdite fu pesantissimo: uccisi
66 tedeschi e 84 fra soldati italiani e partigiani istriani. Pochi furono, tra i partigia-
ni, i caduti in battaglia; tutti gli altri vennero fucilati dopo la cattura da parte dei
tedeschi. Fra i massacrati ci furono sette soldati “regnicoli”, tutti gli altri erano
giovani croati e italiani del Parentino.
Tutti italiani, invece, furono i sedici caduti rovignesi che tentarono di fermare
la stessa colonna tedesca il 12 settembre sul Canale di Leme. La “Compagnia
Rovignese” era composta da 40 giovani, nessuno dei quali cadde in combattimento.
I sedici furono catturati, trasferiti a Pola e fucilati l’indomani presso Dignano.
Questi i nomi dei Caduti: Giovanni Sincich, Giorgio Borme, Giuseppe Sbisà, Ino
Marcanti, Tommaso Caenazzo, Giuseppe Cherin, Giuseppe Tanconi, Sergio Curto,
Bruno Zorzetti, Tullio Biondi, Nicolò Marangon e altri quattro dei quali non si
conoscono le generalità.
In gran parte italiani, infine, furono i 48 caduti nelle file degli insorti che, al
comando di Aldo Negri, affrontarono la colonna tedesca presso Arsia, nella zona
di Albona'°. Dopo aver raggiunto Pola, i tedeschi avevano ripreso la marcia lungo
la costa orientale dell’Istria il 13 settembre, nelle prime ore dell’alba. La battaglia
impegnata dai partigiani si protrasse fino a tarda sera. I caduti più numerosi fra gli
uomini di Negri si ebbero quando un reparto albonese fu preso alle spalle per una
spiata. Anche qui, a guidare i tedeschi furono fascisti istriani.
Comincia la “caccia al fascista”
Nonostante queste perdite, l’Istria intera — ad eccezione di Pola, Dignano,
Fasana e isole di Brioni occupate dai tedeschi 1’ 11 settembre grazie al cedimento
dei comandi militari italiani- cadde sotto il controllo degli insorti che entro il 14
settembre costituirono ovunque i Comitati popolari di liberazione (CPL), quali
10 G. SCOTTI - L. GIURICIN, Rossa una stella (Storia del battaglione italiano “Pino Budicin” e degli
italiani dell’Istria e di Fiume nell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia), Rovigno, 1975.
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 221
organi amministrativi della Resistenza in sostituzione dei Podestà e dei Commis-
sari governativi italiani.
In concomitanza con l’insurrezione, ma soprattutto dopo gli scontri del 13
settembre, cominciarono gli arresti dei gerarchi fascisti, di podestà e di altri
funzionari ma anche di semplici iscritti al fascio da parte degli insorti sia per
iniziativa di singoli che per ordine dei vari CPL. In questa operazione furono
impegnati sia italiani che croati. Per quanto riguarda i militanti del PC italiano, essi
poterono orientarsi seguendo le direttive di un manifesto diffuso dopo il 25 luglio
1943 in tutta la Regione Giulia — come documenta nel già citato saggio Luciano
Giuricin - a firma dei comitati regionali dei partiti d'azione, comunista, liberale e
socialista, nonchè dei movimenti cristiano sociale e di unità proletaria. In esso si
chiedeva l'armistizio immediato, la cacciata dei tedeschi e la punizione dei respon-
sabili di vent'anni di crimini, di ruberie e del tradimento della nazione. Ancora più
esigenti erano su questo punto gli istriani di etnìa croata e slovena che più degli
italiani avevano sofferto l’oppressione del regime fascista. All’atto pratico, come
rivelano i risultati di vari incontri (ed aspri scontri) avuti con i massimi esponenti
degli insorti croati dagli esponenti istriani del PCI Pino Budicin, Aldo Rismondo,
Aldo Negri, Alfredo Stiglich ed altri, fu difficile conciliare i criteri perla punizione
dei fascisti; e nei fatti, prevalse l'anarchia. Prevalse la violenza di certi personaggi
autoproclamatisi, armi alla mano, capi partigiani (Giuricin).
Non va dimenticato, in proposito, che le liquidazioni dei fascisti e “fascisti”
ebbero inizio solo quando in Istria arrivarono, inviati dal Comando partigiano e dal
Comitato centrale del PC della Croazia, o di propria iniziativa, alcuni esponenti
politici di origine istriana vissuti per lunghi anni in Croazia come emigrati politici
e alcuni capi partigiani della Lika, elementi irresponsabili (...) che avevano perso
ogni contatto con la realtà locale (Gombac) e che, alla fine, durante la controffen-
siva tedesca di ottobre, si daranno alla fuga, lasciando gli ingenui abitanti locali ai
nefasti destini.
Fra gli arrestati — e gli arresti avvennero anche su denuncia di persone
convertitesi all’ultima ora alla causa del Movimento di Liberazione — vi furono
persone indicate come responsabili di collaborazionismo con l’occupatore tedesco
per aver guidato, o in altro modo aiutato, le due colonne germaniche nella loro
marcia e nel corso degli scontri.
I primi e più massicci arresti avvennero nelle zone di Rovigno e di Albona
dove il comando del movimento insurrezionale e partigiano fu assunto da comuni-
sti affiliati al PC italiano, a Parenzo e dintorni, a Gimino e nel Pisinese. Tuttavia,
mentre nelle prime due località ci furono dei filtri e si cercò di evitare ingiustizie
per quanto possibile — tanto è vero che ad Albona diverse persone arrestate come
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fasciste furono liberate per intervento di Aldo Negri, ma poi nuovamente arrestate
da personaggi estranei al locale Comando partigiano invece nel Parentino, nel
Pisinese e in quel di Gimino gli arresti oltre ad essere massicci furono pure
indiscriminati. La maggioranza degli arrestati era formata da quei gerarchi fascisti
locali che si erano meritati l’odio delle popolazioni vittime delle loro persecuzioni
e vessazioni pluriennali, ma nel mucchio capitarono anche ‘fascisti’ che oltre alla
tessera del PNF non avevano colpe da espiare o con i quali i delatori avevano
antichi conti personali da regolare. I vendicatori, ovviamente, si servirono prete-
stuosamente degli slogan e dei simboli della Resistenza e del comunismo. La
caccia al fascista cominciò verso la metà del mese.
Il 15 settembre si costituì a Pisino il “Comando generale dei distaccamenti
partigiani dell’Istria” con al vertice esponenti del movimento di liberazione croati,
sloveni e italiani (il capitano Mario Cherin) che, oltre a prendere in mano il
coordinamento e il riordino delle formazioni partigiane nella regione, istituì il 24
settembre un tribunale del popolo per giudicare e condannare i gerarchi fascisti e i
collaboratori dei tedeschi i cui nominativi venivano segnalati dai vari comitati di
liberazione costituitisi in oltre cento fra villaggi, borgate, cittadine e città, pressap-
poco la terza parte della penisola. A presidente del Tribunale venne nominato Ivan
Motika, l’unico membro del Comando generale che avesse una laurea in giurispru-
denza. I tribunali del popolo presero a funzionare alla meno peggio a Pisino, ad
Albona e Pinguente, località nelle quali esistevano i centri di raccolta (prigioni)
degli arrestati. Nella maggior parte i prigionieri - fra cui molti supposti ‘“spioni”’
che avevano fatto da guida ai tedeschi — furono inviati a Pisino e rinchiusi nel
castello dei Montecuccoli, da dove o venivano rispediti a casa, se ritenuti innocenti,
oppure condannati a morte e condotti sui luoghi di esecuzione, per lo più foibe
carsiche o cave di bauxite. Quando arriveranno i tedeschi, troveranno a Pisino
ancora un centinaio di prigionieri in attesa di processo. A Pinguente furono assolte
e liberate dagli stessi partigiani oltre 100 persone.
A proposito di questi tribunali ed a commento del documento di Zvonko
Babié, lo storico Antun Giron ricorda che la loro istituzione e il loro funzionamento
furono regolati da un Decreto del “Dipartimento per l’amministrazione e la magi-
stratura” dello ZAVNOH, il governo partigiano della Croazia ovvero Consiglio
Territoriale Antifascista di Liberazione Nazionale, decreto emanato il 2 agosto
1943!!. Il suo testo evidentemente non arrivò in Istria, né furono rispettate le sue
norme dai tribunali del popolo istriani frettolosamente costituiti.
!! Vedi Zbornik dokumenata 1943. (Raccolta di documenti del 1943), Zagabria, 1964, pp. 302-309.
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 223
Va anche detto che l’attività delle commissioni o tribunali fu marginale nel
contesto dell’attività politica e militare sviluppata tra il 13 e il 30 settembre 1943,
soprattutto a Pisino dove si formarono ed operarono le massime istituzioni del
MPL; e comunque fu ben presto interrotta dall’occupazione totale dell’Istria da
parte dei tedeschi, operazione sviluppatasi fra l’inizio di ottobre e il 9 di quel mese.
Tra le istituzioni costituitesi a Pisino un importante ruolo politico fu esercitato dal
Privremeni pokrajinski izvr$ni narodnooslobodilacki odbor za Istru, ossia il “Co-
mitato esecutivo provvisorio regionale del Movimento popolare di liberazione per
l’ Istria” nominato il 25/26 settembre da un’assemblea di “rappresentanti del
popolo” che, nell’occasione, lanciò un Proclama al popolo dell’Istria per dar conto
della composizione del Comitato stesso e delle sue decisioni, la prima delle quali
decretava “1° annessione dell’Istria alla Croazia”.
Ma torniamo agli arresti dei “nemici del popolo” (eseguiti con classici sistemi
rivoluzionari sin dalla fine della seconda settimana di settembre), cominciando da
Rovigno. Qui il mattimo del 16, eseguendo un piano tracciato dal Comitato
rivoluzionario che in giornata assunse i pieni poteri, entrarono in città cento e più
partigiani italiani e croati che, insisme ai dirigenti antifascisti locali disarmarono
le superstiti formazioni militari italiane di stanza sul posto. L’indomani, con l’aiuto
di comunisti locali, arrestarono un centinaio di persone indicate come i più incalliti
fascisti macchiatisi di crimini, colpevoli di avere per alcuni decenni terrorizzato
la popolazione della città. A giudicarli furono comunisti italiani loro concittadini,
che alla fine, quello stesso 17 settembre, trattennero soltanto 14 fascisti (tutti
italiani, ex squadristi e confidenti dell’Ovra) che spedirono a Pisino, a disposizione
del Tribunale militare!?.
Più o meno le cose andarono così anche nelle altre località, dell’ Istria. Non in
tutte, però, gli uomini incaricati di dare la caccia al fascista erano di fede comunista
e tanto meno antifascisti e combattenti della Resistenza convinti. Scrive in propo-
sito il già citato Boris Gombac: Tra questi resistenti dell’ ultima ora c’erano — in
non pochi casi — quelli che avevano indossato la camicia nera solo qualche
settimana indietro o la divisa di carabiniere sino all’8 settembre. Questi voltagab-
bana furono — a causa del loro passato — male ricevuti dalla gente locale, ma
diventarono fedeli servitori dei comunisti jugoslavi. Viene messo in rilievo,
inoltre, a proposito di certe tesi secondo cui gli infoibati furono tutti italiani, che
non pochi fascisti locali erano spesso italianissimi croati e cioè croati i cui cognomi
erano stati italianizzati e comunque elementi compromessi con il fascismo e
! FE. MOLINARI, Istria contesa. La guerra, le foibe, l'esodo, Milano 1996, p.27.
224 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
proprietari terrieri, questi ultimi probabilmente vittime di coloni e mezzadri. Fra
gli arrestati e poi condannati ci furono infine, insieme ad ex squadristi e confidendi
dell’Ovra, esattori delle imposte, guardie comunali e campestri, e in genere perso-
ne in qualche modo incaricate di applicare leggi o norme statali. A tutto questo
metterà fine l'occupazione tedesca che però coprì la penisola di migliaia di morti
trucidati e mettendo decine di paesi a ferro e fuoco con il concorso dei soliti fascisti
italiani.
L’occupazione tedesca dell’Istria
Sull’operazione tedesca di occupazione dell’Istria si sofferma a lungo il
rapporto di Zvonko Babié che, avendo visitato dal 23 al 27 ottobre la parte orientale
della penisola fino a Gimino, per la sua relazione utilizzò anche le informazioni
fornitegli da un non meglio identificato “compagno Gaspar” indicato come “invia-
to con compiti speciali”. Il rapporto non conosce enfasi, ed è piuttosto severo nei
riguardi dei partigiani “dispersi e in fuga”:
Il 27 settembre i tedeschi hanno bombardato Rozzo e Pisino; il bombardamen-
to aereo su Pisino si è ripetuto il 2 ottobre, giorno in cui è stato bombardato anche
Gimino. Questi bombardamenti hanno causato gravissimi danni e fatto vittime fra
la popolazione, seminando il panico. Il 2 ottobre con rilevanti forze motorizzate,
una divisione, provenienti dalle parti di Trieste e di Bistrica (Villa del Nevoso,
ndr), i tedeschi hanno occupato Pinguente e il 4 ottobre Pisino. Hanno poi eseguito
un rastrellamento protrattosi per otto giorni, ripulendo l’Istria dai reparti parti-
giani dispersi e in fuga. È stato un rastrellamento radicale, sistematico; i tedeschi
sono penetrati nel territorio da tutte le strade e sentieri, nei boschi e nel restante
territorio, adottando la tattica della sorpresa, della rapidità e del terrore. Là dove
hanno incontrato resistenze hanno incendiato i villaggi, massacrando uomini e
donne, giovani ed anziani senza alcuna distinzione, senza risparmiare neppure i
fascisti.
In un secondo tempo, tuttavia, le autorità militari tedesche accettarono la
collaborazione “ufficiale” dei fascisti locali, i quali fecero risultare i loro camerati
uccisi nel corso dei rastrellamenti come vittime dei partigiani, giustificando in tal
modo i saccheggi ai quali anch’essi si abbandonarono. Ma sul ruolo dei fascisti
italiani in Istria ci sarebbe da scrivere un volume. Non è questo il momento.
Riprendiamo la lettura del rapporto sul rastrellamento tedesco del 4-12 ottobre:
Contemporaneamente hanno saccheggiato tutto ciò che gli è capitato sotto
x
mano. Nelle loro mani è caduto anche molto materiale bellico: tutte le armi
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pesanti, la gran parte degli automezzi che ancora in questi giorni vanno scoprendo
e raccogliendo in collaborazione con i fascisti, nonchè viveri ed altri materiali.
Con ciò il nostro potere in Istria è stato abbattuto.
I fascisti si scatenano
A conclusione dei rastrellamenti, il grosso delle truppe tedesche si ritirò
dall’Istria. Rimasero forze di presidio numericamente variabili nelle località site
lungo la camionabile Trieste-Fiume e nella città di Pola la cui guarnigione contava
all’incirca 400 soldati. Erano tedesche, infine, anche le pattuglie dislocate nelle
stazioni ferroviarie della linea Trieste-Pola. La penisola, infine, veniva continua-
mente attraversata da pattuglie motorizzate. A questo proposito l’autore del rap-
porto scrisse che, per quanto riguardava la presenza di truppe in pianta stabile,
l’Istria può essere considerata oggi priva di forze militari tedesche. Aggiunse,
però: Nelle maggiori località istriane - Pola, Parenzo, Pisino, Rovigno, Albona,
Pinguente — è stato nuovamente instaurato il regime fascista composto: in primo
luogo dai superstiti fascisti locali, sfuggiti allo sterminio (nel breve periodo del
potere popolare istituito dagli insorti, ndr); in secondo luogo da fascisti fatti
affluire da Trieste; infine da militari del disciolto esercito italiano già catturati dai
tedeschi mentre attraversavano l’Istria diretti verso l’Italia e poi costretti con la
forza ad arruolarsi. In alcune località dell’Istria, infine, sono state ripristinate le
stazioni dei carabinieri. Le nuove amministrazioni fasciste non si possono consi-
derare ancora stabili né per la loro forza né per i poteri loro concessi dall’occu-
patore, e comunque dipendono dal Gauleiter germanico di Trieste.
Il Gauleiter dell’epoca era Friedrich Rainer, nominato da Hitler governatore
della Carinzia. Essendo l’Istria passata sotto il diretto controllo militare e civile del
III Reich quale parte dell’ Adriatisches Kiinstenland, Reiner svolgeva anche le
funzioni di Alto Commissario della Zona Operativa del Litorale Adriatico. Sulla
presenza dei carabinieri va detto che essi, rimasti agli ordini del Capitano Filippo
Casini, comandante della Legione dei CC.RR. dell’Istria (lo stesso che nel pome-
riggio del 9 settembre impartì l’ordine di sparare sulla folla radunata in piazza dei
Giardini a Pola), non si macchiarono di sangue istriano, spesso proteggendo la
popolazione dai soprusi dei fascisti e dei tedeschi, evitando al massimo di uscire
fuori dalle proprie stazioni e di partecipare ad operazioni repressive. Il loro stesso
comandante finì col tempo per collaborare con i partigiani ed all’inizio di luglio
del 1944 passerà apertamente dalla loro parte insieme con tutta la sua famiglia,
seguito da un centinaio di carabinieri ai quali successivamente si aggiunsero altri
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alla spicciolata. Questo gesto, purtroppo, non gli salvò la vita: sul finire del ’44 in
circostanze tuttora oscure, il Cap. Casini fu processato per i fatti del settembre ’43,
condannato a morte e fucilato.
Tornando al rapporto di Zvonko Babic, in esso leggiamo ancora: Si era detto
che a Pisino sarebbero arrivati 600-700 fascisti, ma fino al 30 ottobre io non li ho
visti. Le attuali formazioni fasciste nelle località sopra elencate non superano in
ciascuna i 30-40 militi, in qualche parte sono anche di meno. Sul rimanente
territorio dell’Istria regna l’anarchia, ma anche là i fascisti stanno cercando di
ripristinare il vecchio regime.
L’anarchia nel territorio interno della penisola si protrasse fino a novembre; le
bande fasciste ne approfittarono per dare la caccia ai banditi slavocomunisti (così
venivano chiamati i pochi partigiani datisi alla macchia nei luoghi meno accessi-
bili) seminando il terrore nella popolazione inerme; ma anche nelle file delle
camicie nere qualcuno pagò con la vita quel regime di terrore e di caos venutosi a
creare. In proposito il rapporto fornisce alcune informazioni: Nei primi giorni
(seguiti ai rastrellamenti tedeschi, ndr) i fascisti hanno usato qualche riguardo
verso la popolazione nelle loro sortite, ma ora si sono scatenati, instaurando il
terrore con arresti in massa e la mobilitazione forzata, per ora soltanto nelle
località sotto il loro controllo e nelle immediate vicinanze. Hanno commesso anche
degli assassinii. Nella zona di Antignana, poi, hanno rastrellato 15 ragazze per
soddisfare i piaceri dei tedeschi ed altre 30 nel Parentino. Tuttavia in alcune zone
si nota una differenza nel comportamento dei fascisti locali, i quali non credono
nella continuità e durata del loro attuale potere e degli attuali rapporti di forza,
per cui cercano di allacciare contatti con noi. Importanti sono le dichiarazioni
fatte dai fascisti di Pinguente (quelli sfuggiti agli infoibamenti, essendo stati
liberati dagli stessi partigiani alla vigilia dell'arrivo dei tedeschi, ndr). Ci mandano
a dire: ma che aspettate a venire per prendervi le armi e instaurare il potere?
Oppure quelle di alcuni fascisti nell’Istria centrale, i quali dichiarano che non
intendono minimamente ricorrere al terrore contro la nostra popolazione, e ci
chiedono soltanto di prendere in considerazione questo loro atteggiamento garan-
tendo loro salva la vita un domani. Ci sono stati anche casi in cui i fascisti si sono
rifiutati di eseguire gli ordini dei loro capi o delle autorità tedesche, e precisamen-
te gli ordini di ficilare alcuni nostri simpatizzanti, sostenitori della LPL (Lotta
popolare di liberazione, ndr). Allo stesso modo si comportano anche certi carabi-
nieri.
In alcune località vennero a crearsi anche delle situazioni apparentemente
assurde. A Canfanaro, per esempio, nell’amministrazione comunale, rimasero le
stesse persone che hanno fatto parte del nostro Comando Posto e cioè del comando
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insurrezionale di settembre, insieme ad altri nostri simpatizzanti. La cosa però non
cambiava eccessivamente un panorama tragico: Tuttavia le prigioni sono piene di
gente nostra, mentre le indagini e le inquisizioni per accertare la partecipazione
della gente alla LPL e alle azioni compiute dalla nostra gente nel periodo del
nostro potere si vanno allargando sempre di più. Il terrore ha raggiunto il punto
più alto a Pisino, nell’Albonese (Vines) e nel territorio di Pola.
A questo punto l’autore del rapporto fece un passo indietro, accennando
rapidamente ai fatti dell’ 8-9 settembre 1943: All’atto della capitolazione dell’Ita-
lia, in Istria non esisteva alcun reparto partigiano. Tutti gli istriani mobilitati nelle
file partigiane prima di quell’epoca erano stati spediti nell’EPL in Croazia. Per
questa ragione, al momento dell’insurrezione, il popolo rimase senza alcuna
dirigenza militare. Per cui il movimento insurrezionale assunse tutte le caratteri-
stiche (anche negative) dei movimenti rivoluzionari spontanei e disorganizzati. /
dirigenti spediti successivamente (in Istria, ndr) arrivarono troppo tardi per poter
accogliere, organizzare e dare un’istruzione militare al gran numero di nuovi
mobilitati. Nelle file stesse degli istriani neomobilitati non c'erano quadri dirigen-
ti, perchè nell’esercito italiano la nostra gente non arrivava a coprire posti di
comando. La mancanza di un’organizzazione militare, la scarsa preparazione
politica e il terreno inadatto alla guerra partigiana sono state le cause del
cedimento relativamente rapido della nostra Resistenza militare in Istria (...) Si
calcola che, tra morti sotto i bombardamenti aerei tedeschi e nei rastrellamenti e
vittime del terrore, in Istria siano caduti almeno duemila nostri uomini.
Nessun accenno, come si vede, agli infoibamenti, nonostante questo fosse un
rapporto interno al partito comunista croato e al movimento partigiano. Evidente-
mente per il relatore era sufficiente quanto scritto all’inizio sulle “esecuzioni”
ovvero sull’eliminazione dei cosiddetti nemici del popolo. Si trattava, evidente-
mente, all’epoca, di un fatto marginale e, pare, di non ampie dimensioni. D'altra
parte fra gli stessi istriani le voci sugli infoibamenti cominciarono a circolare solo
più tardi, anche sull’onda di una serie di articoli apparsi sugli organi del Partito
fascista repubblicano di Trieste e di Pola.
Nel suo rapporto Zvonko Babié non tacque certe ostilità da lui notate fra la
popolazione istriana verso il movimento partigiano che proprio in quei giorni di
fine ottobre 1943 cominciava a organizzarsi di nuovo, molto lentamente. La
disfatta militare aveva portato alla distruzione anche di quelle organizzazioni del
Movimento popolare di liberazione che erano esistite prima, ovvero aveva tolto
loro qualsiasi autorità nella popolazione sicchè il popolo, a giustificazione del
proprio atteggiamento, critica tutti i lati negativi della composizione e dell’opera-
to di quelle organizzazioni e istituzioni che esistevano al tempo del nostro potere
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in Istria. Le critiche erano dirette forse ai “tribunali del popolo” ed al modo in cui
era stata gestita la “giustizia”? Stando a questa fonte, il breve periodo di ammini-
strazione rivoluzionaria era stato caratterizzato dai seguenti aspetti negativi: ap-
propriazione abusiva di riserve di materiale e di generi alimentari da parte di
singoli membri delle organizzazioni; l’aver permesso l’usurpazione arbitraria del
potere da parte di singoli, per esempio di un nobile; un atteggiamento fiacco di
fronte ai nemici del popolo e collaborazione con gli elementi italiani in Istria;
completo abbandono del popolo a se stesso da parte della dirigenza politica
eccetera. Non si fa il nome, nè possiamo sapere chi fosse quel “nobile” istriano al
quale fu permesso di usurpare il potere, ma ci pare emblematica la critica al
“fiacco” atteggiamento degli insorti verso i “nemici del popolo”: l’uomo venuto da
oltre confine riteneva forse che erano stati troppo pochi i fascisti infoibati? Era pure
grave colpa l’aver collaborato con “gli elementi italiani in Istria”? Per Zvonko
Babié pare proprio di sì. Cionostante, subito dopo annotava: Generalmente parlan-
do, la popolazione è spaventata al massimo. Ritiene cosa propria la lotta partigia-
na, ma in questo momento ha perso la fiducia nella sua vittoria e perciò non
intende esporsi a sacrifici. Il popolo stima i partigiani ma al tempo stesso ne ha
paura; darà loro da mangiare, ma non è disposto ad accoglierli in casa e neppure
nel villaggio, soprattutto se portano l’uniforme e sono armati. La gente preferiva
prendere contatti con quelli che non hanno aderito alla LPL in Istria.
Seguivano alcune osservazioni negative sul carattere e la mentalità degli
istriani, criticati anche per la loro totale ignoranza della lotta partigiana in Croazia
e per la loro propensione alla bandiera rossa piuttosto che al patriottismo croato.
Soprattutto il Babié rimproverava ai croati dell’Istria il fatto che troppo spesso
vanno a lamentarsi della situazione con i fascisti, ma i fascisti locali non reagisco-
no dappertutto alla stessa maniera. Avviandosi alla conclusione del rapporto,
Zvonko Babié citò — allegandoli — alcuni materiali della propaganda nemica e
precisamente: un volantino tedesco in italiano e croato, un messaggio ai fedeli del
vescovo Antonio Santin della diocesi di Trieste e Capodistria datato 25 settembre
1943, alcuni documenti ritrovati dai partigiani addosso al pilota di un aereo tedesco
precipitato in Istria, un rapporto di “Gaspar”, un esemplare del giornale sloveno
“Ljudska pravica” e tre esemplari del quotidiano “Il Piccolo” di Trieste del 28, 29
e 31 ottobre. Il relatore spiegava che i medesimi articoli de “Il Piccolo” si potevano
leggere anche sul giornale fascista di Pola “Il Corriere Istriano” che nel suo
editoriale del 29 ottobre chiamò gli italiani dell’Istria a imbracciare le armi e
combattere per la propria libertà impedendo che l’Istria cadesse nelle mani degli
slavo-comunisti di Tito e dei Russi ma anche delle forze badogliane, perchè
comunque Badoglio non avrebbe fatto altro che legalizzare la cessione della
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La voragine della foiba di Villa Surani
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penisola ai suddetti slavo-comunisti. Lo stesso giornale denunciava quegli istriani
che in occasione dell’anniversario della Marcia su Roma hanno spalancato le
finestre per vedere se arrivassero gli inglesi e applaudirii.
Cosa pensasse l’inviato del comitato centrale del PC croato in Istria sulla
direzione da imprimere alle future iniziative del movimento partigiano nella
penisola lo dice la parte conclusiva del suo rapporto nel quale comunicava alle alte
sfere di aver creato in Istria l'’OS ovvero Servizio d’informazioni (spionaggio),
nominando a suo capo “il compagno Jaki”, alias Ivan Matika, del quale fornì queste
informazioni: Nato nel 1907 a Gimino, croato, ha terminato la Facoltà di giuri-
sprudenza; nelle file partigiane dal 27 aprile 1942, ha portato a termine la Scuola
per ufficiali di complemento dell’Esercito regio jugoslavo, ha il grado di tenente
dal 1935, nello Stato Indipendente Croato sottotenente. È membro del Partito
comunista della Croazia dal giugno 1943. Quale suo vice alla testa dell’OS ha
posto un compagno della zona di Pola, del quale vi farò conoscere il nome in
seguito; è capocantiere presso le miniere Bauxiti Istriane. Ivan Matika è l’uomo
che avrebbe dovuto essere processato a Roma per gli infoibamenti in Istria nelle
ultime due decadi di settembre del ’43.
III La parola a un informatore ustascia
Dei circa diecimila, secondo altri dodicimila uomini affluiti o mobilitati nei
reparti degli insorti istriani nei primi giorni seguiti alla capitolazione italiana, pochi
in realtà potevano definirsi veri partigiani, e pochissimi erano comunisti; si trattava
di semplici contadini ed operai guidati da pochi comunisti italiani reduci dalle
prigioni del regime e, nel campo croato, dai “Narodnjaci”, esponenti del vecchio
partito nazional-clericale istriano sopravvissuto nella clandestinità. Dietro istruzio-
ni di alcuni comunisti croati di origine istriana, tornati nella regione natale dalla
Jugoslavia a cominciare dall’agosto 1941, appositamente inviati dai partiti comu-
nisti croato e sloveno, i “Narodnjaci” avevano creato una vasta rete clandestina di
un movimento nazionale di liberazione'3 che aveva poche parentele ideologiche
con il comunismo, ma molti legami con il nazionalismo. Non a caso, avendo
preteso di rappresentare il PC croato, rispettivamente sloveno, in Istria, questi
!3 Sull'argomento si legga il documentatissimo libro di memorie di LJ. DRNDIC, Le armi e la libertà
dell’Istria (traduzione e prefazione di Giacomo Scotti), Fiume, 1981. L’edizione croata uscì a Zagabria nel 1978
col titolo Orwje i sloboda Istre 1941-1943.
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nazionalisti croati provocarono un aspro conflitto con l’organizzazione clandestina
del PC italiano che li contrastò duramente, soprattutto a Pola, a Rovigno ed Albona.
La centrale di coordinamento dei comitati clandestini del Movimento nazionale di
liberazione croato, poggiante quasi esclusivamente sui “Narodnjaci” istriani, si
trovava fuori dell’Istria, a Castua (Kastav) e nel Litorale croato!*; l’obiettivo
principale del Movimento era l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Di socialismo
e comunismo si parlava poco, e solo con gli italiani. Nella prima riunione del
Comitato circondariale del MPL dell’Istria, formato da comunisti e “narodnjaci”,
riunione tenutasi a Pisino il 13 settembre, la prima decisione presa fu quella di
proclamare unilateralmente e formalmente l’ unione dell’Istria alla Croazia, decisio-
ne che sarà fatta propria il 20 settembre dallo ZA VNOH, il Governo partigiano della
Croazia riunito a Topusko nella Lika, e ribadita da una più ampia “assemblea del
popolo istriano” svoltasi ancora una volta a Pisino il 25 e 26 dello stesso mese.
Quella decisione rifiutava di fatto un eventuale successivo atto di autodeterminazio-
ne dell’intera popolazione, anche italiana, come aveva sempre chiesto il PC italiano.
L’assemblea di Pisino, perla cronaca, dichiarò decaduti tutti i poteri e le leggi
dello Stato italiano, costituì un “Comitato regionale di liberazione nazionale” quale
organo di potere e decretò, fra l’altro, che dall’Istria avrebbero dovuto essere
espulsi i coloni assegnatari di terreni bonificati, i funzionari statali ed altri cittadini
italiani stabilitisi nella regione dopo la Prima guerra mondiale. Sarebbe stato il
primo atto di una pulizia etnica dopo la sperata vittoria. In altre parole, si persegui-
vano obiettivi prettamente nazionalistici e per certi aspetti neofascisti sotto i
simboli resistenziali e comunisti.
Gli arresti, preludio degli efferati anche se non progettati infoibamenti, avven-
nero quasi tutti fra il 15 e il 25 settembre. A questo proposito per la prima volta in
versione italiana, presenterò qui un documento di provenienza croato-ustascia,
uscito cioè dagli archivi dell’ex cosiddetto Stato indipendente di Croazia, creato
dal “Poglavnik” ovvero Duce fascista croato Ante Pavelié con l’aiuto di Mussolini
e Hitler e durato dal 10 aprile 1941 all’8 maggio 1945".
!4 Cfr. V. ANTIC, “Razvoj komunisti&kog pokreta u Hrvatskom primorju, Gorskom Kotaru i Istri 1941-
1943” (Evoluzione del movimento comunista nel Litorale croato, Gorski Kotar e Istria dal 1941 al 1943) e
“Ukljudenje Istre” (Annessione dell’Istria) nel volume di AA.VV, Prikljucenje Istre Federalnoj Drzavi Hrvatskoj
i Demokratskoj Federativnoj Jugoslaviji 1943-1968 (Annessione dell’Istria allo Stato Federale di Croazia ed alla
Federazione Democratica di Jugoslavia 1943-1968), Fiume, 1968; L. PERIC, Poceci narodnooslobodilatkog
pokreta u Primorju i Istri (Gli inizi del movimento di liberazione nazionale nel Litorale sloveno e in Istria),
Belgrado, 1964.
15 Da G. SCOTTI, “Istria 1943: come e perchè vennero giustiziati fascisti e innocenti, alcune centinaia, nel
settembre dell’insurrezione popolare”, Fòibe e fobìe, numero speciale de 7! Ponte, Milano, febbraio-marzo 1997.
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Informazioni per il “Duce” croato
Il documento è stato rintracciato dallo storico Antun Giron di Fiume, per oltre
tre decenni impegnato presso il Zavod za povjesne i dru$tvene znanosti, Istituto di
scienze storiche e sociali, dell’ Accademia croata di arti e scienze. Lo studioso ha
pubblicato il documento sulle pagine della rivista “Vjesnik DAR” — n. 37/1995. Si
tratta di un rapporto segreto relativo ai fatti accaduti in Istria nel settembre-ottobre
1943, scritto il 28 gennaio 1944 dal prof. Nikola Zic, un pubblicista croato nato a
Villa di Ponte (Punat) sull’isola di Veglia nel 1882. In quel periodo lo Zic lavorava
per i servizi di informazione del Ministero degli Esteri dello “Stato Indipendente
Croato”. L’Istria era stata oggetto delle sue ricerche sin dal 1911, anno in cui
pubblicò il suo primo libro su argomenti relativi appunto a quella regione. Era stato
poi consigliere della delegazione jugoslava che nel 1919 si battè alla Conferenza
di pace a Parigi per negare l’Istria all’Italia. Fra le due guerre mondiali continuò ad
occuparsi dell’Istria, riattizzando spesso il fuoco del rancore anti-italiano, cosa
questa che gli meritò la benevolenza anche delle autorità comuniste titine: dopo la
seconda guerra mondiale fu nominato vicepresidente dell’ Accademia vetero-slava
di Veglia, dove si è spento nel 1960. AI rapporto scritto dallo Zic nel 1943 sotto il
titolo Relazione sulla più recente tragedia dell’Istria'° era allegato un messaggio
inviato il 28 aprile 1944 dal Ministero degli Esteri dello Stato ustascia alla
Rappresentanza commerciale generale di quel Governo a Zurigo. Il medesimo
rapporto viene citato integralmente, inoltre, in una esposizione sulla situazione
politica fatta al Governo di Pavelié dal suo Ministro dott. Vladimir Zidovec il 21
settembre 1944!,
* **
16 Nell’originale /zvjeste 0 najnovijoj tragediji Istre.
!? L'esposizione presentata da ZIDOVEC al Consiglio dei ministri croato era intitolata La situazione
politica e i suoi sviluppi in Istria, a Susak, a Fiume e nei territori circostanti dalla Dichiarazione del Poglavnik
sull’annessione dei territori distaccati fino ad oggi. La “Dichiarazione del Poglavnik”, risalente al 10 settembre
1943, fu un atto puramente simbolico con il quale il “duce” croato Ante Pavelic si riappropriava dei territori ceduti
all’Italia nel 1941, aggiungendovi l’Istria. Una dichiarazione che rimase sulla carta: i tedeschi trasformarono quei
territori in Zona d’operazione del Litorale Adriatico, amministrata da un governatore del III Reich. Cfr. in
proposito M. LUCIC, Narodnooslobodilacki rat u Istri, Hrvatskom primorju i Gorskom Kotaru u ljeto i jesen 1943.
godine (La guerra di liberazione nazionale in Istria, nel Litorale croato e Gorski Kotar nell’estate, autunno 1943),
Fiume, 1983, pp. 70-71;F. JULIC-BUTIC, Ustafe i Nezavisna Dréava Hrvatska 1941-1945 (Gli Ustascia e lo Stato
indipendente Croato 1941-1945), Zagabria, 1977; A. GIRON -P. STRCTC (a cura di), Poglavnikom vojnom uredu,
Treci Reich, NDH, Susak-Rijeka i izvje$tce dr. Oskara Turine 1943. (All'Ufficio militare del Poglavnik. Terzo
Reich, Stato Indipendente Croato, Sus ak-Fiume e un rapporto del dott. Oskar Turina del 1943), Fiume, 1993.
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 233
Nella prima parte della sua relazione l’informatore del Governo ustascia
sintetizza a modo suo la storia dell’Istria dopo la fine della prima guerra mondiale,
ponendo l’accento sul calvario ultraventennale dei Croati, e conclude col dire che
le persecuzioni da essi subite ad opera delle autorità italiane fecero sì che /a
propaganda partigiana, nel corso di questa guerra mondiale, ha trovato in Istria
un terreno relativamente fertile. I contadini croati nelle file partigiane non consi-
derano i partigiani come dei comunisti bensì unicamente come nemici dei fascisti
e liberatori nazionali. Dopo la caduta del fascismo, quando Badoglio ha firmato
l’armistizio provocando lo sfacelo dell’esercito italiano, è stato sufficiente l’ap-
pello lanciato da pochi partigiani al popolo croato dell’Istria perchè questo
insorgesse dopo 25 anni di oppressione.
La relazione di Nikola Zic così proseguiva: Nel periodo dal 9 al 15 settembre
sull’intero territorio dell’Istria sono stati disarmati tutti i carabinieri e soldati. Il
popolo è prevalso in tutti iComuni e città dell’Istria, impossessandosi delle armi
dei carabinieri e dei soldati italiani disarmati che in disordine si sono avviati verso
le loro case. Alla testa di questa insurrezione popolare si sono posti una trentina
di partigiani (cosiddetti “lavoratori politici”) arrivati in Istria in precedenza.
Il numero dei “lavoratori politici”, ovvero partigiani è esatto, se si riferisce ai
dirigenti dell’insurrezione; gli attivisti partigiani, invece, erano molto più numero-
si. Prosegue l’informatore ustascia: Essi hanno chiamato alle armi molte persone,
ma solo più tardi sono venuti in loro aiuto quattro battaglioni di partigiani dalla
Croazia, in gran parte della Lika.
Qui l’informatore scrive una inesattezza. Con il compito di trasformare quelle
bande di insorti disorganizzate e indisciplinate in reparti regolari e disciplinati, in
Istria arrivò un solo battaglione partigiano croato, distaccato dalla XIII Divisione
“Primorsko Goranska” con una forza di 300 uomini'*. L’arrivo di quel reparto
avvenne esattamente il 19 settembre.
Secondo la relazione Zic, furono i reparti arrivati dalla Croazia a dare un’or-
ganizzazione all’insurrezione popolare partigiana croata nell’Istria intera, ma
successivamente i partigiani sloveni assunsero la guida a nord del fiumicello
Dragogna. Ci si riferisce al Comando del Distaccamento misto sloveno-croato che
operò in Istria dal 15 al 23 settembre, giorno in cui a Pisino fu costituito il
cosiddetto “Comando operativo per l’Istria” sotto il comando del colonnello
partigiano Sava Vukelié, serbo della Lika, commissario Joza Skodilié, croato,
VA
18 Cfr. D. DIMINIC, Istra u partizanskom notesu 1943-1945 (L’Istria nel taccuino partigiano 1943-1945),
Pola, 1984, p.12. Nel successivo capitolo di questo testo parleremo più diffusamente delle memorie del Diminié.
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ambedue inviati dal Comando generale dell’EPL della Croazia. Resteranno in
Istria fino al 29 agosto 1944.
Grazie alla loro presenza fu possibile mettere un argine agli abusi e vendette
di singoli e a dare una disciplina militare ai reparti degli insorti, i quali furono
inquadrati in due brigate, un Distaccamento e diversi battaglioni autonomi per un
totale di 2.000 uomini, quasi tutti alle prime armi.
Tra i comandanti locali degli insorti i più impegnati sul piano politico e
militare nella seconda e terza decade di settembre furono gli italiani Giuseppe
Budicin, Aldo Rismondo, Giusto Massarotto e Mario Cherin di Rovigno, Matteo
Bernobich di Parenzo, Paolo Sfecci e Aldo Negri di Albona, Giorgio Sestan di
Pisino, Alfredo Stiglich e Giulio Revelante di Pola ed i croati Ljubo Drndié, Anton
Raspor (già combattente di Spagna), Berto Petrc-Plovanié, Anton Cerovac-Toni,
Joakim Rakovac, Ciro Rener, Vitomir Sirola-Pajo, Josip Matas detto Andrich,
Dusan Diminié, Viktor Dobrila, Mate Sarson, Dinko Lukarié, Berto Slokovi6,
Vlado Juriéié, Silvio Milenié-Lovro, Ivan Matika (già tenente del regio esercito
Jugoslavo, divenne vicecomandante del Distaccamento misto sloveno-croato, suc-
cessivamente comandante di Pisino e presidente-giudice del Tribunale del popolo),
Nini Ferenèit-Valentin, Josip Matas, l’ex combattente di Spagna Anton Licul-
Grasié, Bozo Kaléié, Joze Suran, Mirko Jurcan ed altri dei quali Zic dice: Poichè
fra di loro c’erano pochi ad avere un’istruzione superiore, non seppero orga-
nizzare (bene) il governo (della regione) ma non ebbero nemmeno il tempo
necessario per farlo. Nel corso di questa insurrezione popolare ci furono solo
sporadiche sparatorie contro i soldati tedeschi, lungo le camionabili Trieste-
Pola e Pola-Fiume. A Pisino, il giorno 12 settembre 1943 furono fermati, poi
costretti a tornare indietro oppure dispersi quei soldati tedeschi che stavano
scortando i soldati italiani (in maggioranza marinai) caricati a Pola su tre
treni e avviati verso i campi di concentramento della Germania. L’attacco è
stato sferrato dagli insorti non perchè spinti dal desiderio di lottare contro i
tedeschi, ma dal desiderio di liberare i marinai italiani, alcuni dei quali si sono
poi uniti ai partigiani provvisoriamente.
Lo scontro, al quale abbiamo già fatto un accenno, avvenne presso la stazione
ferroviaria di Pisino; a guidare gli insorti furono il giovane comunista istriano di
nazionalità italiana Giorgio Sestan e il ten. Colonnello dell’esercito italiano Mon-
teverde che già da alcuni giorni collaborava con gli insorti, insieme ad alcuni
comandanti partigiani croati istriani. Nello scontro due tedeschi furono uccisi ed
altri 14 catturati. Torniamo alla relazione Zic: Dappertutto sono state esposte le
bandiere croate. Su molte di esse i partigiani hanno cucito la stella rossa, ma la
popolazione non dà importanza a questo fatto. Verso il 20 settembre, in una
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 235
solenne assemblea svoltasi a Pisino, è stata proclamata l’annessione dell’Istria
alla Croazia.
L’assemblea si tenne in realtà il 25-26 settembre, come già detto. Nell’occa-
sione furono anche costituiti il Comitato provvisorio regionale di liberazione
nazionale dell’Istria al quale si è pure accennato, e un “Ufficio italiano”, voluto dal
Partito comunista croato con il compito di mobilitare gli italiani della regione nelle
file partigiane.
Secondo Zic, il popolo considerava la rivolta popolare solamente dal punto
di vista nazionale croato. La sua relazione continua riandando ai primissimi giorni
dell’insurrezione istriana: All’inizio a nessun Italiano è stato fatto nulla di male. 1
partigiani avevano diramato l’ordine che non doveva essere fatto del male a
nessuno. Ma qualche giorno dopo lo scoppio della rivolta popolare (e cioè il 13
settembre, ndr) a/cuni corrieri a bordo di motociclette-sidecar hanno portato la
notizia che i fascisti di Albona avevano chiamato e fatto venire da Pola i tedeschi
in loro aiuto e questi avevano aperto il fuoco contro i partigiani. Poco dopo si è
saputo che i tedeschi erano stati chiamati in aiuto anche dai fascisti di Canfanaro,
Sanvincenti e Parenzo, fornendogli informazioni sui partigiani. Rispondendo alla
chiamata è subito arrivata a Sanvincenti una colonna tedesca. Tutte queste voci
hanno creato una grande avversione verso i fascisti. Essi ci tradiranno! — si sentiva
dire dappertutto. Pertanto partigiani e contadini hanno cominciato ad arrestare e
imprigionare i fascisti, ma senza alcuna intenzione di ucciderli. I partigiani
decisero di fucilarne soltanto alcuni, i peggiori, ma anche molti fra questi sono
stati salvati grazie all’intervento dei contadini croati e ancor più dei sacerdoti.
A questa affermazione del relatore ustascia va aggiunta una precisazione: per
la liberazione delle persone arrestate fu decisivo l’ intervento presso i capi partigia-
ni del vescovo di Parenzo e Pola, Mons. Raffaele Radossi.
La relazione Zic prosegue informandoci della sorte di coloro che rimasero in
carcere — le prigioni principali gestite dai partigiani istriani erano quelle di Albona,
Pinguente e Pisino — sottoposti a interrogatori e giudizi dei “tribunali del popolo”.
Purtroppo quando, alcuni giorni più tardi, cominciarono ad avanzare i
reparti germanici, i partigiani vennero a trovarsi nell’impaccio, non sapendo
dove trasferire i prigionieri fascisti per non farli cadere nelle mani dei tedeschi.
In questo imbarazzo hanno deciso di ammazzarli. Ne hanno uccisi circa 200
gettandone i corpi nelle foibe. Tuttavia molti altri fascisti sono riusciti a
scappare raggiungendo Pola e Trieste, rivolgendosi ai Tedeschi per aiuto.
Stando a quanto si è saputo in seguito, i fascisti istriani avrebbero informato i
tedeschi che nella sola Pisino si trovavano 100 mila partigiani; in verità ce
n’erano forse in tutto un paio di centinaia. A questo punto il Comando germa-
236 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
nico ha deciso di rastrellare l’Istria inviando nella regione alcune divisioni SS
corazzate".
Il rapporto prosegue enumerando i massacri compiuti dai tedeschi fino alla
metà di novembre da un capo all’altro dell’Istria, ma noi per ora ci fermiamo qui.
Avremo occasione di tornare al documento in seguito.
kE
La cifra degli infoibati riferita dallo Zic è largamente incompleta. Stando a una
dichiarazione rilasciata alla fine di gennaio 1944 dal segretario del Partito fascista
repubblicano e pubblicata dalla stampa della RSI dell’epoca, in Istria finirono
infoibate dagli insorti 349 persone, in gran parte fascisti. Ora è vero che l’alto
gerarca ci teneva ad arricchire il martirologio dei “combattenti per la causa” del
fascio littorio, ma gli va pur riconosciuto il merito di non aver esagerato come
fanno invece certi “storici” odierni simpatizzanti di quel regime: quella era la cifra
che all’epoca si dava per accettabile. Oggi siamo addirittura propensi a considerar-
la inferiore alla realtà. E comunque non è nostra intenzione, almeno in questa sede,
fare la conta degli infoibati, ovvero delle vittime dell’insurrezione istriana, calco-
late comunque dagli studiosi più attenti fra le 400 e le 500 persone. Sull'argomento
sarà utile la lettura delle pagine 103-113 del già citato saggio di Luciano Giuricin,
Il settembre ’43 in Istria e a Fiume del 1997 e la mia ricostruzione di quelle
tragiche vicende nel saggio Fòibe e fobìe dello stesso anno.
Un'altra considerazione da fare a proposito della relazione Zic riguarda gli
arresti dei fascisti. Essi cominciarono il 14 o 15 settembre come si può dedurre da
quel documento (e cioè dopo gli scontri di Tizzano, Leme, Albona e Vines), ma le
prime esecuzioni sommarie, ebbero luogo appena il 18 dello stesso mese.
Dal diario di un antifascista italiano di Rovigno
Ben diversamente sono descritti e ricordati i giorni dell’insurrezione istriana
da alcuni dei capi dell’antifascismo italiano della penisola. Il centro del movimento
italiano divenne Rovigno, il massimo leader Giuseppe-Pino Budicin uscito in
agosto dalla prigione di Castelfranco Emilia. Nell’articolo “Un anno di successo”
1? A. GIRON, “Informacije prof. Nikole Zica gelnistvu NDH o prilikama u Istri nakon sloma Italije”
(Informazioni del prof. Nikola Zic al governo dello Stato Indipendente Croato sugli avvenimenti in Istria dopo la
capitolazione dell’Italia), Vjesnik DAR, n. 37 (1995), pp. 127-143.
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 237
apparso sulla prima pagina del foglio partigiano ciclostilato “Il Nostro Giornale”,
che dedica il suo numero 18 del 9 settembre 1944 al primo anniversario dell’insur-
rezione istriana, leggiamo:
In quei giorni gli istriani sentirono in sé una forza eroica, prepotente, che li
spinse a insorgere, ad armarsi e lottare per la loro libertà e il loro avvenire. E
veramente il 9 settembre fu giorno di libertà. In tutta l’Istria bandiere italo-croate,
affratellate dalla stella tossa sventolarono al vento (...) Incominciò la lotta mera-
vigliosa degli istriani.
Difficilmente si può trovare in questi fogli partigiani italiani un sia pur minimo
accenno ai dissidi con i dirigenti del PC croato — e furono tanti — e ancor meno
qualche allusione alle foibe. Eppure sono documenti anche questi fogli, anche
questi articoletti, come quello firmato “Elio” (Giorgio Privileggio) sullo stesso
numero nel quale leggiamo: Uscendo dal municipio di Rovigno la sera dell’8
settembre, notammo capannelli di gente che discuteva. Cos'è successo? Ci rispon-
dono che è stato firmato l’armistizio. Non ci sembrava vero. La stessa sera ci
furono dimostrazioni. Subito dopo l’annuncio dato dalla radio, il primo a muoversi
fu Pino Budicin che arringò la folla riunitasi sulla piazza dell’orologio. Fu seguito
da altri comunisti reduci come lui dalle prigioni fasciste: Domenico Segalla,
Giorgio Privileggio, Giovanni Naddi, Romano Malusà e Francesco Poretti. Pino
sventolava una bandiera italiana presa poco prima al caffè “Risorgimento” e subito
arringò la folla, invitando tutti a prepararsi alla lotta armata, a organizzare la
resistenza, affrontando un nuovo pericolo incombente: l'invasione da parte dei
nazisti. Era giunto il momento, aggiunse, di iniziare la lotta partigiana. Un “Comi-
tato di salute pubblica” assunse l’ amministrazione della città. Dopo qualche giorno
si trasformò in “Comitato del Fronte nazionale partigiano di Rovigno d'’ Istria”
come risulta dai primi documenti stampati in città e come abbiamo già annotato in
questa esposizione. In un diario di Giorgio Privileggio, custodito dai familiari dopo
la morte di questo comunista fra i più noti nelle file degli italiani d’Istria durante
la guerra e dopo (perseguitato e incarcerato dal regime fascista, fu uno dei dirigenti
politici della Resistenza), leggiamo che il “Comitato di salute pubblica”, frutto di
un compromesso con la precedente amministrazione podestarile, funzionò solo
due-tre giorni. Pino Budicin e gli altri suoi compagni e collaboratori più stretti
furono costretti a ritirarsi dalla città per entrarvi da partigiani il 16 settembre,
instaurando il “potere rosso”.
238 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
I primi tredici arrestati a Rovigno
Nel documento, apparso sotto il titolo “Memorie dell’antifascismo e della
Resistenza” (nel volume III dei Quaderni del CRS di Rovigno, 1973) si legge:
Il 15 settembre (1943) i compagni Budicin e Rismondo in accordo con il
comando partigiano di Canfanaro stabilirono di entrare a Rovigno per instaurare
il potere popolare. Il mattino seguente, 16 settembre, circa un centinaio di parti-
giani italiani e croati armati con armi leggere, assieme ai nostri dirigenti politici,
entrarono in città e la presero in consegna dopo aver disarmato i carabinieri e le
guardie di finanza. Si costituì il Comitato rivoluzionario partigiano (...) Sul
municipio venne inalberata la bandiera tricolore italiana con la stella rossa,
simbolo dei partigiani italiani dell’Istria e di Fiume.
In quei giorni vi fu un episodio significativo e nello stesso tempo estremistico.
Alcuni elementi volevano esporre la bandiera rossa dei lavoratori sul palo del
monumento alla vittoria in piazza dell’orologio. Pino Budicin dovette sudare le
proverbiali sette camicie per persuaderli che non era opportuno in quel momento
un tale gesto (...) e per spiegare loro la linea politica della lotta antifascista.
Molti appuntarono sulla giacca un nastrino rosso per festeggiare il momento
rivoluzionario.
Nel pomeriggio, quando i partigiani andarono ad arrestare lo squadrista e
fiduciario dell’OVRA Giuseppe Silvino, videro che portava all’occhiello il nastri-
no rosso. Un camuffamento puerile e vile. Il Comitato rivoluzionario compilò un
elenco di fascisti pericolosi per il nuovo ordinamento sociale, i quali vennero
immediatamente arrestati e portati al comando partigiano che allora si trovava
nell’ex casa del fascio (...) Ecco i nominativi: Romolo Rocco, squadrista, capoma-
nipolo; Giuseppe Silvini, squadrista, regnicolo, fiduciario dell’OVRA; Giorgio
Abbà, squadrista, guardia municipale; Domenico Paliaga, squadrista; Gregorio
Dapiran, squadrista; Giovanni Miculian, squadrista (regnicolo); Antonio Rocco;
Ettore Stolfa; Domenico Bruni; Martino Mazza, commerciante (verrà poi rilascia-
to a Pisino); Leonardo Quarantotto, guardia campestre; Andrea Maressi, guardia
notturna; Cristoforo De Angelis, operaio (gli ultimi tre fascisti e confidenti della
polizia). Dopo essere stati interrogati, furono associati alle carceri locali e dopo
alcuni giorni inviati a Pisino dove, assieme ad altri fascisti italiani e croati di tutta
l’Istria, furono condannati dal tribunale popolare e giustiziati poco prima dell’ar-
rivo dei nazisti (...)
Nel prosieguo del diario, Privileggio descrive l’irruzione a Rovigno di un
reparto tedesco avvenuta il 22 settembre e le prime stragi compiute dai nazisti,
quindi il ritorno dei partigiani in città il 23 settembre, scrivendo:
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 239
È in questa seconda fase che vennero operati arbitrariamente, da parte di
alcuni elementi estremisti irresponsabili sia di città che di fuori — la cosiddetta
Ghepeù Volante — circa una decina di arresti. Tre degli arrestati, e precisamente
Vittorio Demartini (Tojo el dalmato), l’ottantenne Angelo Rocco (“Piso sico”
primo podestà di Rovigno) e Tommaso dott. Bembo (proprietario terriero, antifa-
scista) perirono a Gimino sotto il bombardamento aereo tedesco ai primi di
ottobre.
Questo brano del diario del Privilegio merita una precisazione. È stato appu-
rato che le salme di Angelo Rocco e Tommaso Bembo, raccolte dopo il bombar-
damento, finirono effettivamente nella foiba di Pucicchi di Gimino come luogo di
sepoltura. Insieme a quella di un tale Basilisco, furono le uniche identificate delle
circa trenta di vittime rovignesi estratte dalle varie fosse carsiche istriane. In quelle
foibe finirono pure i cadaveri di alcuni tedeschi e di soldati italiani “badogliani”
uccisi dai tedeschi nei primi scontri dell’inizio di ottobre. Il che non ha impedito a
certi “storiografi”’ di inserire i loro nomi negli elenchi degli infoibati.
Da questo documento, e da molti altri, fra cui vanno inclusi gli annunci
mortuari apparsi nel corso di ottobre 1943 sui quotidiani fascisti di Pola e di Trieste
dopo la scoperta delle foibe, risulta che l’ottanta-novanta per cento delle persone
arrestate e poi giustiziate dagli insorti istriani erano compromesse con il regime
fascista: accanto a molti nomi appare la qualifica “sciarpa littorio”, “squadrista”,
“combattente della guerra di Spagna”, “legionario fiumano” eccetera. Altri furono
vittime di vendette personali compiute da “elementi estremisti irresponsabili”,
come li definisce Privileggio. Comunque non ci fu un piano prestabilito di massacri
e tanto meno rivolto esclusivamente contro gli italiani, anche se non si può negare
che — dopo venti e più anni di oppressione fascista italiana in Istria — c’era
nell’animo degli insorti slavi anche una carica di rivincita nazionalistica. Uno degli
esodati istriani, l’intellettuale Dr. Erio Franchi, trasferitosi negli anni Cinquanta
del secolo appena trascorso dall’Istria a Varese, in un’intervista concessa alla
rivista “Fiume” del cosiddetto Libero Comune di Fiume in esilio, ha lasciato questa
testimonianza:
Quella fiammata insurrezionale del settembre 1943 in Istria e gli eccessi che
ne sono conseguiti, a mio personale modo di vedere, più che l’esecuzione di una
direttiva politica del partito comunista croato, dei comandi partigiani di Tito, era
stata una reazione scomposta di elementi locali che nella loro brutalità hanno
voluto vendicarsi dei torti subiti nel ventennio, della lunga pressione snazionaliz-
zatrice che avevano sofferto, delle angherie subite (...) Faccio un esempio che mi
tocca da vicino. Io ho sposato una ragazza istriana, la cui casa in quel di San
Martino di Pinguente, è stata messa a fuoco nel 1919 da una squadra di fascisti
240 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
pisinesi (...) Il padre, mutilato di guerra, con entrambe le gambe mozzate, era
costretto su una sedia a rotelle, fu portato fuori dalla casa che andava a fuoco con
tutto il bestiame e salvato per miracolo. Episodi di questo genere non sono stati
purtroppo isolati. Seguiti poi da pressioni violente sull’etnìa slava, hanno provo-
cato in una popolazione, da un lato insufficientemente colta e dall’altro infiamma-
tada questi imput che provenivano dalla Jugoslavia, dei rigurgiti che sono andati
ben al di là del normale.
Ha scritto Franco Femia su “Il Piccolo” di Trieste del 14 febbraio 1998: Oggi
certi episodi fanno rabbrividire, vengono giudicati barbarie; ma bisogna rianda-
re a quel periodo, a quegli anni, ad una guerra madre di tutte le barbarie, dove
non vi era solo un nemico, ma c'erano più nemici. Una guerra civile resa ancora
più tragica in queste terre dove si scontravano due mondi diversi e ideologie
diverse.
IV Diario di un comunista croato
Nel 1986, nel pieno della crisi politica jugoslava che di lì a quattro anni
sarebbe sfociata nella secessione di Slovenia e Croazia dalla federazione creata da
Tito e poi nella sanguinosa guerra intestina, uscì a Pola un libro che nel frastuono
degli eventi dell’epoca passò pressocchè inosservato ed ebbe scarsa diffusione,
autore Dusan Diminié, scomparso due anni dopo: /stra u partizanskom notesu
(1943-1945). Il titolo, tradotto, è “L’ Istria nel notes partigiano, 1943-1945”. L’au-
tore, istriano dell’ Albonese, fu uno dei massimi esponenti del Partito comunista
croato e, in seno al comitato centrale di quel partito, incaricato di promuovere e
seguire lo sviluppo del Movimento popolare di liberazione in Istria. Nel 1941,
accusato di deviazione dalla linea politica del Partito comunista croato e jugoslavo,
fu espulso dalle sue file. All’epoca era dirigente della Federazione del PC di Su$ak.
Pertanto, quando si recò in Istria, nel settembre del 1943, egli non era più membro
del partito; e tuttavia, proprio grazie alla sua attività in Istria, fu poi riammesso
nelle file comuniste e risalì rapidamente le scale della gerarchia politica, fino al
vertice del Comitato centrale. Per un certo periodo diresse il giornale del partito
comunista croato “Naprijed”, poi fu spazzato via dalla scena politica nel 1949 e
duramente perseguitato come “cominformista”. Il suo “esilio interno” ebbe fine
appena agli inizi degli anni Ottanta ed appena allora egli potè pensare alla pubbli-
cazione degli appunti e ricordi relativi al periodo della seconda guerra mondiale, e
precisamente dall’epoca in cui rimise piede in Istria, immediatamente dopo la
capitolazione dell’esercito italiano nel settembre 1943, fino alla fine del conflitto.
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 241
Quando il libro di memorie del Diminié vide la luce, molti tabù erano crollati,
e tuttavia in Croazia e Slovenia ne erano rimasti alcuni — come quelli relativi alle
foibe istriane ed ai confini tra Slovenia e Croazia in Istria — sicchè anche i pochi
recensori di quel libro passarono sotto silenzio i brani delle memorie di Diminié
che riconducono ai due scottanti problemi oggetto da qualche anno di accesi
dibattiti e polemiche anche sul piano internazionale.
Sulla questione del confine croato-sloveno in Istria leggiamo alle pagine 40-41
(siamo verso la metà di settembre 1943):
In quei giorni giunse in visita al Comando Operativo (dell’Istria, ndr) il
comandante del Quartier Generale (dell’Esercito popolare di liberazione) della
Slovenia, Franc Roîman-Stane con i suoi compagni. Essi si interessarono alla
questione della delimitazione dei confini fra i territori sloveno e croato dell’Istria,
proponendo che il confine fosse il fiume Quieto. Noi (croati), naturalmente,
ritenevamo che sarebbe stato più giusto tracciare il confine lungo il tratto fiume
Dragogna — Lobor — Topolovac — Podgorje — Rupa — Klana, e cioè secondo
l’ubicazione delle scuole elementari (in lingua slovena o croata, ndr) al tempo
dell’Austria: quei villaggi nei quali funzionavano scuole croate dovevano appar-
tenere alla Croazia, e quelli in cui funzionavano scuole slovene, alla Slovenia.
Ma, almeno in quell’incontro, l'argomento non fu approfondito. A noi interes-
savano di più le informazioni di cui disponevano i compagni sloveni sulle truppe
tedesche e sui loro movimenti nell’Italia settentrionale o sulle possibilità di
un'offensiva tedesca diretta contro di noi (...)
La questione che qui ci interessa maggiormente è quella delle foibe o meglio:
sapere quale fosse l’atmosfera dominante nel periodo in cui si verificarono gli
infoibamenti. Dagli appunti di Dimini}, che fino a quel momento era stato presso
il Comando della XIII Divisione partigiana operante alle spalle di Susak — Fiume,
si può capire infatti quale fu l'atteggiamento dei comandi partigiani e del PC croato
verso gli italiani istriani e se i fatti di sangue che videro fra le vittime anche gli
italiani furono o meno la conseguenza di un piano, di un orientamento politico
oppure no.
Dusan Diminié passò in Istria il 14 settembre insieme a Ljubo Drndié che, già
operante in Istria, era venuto a SuSak per stampare dei grandi manifesti nei quali
si annunciava la liberazione dell’Istria e la sua unione alla Croazia ed alla
Jugoslavia. Fecero il viaggio in automobile. Passando per Klana, arrivarono a
Gumanac, dove il dirigente partigiano annotò: La situazione in Istria in questo
momento, qui nessuno la conosce veramente. A Gumanac c’è ancora il presidio
militare italiano che ignora quale sarà il suo destino. I soldati vorrebbero andar-
sene a casa, ma non sanno come, temono di essere catturati dai tedeschi. Parliamo
242 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
col loro comandante, non ricordo quale grado avesse, e stabiliamo un termine
entro il quale deve evacuare Gumanac consegnando a noi tutti i magazzini di armi.
Egli promette di farlo. Torniamo indietro. C’imbattiamo in un ufficiale italiano che
è passato dalla nostra parte e si è già distinto nella lotta contro i tedeschi. Un suo
compagno è caduto proprio qualche giorno addietro in uno scontro ed oggi si
fanno i suoi funerali.
La “prima” fucilazione
In serata, sempre a Gumanac, dove era stata costituita una base partigiana,
vennero portate due persone in stato di arresto. Erano ambedue italiani. Uno fu
subito riconosciuto da Diminid: si tratta di un soldato che due mesi addietro ha
abbandonato le posizioni nei pressi di Brinje e si è unito a noi; è stato arrestato
per sbaglio. L’altro è un civile, che i partigiani hanno arrestato sulla strada che
da Trieste porta a Fiume; viene accusato di aver trasportato armi ai fascisti
fiumani. Mentre il primo venne rilasciato libero, il secondo fu trascinato di fronte
a un improvvisato tribunale popolare: // tribunale è composto dalla compagna
Dina (Zlatié), da un ufficiale italiano, dal compagno Martin Car, nostro ufficiale
informatore, e da me. Il reato commesso dall’italiano viene provato e noi lo
condanniamo a morte. La sentenza non fu resa pubblica per non provocare una
brutta impressione fra i soldati italiani e fu eseguita in segreto. Alle sentinelle fu
ordinato di eseguirla nei dintorni del paese.
Nel prosieguo del brano (pp. 8-9) Diminié dice di aver chiesto ai partigiani del
posto se era stata già eseguita qualche condanna in quel luogo prima di questa;
gli risposero negativamente, perchè la situazione non lo aveva permesso, e perchè
la cosa non sarebbe stata gradita dalla popolazione. Commento del Diminié:
Dubito che abbiano detto la verità!
Intanto un corriere arrivato dall’interno dell'Istria comunicò che Pisino, Pin-
guente, Bogliuno, Lupogliano ed altre località erano in mano ai partigiani, sulla
strada Buie-Pola era stata disarmata una colonna di artiglieri e carristi ... Diminié
e Drndid ripresero il viaggio, entusiasti, passando per villaggi addobbati di tricolori
croati e striscioni rossi. Saranno seguiti da un battaglione partigiano. Tutto il
popolo è in piedi.
Per un bel tratto l’auto corre sulla camionabile Fiume-Trieste, si vedono tracce
del passaggio di carri armati tedeschi. Presso Obrovo, Diminié, Drndié e il corriere
s’inoltrano per le campagne, distribuendo ovunque i volantini dell’ “annessione”
dell’Istria alla Croazia.
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
“ERE E Ren.
CITTADINI DI PARENZO !
Dopo un mese di tragiche vicende e di
ansie angosciose, sono state ricupergate - in una
foiba abissale di Albona - le salme di parecchi
nostri fratelli barbaramente trucidati da criminali
senza scrupoli.
La gravità dell'ora che attraversiamo non
consente recriminazioni, né propositi di vendetta,
ma impone la più assoluta disciplina e la con-
cordia di tutti gli spiriti interessati al bene del
paese e della Patria.
Piangiamo pertanto i nostri caduti, ono-
riamoli degnamente, custodendone nel cuore la
memoria e la fede ed attendiamo fiduciosi che la
Divina Provvidenza compia il suo disegno.
Il sacrificio dei nostri martiri, rei soltanto
di essere italiani, aggiunge un titolo di nobiltà
alle tradizioni del nostro paese e consacra defini»
tivamente l'italianità di questa terra, invano con-
tesa. dal secolare nemico!
Parenzo, 28 ottobre 1943
Il Gomitato di Salute Pubblica
,
"
Manifesto del Comitato di Salute Pubblica di Parenzo del 26 ottobre 1943
243
244 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
Incontriamo anche gruppi di soldati italiani che tornano in Italia prendendo
strade secondarie per paura dei tedeschi. Hanno un aspetto miserevole. Ufficiali
e soldati camminano senza alcun ordine (...) Ci infiliamo e corriamo fra le file
italiane. Alcuni reparti italiani sono riusciti a conservare una parte delle armi, ma
ora la gente li disarma, ed essi consegnano le armi senza opporre resistenza.
Dopo una breve sosta a Lupogliano, dove funzionava un Comando partigiano
raccogliticcio, i tre raggiunsero Pisino dove aveva sede il Comando generale
partigiano dell'Istria. Ovunque, strada facendo, il quadro è sempre quello: entu-
siasmo, addobbi, molti uomini armati, riscaldati dal vino. A Pisino, sulla sede del
comando partigiano, sventolava la bandiera croata. Il 15 settembre si riunirono i
componenti di un provvisorio Comitato regionale del Partito comunista croato per
l’Istria, formato da istriani croati per molti anni vissuti fuori dell’Istria: Silvio
Milenié, Ljubo Drndié, Dusan Diminié, Vlado Juritié, Ivan Motika. Il comando
militare, invece, era formato da Viktor Dobrila, sloveno, comandante; Ivan Motika,
vicecomandante; Silvo Milenié, commissario politico; Franjo Segulin, sloveno,
vicecommissario; ufficiali operativi Josip Matas, Franjo Jurisevié e Vlado JuridiC.
Furono decise misure per la mobilitazione di partigiani e alcune azioni militari da
intraprendere. Fu stampato un volantino nel quale c’è un solo accenno alla presenza
degli Italiani in Istria: Si garantiscono i diritti nazionali degli Italiani. Vennero
infine proposti 21 nominativi per formare il comitato regionale del Fronte popolare
di liberazione per l’Istria, con alla testa Ivan Motika. Ne facevano parte anche due
preti, ma nessun italiano.
Retate di fascisti
Tra varie altre cose, Diminié apprese, e annotò nel diario, di diversi scontri
avvenuti fra gruppi di partigiani e tedeschi in Istria: presso Gimino catturati 13
soldati germanici, altri tre uccisi e due feriti in combattimento; tre tedeschi caduti
in uno scontro presso Levade nella Valle del Quieto, catturato un loro automezzo
pesante; 23 civili massacrati presso Canfanaro e alcuni altri impiccati dai tedeschi
uniti alla milizia fascista, incendiate tre case. A queste note Diminié aggiunse: Nel
carcere di Pisino sono stati rinchiusi fascisti provenienti da varie località. Il 19
settembre è arrivato dalla Jugoslavia il promesso battaglione (partigiano, ndr)
comandato da Niko Tatalovit, commissario Stjenka.
A Lupogliano il reparto divenne brigata con quattro battaglioni in seguito
all’immissione di combattenti istriani. Il secondo battaglione era composto da 200
combattenti di Albona, quasi tutti italiani. Anche da Trieste sono arrivati nuovi
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 245
combattenti, Sloveni e Italiani. Il comandante del battaglione triestino è Zoll
Giovanni Franzoni, friulano.
Torniamo alla frase dei fascisti portati a Pisino da varie località dell’Istria e
rinchiusi nel carcere del Castello dei Montecuccoli. In una rivoluzione antifascista,
che al tempo stesso era guerra di liberazione, era logico che i combattenti antifa-
scisti cercassero di mettere i fascisti fuori combattimento. E in Istria, purtroppo, i
caporioni fascisti — sui quali si riversò la rabbia dei contadini insorti — erano in
maggioranza italiani. Insieme a loro finirono in carcere alcune persone che di
fascista avevano soltanto la tessera del PNF. Quello dei fascisti, però, non fu
l’unico problema di fronte al quale vennero a trovarsi i capi degli insorti e, ancor
più, gli emissari del Partito comunista jugoslavo scelti in maggioranza fra gli
istriani emigrati in Jugoslavia a cominciare dagli anni Venti per sfuggire alle
persecuzioni fasciste. Tornavano ora in Istria anche con il loro carico di rancori
personali e con una scarsa conoscenza della situazione. Per troppi anni erano
vissuti al di là dei confini. C'era poi il non facile rapporto con i comunisti istriani
aderenti al PC d’Italia, i quali — decisissimi a battersi contro gli occupatori tedeschi
e contro i fascisti, come dimostrarono in quegli stessi giorni — erano però restii a
cedere alla pretesa degli emissari croati e sloveni di sciogliere le organizzazioni del
PCI in Istria, di entrare a far parte del PCJ ed accettare senza discussioni la
decisione dei comunisti slavi di annettere l’Istria alla Jugoslavia. Scrive Diminic:
Sin dai primi giorni venne fuori la questione dei rapporti con gli Italiani. Apparve
evidente che non tutti i compagni italiani capivano la nostra lotta di liberazione.
Il primo col quale venni a contatto fu l’italiano albonese Aldo Negri, all’epoca
comandante (partigiano, ndr) di Albona. Il nostro movimento non gli era chiaro
per niente, lo considerava panslavismo. Voleva perciò lasciare il suo servizio,
portarsi in Italia e là combattere, come disse, per il comunismo. Gli spiegai i nostri
obiettivi e gradualmente cominciò a capire. La stessa cosa avvenne con i compagni
italiani di Rovigno. Una cosa però era evidente: per tutti loro era difficile accet-
tare che l’Istria non fosse più italiana, ma fosse annessa alla Jugoslavia; non
potevano accettare che ora essi fossero soltanto una minoranza in Istria. Il loro
partito comunista non aveva condotto una chiara politica nazionale in Istria. Essi
non erano stati educati in tal senso, sicchè ora gli era difficile cambiare orienta-
mento tutto d’un tratto. Da parte nostra eravamo decisissimi sostenitori dell'unio-
ne dell’Istria alla Jugoslavia e ponemmo tale questione come condizione fonda-
mentale per la collaborazione. Gradualmente riuscimmo a superare questo osta-
colo e ponemmo la collaborazione su buone basi.
Questa collaborazione non fu sempre sincera da parte croata e slovena, come
dimostra, tra numerosi altri, il “caso” di Albona. Disponiamo, in proposito, della
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testimonianza del dott. Mauro Sfecci, che fu stretto collaboratore di Aldo Negri”.
Accennando all’arrivo in Istria dalla Jugoslavia di alcuni esponenti del PC croato
che cercavano di imporre ai comunisti italiani della penisola la loro linea annessio-
nistica e nazionalistica, Sfecci definisce “difficile” la situazione venuta a crearsi
nel territorio. Decidemmo di salvare il salvabile per non far soccombere la
popolazione italiana. Quindi, ricordando che fin dai primi giorni dell’insurrezione
si erano verificati incresciosi incidenti a causa di non pochi avventurieri (...) che
cercavano di imporsi dappertutto, Negri, Sfecci e Caserio Crevatin decisero di
recarsi a Pisino dove si trovavano tutti gli organismi principali dell’insurrezione.
Volevano chiarire la situazione che stava sfuggendo dalle mani del movimento.
Ci incontrammo con Dusan Diminit, mio cugino per parte materna, giunto
proprio allora dalla Croazia. Cercammo di appianare i contrasti e denunciammo
il comportamento di certi personaggi che nell’ Albonese, armi alla mano, facevano
il bello e brutto tempo. Uno di questi personaggi, il più facinoroso, era Matteo
Stemberga, nativo di Arsia, noto contrabbandiere, il quale — vantando torti subiti
sotto il fascismo — andava in giro ad arrestare arbitrariamente fascisti e “fascisti”,
arrogandosi il diritto di fare giustizia sommaria. Si era autoproclamato capo della
polizia. Fra le sue numerose bravate ci fu quella di imporre al prof. Caputo di
inneggiare a Stalin, minacciandolo con la pistola. Un'altra volta proprio io —
racconta il dott. Sfecci — riuscii a fermarlo mentre tentava di fustigare un certo
Eugenio Schira, che a suo dire si sarebbe appropriato delle sue mucche quando fu
costretto a fuggire in bosco. Invece lo Schira era riuscito a salvare le bestie rimaste
abbandonate. Più tardi, aiutato anche da altri individui del suo stesso stampo,
compì efferati delitti. Nell’incontro con Diminié fu pertanto deciso di nominare
Aldo Negri comandante del Presidio partigiano di Albona ai cui ordini tutti
avrebbero dovuto sottostare. Fu un bene, perchè Negri — continua la dichiarazione
del dott. Sfecci — riuscì a liberare dal carcere di Albona numerosi italiani della
città e dintorni che erano stati abusivamente incarcerati. Ricordo che ad Albona
era stato istituito una specie di tribunale composto dai principali dirigenti antifa-
scisti dall’Albonese, nel tentativo di mettere ordine nel caos generale e di frenare
i più facinorosi che erano intenzionati, invece, a compiere delle vere stragi. So che
nel carcere erano rinchiuse un centinaio di persone, per lo più innocenti. Da parte
del tribunale ne furono condannate non più di sedici, tra cui diversi fascisti di
Arsia. Ma Stemberga e i suoi seguaci, che avevano costituito un gruppo di armati
20 Da una raccolta inedita, di prossima pubblicazione, di testimonianze raccolte per il Centro di Ricerche
Storiche di Rovigno da Luciano Giuricin. Quella di Sfecci è stata messa a mia disposizione dallo stesso Giuricin
che già ne ha pubblicato una sintesi nei Quaderni, vol. XI (1997), pp. 103-104.
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albonesi sotto il suo comando, appena vennero a sapere della cosa si precipitarono ad
Albona, catturarono nuovamente tutte le persone che in precedenza avevano arrestato
e che il tribunale aveva rilasciato, scontrandosi con lo stesso Aldo Negri che fu
minacciato di essere fatto fuori con le armi se avesse continuato ad opporsi a quei
facinorosi armati. So che poi molti di quelle persone arrestate da Stemberga furono
gettate nelle foibe di Vines e di altre località, altri fucilati a Santa Marina di
Albona e poi gettati in fondo al mare. Da quanto potemmo appurare, furono
liquidate 94 persone, fra cui l’ing. Bruno Bidoli, segretario del PNF di Albona. Il
segretario della sezione albonese del PCI Lelio Zustovich e qualche altro che condan-
narono duramente quelle barbarie, subiranno le conseguenze di questo atteggiamento.
E questo dimostra quanto falsa fosse la “volontà di collaborazione” con gli antifascisti
italiani degli esponenti del PC croato in Istria e sulla questione istriana.
Dalla sponda opposta, in segno di riconoscenza per gli sforzi compiuti da
Negri, Sfecci ed altri dirigenti partigiani italiani albonesi per salvare il maggior
numero possibile di conterranei e concittadini, fascisti sì ma non criminali, dall’or-
ribile fine delle foibe, la stampa repubblichina fascista li premiò denunciando
all’opinione pubblica come responsabili delle stragi l'avvocato Dante Vorano,
comandante civile, il dottor Aldo Negri, comandante militare e il dottor veterinario
Antonio (Mauro) Sfecci, aiutante del Negri. L’opuscolo nel quale fu lanciata
questa denuncia era intitolato Ecco il conto e fu diffuso in tutta la Venezia Giulia
nell’autunno 1943, fornendo materiale ai vari “storici” vetero e neofascisti italiani,
alla Luigi Papo, per rilanciare a decenni di distanza i medesimi contenuti di
quell’opuscolo e di altri scritti del nazifascismo di guerra contro “l’opera degli
aguzzini rossi” Negri e compagni. Contemporaneamente, per circa mezzo secolo,
la “storiografia” jugoslava ha calunniato quei generosi comunisti istriani che si
batterono contro i nazifascisti ma anche contro quei compagni croati che, imbevuti
di odio nazionalistico, resero dura la loro vita e addirittura gliela tolsero già nel
corso della lotta di liberazione. Tanto è vero che nel corso del 1944, quando era
ormai certa la sconfitta del nazifascismo e tornò a galla la questione dei futuri
confini fra Italia e Jugoslavia, la polemica fra i comunisti italiani e slavi nella
Venezia Giulia si riaccese e, uno dopo l’altro, furono uccisi “in agguati fascisti” o
in “scontri con i tedeschi”, i massimi esponenti del PCI e del movimento partigiano
di nazionalità italiana in Istria e nella Venezia Giulia: Pino Budicin, Augusto Ferri,
Aldo Negri, Aldo Rismondo, Lelio Zustovich, Gigante, Frausin ed altri; fu impe-
dita la costituzione di una brigata partigiana italiana; fu eliminato dall’Istria
nord-occidentale il battaglione italiano “Alma Vivoda”, gran parte dei partigiani
italiani istriani furono disseminati in unità croate lontanissime dall’Istria: dal
Gorski Kotar alla regione di Karlovac e altrove.
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Punto sesto: cacciare gli immigrati
Il 24 settembre arrivarono in Istria il comandante e il commissario del neoco-
stituito “Comando operativo per l’Istria” che assunse la direzione militare dell’in-
surrezione popolare. All’epoca le brigate partigiane istriane erano già due, più
distaccamenti sparsi. Fra i compiti della prima brigata, stando al Dimini6, c’era
quello di organizzare l’amministrazione militare di Rovigno, a causa dei dissidi
scoppiati con i compagni italiani in città. Ai dirigenti del PC croato non piaceva il
“Comitato di salute pubblica” costituitosi a Rovigno all’indomani dell’ 8 settembre.
Il Comando operativo per l’Istria, inoltre, si sforzò subito di organizzare commis-
sioni d’inchiesta con il compito di accertare con procedimenti d’urgenza le colpe
dei fascisti arrestati, che successivamente furono consegnati al Tribunale militare.
Purtroppo, l’operato di quelle commissioni fu scadente. Diminié non spiega in che
senso, ma pare rammaricarsi dello scarso numero di arrestati.
Il 26 settembre, a Pisino, nella riunione del Comitato regionale di liberazione
per l’Istria, fu convalidato l’”’atto di annessione dell’Istria alla Jugoslavia” del 13
settembre e fu diffuso un proclama nel quale, tra l’altro, si leggeva:
Gli Italiani in Istria godranno di tutti i diritti nazionali (punto 5) e Gli Italiani
che si sono insediati in Istria dopo il 1918 allo scopo di snazionalizzare il nostro
popolo dovranno andarsene dall’Istria (punto 6).
Anche da questo Comitato, costituito con funzioni di governo civile, con un
presidente, un vicepresidente, un segretario e sei assessori (istruzione, sanità,
propaganda amministrazione e magistratura, economia, affari religiosi) gli italiani
furono tenuti fuori. Ma su questo particolare presto torneremo.
Nel suo notes, Dusan Diminié annotò in quell’epoca: Sono ancora numerosi
gli ufficiali e soldati italiani che si aggirano per l’Istria e rappresentano un
pericolo di spionaggio. La (nostra) direzione ha perciò deciso che tutti gli ufficiali
e soldati italiani verranno spediti in Italia attraverso il (nostro) Comando di Tappa
di Lupogliano.
Accennò poi al fatto che in alcune località, varie persone non identificate,
spesso anche fascisti, si sono autonominate comandanti di posto, distribuendo
armi a fascisti, sabotando gli ordini (partigiani). A questo stato di cose bisogna
metter subito fine, ma è molto difficile. E più avanti: A Buie, stando alle notizie, il
Comando Città è stato assunto dal comandante dei fascisti e dal suo sostituto,
mentre a Umago dal comunista italiano (Vittorio) Poccecai (...) Pertanto è stato
deciso che il comando di Umago venga affidato ad Ante Babié, più fidato in quanto
croato, mentre non si fece nulla per rimuovere da Buie i comandanti definiti
“fascisti”!
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Davano fastidio anche i comunisti italiani di Rovigno: La questione di Rovi-
gno è ancor sempre all’ordine del giorno. La cosa è particolarmente importante
essendo questa la maggiore città da noi amministrata nella quale vivono gli
Italiani. Nella riunione con i compagni italiani è stato costituito il “Comando
militare di Rovigno”: comandante Giusto Massarotto, operaio, aiutante Anton
Bujovac, operaio, Armando Valente, impiegato e Silvano Rocco, studente. Con ciò
ha cessato di esistere la nostra amministrazione militare provvisoria a Rovigno.
Nella nuova c’era un croato, perciò andava meglio.
Fornendo spiegazioni sulle cose annotate nel diario nel settembre-ottobre
1943, nel suo libro del 1986 Diminié commenta a suo modo la situazione istriana
nel periodo successivo al 1919, affermando che /a resistenza cosciente all’italia-
nizzazione in Istria fu opposta da rari individui, per lo più nelle file dei contadini
ricchi e mediamente benestanti ai quali si aggiungevano singoli operai, artigiani e
intellettuali, maestri elementari ed altri che operarono nei limiti del possibile
contro la snazionalizzazione. La coscienza nazionale croata fu sostenuta pure da
molti preti croati che erano quasi gli unici intellettuali rimasti col loro popolo.
Per quanto riguarda i comunisti, i compagni che trovai a Pisino, gli organiz-
zatori del movimento (partigiano) erano istriani ex emigranti vissuti in Croazia.
Tutto sommato, il Partito comunista croato e il Movimento di liberazione croato in
Istria facevano leva soprattutto sul sentimento nazionale. Nella loro opera furono
facilitati dallo sfacelo totale delle strutture statali e militari italiane nella regione
dopo 1’8 settembre 1943:
I presidi italiani nella maggiorparte delle località istriane si sono sfasciati da
soli, è bastata solo una piccola pressione, anche da parte della popolazione non
organizzata. I soldati italiani in quei presidi sentivano di stare in un paese
straniero, sommersi da una popolazione di lingua straniera che li considera
indesiderabili. Volevano tornare a casa, nelle loro regioni, nel loro Paese. Scom-
parse queste guarnigioni, hanno cessato di operare anche il potere, l’amministra-
zione e la magistratura italiane, perchè corpi estranei (...)
Scontri con i comunisti italiani
Pur adoperando terminologie e stereotipi comunisti, e rilevando che i pochis-
simi comunisti croati in Istria operavano in direzione dell’attuazione della fratel-
lanza con la popolazione italiana in Istria, Diminié esprime a questo punto quello
che fu sempre l’obiettivo del PC croato: l’unione (degli istriani) con il popolo
croato in Croazia e in Jugoslavia.
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Ma qui si scontrava con le posizioni diametralmente opposte dei comunisti
istriani di nazionalità italiana.
Questi “compagni” non erano “pochissimi” come i croati, le organizzazioni
del Partito comunista d’Italia operavano in varie zone, ad esempio a Rovigno,
Pola, Albona. Molti dei loro dirigenti erano finiti in prigione, è vero, e tuttavia a
Rovigno ed Albona quelle organizzazioni erano riuscite a mettere in movimento il
popolo ed organizzare il potere popolare. Ciononostante l’ esponente del PC croato
criticò duramente il fatto che essi fossero sostenuti esclusivamente dalle aspirazio-
ni classiste e non gli erano chiari gli obiettivi del movimento di liberazione
nazionale della Jugoslavia. In realtà gli italiani si rendevano benissimo conto di
quali fossero gli obiettivi dei compagni slavi, e li respingevano, supponendo che si
trattasse di un movimento nazionalista che non aveva molto in comune con il
comunismo. Diminié non risparmiò neppure quei comunisti croati istriani, rimasti
sulla loro terra anche sotto il fascismo, legati alla linea internazionalista dal
movimento operaio, come, ad esempio, i minatori del bacino carbonifero di
Arsia-Albona che operavano nelle file del PC d’Italia.
Diminié prende concretamente di mira, nelle sue memorie, Silvo Milenit-Lo-
vro, castuano, primo delegato in Istria del Comitato centrale del PC croato,
accusandolo di deviazionismo per il suo atteggiamento antinazionalista!
Riprendendo a sfogliare il notes dei tempi di guerra Diminié ricorda che nella
seconda metà di settembre 1943 visitò la zona di Albona, sua terra di origine,
prendendo contatti con gli esponenti del PC italiano della zona Antonio Goglia,
Lelio Zustovich e Nino Bassani-Bassanich di Vines. L’Albonese in quei giorni era
tutto in piedi, dapperttutto uno sventolio di bandiere rosse, e tutti erano allineati
con il Partito comunista italiano, cosa che mandò in bestia il Diminié. Anzi, ad
irritarlo non furono tanto le bandiere rosse quanto il fatto che non sventolavano
bandiere croate e che a guidare il movimento antifascista era Lelio Zustovich,
italiano, capo dei comunisti di Albona e che non vi fosse nella stessa zona
un’organizzazione croata, sicchè i comunisti croati del bacino carbonifero subiva-
no l’influenza proprio del segretario dell’organizzazione comunista di Albona
Lelio Zustovich e del Partito comunista italiano.
Saldati i conti in sospeso. Come?
Richiama il nostro particolare interesse un’annotazione a pag.25 del diario di
Diminié, là dove scrive: Ad Albona abitavano una mia zia, sorella di mia madre,
e suo marito, un commerciante italiano del posto, per cui andai a fargli visita nella
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casa in cui sono nato (...) Ad Albona non potei fare a meno di interessarmi alla
sorte toccata a due fascisti che in tempi passati si distinsero in un’aggressione
fisica contro mio padre. Portavo dentro di me i loro nomi da quando li avevo
sentito nominare in casa mia. Seppi che si trovavano in carcere, perchè anche altre
persone avevano dei grossi conti in sospeso con loro.
E più avanti, nella stessa pagina: la capitolazione italiana e lo sfacelo
dell’esercito e della polizia furono così improvvisi che molti caporioni fascisti,
distintisi nel perseguitare il popolo durante l’intero periodo del governo italiano,
non riuscirono a nascondersi e sfuggire alla rabbia e alla vendetta popolare,
sicchè furono arrestati e quasi tutti trasferiti nel carcere di Pisino. Ovviamente,
erano fascisti italiani, ma con loro c'erano anche croati italianizzati. Per me erano
degli sconosciuti, ma la gente del posto li conosceva molto bene. E furono proprio
gli abitanti del luogo a decidere chi bisognava arrestare. Una parte degli arrestati
vennero fucilati. In alcune località ci furono anche maltrattamenti e inutili vendet-
te compiute da uomini che avevano sofferto le persecuzioni e vessazioni dei
fascisti.
Nel torturare i fascisti si distinse un compagno il cui fratello ed alcuni altri
membri della famiglia erano stati uccisi dai fascisti. Mi raccontano che costui
soleva spesso comparire sulla piazza armato di uno scudiscio per terrorizzare i
signori fascisti italiani. Ormai si era avviato sulla strada della deformazione
psichica, stava per trasformarsi in un sadista, al punto che i suoi stessi compagni
furono costretti a condannarlo a morte, ed avrebbero eseguito la sentenza se non
fosse stato ucciso immediatamente dopo l'offensiva tedesca in Istria. Ebbi l’occa-
sione di incontrare quest'uomo a Pisino e potei rendermi conto ancora una volta,
sul suo esempio, in che misura la guerra e i suoi orrori possono trasformare le
persone, farne dei mostri; stimolare in essi il senso della solidarietà umana, il
coraggio, lo spirito di sacrificio, ma anche tutte quelle passioni negative e bassi
istinti che dormono nell’uomo. Anche in altre zone (dell’Istria) ci furono singoli
individui che ritennero fosse arrivato il momento di saldare i conti con i fascisti.
L’uomo, anzi il “compagno” che “stava per trasformarsi in un sadista” è fuori
ogni dubbio Matteo Stemberga che il quotidiano “Il Piccolo” di Trieste, nella sua
edizione del 6 novembre 1943 definì “uno dei più feroci massacratori”, fornendo
la notizia della sua fortuita uccisione avvenuta durante un’operazione di rastrella-
mento, in località Carbune, condotta da un reparto di Camicie Nere al comando del
tenente Corrado Casella e in seguito a una spiata di tale Francesco Mizzan. Indicato
come uno dei maggiori responsabili delle deportazioni, dell’assassinio dei fratelli
Giovanni e Umberto Gasparini, nonché di minacce di morte alla loro madre, infine
degli infoibamenti di Vines, lo Stemberga fu scoperto nella canna fumaria di una
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casa e ucciso da una raffica sparata dal caposquadra camicia nera Dante Gasparini,
fratello dei due trucidati. Giunse alla scoperta dello Stemberga dopo aver minac-
ciato di fucilare la fidanzata di quel “partigiano”.
Naturalmente anche questi casi di efferate vendette personali vennero già
all’epoca attribuite dai giornali fascisti al bestiale odio balcanico contro tutto ciò
che sa di italiano, senza spiegare come fosse possibile distinguere dai nomi e
cognomi il carnefice slavo dalla vittima italiana, perchè erano italianissimi Arnaldo
Harzarich, maresciallo dei Vigili del Fuoco che comandava la squadra di recupero
delle salme degli infoibati o il confidente fascista Mizzan (italianizzazione di
Mican) e slavo-comunista Matteo Stemberga, che tra gli altri aveva fatto fuori la
propria croatissima cognata.
Quanto successo ad Albona su scala piuttosto estesa si ripetè a Rovigno e
dintorni, a Pisino, nel Parentino e nella Bassa Istria. Ne furono esclusi, invece, oltre
alla città di Pola, le cittadine e borgate di Dignano, Sissano, Gallesano e Valle, tutte
esclusivamente abitate allora da italiani, e parzialmente Buie, Umago, Cittanova e
loro dintorni, Pirano, Isola d'Istria, Capodistria e dintorni.
Nell’area parentina, dove il comando delle forze insurrezionali fu egemoniz-
zato da Bozo Kaléié, croato, membro dell’ Esecutivo regionale del PCC dell'Istria,
costui si vanterà molti anni dopo la fine della guerra di aver fatto arrestare e
liquidare ottantadue fascisti, controbilanciando le prime 83 vittime dell’insurrezio-
ne cadute al bivio di Tizzano. Gli arrestati furono inviati a Pisino e lì finirono nella
foiba. Del gruppo faceva parte il comandante del presidio militare di Parenzo,
colonnello Baraia”'.
Tutti i fascisti ed altri ritenuti tali, arrestati dagli insorti fra il 9 e il 22 settembre
nel Capodistriano (Capodistria, Decani, Maresego), italiani e sloveni, fra cui il
comandante della MVSN, il segretario dei sindacati fascisti, il segretario comunale
ed altri, furono rinchiusi nel carcere di Pinguente. Qui vennero a trovarsi comples-
sivamente un centinaio di persone, contando anche ventinove fascisti dell’area di
Buie, fra i quali il segretario del PNF Stefano Stefani, il podestà, un maestro
elementare, diversi impiegati, molti commercianti e possidenti terrieri, ma anche
semplici lavoratori. Nel Buiese i responsabili degli arresti furono Anton Klun che
nel dopoguerra fu il capo locale dell’ Udba, e Antonio Gorian. Tutti i prigionieri
rinchiusi a Pinguente furono poi liberati. Così come vennero liberati a Canfanaro
una decina di persone del posto (prese il 14 furono rilasciate il 16 settembre) che
erano state arrestate per ordine del locale comitato partigiano formato da Silvio
2! B. KALCIC, Zbornik Pazinski Memorijal, vol.12 (1983), p.211; cfr. L. GIURICIN, “Il settembre °43 in
Istria e a Fiume”, Quaderni, vol. XI (1997), p.107.
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Rossanda, Ernesto Poldrugo (già Poldrugovac) e Pietro Ruggero, quest’ultimo
sergente dell’esercito italiano passato con gli insorti. Tornarono così liberi, fra gli
altri, l’ex segretario del fascio, il podestà, il segretario comunale, l’ufficiale della
Posta e un commerciante”,
Successe pure che venissero arrestati alcuni insorti/partigiani sorpresi ad
arrestare e depredare persone innocenti. Ecco una testimonianza, riferita da Lucia-
no Giuricin, rilasciata da Vinko Justinéié che nel settembre 1943 era il comandante
partigiano della zona di Montona: il 25 settembre venne avvisato da persone della
località di Levade che quattro uomini armati, non del luogo, avevano fatto irruzio-
ne nel negozio del commerciante Gustinelli, arrestandolo con tutta la sua famiglia
e rapinandolo. Giunto sul posto con un gruppo di partigiani armati, Justinéié arrestò
i quattro che, interrogati, si dichiararono: uno, vicecomandante del presidio parti-
giano di Parenzo, un altro partigiano di Visinada, un terzo partigiano di Parenzo,
un quarto autista personale del “comandante partigiano dell’Istria” Ivan Motika, ed
era vero. Tutti e quattro dichiararono di aver avuto l’ordine di ammazzare il
Gustinelli e i suoi familiari, sequestrandone i beni, perchè fascista, possidente e
capitalista. Justinéié liberò il “fascista”, arrestò i quattro che avevano cercato di
ammazzarlo e ritenendoli dei rapinatori li affidò al carcere di Montona. Alcuni
giorni dopo arrivò Bozo Kaltié e fece liberare i quattro “bravi compagni”.
Il fenomeno delle liquidazioni sommarie fu totalmente sconosciuto infine sul
lembo della costa orientale che si specchia nel Golfo di Fiume, da Laurana ad
Abbazia e Volosca dove prima dell’arrivo dei tedeschi il potere fu esercitato da
esponenti partigiani in collaborazione con ufficiali dell’esercito italiano.
In un Promemoria del 4 ottobre 1943 inviato al Ministero degli Esteri del
cosiddetto “Stato Indipendente di Croazia” dal dott. Oskar Turina, nominato dal
“duce” ustascia croato Capo della Direzione Civile di Susak-Fiume subito dopo
l'occupazione tedesca della ex Provincia del Carnaro, si legge una cronologia dei
fatti avvenuti dall’8 al 29 settembre 1943 nella zona di Susak, Fiume, Istria e
Litorale croato. Il Turina, giunto a Fiume il 12 settembre, fu testimone diretto di
molti degli eventi successivi a quella data. Il 13 settembre, scrive, gruppi di giovani
istriani locali di Ica, Abbazia, Laurana, venuti in possesso delle armi italiane, si
sono armati e con coccarde rosse sul petto, hanno cominciato a mantenere l’ordine
in quelle località, allo scopo di impedire atti di saccheggi da parte dei soldati
italiani che, disarmati, transitavano in gran numero per quelle località ritirandosi
22 L. GIURICIN, “Il settembre...”, Op. cit.
23 V. JURINCIG, Zbornik Pazinski Memorijal, op. cit., pp. 251-252. Cfr. L. GIURICIN, “Il settembre...”,
op.cit., p.107.
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(verso l’Italia), ed allo scopo altresì di liberare l’Istria dall’occupazione fascista
italiana. Mi sono messo subito in contatto con alcune eminenti ed anziane persone
di quei paesi, in particolare con l’avvocato Mandic, cercando di convincerli della
necessità di imprimere all’intero movimento di quei giovani l’impronta nazionale
croata. Mi hanno ascoltato ed hanno preso in mano la guida di questi “partigiani”
locali precedendo i veri partigiani. Successivamente il Comando tedesco della
Provincia inviò anche ad Abbazia, Laurana eccetera reparti di camicie nere italia-
ne, e ciò d’intesa col generale Gambara postosi ai loro ordini a Fiume, destando le
proteste dell’alto funzionario del governo ustascia di Zagabria. Il quale, al momen-
to di andarsene da Fiume e Su$ak all’inizio di ottobre, scrisse nel Promemoria: /
fascisti italiani, negli ultimi giorni, hanno cominciato a rispondere alla reazione
popolare incendiando case e uccidendo la gente nei villaggi intorno ad Abbazia e
Castua. Dal che si vede che, comunisti o ustascia che fossero, i croati erano uniti
nello spirito nazionalista, mentre i fascisti italiani tornavano ad applicare i soliti
metodi del terrore.
Le commissioni d’inchiesta
Tornando alla testimonianza di Diminié, leggiamo (pag.26) che in varie
località dell’Istria furono costituite commissioni d’inchiesta incaricate di indagare
sull’operato dei fascisti arrestati. Queste commissioni proponevano la condanna a
morte mediante fucilazione per i crimini più gravi, ma quante furono le sentenze
capitali eseguite fino all’offensiva tedesca in Istria, è difficile dirlo. Perchè imme-
diatamente prima dell’arrivo dei tedeschi, le sentenze furono eseguite con proce-
dimenti sommari. Non esistono verbali delle fucilazioni. Diminié spiega il perchè:
Si poneva il quesito: che cosa succederà se molti fascisti, liberati dal carcere
(partigiano) passeranno al servizio dei tedeschi? Sarebbe tornata l’epoca del
terrore squadristico, sarebbero cadute le teste di molte persone. In una riunione
dei dirigenti (del Movimento di liberazione) svoltasi ad Albona alla vigilia dell’ar-
rivo dei tedeschi, ci sforzammo di giungere a una decisione su questo problema. Il
Comandante della città, Aldo Negri, era titubante; propose che i fascisti fossero
liberati, ritenendo che essi si sarebbero passivizzati. Invece prevalse l’opinione
opposta: fucilare i caporioni fascisti maggiormente distintisi nelle persecuzioni,
altrimenti essi sarebbero passati al servizio dei tedeschi, vendicandosi e provocan-
do altre, numerose vittime. La medesima decisione fu presa anche a Pisino alla
vigilia dell’arrivo dei tedeschi (inizio di ottobre, G.S.). In qualche (altro) luogo i
fascisti furono rimessi in libertà e proprio in quelle zone, dopo l’offensiva tedesca,
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 255
fu più difficile che altrove operare. Perchè i fascisti al servizio dei tedeschi si
abbandonarono alle vendette, terrorizzarono la popolazione, uccisero i nostri
uomini, guidarono i reparti germanici fin nei villaggi più lontani, incendiando le
case e sterminando la popolazione.
Ma erano proprio tutti fascisti gli uomini processati sommariamente e fucilati,
o in altri modi liquidati dai partigiani in Istria in quella seconda metà di settembre
1943? E furono liquidati soltanto coloro i quali erano stati processati e condannati
dalle commissioni? Diminié fornisce una risposta generica, ma non evasiva:
Naturalmente noi stessi avevamo subito e visto troppe cose brutte per essere
immuni al sentimento di rivalsa. Del resto non è facile tracciare una chiara linea
di demarcazione fra ciò che in guerra è indispensabile e ciò che va al di là di queste
necessità. Precisando che in quei giorni da Su$ak presso Fiume e dal territorio del
Litorale croato caduto in mano ai partigiani erano fuggiti parecchi collaborazionisti
croati che, essendosi compromessi precedentemente al servizio delle forze di
occupazione, pensavano di potersi nascondere in Istria, sfuggendo alla meritata
punizione. Purtroppo per loro, in questa regione (Istria) venivano ogni tanto a
trovarsi faccia a faccia con partigiani originari proprio dal Litorale e, in tal modo,
finirono nelle nostre prigioni. Da esse uscirono per finire nelle foibe. Uno di
costoro, tale Kalanj, fu riconosciuto dallo stesso Diminié mentre, insieme ad alcuni
ex agenti della polizia ustascia di Su$ak, veniva condotto dai partigiani verso il
luogo della fucilazione. Era divenuto malfamato per le torture che infliggeva ai
comunisti nelle celle della Questura di SuSak. C° erano però anche persone fuggite
in Istria senza aver fatto nulla di male, per la sola paura dei partigiani. Non avevano
pensato di trovarli anche in Istria. Queste persone furono prese nelle nostre file e
assegnate a vari servizi. Quasi tutti restarono con noi anche in seguito.
Diminié si rallegra pure del fatto che a un ingegnere croato arrivato da Susak
fosse stata affidata l’intera organizzazione del cosiddetto Autoparco del Comando
operativo. Tramite lui, Diminié riuscì ad aggiungere un po’ di “colore” nazionale
al movimento: A Pisino arrivavano i camion, tutti senza eccezione, addobbati con
bandiere rosse che gli autisti custodivano gelosamente. In armonia con le finalità
del movimento nazionale di liberazione, ordinammo che ogni camion inalberasse
anche la bandiera croata con la stella rossa. Di bandiere italiane, sia pure con la
stella rossa, nemmeno l’ombra, a Diminié e compagni croati non erano gradite.
Anzi, si fece di tutto per epurare dal movimento quegli antifascisti e comunisti
italiani le cui posizioni non concordavano con quelle annessionistiche dei croati.
Emblematica è la sorte toccata a uno dei più noti e amati comunisti istriani, il
leggendario Lelio Zustovich. Lasciamola raccontare allo stesso Diminié, secondo
il quale l'italiano Lelio Zustovich, segretario dell’organizzazione comunista
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nell’Albonese, oppose resistenza fin dall’inizio al MPL promosso dal PCC, fino al
punto di opporsi alla diffusione di volantini in lingua croata e ad altre manifesta-
zioni di carattere croato (...). In tale situazione Lelio Zustovich non potè non
scontrarsi con la politica del MPL, e per questa sua opposizione fu deciso di
deportarlo, insieme con altri due compagni che lo sostenevano, nel Gorski Kotar
dove fu condannato a una specie di domicilio coatto. Questa fu la decisione del
Comitato circondariale. Di quale specie di “domicilio coatto” si trattasse, lo si può
immaginare dalla successiva annotazione del Diminié: Immediatamente dopo la
liberazione, Lelio Zustovich non fece ritorno ad Albona, per cui sua sorella mi
pregò di indagare per sapere che fine avesse fatto. lo cercai di sapere, ma
nonostante le ricerche non riuscii ad appurare nulla sulla sua sorte. Alla sorella
poi dissero che era rimasto ucciso “durante un’offensiva tedesca”.
Il tema dei difficili rapporti fra comunisti istriani aderenti al PCI, e cioè
italiani, e quelli aderenti al PC croato ricorre praticamente in tutte le circa duecento
pagine del libro di Dimini6. Quando io giunsi in Istria, i dibattiti con i comunisti
italiani erano già in corso ... Con i comunisti italiani membri del PCI non era facile
né semplice discutere. Essi accettavano la piattaforma antifascista del nostro
movimento, ma (...) il nostro obiettivo in Istria era l’annessione dell’Istria alla
Croazia e alla Jugoslavia, cioè il distacco dall’Italia, e su questo punto non
accettavamo compromessi. I comunisti italiani, invece, nella loro maggioranza
proponevano che non si discutesse e non si ponesse per ora il problema dell’an-
nessione dell’Istria alla Jugoslavia, rinviando il problema alla fine della guerra
nell’interesse dell’espansione del fronte antifascista fra la popolazione italiana,
fino alla sconfitta del fascismo. Dicevano che la popolazione italiana non si
sarebbe inserita in un movimento che si proponeva il distacco dall’Istria dall’Ita-
lia e la sua annessione alla Jugoslavia (...) Purtroppo, quasi tutti i comunisti
italiani più in vista, in Istria, finiranno per pagare con la vita la loro posizione
politica. Immancabilmente saranno vittime di scontri con i tedeschi, cadranno in
agguati tedeschi, e la stessa sorte toccherà a qualche alto esponente croato colpe-
vole di avere preso le difese degli italiani.
Del Comando operativo delle forze partigiane istriane, costituitosi a Pisino il
23 settembre, entrò a far parte, qualche giorno dopo, anche Dusan Diminié che,
insieme a Ivan Motika, nella sua nuova veste fece alcune puntate a Rovigno,
Gimino, Parenzo ed Antignana. Fra l’altro si interessarono al lavoro dei cosiddetti
tribunali del popolo ed alla sorte dei fascisti catturati. Veniamo così a sapere che a
Parenzo il tribunale era composto dall'avvocato dott. Pietro Burich, da Mate Vlasié
e Matteo Bernobich; a Gimino da Matteo Peteh e da un non meglio identificato
Jurié; a Carnizza da Slavko Bursié, Drago Bursié e Vjeko-Gigi Skabié. Diminié
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fornisce pure i nominativi dei comandanti militari partigiani di Rovigno (Giusto
Massarotto), Buie (Sergio Vascotto), Umago (Vittorio Poccecai), Parenzo, Anti-
gnana, Gimino, Canfanaro, San Pietro in Selve, Barbana, Carnizza, Valle, Sanvin-
centi, Pinguente, Montona e Pedena, tutti croati ad eccezione dei primi tre, ma non
quelli dei componenti dei tribunali in queste medesime località. Il che può signifi-
care che i Comandi militari partigiani svolsero anche le funzioni di tribunali. Tra i
nomi dei comandanti troviamo quello di Ivan Kolié di Barbana, da chi scrive
conosciuto a Pola nel dopoguerra. Era chiamato ‘el gobeto” per la sua accentuata
gobba su un corpo piccolo e deforme. Era noto anche per aver infoibato almeno
una decina di suoi compagni e connazionali.
In quei giorni, stando a notizie riferite da Franc RoZman-Stane, comandante
del Q.G. dell’EPL della Slovenia giunto a Pisino per stabilire con i croati il futuro
confine istriano fra Croazia e Slovenia, c'erano stati piccoli scontri con i tedeschi
che a più riprese, in piccole forze, avevano tentato di penetrare da Trieste in Istria.
Soldati germanici della forza di una compagnia, quasi tutti giovanissimi caporali,
sbarcati nel porto di Umago, furono catturati dai partigiani locali e portati nel
carcere di Pisino (Castello di Montecuccoli). A Pisino comparve in quei giorni
anche un piccolo gruppo di soldati e marinai russi fuggiti dalla prigione tedesca.
Un giovane capitano sovietico prese subito quegli uomini sotto il proprio comando
e quello fu probabilmente il reparto più disciplinato che avevamo nelle nostre file,
annota Diminié, senza però dirci da dove erano capitati quei russi e che fine poi
fecero. Probabilmente erano fuggiti da Trieste e, da Pisino, furono mandati succes-
sivamente in Croazia.
Sempre in quei giorni arrivarono dalla Croazia, e precisamente dalla Lika, una
trentina di partigiani della prima ora che furono subito nominati comandanti di
compagnie, di battaglioni e di brigate assumendo la guida dei reparti istriani.
Ignoravano che presto sulla penisola si sarebbe abbattuta la bufera tedesca che
avrebbe spazzato in pochi giorni quelle unità prive di esperienza militare. A Pisino,
la “capitale partigiana” dell’ Istria, i dirigenti croati erano indaffarati nella politica.
Il 25 e 26 settembre si riunì in assemblea il Comitato Popolare di Liberazione
regionale composto da circa cento delegati, secondo alcune fonti, da appena una
ventina secondo altre, eleggendo a presidente il croato Joakim Rakovac (già
Gioacchino Racozzi). L’assemblea deliberò l’abolizione di tutte le leggi fasciste
italiane, il ripristino dei cognomi croati italianizzati dal regime fascista, l’abolizio-
ne della toponomastica “italianizzata” la riapertura delle scuole croate ed altro.
Furono garantiti i diritti degli italiani in Istria e scelti otto deputati al parlamento
croato (Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Croazia) fra i quali un
italiano, Pino Budicin.
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Il 26 settembre, sempre a Pisino, fu costituito un comitato promotore guidato
dai polesi Alfredo Stiglich e prof. De Simone, per la creazione dell’ “Unione degli
Italiani”.
Italiani emarginati
In una rievocazione pubblicata su La Voce del Popolo del 26 settembre 1994
sotto il titolo “I precursori dell’UIIF emarginati nel ’43 Pisino”, il pubblicista
Bruno Flego scrisse in proposito:
Nel settembre del 1943 a Pisino venne fondata la prima istitutizione antifasci-
sta italiana, in sostanza l’embrione di quella che più tardi sarebbe diventata
l'Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume. Si trattava di un’organizzazione alla
cui testa vennero posti gli antifascisti di nazionalità italiana Pino Budicin, Alfredo
Stiglich, Giacomo Urbinz, Nicola De Simone, Aldo Rismondo, Aldo Negri, Mario
Cherin e Giusto Massarotto.
Di essi, però, soltanto Stiglich fu presente a Pisino, dove arrivò verso il 24 o
25 settembre, rimanendovi fino al 4 ottobre quando fu gravemente ferito durante il
bombardamento aereo tedesco sulla città. Tutti i succitati antifascisti italiani erano
stati in precedenza emarginati, volutamente tenuti in disparte e all’oscuro delle
decisioni prese dagli esponenti croati dell’insurrezione. Infatti, alla riunione del
Comitato Popolare di Liberazione dell’Istria svoltasi a Pisino il 13 settembre in
quella che era stata la sede del Comando dei Carabinieri, furono assenti, perchè
non invitati, i membri più qualificati del Comitato federale del P.C.I. dell’Istria —
citiamo ancora il Flego — e precisamente: Alfredo Stiglich, Bruno Cossi-Kos,
Giulio Revelante e Nicola De Simone, i quali erano rientrati a Pola nella terza
decade del mese di agosto uscendo dalle patrie galere dove scontavano insieme il
confino e le condanne del Tribunale Speciale fascista, 63 anni di carcere in tutto.
Uno dei massimi esponenti dell’antifascismo di Pola, Giacomo Urbinz, ha lasciato
scritto nelle sue “memorie” — pure citate dal Flego — che 1° 11 settembre 1943 ebbe
un colloquio in via Giovia con i compagni di Rovigno Pino Budicin e Aldo
Rismondo venuti a Pola per informarsi sugli ultimi avvenimenti e consultarsi con
lui. Questo significa che a Rovigno e a Pola erano all’oscuro di ciò che stava
avvenendo a Pisino. Come se non bastasse, i massimi esponenti dell’antifascismo
italiano in Istria furono assenti anche ai lavori della Dieta Istriana del 25 settem-
bre, durante i quali si concesse l’autonomia culturale agli italiani in Istria,
autonomia poi contestata. Flego continua:
Praticamente l’ostracismo nei confronti dell’antifascismo italiano era deter-
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minato da una ragione politica. Si sapeva che nell’aprile del 1934 i partiti
comunisti d’Italia, Austria e di Jugoslavia avevano affermato che l’esercizio
democratico del diritto di autodecisione doveva valere, senza riserva, non solo per
gli sloveni e croati, ma anche per gli italiani. (...) Pertanto a Pisino la direzione
del PCC e il Comitato di liberazione nazionale violarono gli accordi e quindi la
decisione democratica basata sul principio dell’Autodeterminazione senza riserve
nei confronti degli italiani.
Per inciso, e sempre su questo argomento, va ricordato che il 1 giugno 1943
era stato diffuso nella regione un appello “Agli Italiani dell’Istria!” del seguente
tenore:
Italiani dell’Istria!
Unitevi decisi ascoltando l’appello del vostro Partito Comunista e degli altri
partiti antifascisti che a lui uniti combattoro il fascismo, e così uniti e decisi,
unitevi agli antifascisti slavi dell’Istria. Essi vi accoglieranno fraternamente e voi
assieme a loro potrete conseguire al più presto i nostri comuni ideali: la Pace, la
Giustizia e la Libertà per tutti.
Istriani!
Uniamoci tutti! Uniti decideremo della nostra amata Istria. Formiamo gruppi
partigiani che decisi e risoluti con le arma apporteranno all’abbattimento del
fascismo.
W la fratellanza dei po poli nella lotta contro il fascismo!
W l’unità di tutti gli istriani nella lotta per la libertà!
W i combattenti antifascisti istriani!
Morte al fascismo — libertà ai popoli!
I. giugno 1943. Fronte di Liberazione Nazionale per l’Istria.
Questo volantino fu stilato dal Partito comunista croato (jugoslavo) il quale
veicolava regolarmente i suoi appelli attraverso il Fronte di Liberazione. Meno di
quattro mesi dopo, i destinatari di quell’ appello furono considerati da quello stesso
partito una trascurabile minoranza e semplicemente discriminati. Con la creazione
dell’ Ufficio italiano (in seguito Unione degli Italiani) venne dato sì un contentino
agli antifascisti italiani, ma al tempo stesso essi vennero tenuti lontano dalle leve
decisionali e la loro organizzazione, asservita al Partito comunista croato, divenne
uno strumento per l’attuazione più o meno passiva delle decisioni del PCC e per il
raggiungimento degli obiettivi politici del PCC ovvero del PCI.
La “sorte” volle che quasi tutti i fondatori e primi dirigenti dell’Unione degli
Italiani non videro la fine della seconda guerra mondiale: Alfredo Stiglich, “una
delle più fulgide figure dell’antifascismo istriano ed eminente combattente per la
libertà e la giustizia sociale” come lo definisce Bruno Flego, finirà i suoi giorni il
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13 dicembre 1944 nel lager di Hartheim in Germania. Gravemente ferito durante
il bombardamento aereo tedesco su Pisino il 4 ottobre 1943, venne trasportato nel
villaggio di Moncalvo e ricoverato in un’infermieria di fortuna, passando in seguito
all'Ospedale di Pola dove fu arrestato alla fine di maggio 1944 dagli agenti di
Pubblica Sicurezza italiana al servizio dei tedesschi ed a questi consegnato. Giulio
Revelante, polese come Stiglich, fu visto l’ultima volta a Valle da suo cugino
Arrigo Sticovich-Sticco mentre, su un camion pieno di partigiani, era diretto a
Canfanaro. Scontratosi con una grossa formazione tedesca — era l’ottobre 1943 —
perse la vita nell’impari combattimento insieme agli altri partigiani. Nello stesso
mese, mentre si ritirava verso il Monte Maggiore, cadde sulle sue pendici il
comandante Mario Cherin. Nei corso del 1944 persero la vita in scontri con i
tedeschi o in agguati — in seguito a spiate di fascisti italiani — Aldo Negri, Pino
Budicin (in febbraio) e, nel settembre, Aldo Rismondo. Nel frattempo, il 13
gennaio, sempre nel 1944, era stato arrestato a Pola dai fascisti repubblichini al
servizio dei nazisti, il de Simone. Condotto dapprima al Coroneo insieme ad altri
285 istriani, fu consegnato ai tedeschi e deportato in Germania. Ebbe la fortuna di
tornare a Pola nel 1945, divenne direttore de “Il nostro giornale”, organo filojugo-
slavo all’epoca dell’amministrazione angloamericana della città, fu relatore alla I
Conferenza dell’ Unione degli Italiani del 3 giugno 1945, ma poi, insieme alla quasi
totalità della popolazione del capoluogo istriano, partì per l'esilio nel 1947.
Le annotazioni sull’emarginazione degli italiani antifascisti e comunisti non
sono state inserite casualmente in questo discorso. Esse servono a definere meglio
la complessa situazione, l'atmosfera e gli eventi istriani di quel periodo burrascoso.
A proposito dell’assemblea di Pisino, lo stesso Dimini6, peraltro poco incline
agli italiani, annotò nel suo diario alcune osservazioni critiche: nella composizione
del CPL regionale, i comunisti erano in minoranza; furono praticamente assenti gli
italiani; furono privilegiati i nazionalisti, eminenti combattenti per i diritti della
popolazione croata. Il nome dell’unico italiano entrato a far parte del Comitato (e
del parlamento croato), Giuseppe Budicin-Pino fu inserito a conclusione dei lavori
dell’assemblea e senza il benestare dell’interessato. Del Comitato entrarono a far
parte Joakim Rakovac all’italiana Gioacchino Racozzi (presidente), proprietario
terriero di Monpaderno, Vjekoslav Gigi Stranié, commerciante di Bogliuno, ed
Ante Cerovac di Pinguente, membri della presidenza. Membri del Comitato: dott.
Pietro Burich, avvocato di Parenzo; Josip Stifanié (don Giuseppe Stifanich),
parroco di Sovignacco; Ivo Cervar, operaio di Antignana; Maria Kopitar, maestra
di scuola elementare di San Pietro in Selve; Josip Cetina (Giuseppe Cettina),
operaio di Castua; Drago-Carlo Ivancich, contadino di Bergudi, Giuseppe-Pino
Budicin, operaio di Rovigno; Josip-Giuseppe Daus, meccanico di Buratto, Ante
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Masa, contadino dei dintorni di Pola; Michele Milanovich, falegname di Galligna-
na, partigiano. I suddetti nominativi si leggono in calce al Proclama. Nel documen-
to vengono inoltre indicati, come partecipanti all'assemblea: Ivan BreteviC, conta-
dino di Antignana; Zvonko Brumnié-Brumini, parroco di Antignana; Ivan Barba-
lié, segretario del Comitato circondariale del CPL per il Litorale; Nicola Cernecca,
contadino di Marcenigla; Dusan Diminié, candidato d’avvocatura da Albona e
membro del Comando operativo dell’Istria; Francesco Dodcich, contadino di
Pisino; Ljubo Drndié, ingegnere; Giovanni Jelovaz, contadino di Corridico; Ivan
Kolié, contadino di Barbana; Ivan Motika, giudice da Gimino, membro del Coman-
do operativo dell’Istria; Silvio Lovro Mileni6, falegname da Castua; don Giuseppe
Pavlisich, parroco di Gollogoriza; Giuseppe Pajca, contadino di Antignana; Josip
Pausié; Nada Raner, impiegata di Pisino e suo fratello Ciro Raner comandante del
presidio partigiano di Pisino. Commentando questo elenco di nomi, lo stesso Dusan
Diminié nota che essi erano quasi esclusivamente rappresentanti della zona di
Pisino, mentre furono scarsamente o per nulla rappresentate l’Istria orientale,
l’Albonese, il Polese e l’Istria nord-occidentale, vale a dire le regioni più fittamen-
te popolate da italiani. Fu notata anche l’assenza dei rappresentanti italiani. Non
ricordo che Giuseppe Budicin-Pino sia stato presente all’assise, né mi è noto che
abbia firmato l’Appello al popolo istriano lanciato dall’assise. Ricordo soltanto
che attendemmo a lungo l’arrivo dei delegati degli italiani di Rovigno e di Pola.
Le ragioni della loro assenza stanno nella scarsa fiducia nutrita all’epoca dai
comunisti e antifascisti italiani nei nostri confronti, e nella loro incerta posizione
sul nostro obiettivo: l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Diminié, comunque,
non manifesta eccessivo rammarico, anzi sottolinea come una grossa vittoria
ottenuta dal popolo croato dell’Istria in quella assemblea il fatto che essa deliberò
l’espulsione dalla penisola di quegli italiani che si erano stabiliti in Istria dopo il
1918, di coloro che avevano operato per la snazionalizzazione e lo sfruttamento
del nostro popolo. Tutti costoro dovevano essere rispediti in Italia. Purtroppo,
questa delibera non è stata poi adeguatamente applicata. Gli italiani animati da
ostilità (verso i croati) e soprattutto coloro che fecero del male alla nostra gente
con le loro azioni se ne sono andati in Italia di propria volontà. Ed è noto che nel
dopoguerra la gran parte degli Italiani ha optato per l’Italia trasferendosi in quel
paese. Purtroppo, anche molti croati, insieme ad essi, hanno optato per l’Italia
abbandonando l’ Istria. Ecco come la pensava durante la guerra e molti anni ancora
dopo la guerra un comunista croato di alto rango!
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Alcuni eccidi
Tornando ancora per un attimo all’assemblea di Pisino del 25/26 settembre, ci
sembra doveroso ricordare che ad essa, quale rappresentante del Consiglio antifa-
scista di liberazione nazionale della Croazia (ZAVNOH), ossia del Governo
centrale partigiano, presenziò e ne suggerì le conclusioni l’avvocato Jakov
Blazevié, un personaggio che nel dopoguerra, in Croazia, sarà più volte ministro e
premier, dopo essere stato dal 1945 al 1948 a capo della Pubblica Accusa della
Republica Popolare in tutti i processi politici celebratisi in quegli anni. La sua
presenza a Pisino ebbe effetti funesti, egli incoraggiò quelli che Privileggio defini-
va “elementi estremisti” (responsabili e irresponsabili), consigliando per la peni-
sola una linea di antifascismo nazionalistico, che non era sua soltanto, ma anche di
altri esponenti del PCC venuti da fuori.
Annotiamo pure che le prime condanne a morte in Istria non furono emesse
dal Tribunale militare istituito a Pisino alla vigilia dell’ assemblea, ma da improv-
visati capi locali fra cui Giorgio Sestan (dirigente della Gioventù antifascista, figlio
di un esponente del Fascio pisinese), Ciro e Maria Raner ed altri, italiani e croati.
Quelle condanne, inoltre, furono emesse in seguito a circostanze per lo meno
insolite. Infatti, i primi “infoibati” facevano parte di un gruppo di undici pisinotti,
frai quali i fascisti Lino Gherbetti, Dario Leona, Riccardo Zappetti e Marco Neffat,
arrestati non dagli insorti ma dalle autorità militari italiane di Pisino, all’epoca
presidiata da oltre un migliaio di soldati del 52° Reggimento di Fanteria agli ordini
prima del Ten. Colonnello Monteverde e, dal 9 settembre, quando Monteverde
passò con i partigiani, dall’ufficiale pari grado Angelo Scrufari. I fascisti furono
messi agli arresti nella sede del Comando di presidio per aver chiesto armi e
sostegno militare contro i “ribelli slavocomunisti” e il proseguimento dell’alleanza
con i tedeschi. Due giorni dopo, l’ 11 settembre, quei fascisti furono consegnati alle
autorità partigiane alle quali quel giorno furono ceduti anche il controllo sulla
cittadina e il magazzino delle armi. Pochi giorni dopo i prigionieri furono giusti-
ziati e le loro salme vennero successivamente ritrovate nella cava di bauxite a
ovest di Gallignana, a poca distanza da Pisino (Rumici). Le prime condanne
“ufficialmente” decretate dal Tribunale militare partigiano, presieduto da Motika,
precedettero di una settimana l’ “assemblea del popolo istriano” e furono eseguite
mediante fucilazione il 19 settembre in altre due cave di bauxite nel pressi di
Lindaro, sempre nella zona di Pisino. Poichè in quella occasione uno dei condan-
nati riuscì a scappare dal luogo dell’esecuzione, salvandosi, fu deciso che in futuro
le fucilazioni sarebbero avvenute presso le cavità carsiche (foibe). E così, per dirla
con il già citato Gombac, fu portata avanti l’esecuzione di circa 450 persone (tra
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loro alcune donne, però non minorenni) fino all’inizio di ottobre, quando iniziò
l’offensiva dei tedeschi. Questi ultimi riuscirono tra l’altro a catturare uno dei
‘giudici’ di Pisino e lo passarono per le armi insieme alla figlia. Aggiungiamo che,
oltre alle fucilazioni ed esecuzioni di altro genere, ci furono per lo meno due
linciaggi dei fascisti: uno a Marzana e l’altro a Gimino stando allo storico
anticomunista Marco Pirina (‘“Genocidio...”, Pordenone, Adria Storia 4, 1995).
La discesa del grosso delle truppe tedesche in Istria sul finire di settembre e
nei primi giorni di ottobre e il prevalere nei vertici croati dell’insurrezione istriana
della “linea Blazevié”, tutt'altro che “popolare”, impresse un’accelerazione alla
macchina della “giustizia rivoluzionaria”. Scrive il Gombac: Ad un certo momento
si pose la questione di cosa fare con tanti prigionieri fascisti e ‘fascisti’ (...). Tra i
‘giudici’ prevalsero coloro che erano per l’eliminazione dei fascisti’. L’unico
diritto che rimase all’accusato era di confermare la propria identità. In moltissimi
casi non si arrivò nemmeno a questo ed i ’fascisti’ furono portati direttamente sui
luoghi dell’esecuzione. L’anziano sacerdote Ivan Grah a sua volta commenta in
“Istarska Danica”, (1999): Personalmente non potevo credere che l’uomo istriano,
tanto partigiano che partigiana, potesse cadere così in basso, perdere la dignità
umana e sfogarsi nelle torture e nel massacro di gente innmocente, donne e
bambini, di notte portarli verso destinazioni ignote, giudicarli ’in nome del popo-
lo’ e precipitarli nelle foibe. Tuttavia questo avvenne in tutta l’Istria e così fu
scritta una delle pagine più buie della sua storia. Commentando questo brano, nel
quale notiamo una pesante inesattezza (le donne infoibate in Istria furono pochis-
sime, e non ci fu alcun bambino), il Gombac scrive che, tranne qualche rarissima
eccezione, gli istriani non caddero ma “furono spinti” così in basso dapprima dai
fascisti e in seguito dai comunisti. L’istriano era il mero esecutore — e anche quello
non sempre — degli ordini che venivano da lontano. Dietro questi ’processi ai
fascisti” c'erano anche elementi di lotta di classe in un’Istria che fu, in parte,
sommersa nei conflitti tra i coloni (molto spesso croati) e i proprietari terrieri
(spesso italiani o italianizzati) come è il caso di Pisino. Viene qui accolta in parte
la tesi dello storico triestino Galliano Fogar che nella sua opera Sotto l’occupazione
nazista nelle provincie orientali (Udine, 1961) ha scritto: Gli eccidi hanno il
carattere di una rappresaglia brutale, aizzata da alcuni croati autoctoni che
vogliono indirizzare l’insurrezione partigiana sul binario di una rivincita nazio-
nale e sociale contro l’Italia e la sua odiata classe dirigente “borghese”, terriera,
burocratica, alimentando nei contadini slavi la speranza di un totale e rapido
capovolgimento di posizioni da cui il dominatore tradizionale deve uscire battuto
per sempre. E’ la lotta di classe identificata con quella nazionale per cui naziona-
lismo e socialismo diventano sinonimi nella guerra al nemico italiano.
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Non sempre però la distruzione del nemico fascista o supposto tale fu motivata
dalla lotta di classe e, ancor meno, dall’odio contro il ventennale regime italiano e
gli italiani in genere. Lo dimostrano alcuni sanguinosi episodi che ebbero per teatro
l’isola di Lussino, all’epoca parte integrante dell’Istria ovvero della Provincia di
Pola e popolata in maggioranza da italiani. Nelle notte tra il 21 e il 22 settembre le
forze partigiane sbarcarono sull’isola che, dopo aspri combattimenti con reparti di
cetnici (monarchici collaborazionisti serbi) rifugiatisi a Lussino dopo la capitola-
zione dell’Italia, fu completamente liberata il 23 settembre. Nel corso dei combat-
timenti numerosi cetnici rimasero uccisi. I superstiti, una sessantina, si asserraglia-
rono su un sottile promontorio dove furono facilmente decimati dalle raffiche delle
mitragliatrici partigiane. Altri cento-centocinquanta uomini scampati al massacro
furono caricati su trabaccoli, portati in mare aperto e... non tornarono più indietro. A
liquidarli non furono gli istriani né gli isolani, ma combattenti di Titto venuti dal
Litorale croato. Tra i cetnici massacrati, per lo più serbi, c'erano anche croati cattolici
arrivati insieme ad essi dall’isola di Veglia, avendo aderito ai reparti monarchichi
anticomunisti jugoslavi. Due mesi dopo questi fatti, quando l’isola di Lussino sarà
occupata dai tedeschi (23 novembre), i nazisti si portarono dietro alcuni reparti di
cetnici, i quali si vendicarono dei partigiani e dei loro simpatizzanti con gli stessi
sistemi, e il mare di Lussino si chiuse su altre decine di vittime, come ha scritto
Molinari. Oggi la contabilità degli ‘storici’ neofascisti mette nel novero degli italiani
dell’Istria infoibati anche i cetnici serbi e croati massacrati a Lussino.
L'offensiva tedesca di ottobre
All’epoca in cui furono prese, poche delle decisioni del CPL istriano poterono
essere attuate. Furono molto limitate anche le operazioni militari dei neocostituiti
reparti partigiani che alla data del 25 settembre contavano duemila combattenti,
una piccola parte delle forze insurrezionali. Almeno ottomila uomini erano tornati
alle loro case, riprendendo le quotidiane attività nei campi e nelle officine. La
Prima brigata operò nella Bassa Istria, in direzione di Pola; la sede del Comando
era a Gimino. Il settore operativo della Seconda, la “Gortan”, fu quello di Buie e
Pinguente con puntate verso Capodistria. Il Distaccamento “Utka” si spostava tra
il Carso della Ciciaria, il Monte Maggiore e il Planik. La Prima brigata sostenne
duri scontri presso Dignano, respingendo frequenti irruzioni dei tedeschi da Pola;
la Seconda entrò a Umago, a Isola ed a Capodistria, dove liberò dal carcere circa
200 detenuti politici. Poi fu la tempesta: l’Istria venne invasa dalle truppe germa-
niche, ebbe inizio la cosiddetta Offensiva Rommel. Le forze del Reich mossero
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 265
contemporaneamente da Trieste, da Fiume e da Pola, dilagando nelle penisola ed
occupandola interamente nel giro di sette giorni. Scomparvero i tribunali del popolo,
cessarono arresti e infoibamenti di fascisti e “fascisti”, ma il sangue scorse a fiumi. Le
sparse forze partigiane furono sbaragliate, la regione fu messa a ferro e fuoco.
L’offensiva germanica ebbe inizio il 2 ottobre, vi fu impegnata una divisione
rafforzata. Il 4 ottobre fu conquistata Pisino, la “capitale partigiana”. Nei capitoli
precedenti, attraverso le relazioni degli inviati dell’ Esercito di liberazione croato e
dell’informatore dello “Stato Indipendente Croato” ustascia, abbiamo già dato
un’informazione su quell’offensiva. Qui aggiungeremo soltanto quelle notizie
attinte dal diario di Diminié, che abbiano attinenza con l’argomento foibe e
dintorni. Ha scritto Diminié: La bonaccia non durò a lungo. Nel momento in cui
Motika, Skocilié ed io stavamo interrogando i soldati tedeschi catturati, arrivaro-
no alcuni aerei che cominciarono a bombardare Pisino. Alcune bombe esplosero
nelle immediate vicinanze del carcere, tutti i vetri nei corridoi andarono in
frantumi, la porta della cella fu scardinata (...) Quando gli aerei finirono di
sbarazzarsi del carico, si allontanarono, lasciandosi alle spalle una Pisino semi-
distrutta. | soldati tedeschi approfittarono della confusione per fuggire, noi tre da
soli non saremmo stati in grado di fermarli. Non vollero però rischiare troppo,
rimasero nel carcere. Ignoro quante vittime fece il bombardamento (...) Quello
stesso giorno fu bombardato Gimino molto pesantemente e con gravi conseguenze
per la popolazione e i nostri reparti che vi erano concentrati.
Dopo il bombardamento, il Comando partigiano si spostò a Novacco di Pisino
da dove assistette a un secondo bombardamento sul capoluogo, poi da Trieste
mossero i reparti corazzati e di fanteria tedeschi. Pur prevedibile, nessuno nei
comandi partigiani aveva mosso un dito per far fronte all'operazione nemica. Fu
un fuggi-fuggi generale. I combattenti istriani erano inesperti, molte compagnie e
battaglioni erano stati improvvisati, le strutture di comando erano tali solo sulla
carta. L’evacuazione delle armi, del materiale e dei viveri dai magazzini cominciò
nella massima confusione, i vari organismi del potere popolare non si dimostrarono
all’altezza del grave movimento. L’euforia dei quindici-venti giorni “rossi” (per
Rovigno, caduta in mano tedesca il 9 ottobre, durò un mese) fu pagata a caro
prezzo. In quel caos i responsabili delle carceri di Pisino, Pinguente e Albona, dove
si trovavano in attesa di processo circa 300 persone, fascisti e “fascisti”, i carcerieri
agirono secondo l’ispirazione del momento: a Pisino parecchi furono lasciati liberi,
a Pinguente tutti. Gli altri furono trascinati ai margini delle foibe sparse nei luoghi
più prossimi e lì fucilati. I corpi furono precipitati nelle voragini carsiche. Questi
infoibati dei primissimi giorni di ottobre si aggiunsero a un centinaio già fucilati
“normalmente” nei giorni precedenti.
266 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
Quando i partigiani torneranno in Istria, dal febbraio 1944 in poi, non si
ripeterà più alcun caso di infoibamento, né ci saranno nelle giornate della cacciata
definitiva dei tedeschi e delle camicie nere repubblichine dalla penisola, sul finire
di aprile - primi di maggio 1945. In quell’epoca saranno invece gli sloveni a
sfrenarsi, a Trieste, Gorizia e dintorni: nei quarantacinque giorni dell’occupazione
di quei territori da parte delle truppe di Tito.
Nella loro avanzata da Trieste verso Pisino i tedeschi non incontrarono
ostacoli. La sera del 3 ottobre dal villaggio di Novacco di Pisino, dove si era
rifugiato con gli altri dirigenti, Diminié tornò a Pisino. La città era deserta. Nel
Castello trovai soltanto il vecchio Grabar che, in qualità di membro della commis-
sione d’inchiesta, stava interrogando i fascisti detenuti ancora rimasti. Quella
notte partii per Albona. Di lì proseguì per Lupogliano, Chersano ... Alla fine passò
il confine.
L’episodio del “vecchio Grabar” che in una Pisino deserta continuava a
interrogare i prigionieri (che saranno liberati l’indomani 4 ottobre all’arrivo dei
tedeschi) apre un quadro surreale in una situazione tragica. I tedeschi penetrarono
dappertutto con la loro motorizzazione, seminando il panico sul loro cammino, i
nostri reparti andavano in sfacelo, i neonominati comandanti abbandonarono i
combattenti formando un proprio gruppo per salvare se stessi, pensando a rag-
giungere le loro precedenti formazioni partigiane nella Lika, nel Gorski Kotar e
nel Litorale croato. Dimostrando, diciamo noi, quanto considerassero l’Istria una
terra croata. Invece i combattenti istriani tornarono alle loro case. Molti di loro
erravano per strade e sentieri portando pacchetti di pesci in conserva e pacchi
ancora più grandi di sigarette, tutta roba presa nei giorni precedenti nei conservi-
fici di Isola d’Istria e Rovigno e nella manifattura tabacchi rovignese. Lungo uno
di quei sentieri Diminié si imbattè in quel capitano russo e nei suoi dieci e più
soldati; vide anche passare una quindicina di fascisti arrestati, che marciavano
sotto scorta. Che fine fecero?
* * *
In alcuni documenti del PC croato risalenti all’autunno 1943 viene fornito il
resoconto di una riunione della “Direzione istriana del PCC” (26 e 27 ottobre di
quell’anno) che diede una valutazione sulle vicende istriane’*. Dopo aver definito
disastroso l’operato del PCC nel periodo insurrezionale, il documento dà un
24 D. VLAHOV, “Tri izvjestaja iz Istre — Jesen 1943” (Tre rapporti dall’Istria - Autunno 1943), Vjesnik
historijskog arhiva u Rijeci i Pazinu, vol. XX (1975-1976), Fiume, pp. 29-57. Cfr. pure L. GIURICIN, “La difficile
ripresa della resistenza”, Quaderni, vol. XII (1999), pp. 16-18.
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 267
giudizio severissimo anche dei comandanti del battaglione partigiano arrivato in
Istria dalla Croazia e precisamente dalla Lika. Quei capi militari e l’intero reparto
si erano letteralmente dati alla fuga davanti ai tedeschi, determinando la paralisi di
tutti i collegamenti, seminando lo sgomento fra i combattenti istriani e la popola-
zione, lasciandoli alla mercè della ferocia tedesca. Fu denunciato pure il fatto che,
prima di ritirarsi dall’Istria, i comandanti e combattenti del battaglione likano
spogliarono i partigiani istriani d’ogni avere: vestiario, denaro, orologi da polso, le
armi ...
La nostra attenzione è richiamata in particolare da un accenno alla (mancata)
liquidazione di tutti i fascisti, e dalla critica rivolta ai capi dell’insurrezione per non
aver fatto piazza pulita: non venne preso alcun provvedimento adeguato relativo
ai prigionieri politici arrestati nelle varie località dell’Istria. Dopo aver costituito
un’apposita Commissione militare incaricata della questione della punizione dei
fascisti, il Comando operativo dell’Istria non aveva fatto nulla, sicchè per la
defezione di detto Comando, i dirigenti politici furono costretti a prendere la
faccenda nelle proprie mani e ciò all’ultimo momento, mentre era già iniziata
l’offensiva tedesca, e mettendo a repentaglio la propria vita. Sempre secondo la
“Direzione istriana” del PC croato”, diversi criminali fascisti furono posti in
libertà ed oggi uccidono la nosta gente e saccheggiano i nostri villaggi.
Scrive “L'Italia libera”
Nei giorni in cui si tenne la riunione dei comunisti istriani croati, in Istria si
stavano esplorando le foibe per estrarne le salme delle vittime, mentre sui giornali
della Repubblica Sociale e in particolare sulla stampa fascista di Pola e Trieste,
veniva dato il massimo risalto alle violenze e persecuzioni subite dagli istriani
durante il breve governo degli organismi insurrezionali. Fu immediatamente indi-
cato l’indirizzo interpretativo: accusare gli slavi di aver voluto sterminare non i
fascisti ma la popolazione italiana come tale. Salvo poi a tirarsi la zappa sui piedi
quando, pubblicando un elenco conclusivo di 419 vittime, i giornali della RSI e
quelli al servizio dei tedeschi in Istria e a Trieste le indicarono e qualificarono, nella
25 Con la ricostituzione di formazioni partigiane in Istria, nel novembre 1943, presero a funzionare il
Comitato distrettuale del Partito comunista croato, che soppiantò definitivamente le organizzazione del PC
italiano, il Comitato distrettuale della Gioventù comunista jugoslava (Skoj) e il Comitato Popolare di Liberazione
distrettuale quale organo di amministrazione civile, che suddivise la penisola in questi "Comuni": Carso,
Pinguente, Cepich, Albona, Pisino, Buie, Umago, Montona, Antignana, Parenzo, Rovigno, Gimino, Prodol
(Prostimo), Abbazia, Laurana, Pola città e Pola Circondario, Umago e Buie.
268 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
maggior parte, come “squadristi”, “fascisti”, “commissario” e “agente di P.S.”,
riconoscendo implicitamente che gli “infoibati” avevano in maggioranza una
precisa matrice di regime.
Già allora, però, ci fu chi reagì polemicamente alla strumentalizzazione degli
avvenimenti fatta dalla stampa fascista, cercando di ristabilire un equilibrio, sicchè
pochi mesi dopo le sanguinose vicende istriane, il 10 maggio 1944, l’organo del
Partito d'Azione “L’Italia libera” diffuso nell’Italia liberata, pubblicò un articolo
intitolato Le foibe istriane. Narrando particolari e fatti personali, l’autore — eviden-
temente un azionista giuliano ben addentro alle cose — non negò che fra le vittime
ci fossero stati anche degli innocenti il cui reato era quello di essere stato “solo
italiani”, vittime della situazione caotica in cui l’Istria era precipitata nel settembre
’43. Pertanto, a nome degli antifascisti, il giornale espresse pietà per quelle vittime:
noi italiani, che abbiamo diviso con i patrioti slavi il peso e l’onore della lotta
antifascista nella Giulia, siamo noi che possiamo inchinarci davanti a questi morti
senza colpa. Si prometteva perfino che quegli innocenti sarebbero stati vendicati:
ma li vendicheremo su chi, disonorando il nostro buon nome in queste terre di
confine, vi ha seminato fra le minoranze slave questo odio feroce, che solo tale
giustizia potrà forse un giorno placare. Si risaliva così alle cause. Quelle che
l’autore dell’articolo aveva indicato sin dall’inizio del testo, sia pure limitandosi al
periodo bellico e lasciando fuori il precedente ventennio. Fu ricordato il periodo
fra l’aggressione militare alla Jugoslavia e la dissoluzione del suo esercito e, nel
contesto, la nascita del movimento partigiano jugoslavo: un periodo nel quale, ad
ogni minimo sospetto di collaborazione delle popolazioni rurali slovene e croate
con i partigiani locali, venivano organizzate sanguinose spedizioni punitive contro
la popolazione: Previo accordo tra la Prefettura, il Fascio e la Questura, partivano
da Trieste gli “autocarri gloriosi” carichi di squadristi, comandati da noti crimi-
nali, i due fratelli Forti ed il Delle Grazie, mentre carabinieri, agenti e, purtroppo
anche reparti del nostro esercito si accodavano per proteggere la spedizione, con
l'immancabile seguito di rappresaglie, rastrellamenti, arresti, deportazioni e, per
molti degli arrestati, le torture nella famigerata “Villa Triste” di via Bellosguardo
8 a Trieste, che fu la sede dell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza diretto
dal tristemente famoso Giuseppe Collotti. Questi fatti, ricordava “L’Italia libera”,
erano iniziati nel 1941 continuando anche nel periodo badogliano, dopo il 25 luglio
743 come poteva essere documentato seguendo l’operato dei funzionari di polizia
triestini Gueli, Miano, Sigillò e Maddalena fino alla seconda metà dell’agosto
1943, sicchè non c’era da stupirsi — diceva l’articolo — se dopo la capitolazione
italiana dell’ 8 settembre accaddero fatti di particolare gravità nell’Istria plurietni-
ca. Invece di allontanare dai loro posti i responsabili degli eccessi compiuti ai danni
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 269
degli slavi anche nel periodo badogliano, si fece credere agli slavi che tutta l’Italia
fosse complice di questi delitti e solidale con gli assassini delle popolazioni slave”.
26 Cfr. R. SPAZZALI, Foibe,un dibattito ancora aperto, Trieste, 1990, pp. 158-160.
270 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271
SAZETAK
U ovom radu autor daje svoj doprinos i dodatno tumaci i rasvjetljava
pitanja masovnih grobnica u Istri, osobito u drugoj polovici rujna 1943.,
tijekom narodnog antifaSistitkog ustanka, koji je uslifedio nakon
povlatenja Italije iz rata, raspustanja talifanske vojske i skoro
posvema$njeg raspada talijanske drZavne vlasti na Istarskom poluotoku.
U prvom poglavlju autor identificira mjesta na kojima su se dogadali
pokolji (neka od njih izvr$ili su obièni ZloCinci), a Zrtve su bili ne samo
Talijani, vet i brojni Hrvati. Tadasnje stanje u Istri bilo je veoma
nestabilno, pa je autor priloga dao i saZet izvjesta] o nasilju i progonima
koje je Mussolinij]ev reZim provodio nad slavenskim stanovnistvom. U
tom kontekstu on po prvi put spominje masovne egzekucije koje je taj
reZim izr$io upravo na podruGju Istre.
U drugim poglavijima rij]eè je o izvijestu Sefa tajne slu2be
partizanskog stozera za hrvatsko obalno podruèje iz 1943., i o jednom
drugom izvjesèu sastavljenom za hrvatsku usta$ku vladu, koje je podnio
izvjesni douSnik tog kvislinskog rezima, sto se infiltrirao u Istru tijekom
spomenutog razboblja, dok na kraju autor donosi dnevnik jednog
istaknutog komunista podrijettom iz Istre. Ovi dokumenti omogucavaju
nam sagledavanje povijesti Istre u novom svjetlu, a posebice jedne od
najnemirnijih etapa koja je uslijedila 1943. nakon kapitulacije Italije, a
bila je obiljezena korjenitim promjenama politiéko-vojne i povijesne
naravi.
POVZETEK
Avtor predstavlja nov prispevek k Studiju in razumevanju pojava ljudi
v fojbe, do katerega je prislo v Istri v drugi polovici septembra 1943
med protifasistiéno ljudsko vstajo, ki so jo omogodili izstop Italije iz
vojne, razsulo italijanske vojske in skoraj popolni razpad italijanskih
drzavnih struktur na istrskem polotoku.
Avtor umesta pokole (nekatere so zakrivili navadni hudodelci),
katerih Zrtev so bili poleg Italijanov tudi Stevilni Hrvati, v zgodovinski
okvir in v posebni poloZaj Istre, tako da naglo predstavi tudi preganjanja
fasistiénega rezZima proti slovanskim narodom. V tem okviru prviè
omenja dejstvo, da je isti reZim metal ljudi v fojbe na istrskem polotoku.
V drugih poglavijh nam avtor posreduje kroniko politiénega in vojaskega
dogajanja v Istri septembra in oktobra 1943. leta (do okupacije pokrajine
G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 271
s strani nacistiénih éet in do pokolov, ki so jih te izvedle), tako da
predstavlja vsebine nekaterih dokumentov hrvaske komunistièéne stranke
in hrvaskih partizanskih sil, s tem da izpostavija dele, v katerem se
posredno ali neposredno omenjajo fojbe, likvidacija “sovraznikov naroda”
in odnosi, skoraj vedno zelo napeti, z aktivisti italijanske komunistiéne
stranke in italijanskimi voditelji istrskega protifaSistiîénega gibanja.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 273
LA CARTA DEL CARNARO:
UNA COSTITUZIONE PER LO STATO LIBERO DI FIUME (1920)
WILLIAM KLINGER
Istituto Universitario Europeo CDU 329:342.4(497 .5Fiume)(094)” 1920”
Dipartimento di storia e civiltà
Firenze
L'autore si prefigge di ricostruire i fondamenti ideologici della Carta del Carnaro, costituzione della
dannunziana Reggenza del Carnaro. In questo senso appare fondamentale l’apporto del pensiero
politico dei sindacalisti rivoluzionari, movimento a cui apparteneva anche uno degli autori del
documento, Alcide de Ambris. La presentazione in forma sintetica delle dottrine politiche del
sindacalismo rivoluzionario, suggerisce che la Carta del Carnaro può in effetti essere considerata il
documento che fornisce a questa corrente di pensiero una sua compiuta espressione politica e statuale.
In secondo luogo, viene ricostruita la dialettica che si instaurò sia tra i due costituenti — D'Annunzio
e de Ambris — che trai due corpi politici che a Fiume si arrogavano l’attribuzione di poteri statuali e
cioè il Comando dannunziano e il Consiglio Nazionale. I rapporti spesso conflittuali tra le due
istituzioni e le divergenze ideologiche influenzarono sia la struttura che il tenore ideologico della
Carta e contribuiscono a spiegare anche alcuni passi contradditori.
Introduzione
Recentemente c’è stata una ripresa di interesse verso i problemi teorici del
costituzionalismo. Il fatto risulta di per sé comprensibile: il costituzionalismo
viene considerato uno dei principali strumenti di limitazione dei poteri dello Stato.
La sua rilevanza per la democratizzazione dei sistemi di governo non può che
giustificare l’abbondanza di studi storici e di scienza politica recenti ad esso
! I] presente articolo è tratto dalla tesi di specializzazione (Master of Arts) discussa presso il Dipartimento
di Scienza politica della Central European University di Budapest, sotto la supervisione dei prof. Nenad
Dimitrijevié e Andras Bragyova, ai quali vanno i miei più calorosi ringraziamenti. Colgo l’occasione per
ringraziare l'Archivio Museo fiumano di Roma e i dott. Marino Micich e Amleto Ballarini, il prof. Augusto
Sinagra, nonché i prof. Miomir Matulovié e Nenad Misgevié per le preziose indicazioni fornitemi.
274 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
dedicati?. La maggioranza dei lavori di ricostruzione storica o riflessione teorica si
concentra su costituzioni “che hanno fatto la storia”, quelle che in altre parole
ebbero successo come quella americana o francese che vengono prese come
modello di comparazione teorica?. Altri si sono concentrati sul caso più eclatante
di fallimento costituzionale: la Costituzione di Weimar'. La sproporzione tra
l’abbondanza di studi concentrati su una manciata di casi famosi è totale: i materiali
pubblicati su casi meno noti sono quasi inesistenti e la scarsità di attenzione rivolta
a costituzioni “minori” fa sì che esse siano sconosciute anche agli specialisti. Non
esistono giustificazioni per questo fatto, anzi: molti teorici del costituzionalismo
insistono sull’importanza di una maggiore disponibilità di materiale empirico da
usare come banco di prova per la valutazione di varie teorie costituzionali.
In questa sede ci accingeremo a presentare la Carta del Carnaro, Costituzione
della Reggenza italiana del Carnaro. D’ Annunzio e i suoi collaboratori elaborarono
tale testo costituzionale per il territorio della città di Fiume e sobborghi da essi
occupato e- amministrato. Determinati a creare una nuovo assetto istituzionale e
convinti che Fiume potesse e dovesse divenire un modello per il mondo che
emergeva dalle rovine della Grande guerra, in quei giorni iniziarono altri due
ambiziosi progetti: il primo, la Carta della Lega di Fiume o Lega dei Popoli
Oppressi venne pensata in opposizione alla Lega delle Nazioni governata dalle
“plutocrazie” del mondo, scritta da D'Annunzio in collaborazione col barone
Kochnitzky. Il secondo era un progetto di una radicale riforma in senso democra-
tico dell’esercito previsto per i legionari di Fiume “L’Ordinamento del Nuovo
Esercito Liberatore”. Tutte queste iniziative erano parte di un ambizioso progetto
rivoluzionario la cui portata s’estendeva ben oltre i confini della città nelle inten-
zioni del Comandante. Secondo Renzo de Felice, lo storico che più di ogni altro si
2 Si veda, ad esempio: S. HUNTIGTON, La terza ondata. ] procesi di democratizzazione alla fine del XX
secolo, Bologna, 1995; O. DONNELL, P. SCHMITTER, L. WHITEHEAD, Transitions from Authoritarian Rule,
Baltimore - London, 1986. Per il caso italiano si veda il volume curato da L. MORLINO, Costruire la democrazia.
Gruppi e partiti in Italia, Bologna, 1991.
3 Si vedano, per esempio J. ELSTER, "Constitutional Bootstrapping i n Philadelphia and Paris", Constitu-
tionalism, Identity, Difference and Legitimacy, Durham and London, 1994, pp. 57-83; P.PETTIT, Republicanism,
Oxford, 1997; U.K. PREUSS, "Constitutional Powermaking of the New Polity: Some Deliberations on the
Relations Between Constituent Power and Constitution", Constitutionalism, Identity, Difference and Legitimacy,
Durham and London, 1994, pp. 143-165; J RAWLS, A Theory of Justice, Oxford, 1980.
4 Da rilevare alcuni studi recenti: P CALDWELL, Popular Sovereignty and the Crisis of German Constitu-
tional Law. The Theory and Practice of Weimar Constitutionalism, Durham and London, 1997; D. DYZENHAUS,
Legality and Legitimacy. Carl Schmitt, Hans Kelsen, and Hermann Heller in Weimar, Oxford, 1997; J. MC
CORMICK, Against Politics as Technology: Carl Schmitt s Critique of Liberalism, New York, 1997. E l'eccellente
e ormai classico W. MOMMSEN, Max Weber and the German Politics 1890-1920, Chicago, 1984.
W. KLINGER, La carta del Camaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 DIS
è occupato delle travagliate vicende fiumane del primo dopoguerra, piuttosto che
adattarsi alla realtà del piccolo stato fiumano, questi progetti volevano prospettare
agli “uomini nuovi” usciti dalla guerra una soluzione “organica non meramente
tecnica ma anche emotivamente suggestiva in grado di rispondere alle loro attese
di rinnovamento politico e sociale”.
La Carta del Carnaro sarà studiata qui come un documento organico volto a
fondare una ben determinata comunità politica, non un semplice atto di propagan-
da. La proclamazione di una costituzione è un atto fondante di una comunità
politica le cui conseguenze si estendono potenzialmente al di là dell’orizzonte
politico dei soggetti che partecipano alla sua stesura. È sintomatico infatti per tutti
i costituenti voler fissare nella costituzione le loro ambizioni, programmi e paure
dettate dalle circostanze del momento. In tal modo, risposte a problemi “tattici”,
che si situano in archi temporali brevi, rischiano di venire immortalati in un testo
costituzionale con conseguenze “strategiche” per il destino della comunità politica.
La costituzione venne abbozzata dal Capo di Gabinetto dannunziano Alceste
de Ambris nel marzo 1920 e promulgata con modifiche, di carattere soprattutto
stilistico, apportate da D° Annunzio nel settembre 1920. La Carta del Carnaro fu
letta in pubblico da D’ Annunzio in uno dei più famosi teatri di Fiume — il “Teatro
Fenice” — il 20 agosto 1920 dove venne promulgata per acclamazione popolare in
modo plebiscitario, al culmine di un periodo turbolento per la città. La folla la
accettò con entusiasmo ma è questione aperta se la maggioranza dei presenti quella
sera del 20 agosto ne comprendesse i contenuti e il significato. Per i due autori le
motivazioni primarie erano diverse: D’ Annunzio considerava la Carta più uno
strumento tattico dai fini politici immediati, mentre gli obiettivi di de Ambris erano
più ambiziosi situandosi su un orizzonte temporale più ampio. Tutti e due gli autori
si rendevano conto che l’estensione del suffragio e la comparsa della democrazia
di massa avrebbe cambiato il modo di fare politica nell’ Europa uscita dal travaglio
della Grande guerra. D’ Annunzio svilupperà una concezione dello stato volontari-
stica che incidentalmente, fornirà anche una potente giustificazione alla dittatura.
L’importanza politica della ideologia come unico strumento in grado di controllare
e guidare le masse in un’epoca di democrazia plebiscitaria sarà pienamente com-
presa solamente da D’Annunzio. In de Ambris, la paura di disordini sociali
influenzati dalla estensione del suffragio, spingerà ad adottare un rivoluzionario
sistema di rappresentanza politica con una camera legislativa composta da rappre-
5 R. DE FELICE, La Carta del Carnaro nei testi di Alceste De Ambris e Gabriele D'Annunzio, Bologna,
1973, pp. 10-11.
276 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 273-343
sentanti delle corporazioni che rappresenterà le categorie funzionali di produzione
economica al posto dei tradizionali partiti politici.
Anche se la Carta del Carnaro rimase in vigore per pochi mesi, formalmente
dal settembre 1920 al gennaio 1921, la sua genesi, storia e forma indirizzano
importanti questioni e problemi per il costituzionalismo contemporaneo. Si potrà
obiettare che giuridicamente e di fatto la Carta del Carnaro non durò abbastanza
per farne un documento significativo dal punto di vista politico. Ciononostante, gli
autori costituenti non potevano prevedere il corso degli eventi futuri ed effettiva-
mente hanno dovuto prendere in seria considerazione la possibilità che il loro
progetto avrebbe potuto avere una durata più lunga. In questo senso emerge il suo
significato per la scienza politica. Il tortuoso processo di elaborazione fatto da due
personaggi tanto diversi per carattere e obiettivi quali furono D'Annunzio e de
Ambris sarà ricostruito utilizzando le premesse metodologiche della teoria della
scelta razionale e della scelta pubblica seguendo l’approccio che Jon Elster utilizza
per varie assemblee costituenti’. In particolare, si cercherà di mostrare come
decisioni politiche di carattere tattico prese nel passato influenzarono e limitarono
le possibilità di scelta dei costituenti fiumani con potenziali conseguenze a lungo
termine se la loro costituzione fosse effettivamente sopravvissuta per un tempo
sufficientemente lungo.
In questo lavoro, ci proponiamo altresì di rispondere a svariati problemi che
toccano il cuore della filosofia politica e costituzionale attuali. Quale era l'origine
del potere costituente e chi ne era fautore: tutto il popolo o un’avanguardia? Quale
era l’obiettivo dei costituenti: dare un’identità politica alla comunità o conferire a
se stessi legittimità politica? La democrazia della carta doveva essere sostanziale
o procedurale? Come si concepirono la divisione dei poteri, la rappresentanza
politica, i partiti politici e la revisione di costituzionalità delle leggi? L'obiettivo
che ci si prefiggeva dalla costituzione era di evitare la tirannide e il monopolio dei
poteri o piuttosto di promuovere la realizzazione personale degli individui? Si
intendeva estendere la democrazia sui posti di lavoro? | soggetti costitutivi dello
stato erano gli individui o gruppi organizzati in classi 0 corporazioni?
L’articolo si struttura in quattro parti. I primi due hanno natura storica volta a
ricostruire lo sfondo e i prodromi ideologici e la pratica del regime dannunziano a
Fiume e i suoi rapporti con il Consiglio Nazionale. Il terzo, analizza il processo di
argomentazione e contrattazione tra gli autori e le forze politiche in campo nelle
6 J. ELSTER, Ulysses Unbound, Cambridge, 2001; IDEM, "Constitutional Bootstrapping ..., op.cit., pp.
57-83; IDEM, Ulysses and the Syrens, Cambridge, 1974.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 271
stesura della costituzione utilizzando il metodo della ricostruzione delle scelte
razionali dei costituenti. Il quarto delinea i fondamenti dello stato dannunziano
traendo alcune conclusioni sulla natura di tale stato e la dittatura. Infine, in allegato,
alcuni verbali del Consiglio Nazionale Italiano (CNI) inediti illustrano bene le
idee, le opinioni e soprattutto le paure che i membri del principale organo politico
locale nutrivano nei confronti del progetto costituzionale e, in generale, sull’ope-
rato del Comando dannunziano a Fiume.
I. L’ideologia: il sindacalismo rivoluzionario
Genesi di una nuova forza politica
Le vicende della spedizione militare di Ronchi del 1919 e della conseguente
occupazione dannunziana di Fiume saranno probabilmente fin troppo note ai lettori
per venire ripercorse in questa sede in maniera dettagliata. Quello che occorre
notare è che l’ Impresa dannunziana non fu un risultato di una decisione individuale
isolata, ma fu supportata da parti del sistema politico e militare italiano. La stessa
ideologia politica che Gabriele D° Annunzio usò per legittimare il suo operato e il
suo governo a Fiume fu sviluppata prima. Scienziati sociali italiani di fama
mondiale come Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto erano ormai da tempo leader
riconosciuti delle nuove teorie elitiste ed antiparlamentari. I leader delle avanguar-
die letterarie fiorentine Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, assieme a Enrico
Corradini e lo stesso Gabriele D° Annunzio erano i principali portavoce di queste
nuove tendenze in campo letterario e culturale. Il modernismo fiorentino esprime-
va l’esigenza di un rinnovamento spirituale e culturale della nazione italiana, e
proclamava la necessità di una nuova religione secolare imperniata sul culto della
nazione.
Una prima ricaduta di questi nuovi modi di concepire la società nel panorama
politico italiano, la si ebbe con la nascita dell’ Associazione Nazionalista Italiana
(ANI), che fu il primo partito politico dichiaratamente nazionalista”. Esso fu
fondato nel 1910, evidentemente preparato dalle agitazioni del decennio preceden-
te. Il suo ideologo principale E. Corradini sviluppò una base dottrinaria per il
movimento attingendo soprattutto dai temi della sinistra rivoluzionaria. Coniò il
termine di “nazione proletaria”, sistematicamente sfruttata dalla divisione del
lavoro internazionale e dalla sua iniqua struttura di potere. Da questa prospettiva
7F PERFETTI, /l movimento nazionalista in Italia (1903-1914), Roma, 1984.
278 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
egli concluse che il problema non era lo sfruttamento degli operai industriali o
agricoli in Italia, ma lo status proletario dell’intera società italiana a livello
internazionale. Di conseguenza la rivoluzione nazionale doveva avere la priorità
su quella sociale, dato che ne avrebbe beneficiato la società nel suo intero e non
solo certe classi sociali. All’inizio l’ANI era un coacervo di diversi gruppi nazio-
nalisti — democratici moderati e autoritari — ma verso il 1914 1’ Associazione
raggiunse una certa unità e omogeneità, accettando la dottrina dello stato corpora-
tivo sviluppata dal giurista Alfredo Rocco. Rocco sviluppò la prima teoria dello
stato delle corporazioni che avrebbe dovuto rimpiazzare la divisione della politica
dei partiti. Un’assemblea delle corporazioni volta a rappresentare i gruppi di
interesse economici avrebbe dovuto prendere il posto del parlamento*.
È da notare che il nucleo, che più tardi fondò il fascismo e il “fiumanesimo”,
non giunse dall’elitismo o dal nazionalismo di destra, ma da un movimento di
sinistra rivoluzionaria, noto come anarco-sindacalismo o sindacalismo rivoluzio-
nario. Il movimento ha origine nel 1890 in Francia per reazione alla moderazione
dei socialisti e del movimento sindacale, ma in Francia esso perse di impeto
rapidamente dopo il 1906. L’obiettivo era la rivoluzione ottenuta con azione
diretta, possibilmente un grande sciopero generale che avrebbe permesso di ristrut-
turare l’intera società attorno ai sindacati. Come in altre parti d’ Europa, all’inizio
del XX secolo il movimento socialista era spaccato tra riformisti e rivoluzionari. I
riformisti appoggiavano la contrattazione con le parti sociali tra grandi e ben
strutturate organizzazioni sindacali. L’influenza moderatrice del pensiero social-
democratico riformista tedesco, così importante fino agli anni Novanta, iniziò così
il suo lento declino in Italia. I leader dell’ anarco-sindacalismo come Georges Sorel,
presero il suo posto. In Italia il loro leader Arturo Labriola caldeggiava il ricorso
ad azioni spontanee di masse disorganizzate che dovevano culminare in scioperi
generali mediante una mobilitazione continua delle masse del proletariato. La
crescita del sindacalismo rivoluzionario fu lenta ma progressiva, basandosi sulle
camere del lavoro — un'istituzione italiana a carattere regionale e diffusione
capillare, designata a rimediare la debolezza numerica dei sindacati regolari.
Anche Arturo Labriola elaborò una visione di “nazione proletaria”, osservando
(mentre lavorava in emigrazione) l'emarginazione degli lavoratori italiani all’este-
ro. Anche secondo lui, erano gli italiani in quanto nazione ad essere discriminati.
Di conseguenza, la trasformazione sociale doveva riguardare tutta la nazione e non
limitarsi soltanto a una classe a spese delle altre. Il movimento rivoluzionario
8 5. PAYNE, A History of Fascism 1914-1945, Madison, 1995.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 279
poteva avere successo solo con un movimento trasversale alla divisione in classi,
comprendendo gli agricoltori e le classi medie. Il “nazionalismo proletario” di
Labriola quindi legittimava la guerra nazionale e l’espansione coloniale e il
processo secondo il quale i sindacalisti rivoluzionari stavano diventando naziona-
listi era ormai in pieno svolgimento.
Le teorie della Rivista critica del socialismo di Francesco Saverio Merlino e
dell’Avanguardia di Arturo Labriola minarono l’egemonia dei riformisti all’inter-
no del PSI. Nel 1903 Filippo Turati, leader dei riformisti, perse il controllo della
sua federazione milanese dei sindacati. Anche se i sindacalisti rivoluzionari si
definivano marxisti, le loro dottrine e tattiche apparivano sempre meno ortodosse,
tanto da abbandonare definitivamente il Partito Socialista Italiano nel 1907. L’on-
data di scioperi che seguì alla formazione di FEDERTERRA sembrava confermare
la credenza dei sindacalisti che il corso della rivoluzione stava andando nella
direzione da essi profetizzata. Durante i grandi scioperi del 1907-1908, la loro
maggioranza abbandonò la Confederazione Socialista del Lavoro — la CGL. Nono-
stante ci fu un certo revival riformista negli anni 1908-1912, la Grande Guerra
cambiò drasticamente gli equilibri e il contesto entro il quale le fazioni del PSI
operavano. | sindacalisti rivoluzionari, il maggior numero dei quali erano già
intervenzionisti nel 1914, abbandonarono la sinistra e si allinearono ormai piena-
mente con i nazionalisti. La simbiosi tra questo movimento di sinistra radicale e il
patriottismo nazionalista era così stata raggiunta.
La parabola di Alceste de Ambris
La biografia dell’ autore della costituzione fiumana, Alceste de Ambris, illu-
stra bene il percorso politico che ebbero molti appartenenti del movimento sinda-
calista. Egli iniziò la carriera politica come agitatore sindacale a Parma nel 1900,
dopo un periodo di emigrazione in America Latina dove apprese la pratica dell’agi-
tazione e l’organizzazione sindacale e politica presso le comunità di lavoratori
italiani in Argentina. De Ambris organizzò il primo grande sciopero generale dei
braccianti agricoli nel parmense nel 1908. A causa delle persecuzioni cui fu
sottoposto, riparò in Svizzera. L’esperienza politica svizzera si rivelerà fondamen-
tale per de Ambris, come del resto per Pannunzio, Olivetti, e lo stesso Mussolini,
e la Carta del Carnaro s’ispirerà dichiaratamente alla Costituzione svizzera.
Nell'agosto 1914 de Ambris annunciò pubblicamente il suo supporto all’ interven-
tismo e iniziò a sviluppare la sua dottrina del corporativismo, rinunciando a un
ingrediente del sindacalismo rivoluzionario delle origini: la lotta di classe. Rimase
280 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
un rivoluzionario, ma accettò i presupposti economici del capitalismo che ora
doveva essere riformato in maniera radicale democratica e corporativa. De Ambris
divenne segretario generale dell’ UIL nel marzo 1919, il sindacato che si distingue-
rà per il suo precoce appoggio ai Fasci di combattimento di Mussolini. De Ambris
voleva fare la rivoluzione con il supporto dell’esercito e vedendo in D’ Annunzio e
nell’ Impresa fiumana un’opportunità unica per diffondere la idee rivoluzione in
Italia, e in ottobre abbandona la UIL per raggiungere D’ Annunzio a Fiume. Anche
se le possibilità che una rivoluzione nazionale potesse partire da Fiume erano
minime, essa diede a de Ambris una base su cui sperimentare, applicare e diffon-
dere le sue idee corporativistiche e di democrazia radicale in maniera piuttosto
efficace. La promulgazione delle Carta del Carnaro, alla quale egli diede una forma
compiuta e che costituisce una summa del suo credo politico, fu in effetti il suo
successo più spettacolare anche sul piano pratico.
Dopo la fine dell'Impresa di D'Annunzio e la sua cacciata da Fiume, de
Ambris continuò a credere o a sperare che una rivoluzione nazionale sotto la guida
del Poeta fosse ancora possibile. Dopo il collasso del regime dannunziano De
Ambris ritornò a Parma dove continuò la sua attività politica fino all'avvento del
Fascismo. Come documentato da R. De Felice e F. Perfetti”, la sua disillusione
sulla volontà di D’ Annunzio di promuovere la rivoluzione in Italia fu graduale ma
progressiva. De Ambris vide progressivamente che il supporto da parte di D’An-
nunzio non sarebbe arrivato e che come politico egli era troppo inaffidabile. De
Ambris stimò con molto realismo che senza D'Annunzio i suoi progetti erano
senza speranza di successo e andò in esilio per l’ultima volta in Francia. Nel 1926
il regime gli tolse la cittadinanza ed egli rimase in Francia fino alla morte, avvenuta
nel 1934, come pubblicista di trattati antifascisti.
La dottrina politica: la società e l’individuo
I sindacalisti attaccarono i socialisti riformisti su diversi fronti sia ideologici
che organizzativi. Rifacendosi a sentimenti che valsero a Bakunin molti seguaci,
Arturo Labriola, uno dei primi esponenti di questo movimento in Italia, propose un
programma politico con l’intento di legare gli operai industriali del Nord ai
9 R. DEFELICE, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris — D’Annunzio(1919
— 1922), Padova, 1966; IDEM, La Carta del Carnaro..., op.cit.; F PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e
fascismo, Roma,1988.
W. KLINGER, La carta del Camaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 281
braccianti agricoli del Sud. Il Partito Socialista avrebbe dovuto abbandonare
qualsiasi tentativo di accordo o di riforma con la classe dominate, dato che nessun
aiuto della borghesia era necessario per fare la rivoluzione. Solo le organizzazioni
proletarie per definizione, come i sindacati, potevano costituire l’ossatura istituzio-
nale attorno alla quale avrebbe dovuto organizzarsi la società. Il sindacalista
Merlino, con un passato da anarchico, vide nei sindacati una possibilità di decen-
tralizzare sia lo stato che l'economia.
Già verso il 1910, Arturo Labriola ed Enrico Leone iniziarono a sviluppare
nuove dottrine economiche che non rinunciavano a fondare una società di produt-
tori, ma senza ignorare nel contempo i postulati del marginalismo e il carattere
edonistico della psicologia del consumatore. Solo in un sistema di libero mercato,
si sarebbe riusciti a trovare un sistema atto a liberare il plusvalore e raggiungere
uno sviluppo moderno, una base necessaria per giungere ad una vera rivoluzione
collettivista. La via più sicura al socialismo passava quindi attraverso uno stato
limitato dai sindacati e dalle corporazioni, che rispettasse le leggi dell'economia di
mercato.
Angelo Oliviero Olivetti è l’autore cui maggiormente si ispirò de Ambris. Nei
suoi scritti giunse gradualmente ad una critica del marxismo e del liberalismo,
contestandone soprattutto il loro individualismo!°. Egli si premurò a fornire un
base pseudoscientifica alle sue teorie. Secondo lui, già Darwin, Haeckel e Hegel
provarono che alla base di tutti i sistemi complessi si trovava la materia che si
organizza secondo un principio immanente. È un fatto che gli uomini vivono in
gruppi e la società è una caratteristica umana per definizione, di conseguenza
l’individualismo estremo, che trova in Rousseau il suo esponente principale, è
sbagliato in quanto contro natura. L’idea di individui liberi e atomizzati che
scelgono un parlamento che fa le leggi e prende decisioni, caratteristica del
Liberalismo, risultava quindi sbagliata. Il marxismo invece, non era niente più che
l’incarnazione teorica del militarismo prussiano e il suo stato ed era solo la classe
dominante che doveva essere cambiata. La soluzione pratica al problema politico
della rappresentanza era da trovarsi nelle organizzazioni spontanee dei produttori,
come i sindacati. Il sindacalismo era superiore a tutte le altre dottrine politiche
perché rispettava le basiche leggi dell’associazione umana, che per Olivetti assu-
mevano il rigore delle leggi di natura. Nell’interpretazione della storia di Olivetti,
l'opposizione al sindacalismo vantava una lunga tradizione in quanto ebbe la
!0 Cfr. A. O. OLIVETTI, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, a cura di Francesco Perfetti,
Roma, 1984.
282 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
meglio già durante la Rivoluzione francese che era ostile a qualunque forma di
organizzazione di produttori. Invece delle gerarchie e corporazioni medievali, essa
ci diede “La Dichiarazione dei diritti del cittadino”. Fu Rousseau a reintrodurre il
concetto di cittadino nella teoria politica moderna. Esso esistette nel passato
remoto di greci e romani, dove si identificava con i membri improduttivi delle
aristocrazie ma, sempre secondo Olivetti, si trattava di una specie estinta da molto
tempo. Fu compito e merito del sindacalismo a riscoprire il produttore ed introdur-
lo nel dibattito sulla comunità politica, dandogli il posto che gli doveva competere.
La nuova rappresentanza politica non si sarebbe più basata sulle “finzioni della
sovranità popolare, rappresentanza politica e mandato politico” (e dunque non
imperativo) ma “sulla realtà della produzione”.
Sergio Pannunzio, giurista e probabilmente il più prestigioso ed autorevole
pensatore del sindacalismo, sottolineava il valore sociale della produzione, fonda-
mentale in quanto la sola a produrre ricchezza, mentre l’imposizione fiscale “lungi
dal fare produrre ricchezza nuova o dall’aumentare la vecchia, non serve che a
distruggere quella esistente redistribuendola”!'. Il sindacalismo era individualisti-
co perché anti-collettivista ed anticomunista. Invece del concetto astratto di citta-
dino o del sindacalismo socialista proletario, il sindacalismo introdusse il termine
di produttore. Questa era la vera particella della vera collettività politica, non
astratta ed ideologica - ma fondata sulla realtà della produzione e dell’economia.
Spariva la necessità di una rivoluzione, dato che ogni progresso nella consapevo-
lezza degli interessi dei produttori era un passo avanti nella sindacalizzazione della
società. Era questo il vero significato politico del sindacalismo: non un gioco
amorale sulle contingenze ma, come per Aristotele, la realizzazione di un'etica
superiore.
La dottrina dello Stato
Per Olivetti lo sviluppo politico doveva rispettare e riflettere l’organizzazione
degli individui già naturalmente separati in categorie d’interesse. Tali gruppi di
produttori avrebbero regolato le loro relazioni in maniera pacifica e costruttiva.
L'esistenza della nazione non veniva negata come dai marxisti, ma concepita come
il più grande dei sindacati, l’associazione libera delle forze produttive di un paese
entro i limiti imposti dalla sua natura, storia, lingua e codice etico. Il lavoro
!! S. PANNUNZIO, “Stato e sindacato”, Rivista internazionale di filosofia del diritto, 3/1, 1923.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 273-343 283
produttivo definiva anche i limiti dell’ appartenenza nazionale: esclusi ne erano gli
elementi improduttivi ed i parassiti che quindi non meritavano di possedere il
diritto di cittadinanza. Ogni tentativo di cambiamento politico era da impedire se
minacciava l’esistenza stessa delle nazione, “comunità suprema di liberi produtto-
ri” il cui interesse doveva essere al di sopra di ogni considerazione di classe”.
Sempre secondo Olivetti, i precursori del sindacalismo erano i comuni tardo
medievali italiani. Di conseguenza, il sindacalismo doveva considerarsi italiano,
così come il socialismo era un fenomeno teutonico di uno stato militarizzato che
sopprime la vita dell’individuo con la forza bruta delle masse. L'estrema evoluzio-
ne democratica del comune italiano condusse ad un ordinamento genuinamente
sindacalista. Lo stato-comune non era governato da un’assemblea eletta mediante
un illusorio suffragio universale, ma dai rappresentanti delle gilde. Le corporazioni
quindi ebbero la loro suprema funzione politica che spettava loro.
Uno dei pensatori del sindacalismo più sofisticati era Sergio Pannunzio. Il
sindacalismo era essenzialmente differente dall’ anarchismo perché il primo nega-
va lo Stato, ma non l’esistenza di altre forme di organizzazione autoritaria della
società. Come in Marx, per Pannunzio il diritto era espressione degli interessi
materiali egoistici del ceto che domina in quel preciso momento storico. Il sinda-
calismo non voleva sostituire gli interessi di un ceto al potere con un altro, come
volevano i comunisti, ma riconosceva pragmaticamente che essi erano legittimi ed
è in questo modo che si potevano risolvere i problemi della società. Dunque, per
Pannunzio non si poteva pretendere da un sistema politico di essere in grado di
cambiare le preferenze individuali ma, in compenso, queste potevano soltanto
essere semplificate ed articolate in ordine di trovare situazioni accettabili per tutti.
Quali erano i fondamenti del diritto? Pannunzio rifiutava i postulati del
positivismo giuridico, negando che fossero principi astratti dello stato a fornire la
base dei sistemi giuridici, ma che essi erano la risultante dei rapporti tra individuo
e gruppo e dei gruppi tra loro. Il diritto era quindi da considerarsi un fenomeno
essenzialmente sociale che non derivava dall’attività dello Stato, ma risultava dal
corso dell’evoluzione sociale. Per quanto riguardava l’organizzazione della socie-
tà, Pannunzio era convinto che l’autorità dello Stato stava svanendo, venendo
progressivamente distrutta dai conflitti sociali. Bisognava quindi trovare le forme
di organizzazione sociale che si sarebbero formate spontaneamente ed avrebbero
retto alla dissoluzione ormai inevitabile dello Stato. I gruppi che corrispondevano
a questi requisiti erano i sindacati, la famiglia e le corporazioni. La corporazione —
!? A.O. OLIVETTI, // Sindicalismo come filosofia e come politica. Lineamenti di sintesi universale, 1924.
284 W. KLINGER, La carta del Camaro, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 273-343
il termine fu preso in prestito da Durkheim — e la famiglia erano le sole unità
naturali capaci di produrre le loro norme e regole sociali che ogni politica realista
avrebbe semplicemente dovuto riconoscere. ‘“ La famiglia e la corporazione erano
le due sole unità sociali naturali ed organiche di fronte all’ammasso artificiale
caotico eterogeneo disorganico che è la società e lo Stato”!?. Seguendo Sorel i
sindacati avevano un primato etico sulle corporazioni perché la loro formazione
era spontanea ed era all’interno di essi che la libertà veniva organizzata.
Quale doveva essere la posizione giuridica e la funzione politica degli indivi-
dui nel sistema pensato da Pannunzio? L’individuo in senso giuridico non era da
intendersi solo a individui fisici, persone, ma adogni componente della società che
si poneva nei confronti di altri nelle relazioni logiche di parità, competizione,
contrasto, uguaglianza e libertà. Di conseguenza oltre che gli individui singoli
antropologici, bisognava riconoscere legalmente l’esistenza di individui collettivi
o sociali già invocati da alcuni pensatori costituzionali. Il problema era sempre lo
Stato fondato sull’individualismo emerso dalla Rivoluzione francese. Pannunzio
citava Durkheim!* che, cercando di trovare l’organismo che potesse arrestare la
disorganizzazione sociale, nella sua opera fondamentale “Il suicidio”, aveva trova-
to che la corporazione, essendo composta da individui che si dedicano allo stesso
lavoro, ed i cui interessi sono solidali o comuni, è il terreno più propizio alla
formazione di idee e di sentimenti morali. Durkheim constatava che “Disperdendo
le organizzazioni che possono stringere le volontà individuali, noi abbiamo spez-
zato lo strumento destinato alla nostra riorganizzazione morale”. Invece di risolve-
re il problema delle relazioni tra lo Stato e le associazioni, esso eluse il problema
ignorando le associazioni dei produttori e cercando di costruire lo Stato partendo
“dalla sabbia dei meri individui fisici”.
“L’individualismo, o atomismo contrattualistico moderno, ruppe e disgregò i
complessi sociali corporativi, lasciati in eredità alla società moderna dal Medio
evo; spezzò le relazioni e i vincoli organici fra individuo e corporazione; isolò
l’individuo e contrappose violentemente (...), riducendo la società in un polverio
di atomi singoli, l’individuo allo Stato (...)??!°.
Per Pannunzio lo Stato non doveva ignorare la complessità esistente della
società, ma tale complessità doveva essere rispettata e riflettersi nell’ assetto costi-
tuzionale della società politica. Egli era convinto che lo stato nuovo dei sindacati
Bs, PANNUNZIO, La persistenza del diritto, Pescara, 1909, p. 238.
!4 IDEM, p. 241.
!5 IDEM, Una forza, p. 272.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 273-343 285
coni loro interessi sarebbe succeduto allo stato degli individui, che avrebbe dovuto
conferire lo status di persone giuridiche alle associazioni di produttori. In tal modo
le loro relazioni e conflitti non si sarebbero svolti al di fuori del sistema legale, ma
al suo interno essendo incorporate e pienamente riconosciute dal nuovo Stato.
Come per Olivetti, i precursori del sindacalismo erano i comuni altomedievali
italiani.
La rappresentanza politica
Per Olivetti il “sindacalismo come filosofia e come politica” era contrario ai
partiti politici perché essi si limitavano ai problemi del presente quando era chiaro
che “i più grandi moti dello spirito, come il cristianesimo o il buddismo non erano
partiti”. Il sindacalismo era al di sopra di ideologie che restringevano lo spazio
d’azione, dato che fomentavano la polarizzazione sociale. Esso necessitava del
supporto di tutte le masse produttive che solo possono promuovere e creare lo
sviluppo sociale. Il diritto e il costituzionalismo erano rigidi e dogmatici, mentre
la regolazione contrattuale era flessibile e facile da cambiare. La società sindaca-
lista avrebbe permesso ad ogni individuo di cambiare posizione di classe cambian-
do la sua posizione contrattuale nella società, dato che il diritto deve codificare
quanto già esiste e non può pretendere di cambiare alcunché. Olivetti era pure ostile
alle elezioni politiche, dato che il voto sia proporzionale che maggioritario non era
altro che “un’espressione di violenza civica della moltitudine contro la minoran-
za”!°. Avrà da dire Pannunzio:
“(...) ma un giorno deve pur venire e speriamo non lontano, in cui la
questione politica italiana non sarà quella della estensione meccanica e
numerica del suffragio, del voto alla donna, del collegio uninominale, dello
scrutinio di lista e della proporzionale (noiosissimi e triti motivi che ritornano
a farsi sentire nella musica politico-parlamentare paesana), ma sarà quella
della nuova base giuridica della rappresentanza nazionale, la quale deve
spostarsi dai partiti e dai collegi elettorali alle classi e ai sindacati, ossia ai
corpi concreti e organici.”’!7
!6 A. O. OLIVETTI, /l Sindicalismo..., op.cit.
17 8. PANNUNZIO, Una forza..., op.cit.., p. 270.
286 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
Dopo l’abbandono del mandato imperativo, lo stesso concetto di rappresen-
tanza politica era problematico dal punto di vista giuridico: gli eletti non rappre-
sentano chi li elegge ma solo sé stessi ossia le loro coscienze. Il sistema elettorale
doveva essere una procedura di selezione dei migliori, dei più capaci, con l’obiet-
tivo di produrre un’aristocrazia che doveva guidare la nazione. Questo poteva
essere per Pannunzio l’unico obbiettivo della democrazia che legittimava il bica-
meralismo. Quindi, anche per Pannunzio la democrazia non poteva cambiare le
preferenze dei cittadini producendo cittadini migliori, ma soltanto organizzare e
raggruppare i corpi sociali e selezionare da essi gli individui più capaci.
Tutte le premesse teoretiche e morali per un autogoverno corporativo erano
quindi realizzate. Il problema principale era l’evitare di insorgere di conflitti intrattabili
tra i gruppi organizzati ed è per questo che serviva un nuovo modello di rappresentanza
politica. Ottimisticamente, Pannunzio credeva che le esperienze di conflitti continui
tra i comuni o città stato erano cosa del passato, giacché le nuove “sovranità sindacali
vivono d’accordo, stringono delle libere intese, si uniscono tra di loro per mezzo di
legami liberamente voluti ed accettati che conducevano “all’unità federale” che
rappresentava “la meta ideale di evoluzione politica dei popoli”'8.
Pannunzio sottolineava le differenze tra sindacati e parlamenti. Lo scopo e
funzione del sindacato era di ottenere diritti per “i proletari in quanto proletari”. I
diritti che i lavoratori godono in quanto cittadini non erano di nessun interesse.
Estendere il suffragio era insensato se non esistevano le condizioni educative e
sociali per sfruttarlo. Obiettivo del sindacalismo era la sindacalizzazione di tutti gli
operai, e l’effetto sarà di dare i diritti politici di un tipo completamente diverso,
dopo il collasso del vecchio stato parlamentare. Bisognava educare le masse in
modo da “mantenere alta la temperatura rivoluzionaria del proletariato”. Gli
strumenti principali erano lo sciopero generale e l’azione diretta contro la proprietà
privata.
“Il tratto più essenziale del classico sindacalismo di derivazione proudhoniana
(...) era l'emancipazione totale, e lo svincolo, della organizzazione dei gruppi
sociali dal territorio, e la costituzione dei gruppi sulla base volontaristica,
astratta e personalistica degli interessi omogenei; donde il diritto economico,
sostituito al classico e potremmo dire aristotelico diritto politico (...) come
sintesi di popolazione e territorio. (...) in altri termini gli interessi associano e
uniscono, il territorio divide e produce contrasti fra gli uomini (...).”?!9
!8 IDEM, La persistenza ..., Op.cit., p. 244.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 287
Fu la guerra a provare che la dottrina del “sindacalismo assoluto” era invalida
e inconsistente, mostrando che c’era più solidarietà fra le classi di una nazione che
non fra membri della stessa classe, ma di nazionalità diverse:
“Il sindacalismo, se vuole farsi storia, doveva quindi farsi geografico, terri-
toriale, nazionale essendosi gli interessi nazionali dimostrati indiscutibil-
mente superiori a quelli particolari di ceti e categorie.”?0 “Concludendo: La
Nazione deve circoscriversi, determinarsi, articolarsi, vivere nelle classi, e
nelle Corporazioni distinte, e risultare “organicamente” dalle concrete orga-
nizzazioni sociali, e non dal polverio individuale.””2!
Esistevano quindi corpi politici dotati di maggiore legittimità dello Stato, del
governo, del parlamento e dei partiti. Tali gruppi erano la nazione, le corporazioni
e la famiglia. Come andava organizzata e strutturata la rappresentanza politica
secondo i principi sindacalisti? Nel saggio Rappresentanza di classe scritto
nell’agosto 1919 (quindi un anno prima della stesura della Carta del Carnaro),
Pannunzio propose un progetto dettagliato per giustificare un nuovo tipo di rappre-
sentanza economica e funzionale al posto della rappresentanza politica territoriale
del vecchio parlamentarismo. Il testo risulta estremamente illuminante per com-
prendere le idee che giustificavano il modello rappresentativo scelto da de Ambris
e D'Annunzio per la costituzione fiumana. Ciò che emerge, è un nuovo assetto
costituzionale per lo Stato. Esso doveva basarsi su due camere: una di natura
economica, funzionale, composta da sindacati e corporazioni, dedicata alla solu-
zione di specifici problemi di produzione industriale ed economica, di regolamen-
tazione e distribuzione. L'altra — il senato doveva essere il vero rappresentante
politico della nazione. Le questioni tradizionali della politica competevano quindi
al senato che incarnava la rappresentanza politica territoriale. La necessità di un
parlamento politico che bilanciasse, disciplinasse e modificasse le preferenze e gli
interessi particolari, in altre parole che rappresentasse gli interessi della nazione,
non veniva negata. Questo corpo, il senato, doveva essere nazionale, centrale,
universale “di principi”, capace di fissare le tendenze ed imporle sopra gli interessi
particolari. Per i “parlamenti tecnici” era favorevole ad una dispersione territoriale
e ad una loro specializzazione tecnica e professionale??.
!9 IDEM, Una forza..., op.cit., pp. 274-275.
20 Ibidem, pp. 278-279.
2! Ibid., pp. 280-281.
22 Pannunzio si ispirò ai “consigli tecnici” della Baviera introdotti da Kurt Eisner nel 1919.
288 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
L’idea non era nuova: seguendo altri autori come Agostino Lanzillo, Pannun-
zio adottò una divisione bicamerale del legislativo: un parlamento sindacale che
rappresentava i veri interessi delle forze produttive ed un senato, il vero corpo
politico del domani. Per Lanzillo i membri del senato sarebbero stati eletti dalle
corporazioni con una procedura di elezione di secondo grado, ma per Pannunzio
un numero ancora maggiore dei suoi componenti avrebbe dovuto essere reclutato
dall’élite della nazione: scienziati ed intellettuali, accademici e membri dell’alta
cultura in generale. L'organizzazione dello stato corporativo avrebbe compreso
tutte le forze sociali, tutte le categorie economiche in modo tale che tutti i gruppi
di interesse avrebbero avuto la possibilità di essere rappresentati nella camera alta.
Compito del senato era anche di risolvere e decidere in merito a conflitti tra i
parlamenti inferiori. Il sistema della doppia rappresentazione era essenziale per
Pannunzio perché avrebbe accelerato i processi deliberativi e decisionali in tutti i
settori della produzione economica. Compito del parlamento tecnico era di fare le
leggi, specificare i loro contenuti, accumulare ed elaborare dati o suggerimenti,
opinioni, bisogni o preferenze delle forze produttive, che poi il parlamento politico
o senato doveva votare. Di fatto secondo Pannunzio si trattava di istituzionalizzare
ciò che esisteva già e lasciar fare a quelli che erano veramente interessati e
sapevano fare.
Pannunzio era convinto che anche una separazione artificiosa dell’elettorato
lungo criteri di classe, condotta con metodo burocratico avrebbe fatto emergere
spontaneamente le classi e le corporazioni. Il nuovo assetto costituzionale necessi-
tava di una precisa definizione della società in classi o corporazioni, se queste
dovevano prendere un posto preciso nella nuova mappa dei poteri. Il programma
d’azione prevedeva di: computare le statistiche delle classi e professioni, distribui-
re in classi organiche la popolazione, trasformare le classi in corporazioni, infine
creare con i rappresentanti delle corporazioni nuovi parlamenti tecnici ed econo-
mici. Il fatto politico dell’inserimento nelle liste professionali avrebbe influenzato
lo status economico dei singoli rendendoli consapevoli dei loro interessi. Questo
avrebbe agito da catalizzatore ed avrebbe portato ad una accelerata formazione e
consolidazione delle corporazioni?!.
23 Qui si pensava che l’ingegneria costituzionale potesse cambiare le preferenze degli elettori. Stranamente,
peri sindacalisti questo principio non poteva funzionare per i partiti politici; per loro tutte le divisioni ideologiche
erano artificiose, mentre quelle economiche avevano una salda base reale.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 289
Conclusione
Si può quindi affermare con sicurezza che verso il 1919 i sindacalisti rivolu-
zionari avevano operato una profonda revisione del pensiero marxiano, tanto da
renderlo ormai praticamente irriconoscibile: enfatizzavano l’etica, le idee ed i
simboli, piuttosto che la realtà materiale dei rapporti di produzione; l’attenzione si
spostava verso la psicologia sociale e al comportamento delle masse; essi enfatiz-
zavano l’importanza del volontarismo piuttosto che del determinismo economico;
ilruolo chiave delle élite anche come avanguardia rivoluzionaria; la mobilitazione
trasversale rispetto alle differenze di classe; lo sviluppo economico piuttosto che
la ridistribuzione di ricchezza. Il nemico non era più il sistema capitalistico di
produzione economica, ma la classe politica corrotta ed inetta; il concetto di
proletario veniva esteso a tutta la nazione e faceva da sorgente di legittimazione
perla guerra e la rivoluzione nazionale; il tutto doveva essere accompagnato da una
celebrazione della violenza che soddisfava il bisogno di azioni eroiche e spettaco-
lari. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, la maggioranza dei leader sindacalisti
appoggiarono l’intervento, considerando la guerra “vera contrazione della storia in
pochi istanti tragici e decisivi che valgono secoli” come avrà a dire Pannunzio”*.
La marcia di Fiume di D’ Annunzio del 1919 fornirà al movimento il momento
eroico e rivoluzionario allo stesso tempo, tale da soddisfare le esigenze delle masse
di un rinnovamento sociale e indicare un nuovo modo di fare politica, improntato
sul rito e sulla manifestazione pubblica. Il volontarismo politico e giuridico, ed il
rifiuto del positivismo e del formalismo giuridico dei pensatori sindacalisti, ben si
sposeranno con il pensiero e l’operato di D° Annunzio, ma questi a Fiume si
spingerà ben oltre, spianando la strada ad una soluzione apertamente dittatoriale.
II. La scena politica: D'Annunzio e il Consiglio Nazionale
Il “primo Duce”
Nel settembre 1919, a seguito di gravi incidenti tra soldati italiani, cittadini
fiumani e soldati francesi, gli alleati imposero lo scioglimento del Consiglio Nazionale
e la sua sostituzione con un governo sotto il controllo di una commissione militare
interalleata. Fu a questo punto che il CNI si decise ad organizzare un colpo di mano.
Esso avrebbe dovuto essere condotto per mezzo di volontari italiani guidati da un
24 5. PANNUNZIO, Lo Stato di diritto, Bologna, 1922, p. 262.
290 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
condottiero di una certa fama. Saggiamente, I membri del Consiglio inizialmente
pensavano di invitare delle figure molto meno carismatiche (e quindi più controllabili)
ad eseguire l’impresa. Il poeta Sem Benelli, favorito dalla maggioranza del Consiglio,
doveva arrivare in testa ad un gruppo di mercenari. I fondi per tale impresa erano già
stati accantonati, ma Benelli rifiutò. D’ Annunzio, che invece fu contattato da Nino
Host Venturi, quasi all'insaputa degli altri membri del Consiglio, accettò.
Il 12 Settembre 1919 D’ Annunzio entrò in Fiume, città che egli governerà per
i 20 mesi successivi. L’entrata spettacolare del 12 settembre era dovuta a una
potente combinazione di forze nel mondo politico italiano e all’interno del CNI.
Esse erano eterogenee dall'inizio: dai nazionalisti che si limitavano a chiedere
l’annessione di Fiume all’Italia, a quelli che propugnavano la sostituzione della
monarchia costituzionale con un regime autoritario, ad altri ancora che volevano
una rivoluzione comunista o anarchica. Lo stile di governo da egli attuato e
sperimentato fece da modello per tutti i successivi movimenti di massa del XX
secolo e questo basta per farne un fatto di prima importanza storica. D° Annunzio,
grazie alla sua esperienza di scenografo a teatro, conosceva la natura delle masse
e si rese conto che l’introduzione del suffragio universale e la comparsa della
democrazia di massa avrebbe fatto sembrare la politica molto più vicina allo
spettacolo che ad un pacato susseguirsi di conversazioni e deliberazioni di genti-
luomini facenti parte di una ristretta élite di notabili.
Le tecniche di manipolazione delle masse furono introdotte e sperimentate in
maniera estensiva a Fiume. La principale fonte di ispirazione per il completamento
di questo nuovo tipo di politica carismatica fu trovata da D’ Annunzio nel passato
glorioso della nazione. Se è possibile definire il termine “fascismo” in termini di
un nucleo mitico comune, allora esso fu certamente improntato da D’ Annunzio a
Fiume. La retorica successivamente impiegata da Mussolini, come il motivo della
“Vittoria mutilata”, della rigenerazione nazionale purificata dalla guerra furono
introdotti come prassi politica dapprima da D’ Annunzio a Fiume. Egli introdusse
pure la pratica del discorso dal balcone, il saluto romano il motto “eja eja alalà”,
l’appellativo di “Duce”, le camicie nere per la sua milizia armata, “gli arditi” prese
dalle omonime truppe d’assalto notturno della Prima Guerra mondiale.
Il 13 settembre D’ Annunzio assumeva il comando militare della città. Il primo
Capo di gabinetto di D’ Annunzio, il Maggiore Giurati, appena arrivato a Fiume
consigliò il Comandante di non assumere i pieni poteri in città per non dare
l'impressione di voler esautorare la rappresentanza cittadina’. Sarà lo stesso
25. SALOTTI, "I rapporti fra il CN fiumano e Gabriele D'Annunzio”, Fiume, Roma, 1972, pp. 56-57.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 291
Consiglio Nazionale per bocca del Presidente Grossich ad offrire pieni poteri al
Comandante con una delibera che, anche se senza valore giuridico, lascerà indefi-
nita l’attribuzione di poteri fra i due organismi soprattutto su questioni di ammini-
strazione e di giustizia. D’ Annunzio, con una sua ordinanza riconfermò i poteri
statali del Consiglio Nazionale e confermò in carica tutti i delegati del Consiglio
Nazionale alle varie amministrazioni, stabilendo però che “tutti gli atti e le delibe-
razioni del Consiglio Nazionale, che comunque potessero riguardare l’ordine
pubblico e conseguire un effetto politico, dovevano essere sottoposti all’approva-
zione del comando e non potevano essere eseguiti se non il giorno successivo a
quello dell’ approvazione”. In tal modo afferma il Peteani “il Comandante assume-
va in un certo senso la posizione di capo dello stato. Così dunque furono regolati
le competenze ed i rapporti tra il CNI e il Comando dannunziano e su questa base
lo stato fu retto fino al settembre 1920”.
Legittimità politica
Quando D° Annunzio entrò a Fiume, il CNI gli conferì pieni poteri, ma egli li
rifiutò. Perché rifiutò i poteri dittatoriali che gli venivano offerti? E perché il CNI
era pronto a sacrificare tutti i suoi poteri e li conferiva ad una persona di cui si
fidava poco? Una possibilità (suggerita dalla teoria della scelta razionale) è che
così facendo ambo le parti segnalavano reciprocamente una buona volontà di
cooperazione. Effettivamente, D° Annunzio rispettò sempre l’autorità del CNI e
mai minacciò i suoi membri. Nel novembre 1919 la legittimità del CNI fu confer-
mata da un plebiscito a cui D’ Annunzio non si oppose.
D'altra parte, D’ Annunzio sembrò dimostrare poca volontà di ottenere legitti-
mità per il suo comando o le sue azioni. Anche per la costituzione, si preferì
l’acclamazione pubblica rispetto al referendum. Una spiegazione sta nel suo stile
di governo e nello scetticismo nei confronti del processo elettorale, ma anche più
palesemente paura di venire sconfitto nel processo elettorale. Ad una attenta analisi
come quella del Peteani?’, non sfugge che la vera autorità era nelle mani del
Consiglio Nazionale, il cui potere d’imperio ‘era indipendente, originario in
quanto basto su leggi date dal potere stesso”. Esso, inoltre, fu organo legislativo e
fu capace di attuare le funzioni essenziali dello Stato in quanto controllava tutta
26 L, PETEANI, La posizione internazionale di Fiume, dall’armistizio all’annessione e il suo assetto
costituzionale durante questo periodo, Firenze, 1942, p. 27.
292 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
l’amministrazione sia statale che comunale. Il potere esecutivo era affidato al
Comitato Direttivo del Consiglio Nazionale. Era composto da 21 delegati e presie-
duto dal Presidente del Consiglio Nazionale. Dieci di questi delegati erano preposti
al vari rami dell’amministrazione, dietro elezione del Comitato Direttivo stesso. In
tutti i casi non previsti dalla legge, perla procedura si sarebbe aderito al vecchio
statuto civico o in mancanza di regolamenti specifici ci si richiamava alle consue-
tudini parlamentari.
È possibile considerare i rapporti tra il CNI e il Comando dannunziano come
una classica situazione di contrattazione fra due corpi politici per la spartizione dei
poteri e il controllo delle risorse. È in questa luce che va analizzata anche la genesi
della Costituzione fiumana. L'assetto costituzionale provvisorio e rudimentale di
Fiume mutò del tutto con l’ istituzione della Reggenza Italiana del Carnaro. Come
vedremo, per D° Annunzio la Costituzione doveva rispondere soprattutto a scopi
tattici per estendere e preservare il potere nella città, mentre era per de Ambris che
essa svolgeva una funzione strategica, una vera rivoluzione sociale a Fiume da
estendersi poi possibilmente a tutta l’Italia.
I rapporti fra il Comandante e il Consiglio fiumano non sono mai stati privi di
attrito. Il Consiglio Nazionale stimava con molto realismo le opportunità e i rischi
cui andava incontro nell’eventualità di un’avventura militare. I suoi membri,
rappresentativi della borghesia commerciale della città, volevano prevenire qual-
siasi forma di rivolgimento politico o sociale volendo preservare lo status quo entro
i limiti della città. La scelta di procedere all’annessione all’Italia della città di
Fiume da ottenersi in aperta sfida con le potenze alleate, deve comunque essere
considerata mossa da motivazioni nazionalistiche piuttosto che da un freddo
calcolo economico perché la creazione dello stato di Fiume sarebbe stata molto più
facile essendo appoggiata dagli alleati e avrebbe comunque permesso la preserva-
zione della struttura di potere preesistente. D’ Annunzio era considerato una perso-
na perlomeno problematica dal punto di vista morale a dotata soprattutto di un
enorme carisma che avrebbe presto messo in ombra il Consiglio Nazionale con
esiti imprevedibili e, forse, rivoluzionari. La reputazione stessa del CNI era in fase
discendente, dato che la situazione nella città era resa difficile dalla costante
penuria di beni e dai costanti sospetti che alcuni dei suoi membri si stavano
arricchendo con attività illecite.
I timori dei membri del CNI si rivelarono fondati: 1’8 settembre 1920, al
culmine di un processo di distacco fra i due organi, fu proclamata unilateralmente
da parte di D° Annunzio la Reggenza italiana del Carnaro, e lo stesso giorno il
Consiglio Nazionale, dimissionario, deferì i poteri al Comitato Direttivo.
Anch'esso rassegnò le dimissioni il 21, e in sua vece si costituì, per opera di
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 293
D’ Annunzio, il primo Governo provvisorio della Reggenza, formato da 7 Rettori
e dal Comandante che godeva di una “posizione speciale” ed era in pari tempo
Rettore agli Affari esteri: “figura eccezionale di governo assoluto, determinato
dalla particolare delicatezza del momento” secondo il Peteani, il quale avrebbe
dovuto indire le elezioni dei corpi legislativi contemplati dallo statuto della Reg-
genza. Il CNI fu declassato, con questo atto, ad esercitare l’ufficio di Rappresen-
tanza municipale??.
Supporto politico a
D’ Annunzio controllava una moltitudine di truppe, in testa alle quali arrivò a
Fiume. Molti indecisi lo raggiunsero dopo il successo iniziale dell’ Impresa. I
militari erano lo strumento principale che D’ Annunzio usò nei confronti del CNI.
D'altra parte, il CNI aveva la sua legittimità democratica, confermata anche da un
plebiscito che D° Annunzio sembrò rispettare. Lo strumento più potente del CNI
era il controllo degli affari amministrativi della città. Grazie al controllo sulla
polizia municipale, rifiutò la cittadinanza o pertinenza fiumana a molti elementi
dannunziani e addirittura ne espulse alcuni. Sussisteva quindi un sostanziale
conflitto di interessi nell’espletamento dell’autorità politica tra i due corpi.
I dilemmi del sistema legale da usare nel disbrigo della giustizia, sono rappre-
sentativi della situazione paradossale fiumana. Il codice tradizionale era quello
della defunta monarchia austro-ungarica: se da una parte era logico abolire le leggi
ungheresi, non era chiaro con che cosa esse potessero essere sostituite. Più di una
volta “LamVedetta d’Italia” invocò l’applicazione e l’introduzione del codice
italiano, ma mancavano le basi per un atto di questo genere. Alla fine, 11 Comando
sceglieva a seconda dei casi: i precedenti ungheresi o quelli italiani per giudicare.
Secondo una definizione di Giurati, il Comando stava agendo come una sorta di
fiduciario della Corona italiana e la giustizia veniva amministrata in nome del Re.
Il Peteani nutre dei dubbi sulla validità legale di questo ragionamento, dato che il
Regno d’Italia non aveva né poteva avere nessuna autorità giuridica sul territorio
di Fiume, fino ad annessione avvenuta nel 1924. Il riferimento al Re d’Italia era
fatto più per motivi propagandistici e quindi politici, che in riferimento ad uno stato
di cose realmente esistente.
A Fiume, un nuovo quotidiano “La Vedetta d’Italia” presto divenne l’organo
27 Ibidem, pp. 37-38.
294 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
ufficiale del Comando dannunziano. La storia della fondazione di questo giornale
è tuttora oscura. Quello che è certo, è che ufficiali dell’ Ufficio Propaganda
dell’Esercito italiano vi presero parte, presenti già come agitatori con le forze
italiane presenti nella città fin dal 1918. Il primo numero uscì pochi giorni prima
dell’entrata di D’ Annunzio e significativamente recava un lungo articolo di D’ An-
nunzio. Molti giornalisti e in particolare il “Popolo d’Italia” di Mussolini si
schierarono apertamente a favore dell’Impresa. D'Annunzio riceverà supporto
dall’Italia anche da esponenti del mondo industriale nonché da associazioni politi-
che e culturali?*,
Con il perpetuarsi dell’occupazione, il supporto che D’Annunzio riceverà
dall’Italia inizierà a declinare. Il Consiglio si rivelerà un partner più affidabile nelle
trattative, visto che accetterà le proposte di modus vivendi iniziate dal Governo
italiano perconsentire a Fiume di evitare l’annessione alla Jugoslavia costituendosi
in stato cuscinetto indipendente. Il primo scontro serio tra il comando dannunziano
e il Consiglio Nazionale lo si ebbe già il 18 dicembre 1919, in seguito all’annulla-
mento dei risultati del plebiscito atto ad accettare la proposte del governo italiano
circa il modus vivendi. In seguito a ciò, il primo capo di gabinetto Giovanni Giurati
si allontanò dal comandante e diede le dimissioni.
In sostituzione a Giurati, D° Annunzio chiamò Alceste de Ambris come capo
gabinetto, probabilmente sperando di creare difficoltà al governo Nitti, al Consi-
glio fiumano e al fine di ottenere consensi presso alcuni settori della sinistra
italiana. Le voci diffuse intorno alla proclamazione di una Repubblica Fiumana,
avrebbero portato ad uno sviluppo anti statale e anti monarchico dell’ impresa.
Dopo l’intervento del 25 dicembre, il Consiglio Nazionale riprenderà i pieni
poteri, nominando un comitato che organizzò le elezioni per la nomina dell’ assem-
blea costituente nella primavera del 1921, ma questi eventi esulano dai fini del
presente articolo.
Obiettivi politici
L’arrivo di D’ Annunzio suscitò molto entusiasmo tra vari quadri militari che
accorsero a Fiume. Uno di essi, il maggiore veneziano Giovanni Giurati, divenne
Capo del primo gabinetto dannunziano. Giurati si rivelò da subito un buon orga-
28 Per far alcuni nomi Oscar Sinigaglia, Iginio Brocchi e il gruppo Ansaldo, si veda: P. DORSI, “Fiume
l’annessione all’Italia (1924-1928)”, Fiume nel secolo dei grandi mutamenti, Fiume, 2001.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 295
nizzatore e provvide alla sistemazione organizzativa delle truppe. D'altra parte
ebbe successo nel procurare supporto per l'Impresa in Italia. Inizialmente, gli
obiettivi del CNI e di D’ Annunzio erano gli stessi: giungere ad una rapida annes-
sione di Fiume all’Italia. Tale convergenza era ovvia, visto che D’ Annunzio era
arrivato a Fiume su esplicita chiamata da pare del CNI, agendo quindi come agente
o mercenario per conto del CNI di Fiume. Quando questa opzione sembrò sfumare,
il Consiglio Nazionale accettò le proposte del governo Nitti, secondo il quale
Fiume sarebbe divenuto uno stato cuscinetto tra Italia e Iugoslavia. D’ Annunzio si
rivelò fin da subito molto meno pronto al compromesso col governo italiano ed i
mezzi ed i fini dell'Impresa dovevano cambiare ai suoi occhi. Pensando ad
un’aperta opposizione, egli nominò il più famoso leader del sindacalismo rivolu-
zionario italiano, Alceste de Ambris come nuovo capo del gabinetto. Con questo
atto, divenne chiaro che si era davanti a una vera e propria svolta. D’ Annunzio
risultava essere sempre più scomodo agli occhi ed agli interessi del CNI, mentre
tra gli obiettivi della politica del comando figurava ora, pure la realizzazione di una
rivoluzione sociale di stampo sindacalista. Fiume doveva servire come laboratorio
e banco di prova da estendersi poi all’intera nazione. Il conflitto del Comando con
il Governo italiano ed il CNI fiumano fu da quel momento permanente ed è in
queste circostanze che la Costituzione fiumana venne stilata.
Il distacco fra D’ Annunzio, il CNI e la popolazione locale sfocerà in aperto
contrasto dopo l’ unilaterale proclamazione della Reggenza Italiana del Carnaro nel
settembre 1920, causato dall’incomprensione che il Comando ebbe nei confronti
delle tradizioni locali, ma anche delle necessità materiali del momento. Tale
scontro sarà segnato nell’ultima fase anche dagli attacchi contro i rappresentanti
degli autonomisti di Zanella”?. L’impossibilità di raggiungere un qualunque accor-
do durevole e proficuo fra il Comando e gli organi rappresentativi di Fiume, viene
confermato dalla stessa Costituzione fiumana: essa prevedeva infatti la completa
esautorazione del CNI con la sua riduzione a livello di semplice autorità comunale
e la perdita delle prerogative di organo legislativo di uno stato che ne conseguiva.
Se l’annessione all’Italia doveva rivelarsi impossibile, per D’ Annunzio Fiume
poteva diventare sì uno stato indipendente, ma uno stato in rivoluzione permanente
che per sopravvivere e guadagnare appoggi doveva diffondere la rivoluzione di
tipo sociale per de Ambris e nazionalista per D’ Annunzio.
Si può quindi affermare che gli obiettivi del CNI rimasero gli stessi durante
tutto il periodo dannunziano e non subirono mutamenti significativi neanche dopo
29 G. SALOTTI, “I rapporti...”, op.cit., p. 65.
296 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
il 1921: giungere ad una rapida annessione della città all’Italia o perlomeno
salvaguardare la sua autonomia e carattere istituzionale e sociale prevenendo il suo
accorpamento alla Jugoslavia. Ad essi premeva salvaguardare e conservare la
preesistente struttura sociale e culturale di Fiume entro i limiti del corpus separa-
tum. Gli obiettivi del Comando dannunziano erano molto più ambiziosi e durante
il decorso dell’ Impresa subirono significativi mutamenti.
III Argomenti e contrattazioni
Il processo costituente
In questo capitolo si cercherà di ricostruire lo stile del dibattito e la natura degli
argomenti che usato dai due autori della Costituzione della Reggenza dannunziana.
Nel fare ciò, ci serviremo dello schema che Jon Elster ha usato per l’analisi delle
Convenzioni di Philadelphia e Parigi?°. Essenzialmente, il processo di creazione di
una costituzione scritta è secondo Elster un problema di scelta collettiva, che
dunque si presta ad essere analizzato con la teoria della scelta razionale.
Per Elster le circostanze che conducono all'elaborazione di nuove costituzioni
sono in contrasto con la pianificazione disinteressata a lungo termine che le
costituzioni tipicamente richiedono. Gli attori politici convengono a mettere da
parte i vari motivi di contenzioso e interessi di parte e rifondare su nuove basi il
sistema politico, tipicamente in situazioni di crisi o rivoluzione drammatica, che
non lasciano molto spazio a dibattiti sereni, disinteressati e lungimiranti.
Quasi per definizione, il vecchio regime o assetto costituzionale è parte del
problema che la costituzione nuova è chiamata a risolvere. Non serve una costitu-
zione nuova o la formazione di un’assemblea costituente se il regime o assetto
precedente non si considerano superati o sbagliati. Ma perché allora rispettarne le
regole? D° Annunzio, da parte sua, risolse il problema con una decisione che ruppe
tutti i legami con il passato e la tradizione precedente: il documento fu presentato
in pubblico e accolto con pubblica acclamazione. Si tratta di un caso paradigmatico
in cui le regole del processo di ratificazione furono imposte dall’autorità e dal
carisma di D’ Annunzio e del suo gabinetto.
Anche a prima vista, a Fiume le condizioni erano estremamente poco favore-
voli alla stesura di un testo costituzionale. Come sappiamo, la situazione di Fiume
nel 1920 non presentava le condizioni necessarie di calma e pace anche se,
30 J. ELSTER, "Constitutional..., op.cit., pp. 57-83, e Ulysses Unbound..., op.cit.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 297
Il tricolore italiano a Fiume
tipicamente, la volontà pubblica di procedere a grosse modifiche costituzionali, si
presenta raramente in assenza della pressione di una crisi. A Fiume nel periodo
1919-1921 furono iniziati ben tre processi costituenti: nel 1919 il Consiglio
Nazionale elaborò uno Statuto, di fatto una legge fondamentale per lo Stato
provvisorio; nel 1920 fu la volta di D’ Annunzio; e nel 1921 Zanella, in qualità di
Presidente fiumano, commissionò al celebre giurista austriaco Hans Kelsen la
stesura di una bozza costituzionale che avrebbe dovuto essere approvata dall’ As-
semblea Costituente fiumana?'. La situazione critica riguardo al futuro assetto
internazionale della città e le sue difficoltà interne, presumibilmente bastano a
spiegare questo insolito fervore costituente.
Elster sostiene che il corpo politico che ha un ruolo nella stesura della
costituzione, tipicamente cercherà di mantenerlo anche nella nuova mappa di
potere. Questa ipotesi viene confermata pienamente nel caso di Fiume: nella Carta
del Carnaro il potere è concentrato nell’esecutivo e, dunque, l’interesse a conser-
vare la posizione istituzionale è chiaramente presente. Tutti e due godevano di
potere esecutivo: D’ Annunzio era capo dell’esecutivo in quanto comandante della
città che governava con poteri e stile dittatoriale, mentre de Ambris era capo del
3 Cfr. A. BALLARINI, L’antidannunzio a Fiume - Riccardo Zanella, Trieste, 1995.
298 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
gabinetto. Non solo: il conflitto istituzionale principale a Fiume si giocò principal-
mente tra il Consiglio Nazionale e il Comando dannunziano. Nella costituzione,
alla stesura della quale nessun membro del Consiglio fu chiamato, è palese il
declassamento politico che subisce il Consiglio Nazionale: esso viene ridotto adun
organo di amministrazione comunale, senza prerogative di stato che, a partire dal
quel momento, di fatto furono concentrate nelle mani del Comando e nella figura
di D’ Annunzio. Egli preservò la figura del Comandante e nominò tutti i sette rettori
(capi dell’esecutivo).
Per quanto concerne l’aggregazione, la trasformazione e l’incomprensione
delle preferenze, secondo Elster, è di cruciale importanza se il processo costituente
è tenuto segreto o invece è pubblico. I motivi sono facili da intuire: è molto più
facile arrivare ad una discussione sincera e serena se si sa che non si è sottoposti
alla valutazione della pubblica opinione. In questo modo si possono chiarire gli
equivoci, ed il consenso e i compromessi che si raggiungono sono di stabilità
maggiore che non quelli che avvengono in dibattiti pubblici, come nel caso della
convenzione di Parigi. Dai verbali del Consiglio Nazionale sappiamo che, a parte
alcune pubbliche dichiarazioni di D° Annunzio, nessuna informazione trafugò sulla
natura, sulla forma e sugli obiettivi del progetto costituzionale, e che, quindi, si
svolse in condizioni ideali di assoluta segretezza. La segretezza produce un altro
effetto importante per Elster: essa aiuta a trasferire il baricentro del discorso dalla
discussione imparziale ad una contrattazione interessata. La qualità della discus-
sione ne risulta migliorata, perché è facile cambiare opinione se si è convinti della
validità delle posizioni degli oppositori e non si deve difendere la propria reputa-
zione dinanzi al pubblico. Sappiamo che ambedue i processi a Fiume e la Carta
presenta notevoli qualità di compromesso tra due personaggi così diversi per
carattere e credo politico, come de Ambris e D’ Annunzio.
Dove viene convocata un’assemblea costituente, i desideri, le preferenze e le
credenze personali dei partecipanti sono tipicamente un fattore marginale; l’inte-
resse di gruppo assume qui invece un’importanza maggiore, anche se i gruppi che
agiscono per promuovere i loro interessi specifici, lo fanno in nome di principi
generali e di valori imparziali. A Fiume non fu convocata nessuna assemblea
costituente, I due autori agirono in segreto: perciò ci si può attendere di trovare qui
un’incidenza molto maggiore degli interessi personali.
Ma il processo costituente presenta molti lati opachi. La segretezza si spiega
con il fatto che D'Annunzio cercò fin dall’inizio di escludere tutte le forze
potenzialmente ostili. La maggior parte delle forze politiche cittadine, ma anche
alcuni tra i collaboratori più stretti e affidabili di D’ Annunzio erano contrari al
progetto e lo furono ancora di più quando furono resi noti il suo contenuto e gli
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 299
obiettivi rivoluzionari. Tutto il processo si svolse in condizioni di estrema preca-
rietà ed insicurezza sotto la costante minaccia di una ribellione militare nonché
intervento militare diretto. Ci sono tutte le premesse per supporre che la paura, la
rabbia, la frustrazione e l’entusiasmo ebbero la meglio sui due, rendendo così le
prospettive di un sereno dibattito a mente fredda estremamente improbabili. Il
processo costituente a Fiume aveva in breve più “l’opacità della battaglia che la
prevedibilità delle deliberazioni parlamentari”. In conclusione, i principali para-
dossi del costituzionalismo di Elster appaiono confermati nel caso di Fiume.
Gli eventi fiumani lasciarono poco spazio alla contrattazione. De Ambris non
ebbe di fatto alcun potere materiale e la posizione di D’ Annunzio all’interno della
città stava diventando sempre più precaria. L'obiettivo della loro costituzione era
quello di sostituire il vecchio regime a Fiume. Di conseguenza gli esiti possibili del
processo costituente a Fiume lasciarono ancora meno spazio per compromessi,
vista la natura radicale dei cambiamenti prospettati. Il proclama della costituzione
fu posposto da marzo a settembre con la speranza di trovare nuovi alleati politici
all’interno e al di fuori della città, ma a causa dell’assenza di dibattito pubblico,
che avrebbe forse potuto portare a qualche soluzione di compromesso, il successo
fu nullo. Nonostante l’insuccesso di trovare alleati politici, la Carta fu proclamata
ed entrò in forza 1’8 settembre 1920.
Possiamo considerare come due estremi i tipi ideali della contrattazione
interessata con Obiettivi a breve termine e la discussione imparziale sul bene
comune”. In pratica la differenza si traduce nella distinzione tra gli effetti di
transizione e di equilibrio di una nuova costituzione. Nel caso di una discussione
razionale sussiste la tentazione di creare la costituzione migliore sub specie aeter-
nitatis tale con le migliori caratteristiche di equilibrio*'. De Ambris sembrava
rendersi conto del problema:
“il nostro Disegno di Costituzione tiene conto di questo; ma tien conto altresì
32 J. ELSTER, “Constitutional ...”, op.cit., e Ulysses..., op.cit.
33 Seguendo Elsterconsideriamo: argomentare (10 argue) significa ingaggiare un processo di comunicazione
con l'obiettivo di persuadere l'oppositore. In tali discussioni l'unica cosa che conta è il "potere dell’argomento
migliore" per cui condizione della validità normativa è rappresentata esclusivamente dall'imparzialità.
Contrattare (to bargain) significa ingaggiare una comunicazione con l'obiettivo di costringere l'opponente
ad accettare la propria posizione. Per raggiungere lo scopo i contraenti usano minacce e promesse che devono
essere realizzate ed eseguite al di fuori dell'assemblea. Il potere di contrattazione non deriva quindi dalla bontà
degli argomenti, ma dalla disponibilità di risorse materiali, manodopera, mezzi finanziari, ecc. e i contraenti
devono essere in grado di presentare le promesse a minacce come credibili ai loro oppositori.
34 Tale approccio è sbagliato secondo Elster: l’obiettivo, secondo lui, è quello di trovare la costituzione con
le migliori proprietà di equilibrio a partire dal momento in cui essa entra in vigore, altrimenti si rischia di imporre
sofferenze eccessive e ingiustificate alle generazioni che hanno la sfortuna di vivere nel periodo di transizione.
300 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
dello stato di transizione che attraversiamo, in cui le forze democratiche
conservano tuttavia una notevole forza, mentre le corporazioni dei produttori
sono ancora embrionali, od almeno troppo imperfette ed incomplete per
potersi sostituire interamente nella direzione dello Stato. Perciò ci è sembrato
temerario ricorrere a quell’assoluta attribuzione dei poteri statali alle rappre-
sentanze dei produttori, che gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella
riconoscevano alle arti e la Costituzione della Repubblica Russa riconosce ai
Consigli degli operai escludendo da ogni diritto politico chi non compia un
determinato lavoro”. 35
I costituenti fiumani erano molto più preoccupati con la discussione razionale
che con la contrattazione. De Ambris si preoccupava soprattutto delle proprietà di
equilibrio a lungo termine della costituzione fiumana:
“il nostro disegno di costituzione cerca di sminuire, se non di eliminare, gli
inconvenienti di entrambi i sistemi, conferendo al potere esecutivo una certa
stabilità che lo sottrae all’alea delle cabale e dei colpi di mano parlamentari
per un tempo sufficiente per realizzare un programma immediato (un anno);
ma non così lungo da costituire una minaccia seria pel caso che ad un certo
punto esso potere esecutivo si mettesse in contrasto con la volontà della
nazione.”°39
Come si voleva assicurare un equilibrio etnico in una comunità mista come
Fiume?
“Fiume è senza contestazione una città italiana; ma per piccolo che possa
essere il territorio della Repubblica, e quand’anche risultasse composto dal
solo “corpus separatum” non sarebbe meno vero che una parte della popola-
zione è slava di razza e di lingua (...) ci siamo chiesti perciò come si potrebbe
risolvere il problema ed abbiamo trovato nell’antica sapienza romana e
nell’esperienza moderna la risposta: soltanto un sistema di larghe autonomie
locali ed uno spirito di grande tolleranza può rendere possibile la convivenza
pacifica di varie razze in un medesimo aggregato politico. La Confederazio-
ne Elvetica — che sotto molti aspetti presenta una situazione analoga a quella
in cui si trova la nostra Repubblica — ci offre l'esempio significantissimo di
un cantone come quello dei Grigioni — dove 50 mila tedeschi, 367 mila
romanci e ladini, 18 mila italiani, divisi per giunta in protestanti e cattolici,
35 A. DE AMBRIS, La Costituzione di Fiume. Commento illustrativo di Alceste de Ambris, Fiume, 1920.
Ora in R. De FELICE, La Carta del Carnaro..., op.cit., p. 82.
36 Ibidem, p. 84.
W. KLINGER, La carta del Camaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 301
possono convivere in pace unicamente perché a ciascuna razza è riconosciuto
il diritto di serbare la propria lingua e le proprie costumanze in seno all’ag-
gregato politico cui appartiene. Roma poté reggere per molti secoli il mondo
accordando il diritto di cittadinanza a tutti i popoli dell'Impero col rispetto
per i costumi e per la lingua di ciascuno.”3?
Gli argomenti che mirano sulle conseguenze delle azioni trattano due tipi di
questioni — le linee di sviluppo della società nel prevedibile futuro e le relazioni
causali tra il nuovo ambiente istituzionale e il comportamento individuale risultan-
te. A Fiume troviamo solo congetture sullo sviluppo demografico ed economico
della città. De Ambris difende cosi la nazionalizzazione del porto e delle ferrovie
a Fiume:
“la rivendicazione di questo diritto non ha soltanto un valore economico.
Solo alla cecità ed al superficialismo ignorante di qualche politicastro può
sfuggire che il porto e la ferrovia di Fiume in mani non italiane significhe-
rebbe la snazionalizzazione della città entro dieci o vent'anni, mediante
l'immissione artificiosa di elementi estranei che altererebbero il rapporto
demografico ora esistente.”38
La questione del suffragio illustra forse meglio di ogni altra il rapporto tra
diritti e le loro conseguenze degli stessi. In particolare la estensione del suffragio
universale alle donne ha due aspetti: esiti come un buon processo decisionale,
dall’altra come legittimare e giustificare il diritto di partecipazione politica alle
donne. Il diritto veniva percepito come contributo all’aumento del benessere dello
stato ma anche alla sua difesa militare. Alla eguaglianza di diritti corrispondeva
uguaglianza di doveri dato che il servizio militare era esteso anche alle donne. De
Ambris riconosceva che l’eguaglianza dei sessi a Fiume era ormai quasi completa
dalla legislazione vigente ma:
“esse hanno meritato di vederla completata per la coscienza civica, per lo
spirito di sacrifizio e per la fiera volontà di cui hanno dato prova costante nel
lungo periodo della non conclusa lotta che Fiume sostiene contro il mon-
do”.39
37 Ibid., pp. 84-85.
38 Ibid., p. 86.
39 Ibid., p. 81.
302 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
A Fiume le incertezze non mancavano così che ambedue introdussero provvi-
sioni basate sulla incertezza e i rischi ad essa connessi. D’ Annunzio introdusse così
la provvisione che la costituzione dovrebbe accomodare ogni futura estensione
della libertà umana, anche se questa risulta ancora inintelligibile per i contempora-
nei. La flessibilità della costituzione (quella fiumana era soggetta a modifica ogni
5S anni nella versione definitiva di D’ Annunzio) era difesa con l’argomento della
limitatezza della ragione umana e dalla risultante impossibilità di una costituzione
tale da resistere le sfide del futuro. La Carta del Carnaro introdusse i diritti sociali
per la prima volta in un testo costituzionale, come il salario minimo garantito,
l’assistenza in caso di malattia o la disoccupazione volontaria e una pensione di
anzianità. De Ambris giustificò così la loro introduzione:
“noi pensiamo infatti che la Società non possa imporre ai suoi componenti
per la sua esistenza e la sua difesa obblighi che vanno fino al sacrifizio della
vita, se non assicura ad essi almeno quel minimo indispensabile indicato
nell’articolo sopracitato, senza di che ogni altro diritto legale diventa nel fatto
irrito e nullo.”99
De Ambris progettò un sistema elettorale a più livelli. Lo schema che risultò
si fondava sui diritti, ma aveva anche una funzione strumentale. Tutti i cittadini
senza distinzioni avevano il diritto di voto per la camera alta, mentre i produttori
avevano la possibilità di eleggere anche la camera delle corporazioni. I produttori
avevano così la possibilità di votare due volte a differenza dei non produttori. Il
diritto universale di partecipazione basato su concetti di eguaglianza degli uomini
erano realizzati per il Consiglio degli Ottimi, mentre per il Consiglio dei Provvisori
vigeva il requisito della strumentalità della competenza e dell’interesse diretto.
L’assunzione generale che i pubblici ufficiali agiranno nell’interesse generale
solo se questo coincide con il loro interesse era chiaramente compresa da de
Ambris. Stranamente, su questo si fondava il principale argomento contro i partiti
politici: dato che i partiti si fondano sui ideologie, essi non hanno nessun motivo
reale materiale di formare ufficiali che agiranno nell’interesse dei loro collegi
elettorali, ma agiranno solo per proprio interesse o peggio — per invidia e volontà
di vendetta o rivalsa. Le corporazioni sarebbero quindi superiori ai partiti politici
perché i loro membri condividevano gli stessi interessi per definizione secondo de
Ambris. La possibilità che i partiti politici si organizzino era prevista nel comune,
ma egli era convinto che le fratture ideologiche all’interno delle corporazioni e dei
40 Ibid.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 303
comuni sarebbero state superate in tempi brevi conducendo ad una graduale
sparizione dei partiti politici.
Tale conclusione radicale era fondata su ragionamenti saldi di scelta razionale.
De Ambris supponeva che le preferenze individuali non si potessero cambiare, ma
che le istituzioni potevano porre incentivi che avrebbero potuto influire sul com-
portamento individuale. Pure a Maffeo Pantaleoni, Rettore delle Finanze del primo
Governo della Reggenza del Carnaro, non sfuggirono le difficoltà teoriche e
pratiche nel definire in modo chiaro e consistente i limiti delle cooperative. Come
si poteva attendere inoltre che le cooperative avrebbero agito per il bene comune
se di fatto esse erano concepite come monopoli economici?
Le istituzioni politiche possono avere due tipi di effetti sul comportamento dei
cittadini. Il primo appartiene all'economia e alla teoria della scelta pubblica: date
dalle motivazioni individuali, le istituzioni possono porre incentivi agli individui
ad agire in un certo modo, il secondo prevede che l’ambiente istituzionale influen-
zerà le decisioni prese dagli individui*'. Sotto questa luce, le differenze tra i due
costituenti appaiono notevolissime: le premesse dei ragionamenti di D’ Annunzio
erano fragili e congetturali, secondo lui l’esperienza della Grande guerra e la
nascita di una nuova società libera a Fiume avrebbe necessariamente modificato la
natura delle preferenze umane e avrebbe condotto ad un nuovo tipo di uomini
—“uomini nuovi”. Per de Ambris e in generale la prospettiva sindacalista era il fatto
stesso dell’industrializzazione e la nascita della società di massa a modificare le
preferenze degli uomini immettendo tutta una serie di incentivi nuovi. In un altro
punto de Ambris considerò la pubblica deliberazione come metodo per cambiare
le preferenze dei cittadini, anziché aggregarle soltanto: la revisione costituzionale
poteva essere iniziata solo per iniziativa di assemblee locali comunali o dalle
corporazioni, non per iniziativa individuale. Probabilmente la notevole esperienza
politica e organizzativa di de Ambris portò quest’ultimo a ragionare in termini di
incentivi molto più di D° Annunzio totalmente estraneo a questo genere di argo-
menti.
Alceste de Ambris e la “Costituzione della Repubblica del Carnaro”
Il potere costituente è un potere capace di imporre un ordine nuovo dal nulla,
anche se abitualmente costituzioni nuove si istituiscono sulle rovine di un vecchio
4 L’individualismo metodologico porta Elster a privilegiare l'influenza degli individui sulle istituzioni che
sono a loro volta costituite dagli individui con le loro credenze, preferenze e scelte.
304 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
sistema dopo il suo collasso. Questo significa che durante una rivoluzione l’ordine
sociale preesistente può essere almeno in parte preservato o distrutto completa-
mente. Secondo, nel processo costituente gli autori possono accettare alcune
caratteristiche dell’ordine sociale vecchio e immettere nella nuova costituzione o
ripudiare tutto e cercare di costruire un nuovo tipo di comunità politica.
Il compito di de Ambris era difficile: doveva costruire un sistema costituzio-
nale a partire da una ideologia che essenzialmente lo ripudiava. Il Comandante non
era fautore della democrazia liberale o rappresentativa, e la sua concezione perso-
nale della politica e il suo modo di fare politica era lontano dalla deliberazione
parlamentare. Come già visto, sussistevano profonde differenze tra i due anche
riguardo i fini strategici che si volevano raggiungere con la Costituzione. Nono-
stante ciò, l’opera di de Ambris fu un successo e il prodotto finale (anche se
appesantito da aggiunte letterarie ed estetiche di D’ Annunzio) risulta essere una
costituzione piuttosto coerente e, nel contempo, estremamente originale. Conviene
quindi sintetizzare le tesi principali del sindacalismo rivoluzionario in materia di
Stato, presentate nel primo capitolo.
Scopo dello Stato era quello di assicurare il grado maggiore possibile di
benessere ai cittadini, lasciando spazio per possibili miglioramenti. La ricchezza
della società era dovuta al lavoro produttivo, di conseguenza, erano i produttori a
meritarsi la maggior attenzione da parte dello Stato e, di conseguenza, avevano
diritto a più peso all’interno della comunità politica. Di converso, coloro che non
producevano si sarebbero visti diminuire i loro diritti politici. Lo Stato non si
compone solo da individui atomici, ma deve la sua stessa esistenza allo spirito di
associazione che è tipico dell’uomo. Le associazioni hanno problemi e necessità
specifiche distinti dai problemi individuali e anche questi dovrebbero trovare il
loro posto nella costituzione; il “diritto realistico” dovrebbe riconoscere il fatto
della vita associata mettendolo in pratica e non arroccarsi in un “individualismo
estremo quanto astratto”. I gruppi spontanei come la famiglia, i comuni o i
sindacati hanno i loro codici e norme che la costituzione doveva riconoscere,
accomodare in uno sistema coerente e consistente, non inventarne di nuovi di sana
pianta. Lo stato che soddisfa la spinta all’ autogoverno che proviene dal basso, è lo
stato decentralizzato e pone l’autogoverno come obiettivo; la rappresentanza
politica avrebbe dovuto riflettere tale strutturazione sociale riconoscendo un ruolo
politico di primo piano alle corporazioni — organizzazioni economiche. Anche se
le corporazioni si trovavano in uno stato embrionale o neppure esistenti, la crea-
zione di un chiaro quadro costituzionale ne avrebbe favorito la formazione secondo
i principi dell’organizzazione spontanea. Ai fini di una migliore regolazione dei
rapporti e relazioni tra le varie associazioni e tra di esse e gli individui e lo stato
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 305
bisogna conferire lo status di persona giuridica; la rappresentanza politica ha da
rispecchiare; deve esserci un parlamento tecnico delle corporazioni che legiferi su
tutte le materie tecniche e commerciali; il vero parlamento politico, il senato, deve
espri mere la volontà nazionale e deliberare su questioni generali.
È fuori di dubbio che nella primavera del 1920, quando de Ambris stava
lavorando sulla costituzione di Fiume, egli aderì alle tesi del sindacalismo rivolu-
zionario elaborate principalmente da A. O. Olivetti e S. Pannunzio. Quando fu
completata la bozza nel marzo 1920 da de Ambris, ciò che ne emergeva era già una
costituzione matura. Fiume doveva essere una repubblica con un nuovo e rivolu-
zionario sistema rappresentativo. Seguendo i precetti dei maestri teorici del sinda-
calismo, de Ambris aveva impostato un sistema bicamerale, costituito da un
parlamento tecnico o camera delle corporazioni, associato ad un parlamento poli-
tico o senato che era il solo ad essere basato sulla rappresentanza territoriale e
svolgeva le tradizionali funzioni politiche.
Rispetto ai pensatori sindacalisti, de Ambris appare estremamente fedele ai
valori classici e tipici della democrazia costituzionale. Ad una più attenta analisi,
appare che il disegno di de Ambris cercava di comprendere e conciliare tutte le
conquiste della democrazia costituzionale antica e moderna. L’eguaglianza giuri-
dica di tutti i cittadini veniva estesa senza distinzione di sesso o stirpe, si prestava
molta attenzione di garantire le libertà individuali dando ai cittadini una protezione
efficace anche contro gli abusi di potere. Il bicameralismo, elezioni libere ed
immediate degli organi legislativi, federalismo e specialmente l’indipendenza
delle corti e giudizio della costituzionalità delle leggi, si trovano tutte nella sua
bozza di costituzione fiumana.
Uno degli obiettivi più importanti di una costituzione è quello di tracciare un
equilibrio tra i rami esecutivo e legislativo del governo. Nel nostro caso ci fu un
chiaro spostamento dell’equilibrio dei poteri a favore dell’esecutivo in tempi
normali ed eccezionali. I pericoli di un esecutivo troppo forte erano ben presenti in
de Ambris, ma l’atteggiamento di sfiducia sull’affidabilità ed efficacia del parla-
mento come istituzione legislativa che non si riteneva capace di stabilità e respon-
sabilità per il paese specialmente in tempi critici era da lui valutato in misura
ancora maggiore”.
“Per quanto riguarda il potere esecutivo ci siamo trovati di fronte al solito
dilemma: parlamentarismo o presidenzialismo? Ognuno conosce i pregi e
soprattutto i difetti di ciascuno dei due sistemi. La commedia politica che si
4 A. DE AMBRIS, La Costituzione ..., op.cit., pp. 83-84.
306 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
giuoca ora in America fra Wilson da una parte e la maggioranza del paese da
un’altra, con incalcolabili conseguenze per tutto il mondo, dimostra meglio
di ogni lunga disquisizione i pericoli del sistema presidenzialistico, che
assomma ad un uomo solo e per un periodo assai lungo tutto il potere
esecutivo.
I pericoli e i danni del parlamentarismo ci sono troppo noti per diretta
esperienza perché occorra illustrarli. Basterà ricordare come durante la guerra
fosse sentita l’inferiorità dei paesi retti a sistema parlamentare, con un potere
esecutivo in balia delle ambizioni, degli interessi e degli intrighi dei membri
d’un’assemblea non di rado ignara, irresponsabile e perfino isterica.”4
L’esecutivo doveva essere composto da sette “Commissari” ed era libero da
ogni interferenza parlamentare, dato che si prevedeva una sola riunione del parla-
mento volta ad eleggere l’esecutivo. D'altra parte si cercò di limitare il potere di
questo, limitando il mandato di governo ad un anno solo. Era questo il compromes-
so di de Ambris: porre dei limiti alla capacità di azione al legislativo e porre limiti
al raggio d’azione all’esecutivo. Come molti altri, egli nutriva poca fiducia sull’ef-
ficienza ed affidabilità della deliberazione parlamentare, ma d’altra parte teneva
ben presenti i pericoli di una dittatura conferendo troppo potere all’esecutivo.
Nonostante ciò l’emergenza costituzionale veniva considerata seriamente: per la
prima volta in una costituzione scritta era prevista la carica del dittatore, ma
strettamente limitata ad una durata temporale di sei mesi nell’abbozzo di de
Ambris**. È da notare che un modo simile di ragionare fu condotto anche a Weimar
dove si arrivò a conferire poteri illimitati dalla costituzione al democraticamente
eletto presiedente del Reich". Anche se tali soluzioni possono col senno di poi
essere definite “atti di populismo disastroso”, per usare un’espressione di Elster,
essi comunque riflettono un problema reale di come impostare la nuova politica di
massa in paesi in cui non c'erano tradizioni democratiche. In questa luce, la
soluzione prospettata da de Ambris appare molto più bilanciata.
La divisione territoriale del potere in comuni assicurava una struttura federale
O piuttosto cantonale dello stato con l’obiettivo di realizzare quell’autogoverno e
43 Ibidem, p. 84.
44 De Ambris fu influenzato da D'Annunzio, tanto che nei suoi scritti successivi all'impresa, egli non
menzionerà più questa possibilità, cfr. R. De FELICE, La Carta del Carnaro..., op.cit., pp. 83-84, e (Anonimo),
La Repubblica dei Sindacati. Analisi sindacalista e testo integrale della costituzione di Fiume dettata da Gabriele
D'Annunzio, Milano, 1921.
4 W. MOMMSEN, opccit.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 307
decentralizazione dei poteri cari ai sindacalisti ed anarchici. In caso di eventuale
conflitto tra lo Stato, i cittadini, i comuni o le corporazioni, spettava alla Suprema
Corte l’ultima parola in merito e la sua autorità era suprema. La Corte suprema
aveva potere di giudicare la costituzionalità delle leggi. La costituzione era sogget-
ta a revisione ogni 7 anni dall’ Assemblea Nazionale, un primato assoluto.
La Repubblica non doveva avere un esecutivo forte, nessun capo dello stato
né un esercito permanente. La parità totale dei sessi era definita sia in termini di
doveri che di diritti: uomini e donne godevano degli stessi diritti politici e stessi
diritti e doveri civili potevano far parte delle corporazioni e divenire attori dell’eco-
nomia o difendere la terra in caso di guerra. I diritti sociali erano introdotti in
misura massiccia come anche 1 diritti culturali della minoranza croata e slovena.
In una lettera di de Ambris a Bonomi‘9, egli illustrò la probabile struttura cantonale
del nuovo stato: il cantone sloveno a nord, il cantone croato a sud est, il cantone
italiano a sud ovest. I cantoni secondo questo scritto dovevano aver “un’ammini-
strazione federale molto larga, riconoscendo ad ognuno di essi i diritti sovrani di
cui godono gli Stati dell’Unione Americana”. De Ambris voleva limitare il cantone
italiano alla sola città di Fiume, compresi l’isola di Cherso e i comuni litoranei della
Liburnia per dargli omogeneità etnica, anche se altre comunità potevano essere
accolte su loro esplicita richiesta.
Lo stesso de Ambris non nascondeva che l’ispirazione ideologica era quella
del “Manifesto dei sindacalisti” scritto da Olivetti‘. Egli si trovava d’accordo con
Olivetti sugli scopi della rivoluzione: non momento di violenza rivoluzionaria ma
“processo attraverso il quale si raggiungeva la distruzione delle barriere che ancora
impedivano l’affermazione dell’era sindacalista”. Parafrasando Olivetti, de Am-
bris sosteneva che il sindacalismo proclamava in primo luogo l’ assoluta autonomia
delle classi lavoratrici da organizzazioni partitiche o ideologie politiche; secondo,
si voleva l’azione diretta degli operai contro le altre classi senza intermediari
politici; terzo, la rappresentanza di interessi di categorie economiche nei corpi
elettivi; l'autonomia dei comuni, dato che il comune era considerato l’organismo
dove la libertà del popolo si affermava; l'autonomia politico-amministrativa delle
regioni; e infine, la graduale eliminazione della funzione dello stato e della sua
burocrazia.
46 R. DE FELICE, Sindacalismo ..., op.cit., pp. 286-287.
47 “I] manifesto dei sindacalisti” ora in A. O. OLIVETTI, Dal sindacalismo rivoluzionario..., op.cit., pp.
197-220.
48 R. DE FELICE, Sindacalismo..., op.cit., p. 313.
308 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
Egli riconosceva che “il suffragio universale va almeno temperato dalla
rappresentazione effettiva delle classi e delle categorie”. I capitoli sui poteri
legislativi ed esecutivi delineano un tipo di governo repubblicano, uno stato
federativo “per opera dei gruppi organici ed effettivi che lo compongono”. Si può
quindi supporre che l’ultimo motivo che giustificava l’introduzione di un ordina-
mento corporativo e una divisione spiccatamente territoriale, oltre che funzionale
del potere politico, era la paura delle conseguenze imprevedibili che l'estensione
del suffragio alla totalità dei cittadini avrebbe comportato e sulle quali nulla ancora
si sapeva.
De Ambris sottolineava la totale autonomia di ogni corporazione essendo i
loro problemi regolati sul modello delle comuni e per le quali ovviamente il criterio
di delimitazione era territoriale. “Ogni Corporazione svolge il diritto di una
compiuta persona giuridica compiutamente riconosciuta dallo Stato”. La costitu-
zione era pensata per una piccola città-stato; se fosse stata estesa all’Italia, il loro
numero sarebbe stato maggiore delle dieci corporazioni della Carta.
Non solo, i produttori erano arbitri dei destino dello stato perché avevano
doppio diritto di voto: come cittadini eleggevano il Consiglio degli Ottimi (il
senato) e come produttori il Consiglio delle corporazioni (il parlamento tecnico). I
loro rappresentanti nelle corporazioni facevano le leggi in materia economica,
commerciale e tecnica e l’arbitraggio veniva svolto dai giudici del lavoro scelti
dalle corporazioni. Coloro che non partecipavano all’attività produttiva avevano
una capacità politica dimezzata che aspettava solo di essere completamente sop-
pressa. “I cittadini produttori sono effettivamente arbitri dello stato, avendo un
doppio voto: come cittadini per l’elezione degli Ottimi — come produttori per
l’elezione dei Provvisori.”° I produttori dovevano fare le leggi per tutta la materia
economica dello Stato.
Il potere esecutivo era nelle mani dei produttori: le corporazioni eleggevano 2
dei 7 commissari del governo, quello dell’economia pubblica e quello del lavoro.
Il Consiglio delle corporazioni partecipava all’elezione di altri 3 commissari: degli
esteri, dell'educazione pubblica, delle finanze e tesoro. Infine, da cittadini i produt-
tori eleggevano il senato, che nominava i commissari agli affari interni, alla
giustizia e alla difesa nazionale.
De Ambris ammise l’influenza che il modello svizzero aveva avuto afferman-
do che “il capo del governo è presente in tutte le costituzioni — inclusa quella
4 R. DE FELICE, Sindacalismo..., op.cit., p. 317.
50 Ibidem, p. 320.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 309
svizzera — che sotto un certo punto di vista può considerarsi la più vicina al nostro
modello politico”.
Gabriele D'Annunzio e “Lo Statuto della Reggenza italiana del Carnaro”
La bozza della costituzione di de Ambris fu sottoposta al vaglio di D’ Annun-
zio che, sorprendentemente, aggiunse solo minori correzioni di natura stilistica, ma
senza cambiare lo spirito rivoluzionario ed egualitario del documento. Nella sua
forma finale essa incorporò le visioni rivoluzionarie di de Ambris con le intuizioni
volontaristiche di D’ Annunzio sulla natura dello stato che la nuova politica di
massa stava trasformando in qualcosa di molto più simile ad una manifestazione
teatrale.
Comparare l’abbozzo di de Ambris con la versione definitiva dopo le modifi-
che di D’ Annunzio, mostra le differenze nei fini politici che secondo i due la
costituzione doveva avere. Le modifiche che il Comandante apportò, ci suggeri-
scono quale poteva essere stata l'evoluzione politica del piccolo stato se solo fosse
sopravvissuto sotto il suo comando.
D'Annunzio introdusse due importanti articoli: sull’edilità e sulla musica,
nonché due corporazioni: della Gente di mare per motivi “tattici”?! e la decima con
finalità più ampie che potremmo definire “strategiche”.
La modifica più importante resta comunque l’allentamento dei limiti di tempo
della figura del dittatore, mentre per de Ambris la durata della carica era tassativa-
mente limitata a solo sei mesi per D’ Annunzio questo dato era soltanto indicativo
e non normativo”,
L’introduzione della decima corporazione resta avvolta nel mistero anche
perché la definizione che D° Annunzio ne dà non è di grande chiarezza e utilità. De
Ambris, in un commento posteriore, e più chiaro: sempre rifacendosi a Olivetti*
sostiene che il progresso tecnico libererà il lavoratore dalla fatica fisica. Il tempo
libero e l’energia messa a disposizione darà così vita a un superuomo, il primo
uomo capace di superare la maledizione biblica di produrre con pena e fatica. Ecco
5! Probabilmente per garantirsi l'appoggio di un sindacalista italiano, Giuseppe Giulietti, capo della
Federazione della ‘Gente di mare”.
52 È interessante notare che nel commento alla Carta scritto da de Ambris dopo la fine dell’Impresa, la
funzione di dittatore non viene più menzionata; il fatto suggerisce che essa fosse opera di D’ Annunzio fin dalla
bozza.
53 Si veda “Il manifesto dei sindacalisti”, op.cit., pp. 198-200.
310 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
il motto di D’ Annunzio ‘fatica senza fatica”. In realtà la funzione della decima
corporazione risulta molto simile ad una avanguardia rivoluzionaria che ha il
compito di fornire all’uomo nuovo l’indirizzo giusto per permettere la realizzazio-
ne di quel che in ultima analisi ci appare come un’utopia estetizzante. La decima
corporazione che “non ha né arte né novero né vocabolo” doveva essere l’élite
rivoluzionaria che “chiama il popolo all’aspirazione profonda, alla meta ideale
verso cui muove l’Umanità fin dai lontani millenni.”°* La presenza di tale avan-
guardia rivoluzionaria conferiva al progetto costituzionale in Fiume un’impronta
simile a quella che Lenin diede alla Rivoluzione d’Ottobre posta sotto la guida del
Partito comunista russo.
È difficile provare se la carta era un documento coerente capace di dare vita
ad un sistema politico stabile e di lunga durata. Ancora più difficile immaginare
che tipo di società si sarebbe formata sulla base di questa costituzione. A Fiume la
situazione politica difficilmente poteva dirsi ottimale all’implementazione di un
governo costituzionale: sparirono tutti i partiti politici d’anteguerra e gran parte
delle associazioni civiche. La polarizzazione di classe e nazionale erano estrema.
Dopo le dimissioni dell’intero Consiglio Nazionale col pretesto di essere stato
escluso dal processo costituente, D’ Annunzio cercò e ottenne a tutti i costi un
compromesso che portò al ristabilimento del Consiglio.
Esiste uno scetticismo generale condiviso sull’impossibilità di imporre strut-
ture democratiche non indigene dall'alto. È precisamente ciò che accadde a Fiume.
La costituzione dannunziana introdusse arrangiamenti istituzionali che erano una
novità a livello mondiale e comunque gran parte del documento conteneva arran-
giamenti non presenti nella società o nella tradizione politica della città. Nel caso
di Fiume, la fondazione di un regime costituzionale fu imposta con la forza.
D’ Annunzio giunse e si proclamò rappresentante dello stato italiano che al tempo
poteva essere considerata una democrazia e regime parlamentare. L’idea iniziale
era quella di annettere la città ed applicare il sistema giuridico e politico. Quando
le prospettive si rivelarono poco favorevoli ad un tale esito, la natura del regime di
occupazione dannunziano si trasformò da una forza provvisoria di occupazione ad
un vero e proprio regime da lui governato in maniera autocratica. La Carta del
Carnaro fu emendata quando tale processo era al suo massimo. È possibile quindi
affermare che lo stato fiumano fu prodotto di un’occupazione che si trasformò
rapidamente in regime autoritario.
54 R. DE FELICE, Sindacalismo..., op.cit., p. 329.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 311
IV. I fondamenti dello Stato
Nella sua struttura e divisione di potere la Costituzione fiumana ricorda quella
Svizzera del 1874, con i comuni che prendono il posto dei cantoni. La diversità
culturale ed etnica all’interno dei comuni viene rispettata e preservata, la Corte
suprema regola tutte le contese tra i comuni, le corporazioni e lo stato. Tutta la
nazione è armata e non c’è un esercito permanente, ma vige il popolo in armi. In
termini d’innovazioni, la novità più importante della Carta del Carnaro è rappre-
sentata dall’ordinamento corporativo, quindi della rappresentanza politica basata
su basi professionali anziché territoriali. Un'altra è l’introduzione della figura del
comandante che si rifà esplicitamente al dictator della repubblica romana. La carta
combina idee mistiche neo-religiose nate dalla fervida immaginazione e visione
poetica della vita propria di D’ Annunzio, anche se l’accento posto sulla migliora-
bilita della condizione umana che traspira da tutto il documento, corrisponde
piuttosto ad una tradizione razionalista.
La Carta del Carnaro consta di un’ Introduzione e 65 Dichiarazioni, raccolte in
20 paragrafi, di cui il primo è dedicato ai cosiddetti “fondamenti”. Il potere
costituente era messo formalmente nelle mani del popolo di Fiume. Si legge nel
preambolo:
Della perpetua volontà popolare
Fiume, libero comune italico da secoli, pel voto unanime dei cittadini e per la
voce legittima del Consiglio nazionale, dichiarò liberamente la sua dedizione
piena e intiera alla madre patria, il 30 ottobre 1918.
Il suo diritto è triplice, come l’armatura impenetrabile del mito romano.
Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie, è l’estrema rocca della cultura
latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco. Per lei, di secolo in secolo, di
vicenda in vicenda, di lotta in lotta, di passione in passione, si serbò italiano il
Carnaro di Dante. Da lei s’irraggiarono e s’irraggiano gli spiriti dell’italianità
per le coste e per le isole, da Volosca a Laurana, da Moschiena ad Albona, da
Veglia a Lussino, da Cherso ad Arbe. E questo è il suo diritto storico. Fiume, come
già l’originaria Tarsàtica posta contro la testata australe del Vallo liburnico,
sorge e si stende di qua dalle Giulie. È pienamente compresa entro quel cerchio
che la tradizione la storia e la scienza confermano confine sacro d’ Italia. E questo
è il suo diritto terrestre. Fiume con tenacissimo volere, eroica nel superare
patimenti insidie violenze d’ogni sorta, rivendica da due anni la libertà di sceglier-
32 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
si il suo destino e il suo compito, in forza di quel giusto principio dichiarato ai
popoli da taluno dei suoi stessi avversari ingiusti. E questo è il suo diritto umano.
La costituzione risultava quindi necessaria e legittima in conseguenza del
diritto inviolabile delle genti all’autodecisione. La carta dannunziana fu il primo
documento costituzionale che pone il diritto di autodeterminazione dei popoli alla
base della legittimazione della rivoluzione”.
Ancora dal preambolo:
Le contrastano il triplice diritto l’iniquità la cupidigia e la prepotenza stra-
niere; a cui non si oppone la triste Italia, che lascia disconoscere e annientare la
sua propria vittoria. Per ciò il popolo della libera città di Fiume, sempre fisso al
suo fato latino e sempre inteso al compimento del suo voto legittimo, delibera di
rinnovellare i suoi ordinamenti secondo lo spirito della sua vita nuova, non
limitandoli al territorio che sotto il titolo di "Corpus separatum" era assegnato
alla Corona ungarica, ma offrendoli alla fraterna elezione di quelle comunità
adriatiche le quali desiderassero di rompere gli indugi, di scuotere l’opprimente
tristezza e d’insorgere e di risorgere nel nome della nuova Italia. Così, nel nome
della nuova Italia, il popolo di Fiume costituito in giustizia e in libertà fa giura-
mento di combattere con tutte le sue forze, fino all’estremo, per mantenere contro
chiunque la contiguità della sua terra alla madre patria, assertore e difensore
perpetuo dei termini alpini segnati da Dio e da Roma.
L’obiettivo rivoluzionario ci viene indicato dal terzo paragrafo:
III La Reggenza italiana del Carnaro è un governo schietto di popolo che ha
per fondamento la potenza del lavoro produttivo e per ordinamento le più larghe
e le più varie forme dell’autonomia quale fu intesa ed esercitata nei quattro secoli
gloriosi del nostro periodo comunale.
Il concetto di Stato
XVIII Lo Stato è la volontà comune e lo sforzo comune del popolo verso un
sempre più alto grado di materiale e spirituale vigore. Soltanto i produttori assidui
della ricchezza comune e i creatori assidui della potenza comune sono nella
55 T. MIRABELLA, La Carta del Carnaro, Palermo, 1940, p. 57.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 313
Reggenza i compiuti cittadini e costituiscono con essa una sola sostanza operante,
una sola pienezza ascendente. Qualunque sia la specie del lavoro fornito di mano
o d’ingegno, d’industria o d’arte, di ordinamento o di eseguimento, tutti sono per
obbligo inscritti in una delle dieci Corporazioni costituite che prendono dal
Comune l’immagine della lor figura, ma svolgono liberamente la loro energia e
liberamente determinano gli obblighi mutui e le mutue provvidenze.
Lo Stato era la volontà comune del popolo verso gradi sempre maggiori di
vigore spirituale e materiale. Con questa definizione dello stato gli enti che
tradizionalmente si usano per definire lo stato furono omessi. Invece che definire
lo stato in termini del suo territorio o la sua sovranità, troviamo solo il concetto
indefinito di popolo e l'assunzione teleologica che era un diritto e un dovere delle
genti tendere verso livelli superiori di vigore spirituale e materiale. Lo stato era
passibile di miglioramento e così la sua costituzione. Il corollario successivo era
che lo stato non si identificava con l’ordine giuridico di un gruppo sociale insediato
in un determinato territorio, ma come convergenza di attività umane verso una
relativa perfezione. Se questo principio vitale veniva meno, anche le istituzioni
dello stato sarebbero sparite e crollate entro poco tempo. È da notare l'evidente
affinità con la contemporanea filosofia politica del repubblicanesimo che, piuttosto
che allo sviluppo dei diritti entro una società, antepone come obiettivo dello stato
lo sviluppo delle virtù civili dei cittadini”.
Questo fatto ci spiega un’altra caratteristica della costituzione: quella dell’uni-
tà di potere. Non c’era un sistema di controlli e di equilibri tra i rami del potere,
ma una divisione meccanica dei loro compiti senza ripetizioni o ridondanze. Ciò
che doveva unire e prevenire i conflitti, doveva essere un’ideologia comune, che
in tempi di crisi avrebbe potuto essere interpretata e rappresentata solo dal Coman-
dante. D’ Annunzio sembrò concordare che l’esistenza, la formazione e la coerenza
dei gruppi sociali restino su una decisione individuale. Per usare un’espressione di
U. Preuss chi costituiva la nazione, il demos o l’ethnos? L’ ambiguità risiede nel
fatto che la nazione può essere intesa in due modi molto diversi: essa viene
comunemente definita come un gruppo di associati che vive sotto le stesse leggi e
viene rappresentato dalla stessa assemblea legislativa, secondo l’altra concezione
essa si identifica piuttosto con una comunità di sangue che costituiscono una stirpe.
Lo spirito del primo articolo della Carta del Carnaro propende alla prima conce-
zione affermando:
56 P. PETTIT, Republicanism, Oxford, 1997.
314 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
I Il popolo sovrano di Fiume, valendosi della sua sovranità non oppugnabile
né violabile, fa centro del suo libero stato il suo "Corpus separatum", con tutte le
sue strade ferrate e con l’intiero suo porto. Ma, come è fermo nel voler mantenere
contigua la sua terra alla madre patria dalla parte di ponente, non rinunzia a un
più giusto e più sicuro confine orientale che sia per essere determinato da prossime
vicende politiche e da concordati conclusi coi comuni rurali e marittimi attratti dal
regime del porto franco e dalla larghezza dei nuovi statuti.
Per Rousseau il tipo ideale di popolo pronto a ricevere una costituzione deve
già essere legato da una qualche associazione, interesse o accordo originario. Quale
poteva essere l’interesse che univa gli individui nella Reggenza? La Reggenza era
un governo schietto di popolo fondato sulla potenza del lavoro produttivo. Il lavoro
è il principale fattore di produzione secondo gli autori e permette di fondare la
costituzione dello stato che ha l’obbiettivo di assicurare un progresso verso un
maggiore vigore spirituale e materiale. Come per la Costituzione di Weimar e a
differenza di quelle sovietiche del 1918 e 1936, il lavoro non era limitato al lavoro
manuale ma anche alla creazione artistica e allo sforzo intellettivo e alla gestione
di risorse produttive. Il diritto al lavoro è allo stesso tempo un dovere, visto che la
disoccupazione volontaria può condurre ad una perdita della cittadinanza.
IV La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza
divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione. Ma amplia ed inalza e
sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori (...)
Come abbiamo già detto, D’ Annunzio introdusse alcune modifiche ed aggiun-
te alla costituzione ambrisiana. Esse ci sono d’aiuto per comprendere quale fosse
la visione dello stato di D’ Annunzio. In primo luogo, la denominazione dello stato
come “Reggenza” al posto di “Repubblica”; d’altra parte sottolinea il suo carattere
provvisorio che agisce quasi da agente e rappresentante degli interessi del Regno
d’Italia, smussandone anche la natura rivoluzionaria.
XIV Tre sono le credenze religiose collocate sopra tutte le altre nella univer-
sità dei Comuni giurati: la vita è bella, e degna che severamente e magnificamente
la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà; l’uomo intiero è colui che sa ogni giorno
inventare la sua propria virtù per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono;
il lavoro anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla
bellezza e orna il mondo.
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La natura laica di queste provvisioni non ha bisogno di particolari commenti
e comunque fa capire quanto l’ideale estetico dovesse permeare la vita pubblica,
politica, economica e sociale nella visione di D’ Annunzio. Pure la pianificazione
urbanistica e architettonica entrava a far parte del testo costituzionale.
Della edilità
LXII È instituito nella Reggenza un collegio di Edili, eletto con discern-
imento fra gli uomini di gusto puro, di squisita perizia, di educazione novissima.
Più che l’edilità romana il collegio rinnovella quegli ufficiali dell’ornato della
città che nel nostro Quattrocento componevano una via o una piazza con quel
medesimo senso musicale che li guidava nell’apparato di una pompa repubblicana
o in una rappresentazione carnascialesca. Esso presiede al decoro del vivere
cittadino; cura la sicurezza, la decenza, la sanità degli edifizii pubblici e delle case
particolari; impedisce il deturpamento delle vie con fabbriche sconce o mal
collocate; allestisce le feste civiche di terra e di mare con sobria eleganza,
ricordandosi di quei padri nostri a cui per fare miracoli di gioia bastava la dolce
luce, qualche leggera ghirlanda, l’arte del movimento e dell’aggruppamento
umano; persuade ai lavoratori che l’ornare con qualche segno di arte popolesca
la più umile abitazione è un atto pio, e che v’è un sentimento religioso del mistero
umano e della natura profonda nel più semplice segno che di generazione in
generazione si trasmette inciso o dipinto nella madia, nella culla, nel telaio, nella
conocchia, nel forziere, nel giogo; si studia di ridare al popolo l’amore della linea
bella e del bel colore nelle cose che servono alla vita d’ogni giorno, mostrandogli
quel che la nostra gente vecchia sapesse fare con un leggero motivo geometrico,
con una stella, con un fiore, con un cuore, con un serpe, con una colomba sopra
un boccale, sopra un orcio, sopra una mezzina, sopra una panca, sopra un cofano,
sopra un vassoio; si studia di dimostrare al popolo perché e come lo spirito delle
antiche libertà comunali si manifestasse non soltanto nelle linee, nei rilievi, nelle
commettiture delle pietre, ma perfino nell’impronta dell’uomo posta su l’utensile
fatto vivente e potente; infine, convinto che un popolo non può avere se non
l’architettura che merita la robustezza delle sue ossa e la nobiltà della sua fronte,
si studia di incitare e di avviare intraprenditori e costruttori a comprendere come
le nuove materie - il ferro, il vetro, i cementi - non domandino se non di essere
inalzate alla vita armoniosa nelle invenzioni della nuova architettura.
La provvisione più discussa e segnata da interpretazioni contrastanti è quella
sulla musica:
316 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
Della musica
LXIV Nella Reggenza italiana del Carnaro la Musica è una istituzione
religiosa e sociale. Ogni mille anni, ogni duemila anni sorge dalla profondità del
popolo un inno e si perpetua. Un grande popolo non è soltanto quello che crea il
suo Dio a sua somiglianza ma quello che anche crea il suo inno per il suo Dio. Se
ogni rinascita d’una gente nobile è uno sforzo lirico, se ogni sentimento unanime
e creatore è una potenza lirica, se ogni ordine nuovo è un ordine lirico nel setiso
vigoroso e impetuoso della parola, la Musica considerata come linguaggio rituale
è l’esaltatrice dell’atto di vita, dell’opera di vita. Non sembra che la grande
Musica annunzi ogni volta alla moltitudine intenta e ansiosa il regno dello spirito?
Il regno dello spirito umano non è cominciato ancora. "Quando la materia
operante su la materia potrà tener vece delle braccia dell’uomo, allora lo spirito
comincerà a intravedere l’aurora della sua libertà" disse un uomo adriatico, un
uomo dalmatico: il cieco veggente di Sebenico. Come il grido del gallo eccita
l’alba, la musica eccita l’aurora, quell’aurora. Intanto negli strumenti del lavoro
e del lucro e del gioco, nelle macchine fragorose che anch’esse obbediscono al
ritmo esatto come la poesia, la Musica trova i suoi movimenti e le sue pienezze.
Delle sue pause è formato il silenzio della decima Corporazione.
Questo articolo risulta estremamente difficile da comprendere, specie per una
provvisione costituzionale: innegabile risulta il tenore nazionalistico che impone
ad “ogni popolo” di creare ‘il suo inno per il suo Dio”. Un’interpretazione?” della
funzione religiosa e quindi ideologica della musica si potrebbe avanzare con
l’utilizzo degli inni e dei canti epici come strumento per l’educazione dei futuri
cittadini. Tale indottrinamento avrebbe dovuto preparare i cittadini ad affrontare le
sfide del futuro grazie a modelli comportamentali predefiniti che si addicono ad un
popolo particolare rispettando il suo carattere, le sue tradizioni ed esperienze
storiche comuni.
La parte sul “Regno dello Spirito” esemplifica e chiarifica la funzione della
famosa X Corporazione che deve guidare gli uomini in un’epoca in cui il progresso
tecnico renderanno disponibili tempoe risorse materiali agli uomini e il cui utilizzo
più proficuo, nobile e produttivo diventa compito della X corporazione che agisce
come una specie di avanguardia estetico mistica.
LXV Sono istituiti in tutti i Comuni della Reggenza corpi corali e corpi
57 Tale interpretazione mi è stata suggerita dal prof. M. Matulovié (Com. pers.) e non mi risulta sia stata
avanzata da altri autori.
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istrumentali con sovvenzione dello Stato. Nella città di Fiume al collegio degli
Edili è commessa l’edificazione di una Rotonda capace di almeno diecimila
uditori, fornita di gradinate comode per il popolo e d’una vasta fossa per l’orche-
stra e per il coro. Le grandi celebrazioni corali e orchestrali sono totalmente
gratuite come dai padri della Chiesa è detto delle grazie di Dio.
Il territorio
La possibilità di cambiare i confini del nuovo stato era lasciata aperta. Esso
poteva espandersi sia perché altri comuni potevano sentirsi attratti dal regime da
porto franco, dunque incentivazioni economiche o “dalla larghezza dei suoi statu-
ti”. Probabilmente D'Annunzio si rendeva conto che la coerenza di una politica
necessitava più che un mero contratto stipulato da individui liberi ed uguali. Molto
probabilmente l’omogeneità etnica era per lui la condizione più importante, fatto
accettato anche da molti studiosi odierni. Infatti, nella premessa si affermava
anche la possibilità che in caso di insurrezione delle comunità adriatiche, ad esse
non sarebbe mancato il supporto di Fiume.
II La Reggenza italiana del Carnaro è costituita dalla terra di Fiume, dalle
isole di antica tradizione veneta che per voto dichiarano di aderire alle sue
fortune; e da tutte quelle comunità affini che per atto sincero di adesione possano
esservi accolte secondo lo spirito di un’apposita legge prudenziale.
D'altra parte, la premessa non pone il limite del nuovo Stato al corpus
separatum, ma a tutte le fraterne comunità adriatiche che vogliono insorgere. La
definizione del territorio della Reggenza incluse anche “le isole di tradizione
veneta” nonché le “comunità affini”. Nel commento alla carta, scritto da de
Ambris, questi si premurò a negare velleità imperialistiche al programma di
riconquista della Dalmazia di evidente ispirazione nazionalista, affermando che:
“se le isole di antica tradizione veneta ed i comuni finintimi di terraferma
sentiranno che è nel loro interesse di seguire le sorti di Fiume ed in tal senso
voterannoliberamente l’adesione, noili accoglieremo fraternamente con pari
58 UK. PREUSS, “Constitutional Powermaking of the New Polity: Some Deliberations on the Relations
Between Constituent Power and Constitution”, Constitutionalism, Identity, Difference and Legitimacy, Durham
and London, 1994, p.162.
318 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
diritti, tuttavolta che — naturalmente esaminata la loro richiesta — ci convenga
di accettarla”’.59
Le isole di Veglia ed Arbe erano stare infatti occupate militarmente dai
legionari di D° Annunzio due settimane prima della proclamazione della Carta. Il
fatto causò un aumento della tensione nei rapporti italo-jugoslavi, dato che le due
isole erano già state assegnate alla Jugoslavia.
Cittadinanza
Come venne concepito il diritto di cittadinanza- che fondae intitola al posses-
so di tutti gli altri diritti? La cittadinanza nel primo disegno di costituzione di de
Ambris venne definita mediante il principio dello ius soli: cittadini erano coloro
che erano nati a Fiume e nel suo circondario che apparteneva al corpus separatum.
Nel caso altre regioni volessero entrare a far parte della Repubblica del Carnaro,
anche i residenti di tali regioni sarebbero divenuti cittadini, dunque nuovamente
veniva applicato il principio di territorialità. D° Annunzio estese il diritto di citta-
dinanza a tutte le persone che a quel momento si trovavano a Fiume. La cittadinan-
Za si poteva ottenere per merito, ma anche su richiesta. Da notare che non
sussisteva discriminazione su base etnica, politica o culturale.
È da tenere presente che quando D’ Annunzio mise le sue idee sulla natura
dello stato nella prima parte della carta, c’era poco spazio per definizioni geogra-
fiche, e molto di più nella volontà umana. Egli concepì lo stato come unione
volontaria di spiriti umani che condividono gli stessi obiettivi e di conseguenza
cambiò il criterio di cittadinanza.
XV Hanno grado e titolo di cittadini nella Reggenza tutti i cittadini presente-
mente noverati nella libera città di Fiume; tutti i cittadini appartenenti alle altre
comunità che chiedano di far parte del nuovo Stato e vi sieno accolte; tutti coloro
che per pubblico decreto del popolo sieno di cittadinanza privilegiati; tutti coloro
che, avendo chiesta la cittadinanza legale, l’abbiano per decreto ottenuta. A
XVI I cittadini della Reggenza sono investiti di tutti i diritti civili e politici nel
punto in cui compiono il ventesimo anno di età. Senza distinzione di sesso diven-
tano legittimamente elettori ed eleggibili per tutte le cariche.
59 A. DE AMBRIS, La Costituzione..., op.cit., p. 10.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 319
XVII Saranno privi dei diritti politici, con regolare sentenza, cittadini con-
dannati in pena d’infamia; ribelli al servizio militare per la difesa del territorio;
morosi al pagamento delle tasse, parassiti incorreggibili a carico della comunità,
se non sieno corporalmente incapaci di lavorare per malattia o per vecchiezza.
Durante tutto il periodo di occupazione dannunziana a Fiume, le autorità locali
erano molto riluttanti a concedere il diritto di cittadinanza ai forestieri. Il Consiglio
Nazionale, che era la continuazione del Consiglio comunale d’anteguerra, applica-
va la vecchia normativa in merito. Nel regno di Ungheria, Fiume era considerata
una città libera ed aveva autorità ed autonomia decisionale per le questioni di
cittadinanza. Tale “cittadinanza comunale” era definita “pertinenza” e consentiva
al suo possessore di partecipare alla vita politica cittadina e a trovare impiego
presso gli uffici comunali. Tipicamente la si acquistava per nascita entro il territo-
rio del corpus separatum o sposando un cittadino fiumano. Il criterio della perti-
nenza causò molti attriti con gli arditi dannunziani, dato che a molti di loro la
pertinenza fu negata. Le provvisioni liberali che D’ Annunzio introdusse in materia
di cittadinanza, rappresentavano quindi un novità per la pratica amministrativa
fiumana e la locale consuetudine normativa. Esse possono essere considerate anche
come uno strumento tattico di D° Annunzio per poter assicurare status legale alla
presenza in città delle sue truppe e ai suoi collaboratori senza interferenze della
autorità locali.
È significativa la testimonianza di Vilfredo Pareto, il famoso sociologo italia-
no. Oltre ad essere difensore dell’italianità di Fiume, seguì la vicenda di Fiume
anche per ragioni personali. Egli era separato dalla prima moglie fin dagli inizi
del secolo, il suo amico Maffeo Pantaleoni (nominato da D’ Annunzio Rettore per
le Finanze e il tesoro nel Governo Provvisorio della Reggenza) gli aveva fatto
sperare l'ottenimento del divorzio a Fiume mediante l’acquisizione della cittadi-
nanza fiumana.
Il 15 settembre 1922, dunque ben 2 anni dopo la fine dell’Impresa, il tribunale
gli sentenziava in “nome del popolo sovrano di Fiume” la commutazione della
sentenza di separazione in scioglimento di matrimonio. Il passaporto fiumano
venne emesso il 21 ottobre ed aveva validità in Italia, Francia e Svizzera, dove
Pareto risiedeva.
Da quanto riportato da Busino, le vecchie norme restrittive in materia di
cittadinanza e pertinenza fiumana si conservarono anche due anni dopo la cacciata
60 G. BUSINO, “Vilfredo Pareto cittadino fiumano”, Fiume, n.s. 6 (1983), pp. 80-86;
320 W. KLINGER, La carta del Camaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343
di D’Annunzio da Fiume. Si può quindi supporre che le norme in materia di
cittadinanza (delle quali D’ Annunzio stesso lamentava l’eccessiva restrittività)
furono simili nella forma e sostanza. Uno degli obiettivi tattici della costituzione
fiumana era quindi anche quello di rilassare notevolmente le procedure di cittadi-
nanza, cosa che avrebbe ridotto l’autorità del CNI e consentito la rapida naturaliz-
zazione di legionari e arditi a Fiume.
Oltre a questo momento volontaristico che definiva lo stato e la cittadinanza,
c’era pure un accento forte sulle origini culturali ed etniche della nazione. Come
potevano andare insieme questi principi così diversi e per certi versi pure contrad-
dittori? Probabilmente era la pratica dell’assimilazione culturale che doveva risol-
vere tale problema, come recita l’articolo L:
L Per ogni gente di nobile origine la coltura è la più luminosa delle armi
lunghe. Per la gente adriatica, di secolo in secolo costretta a una lotta senza tregua
contro l’usurpatore incolto, essa è più che un’arme: è una potenza indomabile
come il diritto e come la fede. Per il popolo di Fiume, nell’atto medesimo della sua
rinascita a libertà, diviene il più efficace strumento di salute e di fortuna sopra
l’insidia estranea che da secoli la stringe. La cultura è l’aroma contro le corruzio-
ni. La coltura è la saldezza contro le deformazioni. Sul Carnaro di Dante il culto
della lingua di Dante è appunto il rispetto e la custodia di ciò che in tutti i tempi
fu considerato come il più prezioso tesoro dei popoli, come la più alta testimonian-
za della loro nobiltà originaria, come l’indice supremo del loro sentimento di
dominazioiie morale. La dominazione morale è la necessità guerriera del nuovo
Stato. L’esaltazione delle belle idee umane sorge dalla sua volontà di vittoria.
Mentre compisce la sua unità, mentre conquista la sua libertà, mentre instaura la
sua giustizia, il nuovo Stato deve sopra tutti i suoi propositi proporsi di difendere
conservare propugnare la sua unità la sua libertà la sua giustizia nella regione
dello spirito. Roma deve qui essere presente nella sua coltura. L’Italia deve qui
essere presente nella sua coltura. Il ritmo romano, il ritmo fatale del compimento,
deve ricondurre su le vie consolari l’altra stirpe inquieta che s’illude di poter
cancellare le grandi vestigia e di poter falsare la grande storia. Nella terra di
specie latina, nella terra smossa dal vomere latino, l’altra stirpe sarà foggiata o
prima o poi dallo spirito creatore della latinità: il qual é non è se non una
disciplinata armonia di tutte quelle forze che concorrono alla formazione
dell’uomo libero. Qui si forma l’uomo libero. E qui si prepara il regno dello
spirito, pur nello sforzo del lavoro e nell’acredine del traffico. Per ciò la Reggenza
italiana del Carnaro pone alla sommità delle sue leggi la coltura del popolo; fonda
sul patrimonio della grande coltura latina il suo patrimonio.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 321
Diritti fondamentali
VI Tutti i cittadini dello Stato, d’ambedue i sessi, sono e si sentono eguali
davanti alla nuova legge. L’esercizio dei diritti riconosciuti dalla costituzione non
può essere menomato né soppresso in alcuno se non per conseguenza di giudizio
pubblico e di condanna solenne.
VII Le libertà fondamentali di pensiero, di stampa, di riunione e di associa-
zione sono dagli statuti garantite a tutti i cittadini. Ogni culto religioso è ammesso,
è rispettato, e può edificare il suo tempio; ma nessun cittadino invochi la sua
credenza e i suoi riti per sottrarsi all’adempimento dei doveri prescritti dalla legge
viva. L’abuso delle libertà statutarie, quando tenda a un fine illecito e turbi
l’equilibrio della convivenza civile, può essere punito da apposite leggi; ma queste
non devono in alcun modo ledere il principio perfetto di esse libertà.
L'introduzione della parità dei sessi era una novità per l’Italia. La giustifica-
zione di questo passo veniva data sia in termini di diritti originari che conseguenze
pratiche. Si pensava che esso avrebbe riflettuto meglio le preferenze degli elettori
migliorando la qualità della democrazia. Ma soprattutto il ruolo delle donne nella
difesa del paese che giustificava l’introduzione dei diritti politici anche alle donne.
Diritti sociali
VIII Gli statuti garantiscono a tutti i cittadini d’ambedue i sessi: l’istruzione
primaria in scuole chiare e salubri; l’educazione corporea in palestre aperte e
fornite; il lavoro remunerato con un minimo di salario bastevole a ben vivere;
l’assistenza nelle infermità, nella invalitudine, nella disoccupazione involontaria;
la pensione di riposo per la vecchiaia; l’uso dei beni legittimamente acquistati;
l’inviolabilità del domicilio; l’ "habeas corpus"; il risarcimento dei danni in caso
di errore giudiziario o di abusato potere.
La scelta e l’ordine di diritti che i costituenti decidono di inserire in un testo
costituzionale, non segue da regole universali o precise, ma dalle incertezze dei
costituenti. Le incertezze dipendono dalle regole che definiscono l’operato dello
stato e dalle aspettative di coloro che scrivono la costituzione!'. Nella Fiume
6! J ELSTER, Ulysses Unbound..., op.cit.
322 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 273-343
Il porto di Fiume
costituenti. Le incertezze dipendono dalle regole che definiscono l’operato dello
stato e dalle aspettative di coloro che scrivono la costituzione?!. Nella Fiume
dannunziana, la disoccupazione e la miseria erano talmente diffuse da minacciare
di disgregare il tessuto sociale. L'estensione di quelli che oggi chiamiamo diritti
sociali si spiega con la natura delle maggiori incertezze che pesavano sulla popo-
lazione di Fiume e sui costituenti che erano quelle legate alla sicurezza sociale.
Un diritto protetto dalla costituzione comporta non solo la libertà di agire, ma
anche la capacità ad agire. Come si vede, i diritti sociali nella carta erano espliciti.
Tale “altruismo costituzionale” non sorprende per de Ambris visto il suo passato
politico, ma per D’ Annunzio sì. Esperienze come la guerra fanno sentire gli uomini
più vicini e solidali. La costituzione fiumana fu scritta dopo una guerra e una sorta
di rivoluzione (o piuttosto ribellione) in un momento quando i legami tra gli uomini
raggiungono il massimo. Ci sono molti resoconti sull’ atmosfera “strana o comuna-
le” che si respirava a Fiume in quei giorni, accompagnata dalla rottura di barriere
cetuali, di sesso, di generazioni, che ricordano i resoconti della Comune di Parigi.
È plausibile che la particolare esperienza fiumana spinse D’ Annunzio a mettere in
costituzione provvisioni che offrivano una protezione minima di tutti i cittadini dai
rischi comuni che tutti corrono.
Motivazioni patriottiche giustificavano anche l’introduzione di diritti sociali
come il sussidio di disoccupazione, la malattia e la pensione: non si poteva
pretendere dai cittadini il sacrificio supremo in caso di guerra senza dargli anche
garanzie sociali che facessero capire che valeva la pena di combattere e sacrificarsi
per la patria. Evidenza di parecchi paesi mostra che in seguito a guerre e rivoluzio-
ni, le élites politiche sentendosi più vicine alle sofferenze della masse sono più
disposte a concedere concessioni di tipo economico o di eguaglianza sociale.
Quanto accadde a Fiume può forse spiegarsi come conseguenza di eventi trauma-
tici che aumentarono il livello di solidarietà sociale anche in D’ Annunzio, non
certo attento a questioni di diseguaglianza distributiva prima della guerra. Una
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 273-343 323
XXXXVIII A tutti i cittadini che durante il servizio militare abbiano contratto
una infermità insanabile, e alle loro famiglie in bisogno, è dovuto il largo soccorso
dello Stato. Lo Stato adotta i figli dei cittadini gloriosamente caduti in difesa della
terra, soccorre i consanguinei se siano in distratta, raccomanda i nomi dei morti
alla memoria delle generazioni.
L’ingerenza della politica nelle questioni economiche era comunque pesante.
La Banca centrale era alle dirette dipendenze del governo, quindi il suo grado di
indipendenza era minimo. Tale fatto probabilmente si giustifica con la paura che
una politica monetaria tropo restrittiva avrebbe avuto effetti negativi sull’occupa-
zione. Come molti altri governi che si trovarono ad affrontare i problemi della
stabilizzazione macroeconomica dopo la prima guerra mondiale, essi scelsero
l’inflazione come male minore rispetto alla disoccupazione. A Fiume la disoccu-
pazione era a livelli senza precedenti, mentre non c'erano ancora esperienze di
iperinflazione che caratterizzarono diversi stati nel primo dopoguerra.
Il porto e le strade ferrate dovevano essere nazionalizzate, e si trattava di industrie
chiave per la città. L'estensione delle garanzie sociali era tale che la spesa pubblica del
govemo fiumano sarebbe stata sicuramente alta. Evidentemente, anche questo nelle
valutazioni dei costituenti era il male minore e valeva il prezzo da pagare:
X Il porto, la stazione, le strade ferrate comprese nel territorio fiumano sono
proprietà perpetua incontestabile ed inalienabile dello Stato. È concesso - con un
Breve del Porto franco - ampio e libero esercizio di commercio, di industria, di
navigazione a tutti gli stranieri come agli indigeni, in perfetta parità di buon
trattamento e immunità da gabelle ingorde e incolumità di persone e di cose.
XI Una Banca nazionale del Carnaro, vigilata dalla Reggenza, ha l’incarico
di emettere la carta moneta e di eseguire ogni altra operazione di credito. Una
legge apposita ne determinerà i modi e le regole, distinguendo nel tempo medesimo
i diritti gli obblighi e gli oneri delle Banche già nel territorio operanti e di quelle
che fossero per esservi, fondate.
Diritti di proprietà
IX Lo Stato non riconosce la proprietà come ildominio assoluto della persona
sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna
proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può esser
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lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad
esclusione di ogni altro. Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di
produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa
massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale.
La concezione dei diritti di proprietà oggi è molto diversa rispetto al XIX
secolo. Tipicamente oggi essa prevede un sistema di proprietà privata sui mezzi di
produzione a libertà di contratto, nonché un sistema di istituzioni che rendono
possibile un’economia di mercato. La giustificazione politica per la proprietà
privata è la credenza che tutti gli individui possono trarre benefici dall’ aumento di
valore che un sistema di mercato può generare, di conseguenza il desiderio di
proteggere tali istituzioni si trova oggi nel maggior numero di agende politiche.
Per questo motivo il concetto e la giustificazione della proprietà privata data
da de Ambris nella costituzione non appare rivoluzionaria oggi. Il suo progetto
costituzionale è stato attaccato anche decenni dopo l'Impresa. Il rettore dell’eco-
nomia, Maffeo Pantaleoni, ripudiò soprattutto le caratteristiche di monopolio delle
corporazioni e la concezione di proprietà perché funzionale: la proprietà privata era
legittimata dai benefici alla società non in virtù di un diritto originario, il che
significava che la proprietà senza benefici sociali poteva essere sospesa.
Dittatura
XXXII Quando la Reggenza venga in pericolo estremo e veda la sua salute
nella devota volontà d’un solo, che sappia raccogliere eccitare e condurre tutte le
forze del popolo alla lotta e alla vittoria, il Consiglio nazionale solennemente
adunato nell’Arengo può nominare a viva voce per voto il Comandante e a lui
rimettere la potestà suprema senza appellazione. Il Consiglio determina il più o
men breve tempo dell’imperio non dimenticando che nella Repubblica romana la
dittatura durava sei mesi.
XXXXIV Il Comandante, per la durata dell’imperio, assomma tutti i poteri
politici e militari, legislativi ed esecutivi. I partecipi del Potere esecutivo assumo-
no presso di lui officio di segretarii e commissario.
XXXXV Spirato il termine dell’imperio, il Consiglio nazionale si raduna e
delibera di riconfermare il Comandante nella carica, oppure di sostituire in suo
luogo un altro cittadino, oppure di deporlo, o anche di bandirlo.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 325
XXXXVI Ogni cittadino investito dei diritti politici, sia 0 non sia partecipe
dei poteri nella Reggenza, può essere eletto al supremo officio.
Uno dei timori più diffusi nelle assemblee costituzionali del primo dopoguerra
era costituito dall’introduzione della democrazia di massa. Essa era una logica
conseguenza dell’estensione del suffragio a tutti gli uomini e donne adulti e i
problemi di governabilità che esso generava costituivano un’incognita. A Fiume,
la procedura di ratificazione adottata corrispondeva allo stile della democrazia
plebiscitaria, e la Carta fu accettata per acclamazione popolare. Per controbilancia-
re e conferire legittimità alle istituzioni, ogni istituzione o carica pubblica prevista
dalla Costituzione poteva essere revocata o abolita per volontà popolare. Una
simile linea di pensiero fu adottata anche da Max Weber nelle sue riflessioni sulla
Costituzione di Weimar del 1919. Max Weber, ai tempi della Costituente di
Weimar, sosteneva che con l’estensione del suffragio, la democrazia avrebbe
assunto sempre di più una forma plebiscitaria e che di conseguenza essa necessita-
va di un capo plebiscitario atto a governarla e rappresentarla in momenti di crisi.
Fu questa argomentazione che condusse all’introduzione del famigerato art. 54
della Costituzione tedesca del 1919, che conferiva al presidente del Reich poteri
eccezionali e dittatoriali in caso di difficoltà che l’esecutivo avrebbe incontrato
causate dal parlamento e dell’ingovernabilità dello stesso.
Le considerazioni di D’Annunzio sulla democrazia e la sfiducia che egli
nutriva nei confronti del parlamento lasciano intendere che argomenti del genere
non gli dovessero risultare estranei. La figura del Comandante, esplicitamente
modellata sulla figura dittatoriale della Repubblica romana, era limitata nel tempo
a soli 6 mesi. Ma mentre nel disegno di de Ambris, tale limite era tassativo, nella
versione finale di D’Annunzio esso era stato ridotto ad una valenza puramente
indicativa.
Alcuni aspetti del processo costituente seguono dalla necessità di giungere a
compromessi con le istituzioni legittimanti. D’ Annunzio per esempio non poteva
ignorare il Consiglio Nazionale, anche se era contro i suoi interessi e posizioni ed
era discreditato nella pubblica opinione. Alcune limitazioni furono imposte anche
dal Consiglio Nazionale, perlomeno indirettamente: la minaccia del dissenso del
Consiglio influenzò il processo costituente che rimase segreto. L’esclusione del
Consiglio Nazionale dal processo costituente spinse D’ Annunzio ad adottare un
tipo di ratificazione plebiscitaria. È anche vero che D’Annunzio rispettò l'autorità
del Consiglio Nazionale che godeva di legittimazione democratica, dato che la sua
composizione fu ratificata per plebiscito nel novembre 1918. Nonostante avesse i
mezzi e la popolarità per farlo, D'Annunzio non cercò mai di sospendere o
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attaccare il Consiglio né di minacciare l’operato dei suoi membri. Tipicamente egli
cercò sempre di giungere a compromessi, anche se le sue azioni nell’ultima parte
dell’Impresa mostrano un deciso spostamento verso i modi autocratici, opportuni-
stici e forse irrazionali. In breve: gli obiettivi cominciarono ad essere sempre più a
breve termine, probabilmente in quanto la ‘finestra di opportunità” delle sue azioni
si stava restringendo sempre più e di conseguenza i suoi orizzonti si stavano
restringendo.
V Conclusione
L’evoluzione dell’Impresa che condusse alla promulgazione della Carta fa
parte del declino del razionalismo nel pensiero politico successivo alla Grande
guerra. Carl Schmitt, analizzando la crisi della democrazia parlamentare del dopo-
guerra, intuì che l’opera di distruzione e di opposizione degli anarchici all’ autorità
e all’unità dello stato moderno, sarebbe stata rimossa da un’altra fonte di legittimità
atta ad introdurre un nuovo senso di disciplinata autorità e di ordine nello stato
nell’era della politica di massa. Solo l’uso estensivo del mito in politica, teorizzato
dapprima dall’opera di Sorel, poteva servire allo scopo fornendo alle masse lo
stimolo emozionale ed estetico necessario®. L’esperienza della guerra fornì i miti
e un senso di necessità di ordine e d’autorità posto su nuove basi estetiche,
militarizzate, nazionaliste ed eroiche. L’uomo che per primo seppe sfruttare tutto
questo fu D° Annunzio a Fiume. La sua costituzione risulta storicamente tanto più
significativa in quanto essa si presenta come una prima cristallizzazione di un
sistema politico nata nel caos del primo dopoguerra. Il documento in pratica non
entrò in forza, comunque anche in assenza di una verifica sul campo della vita
politica ed istituzionale si può ipotizzare che esso avrebbe avuto problemi in
termini di stabilità e coerenza. Il principio di unità del potere e la divisione quasi
meccanica delle aree di competenza dei vari corpi politici risultava in una presso-
ché totale assenza di controlli e bilanciamenti. Il parlamento era quasi senza potere
nei confronti dell’esecutivo. L’esecutivo non aveva nessuna responsabilità nei
confronti del legislativo e dunque è questione aperta se lo stato di Fiume, dato un
tale assetto costituzionale, sarebbe mai riuscito ad evitare una permanente situazio-
ne di emergenza costituzionale.
Il comando dannunziano e de Ambris stavano esplicitamente agendo da
62 C. SCHMITT, The Crisis of Parliamentary Democracy, Cambridge, 1985.
W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 327
avanguardia rivoluzionaria. Ciò emerge chiaramente dalla decima corporazione, la
cui funzione principale era quella di formare un’ideologia per le masse in una sorta
di religione secolarizzata e rendere possibile l’utopia politica, estetica di D’ Annun-
zio. Essenzialmente come altri movimenti organicisti, era una rivolta contro l’in-
dividualismo atomistico identificato con l’ideologia politica del liberalismo e
contro lo statismo monistico degli hegeliani e soprattutto marxisti. Lo stato moni-
stico preferiva concepire gli individui come entità separate dato che sono più facili
da controllare. Una società formata da individui atomizzati è anche più facile da
sottoporre al controllo del mercato. Chi resistette a tutti questi programmi politici,
erano i gruppi e le associazioni. Secondo i sindacalisti, il riconoscimento di un
ruolo costitutivo nella politica e un nuovo ordine basato sui gruppi, avrebbe
condotto ad uno stato ancora più potente ed integrato. Questa concezione sembra
essere stata pienamente accettata da de Ambris e in minor misura da D’ Annunzio.
De Ambris, autore del documento, aveva piani ambiziosi e si trovò dinanzi al
dilemma tipico del rivoluzionario: limitare il raggio dell’azione rivoluzionaria ad
un territorio dove poteva esercitare una certa autorità ed essere sottoposto a tutta
una serie di minacce dall’ esterno, o cercare di esportare la rivoluzione e assicurarle
maggiori probabilità di riuscita. Se non si voleva che la carta restasse lettera morta,
c’era solo un’opzione rimasta: dieci giorni dopo, il 18 settembre, in una lettera a
D'Annunzio, egli espresse chiaramente che la rivoluzione fiumana (o fiumanesi-
mo) doveva essere estesa all’Italia — “l’Italia deve essere annessa a Fiume”.
Per sua stessa ammissione, de Ambris fu profondamente influenzato da alcuni
pensatori sindacalisti, primo fra tutti Angelo Oliviero Olivetti. De Ambris credette,
anche dopo la fine dell’impresa, che l’innovazione principale della Carta era da
ricercarsi nell’introduzione dell’ordinamento corporativo: esso avrebbe permesso
di smussare le conflittualità sociali, dato più voce ai produttori ed esteso forme di
democrazia diretta sul lavoro. D’ Annunzio, che ebbe un ruolo maggiore nell’im-
postazione filosofica dei fondamenti dello stato, basato su un volontarismo estre-
mo, si preoccupò molto di più dell’ideologia, che venne intesa qui, per la prima
volta, come mezzo supremo di comando e controllo delle masse.
La costituzione dannunziana entrò in vigore 1°8 settembre 1920. La natura
rivoluzionaria del documento si rivelò da subito un problema per il comando
dannunziano. Vedendosi il suo ruolo pesantemente ridimensionato, il Consiglio
Nazionale diede subito le sue dimissioni. Ufficialmente la scelta era stata motivata
dall’esclusione deliberata dal processo costituente e dalla natura rivoluzionaria del
documento.
Poco dopo la promulgazione della carta, D’ Annunzio iniziò a costruire il suo
sistema politico. Il 24 settembre 1920 il primo governo provvisorio vene istituito
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Blocco della sede del Comando d’Occupazione Interalleato (Fiume, 13 settembre 1919)
per decreto del comandante D’ Annunzio “in nome del popolo sovrano di Fiume
per la Reggenza italiana del Carnaro”.
Primo, l’autorità del Consiglio Nazionale veniva limitata