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Full text of "Quaderni del CRS Rovigno n. 14"

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CDU 908(497.4/.5 Istria “18/19” ISSN 0350-6746 


CENTRO DI RICERCHE STORICHE - ROVIGNO 


QUADERNI 





VOLUME XIV 


UNIONE ITALIANA - FIUME 
UNIVERSITÀ POPOLARE - TRIESTE 


ROVIGNO - TRIESTE, 2002 


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QUADERNI - Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XIV, pp. 1-447, Rovigno, 2002 
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CDU 908(497.4/.5 Istria “18/19” ISSN 0350-6746 


CENTRO DI RICERCHE STORICHE - ROVIGNO 


QUADERNI 





VOLUME XIV 


UNIONE ITALIANA - FIUME 
UNIVERSITÀ POPOLARE - TRIESTE 


ROVIGNO - TRIESTE, 2002 


QUADERNI - Centro Ric. Stor. Rovigno, vol. XIV, pp. 1-447, Rovigno, 2002 


CENTRO DI RICERCHE STORICHE - ROVIGNO 


UNIONE ITALIANA - FIUME 
UNIVERSITA POPOLARE DI TRIESTE 


REDAZIONE ED AMMINISTRAZIONE 


Piazza Matteotti 13 - Rovigno (Croazia), tel. +385(052)811-133 - fax (052)815-786 
WWW.CFSTVv.0rg e-mail: info@crsrv.org 


COMITATO DI REDAZIONE 


ALESSANDRO DAMIANI ORIETTA MOSCARDA OBLAK 

Bruno FLEGO ANTONIO PAULETICH 

RICCARDO GIACUZZO OTTAVIO PAULETICH 

LUCIANO GIURICIN GIOVANNI RADOSSI 

ANTONIO MICULIAN ALESSIO RADOSSI 
REDATTORE 


ORIETTA MOSCARDA OBLAK 


DIRETTORE RESPONSABILE 
GIOVANNI RADOSSI 


Recensore: 
MARINO BUDICIN 


© 2002 - Tutti i diritti d'autore e grafici appartengono al Centro di Ricerche 


Storiche U.I. di Rovigno, nessuno escluso. 


Questo volume è stato pubblicato con il contributo dell’Università Popolare di Trieste 


QUADERNI, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XIV, p. 1-447, Trieste-Rovigno 2002 


INDICE 


ALESSIO RADOSSI, Evoluzione interna e rapporti internazionali 
della Jugoslavia dal 1955 al 1965 


EZIO GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987). Il percorso storico 
dell’Unione degli Italiani dall’Assemblea di Parenzo al “dopo Bor- 


” 


me 


STEFANO LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia di fronte 
al processo d’indipendenza della Slovenia (1990-1992) 


GIACOMO SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere 


WILLIAM KLINGER, La Carta del Carnaro: una Costituzione per 
lo Stato Libero di Fiume (1920) 


FERRUCCIO CANALI, Architettura del moderno nell’Istria italia- 
na (1922-1942). Luigi e Gaspare Lenzi per il Piano Regolatore di 
Pola (1935-1939) 


LJUBINKA TOSEVA KARPOWICZ, Georgi e Michele Melissinò, 
cavalieri dell’Ordine di Sant'Anna a Fiume 


SILVIA BON, Le comunità ebraiche della Provincia del Carnaro 
negli anni della persecuzione fascista e nazista ed il problema della 
spoliazione dei beni 


127 


157 


197 


273 


345 


413 


427 





A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 7 


EVOLUZIONE INTERNA E RAPPORTI INTERNAZIONALI 
DELLA JUGOSLAVIA DAL 1955 AL 1965 


ALESSIO RADOSSI 
Centro di ricerche storiche CDU 325.15(=50):930”1954/1963” 
Rovigno 


In questo articolo l’autore prende in esame uno dei periodi più complessi e difficili della storia 
dell’ Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, vale a dire il decennio 1954-1964, quando, attraverso 
un complesso processo si assiste ad una continua riduzione numerica e al ridimensionamento del 
ruolo politico, culturale e linguistico della componente italiana dell’Istria. 

In particolare vengono analizzati i problemi legati ai Circoli di Cultura, alle istituzioni scolastiche e 
all’attività editoriale del gruppo etnico italiano attraverso i verbali delle riunioni della Segreteria, della 
Presidenza e del Comitato dell’organizzazione degli italiani. Si tratta di fonti d’archivio molto 
importanti che testimoniano non solo il clima in cui operava il gruppo nazionale italiano (contraddi- 
sitnto dalla chiusura di scuole italiane, di circoli di cultura, cambio della toponomastica), ma anche 
le contrapposizioni interne allo stesso gruppo dirigente, che si cristalizzeranno in due correnti o 
frazioni: una che puntava sull’inserimento totale degli italiani nel processo socialista e l’altra che 
tentava di conservarne una certa autonomia. Vengono altresì analizzati i primi rapporti con la matrice 
nazionale che a metà degli anni Cinquanta venivano visti al limite del sospetto, ma che si concretiz- 
zeranno soltanto nel decennio successivo. 


Rapporti con l’URSS e non allineamento 


Un anno dopo l’avvio del primo piano quinquennale per lo sviluppo del paese, 
avvenne l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform, resa pubblica improvvisa- 
mente il 28 giugno 1948. Il suo movente principale era la dichiarata volontà di 
indipendenza del gruppo dirigente jugoslavo!. Vennero allora gettate le basi di una 
particolare “via al socialismo”, destinata a portare avanti un processo di crescita 
nazionale poggiante su due direttrici fondamentali della politica jugoslava: equidi- 
stanza dai blocchi militari sul piano internazionale (non allineamento) e afferma- 


! AAVV, Storia della Jugoslavia, Torino, 1976, p. 274. 


8 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


zione e sviluppo del socialismo d’autogoverno su quello interno; il tutto tenendo 
ben in evidenza la questione nazionale. Lo scontro con Stalin non si limitò al 
conflitto tra la Jugoslavia e l'URSS, ma sollevò il problema generale concernente 
i rapporti tra “piccole” e “grandi” nazioni e tra il “centro del mondo” e la sua 
periferia, quindi aprì il problema dell’ autodeterminazione e della libera scelta delle 
metodologie della dinamica sociale”. 

Nel periodo tra il 1948 e il 1953 Tito creò nuove basi per i rapporti commer- 
ciali con gli altri paesi. A causa del blocco degli scambi con l'URSS e gli stati 
dell’Est europeo, la Jugoslavia si decise ad instaurare relazioni economiche con 
l'Occidente (armi comprese), senza rinunciare all’ideologia comunista?. Negli anni 
successivi, la politica della collettivizzazione della terra non dette i risultati sperati, 
sicché fu abbandonata nel 1953 e di conseguenza venne sciolta la maggior parte 
delle cooperative. Il Sesto Congresso del PCI, tenutosi a Zagabria nel 1952, segnò 
un graduale passaggio alla democratizzazione e alla decentralizzazione della vita 
socio-politica ed economica. In questo orientamento “liberale” si può inserire 
anche l’operato di Milovan Gilas*. Dopo esser stato uno dei fautori del “gran 
rifiuto” opposto a Stalin nel 1948, delfino di Tito, venne esautorato e isolato, per 
aver pubblicato una serie di articoli (alcuni dei quali avevano già avuto il consenso 
di Tito), nel dicembre del 1953 sul quotidiano di partito “Borba”; egli sottoponeva 
a dura critica le deformazioni, allora già evidenti, del nuovo potere socialista, e 
suggeriva di introdurre forme di controllo e di pluralismo politico in una libera 
economia di mercato?. Al Plenum del CC, tenutosi a Belgrado nel gennaio del 
1954, Gilas venne accusato di antisocialismo e di essere il portabandiera di una 
tendenza anarchico-liberale. Anche se fino ad allora non aveva smesso di essere 
uno dei più convinti antistalinisti, non gli vennero perdonate le dichiarazioni 
contenute nei suoi articoli nei quali esprimeva riserve circa la riuscita dell’autoge- 
stione come modello di sviluppo. Gilas a sua difesa ammise di essersi allontanato 
dalle posizioni del Comitato Centrale, ma asserì pure di non aver mai abbandonato 
l’ideologia marxista. Venne condannato e trasferito ad espiare la pena nel carcere 
di Sremska Mitrovica”. Si consumava così il primo clamoroso siluramento di un 


2 V. DEDUJER, /zgubljena bitka J. V. Staljina (La guerra perduta da Stalin), Belgrado, p. 224. 


3 V. DEDIJER, Novi prilozi za biografiju J. B. Tita (Nuovi apporti per la biografia di J. B. Tito), Belgrado, 
1984, p. 22; si veda soprattutto dal III al V paragrafo a pag. 24. 


4 B. PETRANOVIC, Historja Jugoslavije 1918-1978, Beograd, 1980, p. 534. 
5 A. BENCINA, “Tempo di riabilitazioni”, Panorama, n. 13, Fiume 1989, p. 9. 
6 B. PETRANOVIC - M. ZECEVIÒ, Jugoslavija 1918-1988, Beograd, 1988, pp. 1062-1063. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 9 


esponente di spicco del PCJ”. La rottura con il Cominform mantenne acuti i 
rapporti con l'URSS fin dopo la molte di Stalin. Poi, verso la fine del 1954, i Paesi 
del Blocco orientale interruppero la propaganda anti-jugoslava. I due governi di 
Mosca e di Belgrado presero in considerazione l’opportunità di creare i presupposti 
per una riconciliazione formale, anche in vista di accordi e collaborazioni future. 
Con queste intenzioni, il 26 maggio 1955 giunse a Belgrado una delegazione 
sovietica guidata da Kruscev, il quale ricorse ad una soluzione grossolana del 
contenzioso con i dirigenti jugoslavi, facendo ricadere tutte le colpe su Stalin e su 
Berija. La Dichiarazione comune, pubblicata al termine dei colloqui, contemplava 
i principi riformatori dei futuri rapporti tra i due paesi: rispetto dell’integrità 
territoriale e dell’indipendenza, non ingerenza negli affari interni dell’altro, rico- 
noscimento e sviluppo della coesistenza pacifica tra i popoli a prescindere dalle 
differenze politiche o ideologiche, condanna della divisione del mondo in blocchi 
di alleanze militari*. I dirigenti jugoslavi insistevano dunque nella loro politica 
nazionale e internazionale indipendente che, peraltro, non fu interamente accettata 
dal PCUS®. B. Petranovié'° sostiene che la Dichiarazione di Belgrado ebbe grande 
importanza, perché allora due paesi a sistema socialista avevano cercato di definire 
non solo i rapporti reciproci ma anche quelli tra paesi socialisti in genere. 

Come ebbe inoltre a scrivere E. Kardelj"!, questa dichiarazione rappresentò 
una specie di “Magna Charta” delle relazioni avanzate fra stati moderni e socialisti. 
Di particolare significato fu il fatto che essa intaccò per la prima volta il monoliti- 
smo e la teoria dello stato guida come principio fondamentale di coesione del 
movimento comunista mondiale, e base reale dell’egemonia sovietica. Contempo- 
raneamente, rapporti più positivi, soprattutto di carattere commerciale, si instaura- 
rono tra la Jugoslavia e i Paesi occidentali, mentre i rapporti con 1’ URSS restarono 
più complessi. 

La “controrivoluzione” indipendentista magiara del 1956 mise infatti in crisi 
il sistema, minacciando di scuotere le basi di coesione di tutto il mondo comunista. 
La Jugoslavia fu nuovamente isolata nel movimento comunista internazionale; tale 
situazione però durò poco, in quanto, nel 1957, Belgrado riconobbe la Germania 
orientale. Questa mossa, se da un lato schiarì le relazioni con 1’ URSS, dall’altro 


? Stessa fine toccò nel 1966 ad Alexandar Rankovié, capo della polizia. 

8 B. PETRANOVIG, op. cit, p. 504. 

° Ibid., p. 276. 

10 Ibid., p. 505. 

!! E. KARDELI, Reminescences... The New Yugoslavia 44-57, Londra, 1982, p. 130. 


10 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


comportò la rottura di quelle diplomatiche (non però di quelle commerciali) con la 
Germania occidentale. 

AI Settimo Congresso del 1958 tenutosi a Lubiana i comunisti jugoslavi 
enunciarono le concezioni della propria via al socialismo. Nel documento si 
sottolineava il non allineamento e la coesistenza internazionale e soprattutto il 
principio (che si riferiva all’ Unione sovietica) della non ingerenza nella politica 
interna dei paesi comunisti. Ciò fu criticato dai Sovietici e violentemente contra- 
stato dai Cinesi. I rapporti con l'URSS non migliorarono ulteriormente prima degli 
anni Sessanta; Tito si recò in visita a Mosca (1962) e in quel periodo i Sovietici 
dovettero fronteggiare il forte contrasto con i dirigenti della Repubblica Popolare 
Cinese. 

A metà degli anni Sessanta la posizione di equilibrio della Jugoslavia tra 
Oriente e Occidente si presentava più stabile che mai '?. Infatti, il principio ispira- 
tore della politica estera jugoslava affermatosi dopo il 1950, fu quello del non 
allineamento. Esso permise alla Jugoslavia di accattivarsi amici e alleati, pronti a 
sostenerla nell’intento di fondare un movimento organizzato dei piccoli paesi, 
deboli e non impegnati in altre alleanze militari, capace di far valere meglio così i 
propri punti di vista nell’arena politica mondiale". Un primo incontro preliminare 
avvenne a Brioni nel 1956; vi parteciparono Tito, l’egiziano Nasser e l’indiano 
Nehru rientrato dalla Gran Bretagna. I tre discussero dei rapporti reciproci e di 
politica internazionale. In quell’occasione venne pubblicato un particolare comu- 
nicato che esprimeva i nuovi principi del “non allineamento!” Nell’incontro 
seguente tenutosi in occasione del 15esimo anniversario della fondazione delle 
Nazioni Unite, a New York nel 1960, vennero ad aggiungersi agli amici della 
Jugoslavia altridue statisti: Nkrumah (Birmania) e Sukarno (Indonesia). La dichia- 
razione congiunta stilata dai “cinque”, condannò il colonialismo. Tutto ciò avven- 
ne, quando le relazioni tra le due superpotenze erano molto tese (si era in piena 
Guerra fredda). Secondo L. Mates', da questi avvenimenti si deduce che il 
movimento dei non allineati non fu il risultato di un progetto preparato a tavolino 
da alcuni uomini politici di Paesi diversi, ma la necessaria risposta di una parte dei 
Paesi meno sviluppati alla problematica di un determinato periodo storico. La 
prima conferenza dei non allineati si tenne a Belgrado nel settembre 1961 e vi 


!2 AA.VV, Storia della Jugoslavia, Torino, 1976 pp. 290-291. 

13 Ibid., p. 290. 

14 B. PETRANOVIC - M. ZECEVIÒ, op. cit., pp. 1078, 1079. 

!5 L.MATES, Pocelo je u Beogradu - (Iniziò a Belgrado), Zagabria, 1982, p. 34. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 Il 


parteciparono 25 Stati; la successiva si svolse al Cairo nel 1964 e vi aderirono 47 
nazioni. Il movimento non ebbe però mai vita facile: per gli USA rappresentava il 
Cavallo di Troia del comunismo, mentre per l'URSS era il “binario morto” delle 
forze socialiste. Inoltre, i non allineati di allora furono spettatori di conflitti interni, 
sfociati addirittura in guerre tra stati membri. La non omogeneità di sviluppo 
sociale, economico e politico dei suoi membri frenò l’azione del movimento. La 
comparsa in esso di due correnti interne, di cui una tendeva a rispettare i principi 
istituzionali del movimento, e l’altra propendeva ad appoggiarsi ad uno dei due 
blocchi, finì per diminuirne la forza e l’influenza!9. 


Autogestione 


L’affermazione di questa specifica linea in politica internazionale, rese possi- 
bile un originale esperimento di politica interna, quale elaborazione della conce- 
zione marxista di partenza: l’autogestione. Il socialismo d’autogoverno si presentò 
come critica e risposta alla temuta involuzione burocratica dello stato socialista, 
come tentativo volto a restituire ai lavoratori il ruolo e il potere che il “socialismo 
di Stato” aveva finito con l’esercitare in loro nome, e dunque col negarlo. Il 
ridimensionamento delle funzioni dello Stato, avvenuto fra il 1949 e il 1950, 
rappresentò l’inizio della prassi autogestionaria'”. Il PCJ si rendeva perfettamente 
conto del fatto che il consenso in politica era impossibile senza un vastissimo coinvol- 
gimento dei lavoratori e dei cittadini. Perciò nel 1950 venne promulgata dall’ Assem- 
blea Popolare Federale (Parlamento) una prima legge che demandava la gestione delle 
imprese agli operai. Di conseguenza la proprietà statale dei mezzi di produzione si 
trasformò in proprietà sociale, cioè in proprietà dei produttori associati'*. L’autoge- 


16 B. PETRANOVIÒ - M. ZECEVIÒ, op. cit., pp. 1083, 1084. 
ms. BIANCHINI, La diversità socialista in Jugoslavia, Trieste, 1984, p. 14. 


18 “Ecco come i manuali sull’autogestione descrivono questa forma di società socialista: "L’autogestione è 
innanzitutto, il rapporto socio-economoico fondato sul principio della ripartizione del reddito in base al lavoro e 
non in base alla proprietà del capitale, ovvero dei mezzi di produzione; l’autogestione può svilupparsi soltanto se 
poggia sulla proprietà sociale, vale a dire su rapporti di proprietà nei quali i mezzi di produzione e il capitale 
sociale non sono né proprietà privata né proprietà di gruppi di cittadini e nemmeno degli operai delle singole 
aziende: ancor meno sono proprietà dello Stato. Una volta affermato il sistema della proprietà sociale sui mezzi 
di produzione, la contraddizione che sorge fra l'interesse individuale e quello collettivo della società può essere 
risolta soltanto ponendo un controllo pieno sui rapporti di produzione e sulle relative conseguenze economiche in 
forza della propria posizione materiale di decidere direttamente e in condizioni di parità, insieme con gli altri 
soggetti (nel Consiglio degli Operai), sulle questioni essenziali che emergono da questi rapporti. Lo Stato, come 
fattore di potere, detiene un ruolo importante: assicurare lo sviluppo indisturbato del sistema autogestivo socialista. 


12; A.RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


stione, nei dieci anni successivi, si affermò innanzitutto nei gangli basilari della 
società, cioè nelle fabbriche, e quindi, istituzioni culturali, scientifiche, scolastiche, 
sanitarie e negli altri servizi sociali. Verso la fine degli anni Cinquanta, l’autogo- 
verno operaio cominciava a dare i suoi primi frutti in tutti i rami dell'economia. Il 
Programma del LCJ (Lega dei Comunisti della Jugoslavia)! redatto nel 1958, 
rispecchiava questa nuova situazione, e si riproponeva di favorire lo sviluppo di un 
socialismo democratico, autogestito, “dal volto umano” si potrebbe dire. Contem- 
poraneamente, però, si andava inasprendo sempre più la contraddizione tra l’auto- 
governo che attecchiva alla base della società, e lo Stato, che continuava a svolgere 
una funzione di guida della massima importanza, specie per quanto riguardava 
l’impiego dei mezzi destinati agli investimenti di carattere produttivo, all’incre- 
mento dell’istruzione, della scienza e della cultura. L’intero periodo degli anni 
Sessanta fu speso nella definizione completa dei principi e nella ricerca delle forme 
organizzative dell’autogoverno sociale, in specie del sistema economico e dell’or- 
dinamento politico su basi autogestionarie?°. L'introduzione dei Consigli Operai in 
Jugoslavia venne giudicata come un esperimento “interessante”. Secondo alcuni 
storici, furono gli avvenimenti dell’ Ungheria e della Polonia nel 1956, assieme alla 
destalinizzazione dell'URSS, che influenzarono i dirigenti della PCJ tanto da 
indurli a riprendere seriamente in esame il processo di affermazione dell’autoge- 
stione e a riconsiderare la regolamentazione delle leggi economiche e quella delle 
organizzazioni sociali. Per facilitare il superamento della crisi del movimento 
comunista. L’autogestione ricevette grande impulso dalla Comune creata per 
favorire l’ aumento della produttività. A tale scopo venne indetto anche il Congres- 
so dei Consigli Operai nel 1957. L’idea di istituire la Comune, quale cellula 
costitutiva della società nel sistema di un socialismo democratico, maturò gradual- 
mente nell’ambito del Partito. Il sistema comunale iniziò a funzionare nel settem- 
bre 1955 e diventò progressivamente la base del socialismo d’autogoverno?'. Ma 
le prime critiche fecero la loro comparsa già l’anno successivo, rinfacciando alla 


Ciò che è incompatibile con l’autogestione socialista è che lo Stato o il suo apparato burocratico a decidere sull’uso 
del capitale sociale ovvero di quello accumulato. Non si può dire che l’autogestore sia padrone del proprio lavoro 
se non controlla anche la produzione e la divisione del reddito. Il diritto dell’autogestore di disporre del reddito 
prodotto, è fonte della sua libertà, ma anche della sua dipendenza, dei suoi obblighi e delle sue responsabilità verso 
gli altri lavoratori”, L'Autogestione socialista in Jugoslavia-Concetti fondamentali, Belgrado, 1981, pp. 66-67. 


1911 Partito Comunista della Jugoslavia cambiò il nome al Sesto Congresso tenutosi nel 1952, in Lega dei 
Comunisti della Jugoslavia. 


20 S. DOLANC, “Il Sistema dell’autogestione socialista nella sua sostanza”, Questioni attuali del sociali- 
smo (di seguito QAS) n. 1, Belgrado, 1979, pp. 27, 28, 29. 


2! B_ PETRANOVIG, op. cit., p. 537. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 13 


Comune di essere una organizzazione politico-economica troppo chiusa, al cui 
interno si venivano manifestando tendenze autarchiche. Alla sessione ordinaria del 
Comitato Centrale della LCJ del febbraio 1958, vennero denunciate le tendenze 
negative che si erano manifestate: spreco di denaro pubblico, decadimento 
“dell’etica lavorativa” e affermazione di un modus vivendi non coerente con i 
principi comunisti i quali, al contrario, sostenevano un livellamento sociale negli 
introiti personali e nella proprietà privata. L’autogestione doveva ricevere ulteriore 
impulso dal Congresso dei Consigli operai (giugno 1957). La decisione più impor- 
tante presa in quella sede vedeva maggior libertà per i collettivi di lavoro e più 
ampia autonomia nella gestione dei rapporti interni, delle condizioni di lavoro e 
nella divisione del reddito”. Il Settimo Congresso della LCJ si svolse a Lubiana 
nell’aprile 1958: l’attenzione principale venne dedicata ai vari tipi di sviluppo 
“dell’essere socialista”. Il Programma da sottoporre a dibattito si soffermava in 
particolare sui rapporti internazionali e sul ruolo del Partito nei processi autoge- 
stionali del Paese, senza alcun pregiudizio dogmatico, tanto che nell’ultima parte 
del documento figurava il seguente passo: “Niente di quello che è stato da noi 
creato deve essere talmente intoccabile e definitivo da non poter essere sostituito 
da qualche cosa di più sviluppato, progressista e umano”. Le idee contenute nel 
Programma tuttavia non andavano di pari passo con i tempi: i rapporti sociali nella 
Jugoslavia di allora non erano ancora tali da recepire totalmente quel messaggio. 
Lo Stato continuava ad esercitare una certa egemonia nella sfera economico-socia- 
le. Il sistema politico aveva registrato dei progressi nel potenziamento dell’ autoge- 
stione (soprattutto nell’ amministrazione pubblica), ma senza che vi si verificassero 
cambiamenti di rilievo nei rapporti tra il “vertice” e la “base”; l'apparato burocra- 
tico-statale aveva ancora un’influenza notevole sulla vita sociale e politica del 
paese?3. Questo stato di cose concorse ad alimentare le tendenze tecnocratiche 
auspicanti il ritorno del partito a vere e proprie ‘funzioni di potere”. Nell’econo- 
mia, ad una lunga stagnazione subentrò finalmente una fase di crescita particolare, 
favorita sia dalla mutata situazione interna sia, e soprattutto, da una congiuntura 
internazionale favorevole consistente in crediti concessi dall’ Occidente, nonché 
nell’inserimento della Jugoslavia nel mercato mondiale”. La riforma economica 
del 1961, che doveva risolvere il problema nodale della divisione del prodotto 
sociale tra le aziende e lo Stato, fu però portata avanti in modo parziale e con dei 


22 Ibid., p. 538. 
23 Ibid., p. 540. 
24 Ibid., p. 541. 


14 A.RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


compromessi, in quanto l’ala più conservatrice del gruppo dirigente temeva per 
un’eventuale affermazione del mercato libero (il che veniva considerato “antiso- 
cialista”’) e il fatto che i lavoratori dotati di ampie libertà di decisione, “non 
sapessero gestire al meglio le aziende”. Il “trend” economico positivo terminò 
verso il 1962. L’aumento dei redditi personali al di sopra della produttività e la 
diminuzione del tasso di crescita dell'economia, offrivano il pretesto ai critici 
dell’autogestione, per denunciare l’eccessiva autonomia concessa ai collettivi di 
lavoro. Alla sessione del Comitato Centrale (1962) che ne seguì si confrontarono 
due, per così dire, tendenze: quella progressista che intendeva continuare nelle 
riforme e quella conservatrice che, approfittando delle difficoltà comparse nella 
prassi autogestionaria, sosteneva che il paese andava incontro all’anarchia e alla 
disgregazione. Questa atmosfera si fece ancora più tesa, quando una certa stasi 
compromise l’attività economica. Gli investimenti e i consumi erano al di sopra 
delle reali possibilità. L'inizio degli anni Sessanta svelò che il vertice del PCJ non 
era unito e che l’eterogeneità di opinioni aveva intaccato pure la base. E le 
“tendenze negative” furono denunciate pubblicamente. La teoria e la prassi dove- 
vano fare i conti con posizioni tra loro opposte. Dopo un duro discorso di Tito, 
tenuto a Spalato nel maggio 1962, la situazione si risolse con un compromesso”, 

La nuova Costituzione del 1963, nota come “licenza dell’autogestione”, pro- 
clamava l’autogestione “Legge dello Stato”, diritto inalienabile dei lavoratori. Essa 
poggiava sui presupposti del cittadino libero produttore associato, della proprietà 
sociale e del lavoro quale unità di misura per la definizione della posizione 
materiale di ognuno nella società. Per la prima volta nella storia costituzionale 
della Jugoslavia venivano specificate la posizione e gli obbiettivi delle varie 
organizzazioni socio-politiche: della Lega dei Comunisti, dell’ Alleanza socialista 
del Popolo Lavoratore, della Confederazione dei Sindacati e delle altre organizza- 
zioni. La “Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia” muta la propria denomi- 
nazione in “Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia”. La nuova legge 
fondamentale dello Stato faceva proprio il concetto basilare che definiva l’ Assem- 
blea Federale “organo d’autogoverno sociale”. Inoltre, le funzioni del presidente 
della Repubblica venivano distinte da quelle del presidente del Consiglio Esecuti- 
vo Federale (governo). 

È evidente che la regolamentazione costituzionale di quel periodo fu il risul- 
tato di un'impostazione di compromesso. Il suo autore principale fu E. Kardelj che, 
essendo stato nominato presidente dell’ Assemblea Federale, poteva assicurarsi 


25 B. PETRANOVIC - M. ZECEVIÙ, op. cit., p. 1088. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 15 





Raduno degli italiani dell’Istria e di Fiume (Rovigno, 1948) 


l’appoggio dei delegati nell’ulteriore opera di trasformazione della società nello 
spirito del socialismo d autogoverno, anche se lo Stato, teneva ancora nelle sue 
mani il controllo diretto del sistema bancario creditizio del Paese?°. 

A tale proposito S. Bianchini?” è del parere che “lo scontro interno congelò una 
situazione in fermento. La Costituzione approvata nel 1963 ne fu il prodotto più 
significativo: l'innovazione di maggior rilievo risiedette nella separazione fra la 
figura del Presidente della Repubblica e il Capo del governo. Tito, che fino ad 
allora aveva detenuto ambedue le cariche, assunse solo la prima. Sul piano dell’or- 
ganizzazione economica e su quello istituzionale dei rapporti fra federazione e 
repubbliche non mutò nulla rispetto alla carta costituzionale del 1953 e alle riforme 
approvate in campo legislativo negli anni immediatamente successivi. Di fatto la 
chiarificazione è rinviata /... / Fluidità e incertezza - scrive ancora Bianchini - 
furono perciò il dato dominante /... / Relazioni economiche e sviluppo, questione 


26 Nota 34., pp. 78-79 
27 Tbid., p. 1092. 


16 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


nazionale e istituzionale si vennero così a collocare, in quanto temi aperti, in un 
quadro ancora indeterminato, mentre cominciava a porsi la questione cruciale del 
dopo-Tito”. 


Questione nazionale 


La questione nazionale è stata da sempre uno dei nodi cruciali della storia 
jugoslava, e inoltre ha sempre occupato un posto molto importante nella strategia 
del movimento comunista internazionale. Già K. Marx nel suo “Manifesto del 
partito comunista” constatò come “si cerchi di rimproverare ai comunisti di voler 
sopprimere la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere 
loro ciò che non hanno. Ma, poiché il proletariato deve conquistarsi prima il 
dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso 
nazionale, benché certo non nel senso della borghesia”, F. Engels considerò 
sempre la questione nazionale come un aspetto della democrazia politica, da 
subordinare quindi, come ogni rivendicazione democratica, agli interessi generali 
della lotta di classe. Secondo P. Pallante?” le affermazioni dei due pensatori 
spiegano il diverso atteggiamento che essi assunsero nei confronti delle rivendica- 
zioni nazionali dei popoli oppressi dal regime zarista e da quello austriaco fra il 
1840 e il 1850 e cioè spiegano l'appoggio da essi dato al movimento di liberazione 
nazionale dei Polacchi e degli Ungheresi, considerato fattore di destabilizzazione 
e di disgregazione, in quanto si trattava di “popoli rivoluzionari in lotta contro 
l’assolutismo”, e nello stesso tempo spiegano la posizione negativa assunta verso 
il movimento nazionale dei Cechi e soprattutto degli Slavi del Sud, in quanto 
“popoli reazionari, avamposti russi in Europa, e il loro movimento tendeva a 
rafforzare la posizione internazionale dello zarismo, il più pericoloso nemico del 
movimento rivoluzionario in Europa”. 

Del resto, la posizione di V. I. Lenin*° sulla questione nazionale esigeva il 


28 8. BIANCHINI, La diversità socialista in Jugoslavia, Trieste, 1984, p. 51. 


29 K. MARX, “Manifesto del partito comunista”, P. PALLANTE, /! PCI e la questione nazionale, Udine, 
1980, p. 25. 


30 P PALLANTE, I! PCI e la questione nazionale — EV.G. 1941-45, Udine, 1980, pp. 26, 27. 
UNA STALIN, Questioni del leninismo, Roma, 1945, p. 64. 


2V.I LENIN, “Risultati della discussione sull’autodecisione” “Opere complete”, vol. XXII, Roma, 1966, 
p. 399. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 17 


riconoscimento non soltanto di una piena uguaglianza di tutte le nazioni in genera- 
le, ma anche della parità di diritti nella struttura statale, cioè del diritto delle nazioni 
all’autodecisione (autodeterminazione), fino alla separazione. Anche J. Stalin 
sottolineava nel 1913 in “Il Marxismo e la questione nazionale e coloniale”, la 
necessità di democratizzare completamente la Russia zarista, se si voleva risolvere 
il problema delle nazionalità. Egli prospettava all’interno di questa soluzione “l’au- 
tonomia regionale” come “soluzione giusta”. Dunque, uguaglianza nazionale in tutti 
i suoi aspetti come elemento necessario per la soluzione della questione nazionale. 

Comunque, l’idea di aggregare ed unificare gli Slavi del Sud in uno Stato 
comune doveva concretarsi nel 1918 con la fondazione del Regno dei Serbi, Croati 
e Sloveni. Questa idea, contemplante la libertà e l'uguaglianza nazionale di questi 
popoli, era stata però utilizzata come strumento ideologico e politico della borghe- 
sia panserba e della monarchia per la propria affermazione politica, tanto da 
diffondere la tesi secondo cui Serbi, Croati e Sloveni erano appartenuti ad altret- 
tante stirpi di un medesimo popolo: non esisteva, dunque, una questione nazionale 
in Jugoslavia. Per i comunisti, il principio essenziale da difendere era mantenere 
l’unità della classe operaia quale premessa insostituibile nella soluzione della 
questione nazionale*‘. 

Nel contesto jugoslavo siffatte impostazioni teoriche trovarono terreno fertile 
per la loro applicazione ed ebbero ugualmente un peso considerevole nella stesura 
dei documenti fondamentali del PCJ e, in seguito, nell’organizzazione e nella 
conduzione della lotta partigiana, di cui uno dei traguardi più vistosi doveva essere 
la costituzione di una nuova realtà statale, in grado di soddisfare anche le varie, 
talora diverse, esigenze nazionali. Difatti, già nel corso della Seconda Sessione 
dell’ AVNOJ (Consiglio Antifascista della Lotta Popolare di Liberazione) tenutosi 
a Jajce (Bosnia) nel novembre 1943, vennero tracciate le linee evolutive del futuro 
ordinamento federativo jugoslavo. Il principio basilare, su cui si sarebbe fondata la 
politica nazionale jugoslava, era il riconoscimento dell’individualità, dell’ugua- 
glianza di tutti i popoli e gruppi nazionali”. 

Sulla base del diritto all’autodeterminazione dei popoli furono create le repub- 
bliche della Serbia, della Croazia, della Slovenia, della Bosnia ed Erzegovina, della 


33 J. STALIN, Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, Torino, 1974, pp. 120, 121; venne scritto a 
Vienna nel 1913. 


34 p, PALLANTE, Il PCI e la questione nazionale..., Udine, 1980, p. 31. 


35 A. PURIVATRA, “L’apporto di Tito alla teoria e alla prassi della questione nazionale”, QAS, n. 2, 1979, 
p. 60. 


18 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


Macedonia e del Montenegro e, nella Repubblica di Serbia, le regioni autonome 
della Vojvodina e del Kosovo®°. 

In una comunità come la Jugoslavia, la condizione delle minoranze nazionali 
assunse un significato particolare nell’ambito della questione nazionale. A_tale 
proposito la norma costituzionale sancì i seguenti diritti: 

- per il cittadino, la libertà di manifestare la propria appartenenza ad un popolo, 
rispettivamente ad una nazionalità, la libertà di esprimere la propria cultura nazio- 
nale e di usare la propria lingua nella forma scritta e parlata; 

- l’incostituzionalità di ogni fomentazione all’odio nazionale e dell’istigazione 
all’intolleranza razziale o religiosa; 

- per gli appartenenti ai popoli e alle nazionalità, il diritto all’istruzione nella 
propria lingua entro il territorio di ciascuna repubblica o regione autonoma; 

- per ogni gruppo nazionale, il diritto a esprimere e sviluppare la propria 
cultura e di costituire a tale scopo organizzazioni proprie?”. 

Dopo il solenne riconoscimento di questi principi, fu appena all’Ottavo con- 
gresso della LCJ, tenutosi a Belgrado nel dicembre 1964 che venne, per la prima 
volta, toccata la “questione nazionale”. Infatti sino a quel momento aveva prevalso 
in tutti la concezione, secondo cui la risoluzione jugoslava avrebbe già risolto 
questo problema e quindi l’argomento non aveva mai trovato spazio nei dibattiti 
del partito. Ma allora, le diversità di opinione all’interno del gruppo dirigente, 
evidentemente e considerevolmente diviso su questo punto, suggerirono l’apertura 
della discussione. La stessa strutturazione della Lega dei Comunisti della Jugosla- 
via in tanti partiti comunisti quante erano le repubbliche della federazione (dotati 
di una certa autonomia nello spirito dell’autogestione, n.d.r.), alimentò un proces- 
so di “differenziazione” delle posizioni trai membri del Comitato Centrale. D'altra 
parte, le medesime repubbliche che si battevano per attenuare le competenze e 
l’invadenza dell’amministrazione centrale jugoslava, non esitavano a mutare atteg- 
giamento, quando si trattava dei rapporti interetnici nella propria giurisdizione, 
decretando la priorità dello stato-nazione (croato, sloveno), rispetto alle altre 
componenti nazionali diverse, e ribadendo così quell’assimmetria del potere che le 
poneva, nonostante le dichiarazioni formali contrarie, in una posizione egemonica. 
Da questa valorizzazione dello Stato nazionale sono derivate tra l’altro le difficol- 
tà, gli scompensi, il trattamento differenziato, la mancata parificazione, la monca 
emancipazione socio-politica delle minoranze nazionali. È evidente il rapporto tra 


36 K. HADZIVASILEV, “Il sistema politico della classe operaia; i rapporti nazionali”, QAS, n. 9, 1977, p. 16. 
37 Ibid, p. 24. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 19 


questo processo e quello contemporaneo dello sviluppo dell’autogestione, che si 
dimostra chiaramente, qui, fattore di differenziazione. 

Durante lo svolgimento del congresso, negli interventi di Tito, Kardelj e 
Vlahovié, vennero affrontati i vari aspetti del fenomeno. Per Tito erano “naziona- 
liste” le tendenze ad ignorare, secondo un rinnovato ‘centralismo democratico”, le 
funzioni economico-sociali delle repubbliche e delle regioni autonome nell’ambito 
della federazione. Tuttavia condannava la loro chiusura entro i propri confini 
amministrativi. E inoltre, era auspicabile che le minoranze nazionali rappresentas- 
sero dei “ponti” della Jugoslavia verso le nazioni confinanti (Italia, Austria, 
Ungheria, Bulgaria, Romania e Albania). 

Dal canto suo, Kardelj non considerava l’indipendenza economica nazionale 
né “autarchia” né “egoismo nazionale”, bensì “visione specifica dell’autogestione 
dei lavoratori”. Per Vlahovié59, bisognava combattere le tendenze al nazionalismo 
“centralistico-amministrativo”. I problemi trattati al congresso ebbero una vasta 
eco nell’opinione pubblica, anche perché della questione nazionale, fino ad allora, 
non si era mai parlato pubblicamente, a quanto ci risulta. L'esperienza acquisita 
nell’avanzata dell’autogoverno e dei rapporti infranazionali edificati su di esso 
consentì già nel 1959 di compiere una attenta analisi dei problemi d’allora delle 
varie minoranze nazionali. Certe questioni relative alla loro completa parificazione 
in campo legislativo vennero meglio precisate nella Costituzione del 1963. 

Tuttavia, il superamento delle contraddizioni e il cambiamento della posizione 
giuridico costituzionale dei popoli e delle minoranze nazionali nello spirito di una 
effettiva autogestione ed autonomia, del godimento di attribuzioni politiche, socia- 
li, economiche e culturali irrinunciabili, di una coraggiosa apertura democratica, 
non trovarono né facile né molto evidente realizzazione, persistendo quei procedi- 
menti e quelle soluzioni che osteggiavano l’applicazione dei dettami autogestiona- 
ri, e che erano chiara espressione di un orientamento accentratore e sordo alle 
rivendicazioni delle singole nazionalità e gruppi etnici. 

È ovvio che l’autogoverno favorì, in un certo qual modo, il processo di 
chiarificazione dei rapporti infranazionali, imprimendo però talvolta spinte parti- 
colari all’interno di ogni nazionalità con il risultato di portare a galla e suffragare 
non solo concezioni “positive” ma anche “negative” che, a lungo andare, assunse- 
ro, specie presso i popoli di maggioranza, le caratteristiche di veri e propri 
movimenti nazionalistici, con tutte le conseguenze che ne potevano derivare. 


38 B. PETRANOVIC - M. ZECEVIÒ, op. cit., p. 1096. 


39 Membro del Comitato Centrale del PCI. 


20 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


Anche il cambiamento di denominazione, da minoranze nazionali in nazionalità, 
avrebbe dovuto servire a sanzionare la loro collocazione costituzionale qualitativa- 
mente nuova, sia sul piano socioeconomico sia su quello culturale. Contempora- 
neamente, Tito si stava prodigando per rendere operante un nuovo diritto in materia 
di rapporti infranazionali. Si trattava cioè di garantire la facoltà ad ogni individuo 
di dichiarare o meno la propria appartenenza nazionale. Si intendeva così dare una 
nuova dimensione alla libertà nazionale quale parte integrante delle libertà umane 
in genere. Lo “jugoslavismo” veniva dunque definito non come appartenenza ad 
una nuova nazione, ma come consapevolezza politica di partecipazione alla comu- 
nità jugoslava plurinazionale. 


L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume dalla sua costituzione al 1953 


Prima di illustrare le vicende dell’ UIIF durante il decennio che viene preso in 
esame da questa ricerca, è opportuno premettere alcune informazioni essenziali sul 
periodo precedente, compreso tra la fondazione dell’ UIIF e l'avvenimento storico 
che segnò l’inizio di una nuova era nei rapporti tra la Jugoslavia e l’Italia: il 
Memorandum d’ Intesa del 1954. Non si era ancora concluso il secondo conflitto 
mondiale che a Camparovica, nei pressi di San Martino, a circa 7 chilometri da 
Albona, il 10 e 11 luglio 1944, nel corso di un incontro, si decise di fondare 
l’ Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume. Promotori e organizzatori dell’ incon- 
tro furono Vladimir Svalba-Vid (da Susak), membro dell’ Agitprop del Comitato 
Regionale del PCC dell’Istria, e Aldo Rismondo che ricopriva allora la carica di 
segretario politico del PCC del distretto di Rovigno. In quella occasione venne tra 
l’altro constatato che, a dieci mesi dall’insurrezione istriana, gli Italiani erano 
diventati sempre più numerosi nelle file del Movimento di Liberazione. Venne 
inoltre suggerita l’idea di rivolgere un “Appello” a tutti gli antifascisti italiani. In 
esso si rilevava la necessità di fondare l’UIIF, con il compito di unire tutti gli 
Italiani antifascisti, senza riguardo alla loro fede politica, alla posizione sociale e 
alle convinzioni religiose. Doveva cioè unire tutti coloro che intendevano parteci- 
pare al Movimento di Liberazione, accettare uno dei suoi obbiettivi essenziali, il 
passaggio dell’Istria e di Fiume dalla sovranità italiana a quella jugoslava, e 
collaborare alla risoluzione dei problemi della collettività italiana. Attraverso 
l’ Unione si sarebbero dovute attuare le libertà democratiche del popolo italiano in 
Istria‘, già garantite, come per tutte le minoranze nazionali, dalle decisioni della 


40 Solo più tardi l'Unione comprese il Capodistriano, la cui sorte allora non era ancora decisa. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 21 


Terza Sessione dello ZAVNOH (Comitato Regionale del Movimento di Liberazio- 
ne Croato) 18 maggio 1944 a Topusko (nei pressi di Zagabria). L'Unione si 
proponeva di risolvere i problemi culturali, economici e sociali e di definire la 
piattaforma politica sulla quale si sarebbero appoggiati i rappresentanti italiani 
negli organi del potere popolare (CPL). Inoltre, venne considerato opportuno che 
il foglio “Il Nostro Giornale”! diventasse l’organo ufficiale dell’ Unione medesi- 
ma. Contemporaneamente venivano pubblicati ben 25 giornali partigiani in lingua 
italiana tra i quali: “Lottare”‘, “La libertà”*, “La nostra lotta”* e “La Voce del 
Popolo”*°. Il 20 marzo del 1945, con due lettere indirizzate una al Governo italiano 
e l’altra alla Direzione del giornale l’ Unità, 1’ Unione degli Italiani faceva conosce- 
re le sue finalità, documentandole con l’invio in copia degli atti fondamentali della 
riunione del 6 marzo che si era tenuta a Zalesina. A proposito dei motivi della 
fondazione dell’UIIF, ci sembra particolarmente interessante la valutazione che ne 
ha fatto uno dei suoi più noti presidenti, il professor Antonio Borme*° ‘“/.../ 
L’Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume è nata, quando sopratutto la direzione 
politica del movimento popolare di liberazione lo ritenne opportuno per il conse- 
guimento delle mete implicite nell’ottica continuamente ribadita del distacco di 
queste terre dall'Italia. Pertanto non è possibile sostenere che ciò sia accaduto per 
iniziativa preponderante di nostri connazionali. Senza dubbio agli esponenti italia- 
ni va rinfacciato un comportamento “attendista” e codino, favorito in parte dalla 
scarsa presenza operativa nella zona degli organismi politici dell’Italia, in partico- 
lare del Partito Comunista Italiano”. La posizione del P.C.I. — conviene ricordare 
— riguardo alla questione nazionale nella Venezia Giulia era strettamente legata al 
suo concetto di lotta di classe. Le popolazioni slovene e croate erano composte 
quasi esclusivamente da operai e contadini, mentre quella italiana era caratterizzata 
dalla presenza di tutte le fasce sociali. Inoltre la politica di snazionalizzazione del 


4! Foglio stampato alla macchia dall’8 dicembre 1943 al 2 maggio 1945; successivamente quotidiano di 
Pola; vedi E. SEQUI, “Il Nostro Giornale”, Documenti, del CRS, n. 2, Pola, 1973. 


L. Lottare, n. 1, 15 dicembre 1943; vedi G. SCOTTI, “La stampa partigiana in Istria in lingua italiana”, 
Quademi, del CRS, n. 4, Pola, 1977. 


4 Sloboda/Libertà, n. 1, 1 giugno 1942 (alla macchia) e La Libertà, n. 4,25 dicembre 1942 fino al 7 gennaio 
1944; vedi G. SCOTTI, “La stampa partigiana in Istria in lingua italiana”, Quaderni, del CRS, n. 4, Pola, 1977. 


44 Ciclostilato La Nostra Lotta, n. 1, 21 marzo 1944, ultimo numero uscito il | maggio 1945; vedi G. 
RADOSSI, “La Nostra Lotta”, Documenti, del CRS, n. 3, Pola, 1974. 


45 La Voce del Popolo, n. 1, 27 ottobre 1944-24 dicembre 1944 (n. 3); poi ci fu un lungo silenzio: il n. 4 uscì 
appena a guerra conclusa e porta la data del 5 maggio 1945, veniva stampato in una vera tipografia, anche se in 
formato ridotto; vedi L. GIURICIN, “La Voce del Popolo e giornali minori”, Documenti, del CRS, n. 5, Pola, 1979. 


46 A. BORME, “Quale Unione degli Italiani oggi?”, 040, 8 luglio 1989. 


22 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


fascismo e la passività, a volte il tradimento dei partiti borghesi sloveni, avevano 
convinto vari settori degli “strati medi” ad appoggiare una soluzione rivoluzionaria 
del problema nazionale‘. Dopo il IV (1933) Congresso del P.C.I. si svilupparono 
i contatti con il Partito Comunista Jugoslavo per fissare una comune linea di 
condotta in merito alla questione nazionale. Documento fondamentale per il 
movimento comunista italiano era la Dichiarazione Comune del 1934 dei partiti 
comunisti italiano, jugoslavo e austriaco sul problema sloveno. Il popolo sloveno, 
vi si dice, ‘era stato diviso tra due stati imperialisti, l’Italia e la Jugoslavia, e una 
parte era stata assegnata all’Austria: da qui la necessità e l’importanza di una 
politica unitaria sulla questione”. Di conseguenza è importante sottolineare che il 
P.C.I riconosceva il “diritto all’autodecisione” delle popolazioni slave della Vene- 
zia Giulia e dell’Istria, compreso quello della separazione dallo Stato italiano. Ma 
“eguale diritto di autodecisione” era lasciato alla minoranza italiana e ciò diventava 
ora elemento di polemica per la unilaterale decisione di annessione della Venezia 
Giulia da parte del movimento di liberazione jugoslavo, giustificata dal P.C.J. con 
il discutibile pretesto degli “interessi della rivoluzione”. 

L’orientamento politico dei comunisti giuliani (e istriani, ndr) favorevole alla 
Nuova Repubblica Jugoslava era determinato dalla ferma convinzione che si 
trattasse di uno “Stato operaio” a cui andavano sacrificate tutte le altre considera- 
zioni di natura economica e nazionale”. In “Storia di un esodo” si rimarca che la 
“spinta fondamentale viene rintracciata nel particolare modo, in cui viene vissuto 
l’internazionalismo della classe operaia istriana, un internazionalismo che /.../ 
acquistava nuovo impulso e vigore dalla presenza di nuovi elementi: primo fra tutti 
il vedere nell’esercito di liberazione jugoslavo uno trumento, a portata di mano, che 
affrontava la lotta non solo per sconfiggere il nazifascismo, ma anche per costituire 
una società democratica e socialista”. Nella Prima Conferenza plenaria, tenutasi 
a Pola il 3 giugno 1945, a guerra conclusa, l’UIIF sottolinea con maggiore 
incisività i propri principi programmatici: venivano costituiti i circoli di cultura e 
così organizzata la vita culturale degli Italiani. Furono attivizzate, in primo luogo, 
le scuole per i connazionali. Si trattò di una conferenza che rivendicò la dipendenza 
della vitalità e del ruolo di un gruppo nazionale autoctono dalla sua capacità di 
costituirsi in una “comunità in cui la formazione educativa avveniva nel rispetto 


4 P PALLANTE, Il PCI e la questione nazionale-FV.G. 1941-1945, Udine, 1980, p. 33. 

48 AA.VV, Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. III, Milano, 1976, p. 119. 
4 Ibidem, p. 34. 

50 AA.VV, Storia di un esodo Istria 1945-1956, Trieste, 1980, p. 24. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 23 


delle proprie tradizioni culturali e civili. Furono anche ribaditi i compiti dell’ UIlF 
nel campo dell’educazione ideale tesa ad una più intensa politicizzazione del 
gruppo nazionale italiano e alla sua attiva partecipazione al processo di ricostru- 
zione interna. Dopo la Conferenza di Pola si diede il via ai preparativi per l’ apertura 
delle istituzioni scolastiche. Difatti già nel maggio 1945 erano state riaperte in 
Istria 70 scuole italiane, di cui 50 di primo grado e 20 di secondo grado. Problema- 
tica era però la carenza di docenti, per cui vennero aperti corsi specifici per la loro 
formazione”. Anche l’attività editoriale era in sviluppo: vennero pubblicati a cura 
dell’ UIIF alcuni volumetti in materia di diritti nazionali e dei problemi specifici 
istriani°”, Tutto ciò suggerì la fondazione della “Cooperativa editoriale italo-croata 
per l’Istria”. Un contributo fondamentale per la rinascita della cultura italiana 
venne dato dalla prima Conferenza culturale dell’ UIIF, tenuta a Fiume nel gennaio 
1946. Nell’aprile, poi, l’UIIF si fece promotrice della prima grande operazione di 
raccolta di libri e di fondi. Si può dire che l’attività vera e propria dell’UIIF, 
indirizzata ad una multiforme e profonda rinascita della cultura italiana in Istria e 
a Fiume, ebbe inizio nel 1947, quando furono create le basi reali per la costituzione 
dei primi Circoli italiani di cultura e delle loro società artistico-culturali, organiz- 
zando presso queste sedi sale di lettura, biblioteche, conferenze, concerti e spetta- 
coli vari. Il nuovo orientamento venne fissato nelle sue linee generali alla seconda 
Conferenza plenaria dell’ UIIF, svoltasi a Parenzo nel 1947". Da quel momento 
fino al 1954 l’UIIF opererà in condizioni alquanto complesse, dettate soprattutto 
dagli strascichi del contenzioso per la delimitazione dei confine italo-jugoslavo. 
Per tutto quel periodo, essa limitò la sua attività esclusivamente al territorio 
annesso con il Trattato di pace del 1947, in quanto nel Buiese e nel Capodistriano 
(che costituivano la Zona B del T.L.T.), era stata fondata ed operava in pratica una 
seconda organizzazione: l’Unione degli Italiani del Circondario dell'Istria. In 
quell’arco di tempo si tennero la Rassegna culturale a Rovigno e la terza Conferen- 
za plenaria a Pola (1948). 

Il 1949 fu l’anno che vide “la grande mobilitazione di tutti i popoli jugoslavi 
contro l’azione disgregatrice del Cominform”, alla quale anche I’UIIF viene 
chiamata a dare il proprio contributo. Nel novembre, a Fiume, si diedero convegno 
nella quarta Conferenza plenaria dell’UIIF ben 400 delegati in rappresentanza di 


SI AA.VV,, Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume 1944-1984, Fiume, 1984, p. 15. 


52 Dei quali ebbe grande diffusione quello di J. B. Tito sulla “Questione Nazionale in Jugoslavia alla luce 
della Lotta di Liberazione Nazionale”. 


53 AA.VV, Op. cit., p. 20. 


24 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


tutti i Circoli di Cultura, soprattutto per manifestare “la loro solidarietà al Comitato 
Centrale del PCJ e a tutti i popoli della Jugoslavia”. Molto intensa fu, in quegli 
anni, l’attività editoriale. Vennero stampati libri di testo per le scuole, riviste varie 
e opuscoli. Tutte queste iniziative confluirono nella neocostituita casa editrice 
EDIT di Fiume. Una certa riorganizzazione subirono anche le manifestazioni 
centrali dell’ UIIF. In luogo alle rassegne culturali, si istituirono i cosiddetti Raduni 
degli Italiani (1952-1953). Si trattò delle ultime grandi manifestazioni dell’epoca, 
alle quali seguì una crisi d’identità, dovuta al mutato clima politico e sociale. 
L’esodo della popolazione italiana, col rispettivo sconvolgimento dell’equilibrio 
etnico tra slavi e italiani sul territorio istriano, e la relativa stasi delle attività, 
protrattasi per un decennio, determinò una crisi anche di uomini e di idee nell’am- 
bito della stessa UIIF. Ciò mise talora in forse la stessa prospettiva di un ruolo di 
rilievo dell’ UIIF nella società istriana, quale si era prefigurato negli anni dell’an- 
tifascismo militante. A tutto ciò si aggiunse la ristrutturazione territoriale della 
regione istriana, a seguito della quale il gruppo nazionale italiano, dopo il Memo- 
randum del 1954, si trovò a vivere in due diverse repubbliche (Croazia e Slovenia) 
e in ben I5 comuni con diversificata normativa di tutela e differente grado di 
sviluppo economico. 


UIF 1953 


Nel 1948 era stato effettuato il primo dei censimenti del dopoguerra: allora 
risultarono presenti in Jugoslavia 79.575 cittadini nazionalità italiana. Il secondo 
rilevamento demografico evidenziò la presenza di 35.874 Italiani, (escluso natural- 
mente il territorio della Zona B)”, in pratica il loro dimezzamento. L’otto ottobre 
del 1953, i rappresentanti degli Stati Uniti e del Regno Unito dichiararono che i 
governi dei due paesi non erano più in grado di sostenere la responsabilità dell’ am- 
ministrazione della Zona A del T.L.T., e che per questo motivo avevano deciso di 
ritirare le proprie truppe e di affidare quel compito al Governo italiano. La reazione 
Jugoslava fu immediata: l’avvenimento scosse la campagna elettorale che era in 
pieno svolgimento”. Titoli come “In tutto il paese è esplosa vivissima l’indigna- 
zione popolare!’ o “Una fredda lama nel cuore al sentire la mostruosa notizia” e 
finalmente “Fiume ha trasformato il comizio in una ardente manifestazione patriot- 


54 Statistitki godisnjak Jugoslavije, 1982, p. 40. 


55 Si stava svolgendo la campagna elettorale per le elezioni dei deputati all’ Assemblea federale. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 25 


tica”, apparvero sul quotidiano “La Voce del Popolo” del 9 e 10 ottobre’. Vennero, 
inoltre, riportate dichiarazioni di esponenti di spicco dell’UIIF, primo fra tutti di 
Andrea Benussi”, vicepresidente dell’organizzazione: ‘“/.../ Noi non sappiamo 
dimenticare i sacrifici compiuti dalla nostra minoranza durante la L.P.L. a fianco 
del popolo jugoslavo il quale ha dato un grande apporto alle forze alleate nella lotta 
contro le orde fasciste. Oggi i responsabili di una tale decisione dovranno rispon- 
dere davanti alla storia e dovranno sopportare tutte le conseguenze che ne potranno 
derivare”. Luciano Michelazzi, membro del consiglio dell’ UIIF, sosteneva che: 
“/..J Noi italiani saremo solidali con tutte le misure che il governo jugoslavo 
intenderà intraprendere per impedire il compiersi di quello che può essere conside- 
rato soltanto come un misfatto e un appoggio diretto al rinascente imperialismo 
italiano”. Il parere di Alfredo Cuomo, membro del comitato dell’UTIF, era che ‘‘/.../ 
Trieste non era mai italiana, perchè lo è divenuta solo quando in qualche maniera 
l’Italia doveva venir ricompensata per il tradimento fatto agli austriaci nella prima 
guerra mondiale. /.../”**. Infine, il presidente dell’UIIF Giusto Massarotto?, con- 
cludeva affermando che “/.../ Gli Italiani della Jugoslavia, compatti a fianco di tutti 


56 A questo punto può essere interessante rilevare la posizione (strumentale) dell’UIIF che, per voce del suo 


quindicinale “Panorama”, pubblicava nel numero 19 del 1953, una cartina “etnografica” (a pagina 9) che aveva il 
fine di illustrare la “vera” composizione nazionale della penisola istriana e della Regione Giulia (vedi riproduzio- 
ne); interessanti ci sembrano anche le cartine pubblicate a pagina 10 del medesimo numero, che analizzano in 
modo improprio sia la composizione etnica del T.L.T. che il progressivo diminuire del naviglio mercantile triestino 
durante il periodo dell’amministrazione italiana. 

La questione veniva definita come una “concessione fatta ai reiterati ricatti dell’Italia di De Gasperi e di 
Pella”; si aggiungeva che “Trieste è sorta ed è fiorita come porto, come città portuale, strettamente legata al sua 
retroterra che oggi appartiene in gran parte alla Jugoslavia e in parte minore all'Austria, mentre l’Italia come 
retroterra di Trieste non ha mai ricoperto un ruolo importante /.../ Trieste sorge sulla costa jugoslava dell’ Adria- 
tico, per cui si può affermare senza tema di smentite che il centro di Trieste sia un'isola etnica circondata da una 
periferia e da un circondario nettamente sloveno. /.. ./, se non ci fosse stata la Prima guerra mondiale (in cui Trieste 
e la Regione Giulia figuravano come il premio in palio per l’entrata in guerra dell’Italia a fianco degli alleati), la 
città avrebbe ottenuto in una decina d’anni una maggioranza etnica sloveno-croata” 


5 Andrea Benussi, nato a Digano d’Istria il 20 gennaio 1894, da modesta famiglia di contadini, aderì ancora 
giovanissimo a varie organizzazioni politiche ed operaie della sinistra istriana; dopo la Prima Guerra Mondiale, 
oppositore del fascismo (dove conosce in carcere Josip Broz-Tito), poi in Francia, Belgio e nuovamente in Francia 
dove prende parte alla Resistenza. Giunge a Fiume agli inizi del 1946, inserendosi nella vita politica ed economica 
del Paese, aderendo al PCJ e mantenendo spesso un rapporto apertamente critico nei confronti dei problemi 
specifici che assillavano la popolazione italiana dell’Istria e di Fiume; oltre ad incarichi dirigenziali effettivi 
nell’UTIF, ne fu anche presidente onorario negli ultimi anni della sua vita. Morì a Fiume nel 1979. 


58 La Voce del Popolo, 9 ottobre 1953, p. 2. 


59 Giusto Massarotto, rovignese di nascita, fu attivista giovanile antifascista; prese parte alla Lotta Popolare 
di Liberazione in varie formazioni partigiane degli Italiani dell'Istria e, successivamente, nei ranghi del battaglione 
italiano “Pino Budicin”. Nel dopoguerra, deputato al Parlamento jugoslavo (inizio anni ’50), fu dirigente politico 
ed economico nella sua città natale e Presidente dell’ UIIF. Morì a Rovigno nel 1965. 


26 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


i popoli jugoslavi sono pronti, se necessario, a impugnare le armi per difendere gli 
interessi della pace e della giustizia e gli interessi dei lavoratori triestini /.. /”99, 
Questo per quanto riguarda la posizione ufficiale dell’ Unione, totalmente allineata, 
come si vede. Di estremo interesse e per certi versi contraddittoria con queste prese 
di posizione ci sembra invece la documentazione relativa ad una riunione 
dell’ UIIF, tenutasi il 3 dicembre 1953 (a Fiume?), dal cui verbale stralciamo alcuni 
passi significativi, utili a focalizzare i problemi effettivi cui andava incontro in quel 
contesto la minoranza italiana. Così, il vicepresidente apriva la riunione, nella 
quale si sarebbe discusso in merito “ai problemi sorti in questi ultimi tempi. Come 
ad esempio la questione delle scuole e, in occasione dell’8 ottobre, la questione 
delle scritte. E di fronte a questi fatti è sorto un panico in seno agli italiani. Sono 
convinto che i fatti successi non sono alcuna direttiva ma sono casi sporadici. 
Siamo intervenuti e pareva che tutto si fosse rappacificato. Proprio alcuni giorni 
prima delle elezioni ecco nuovamente la questione delle scritte (in italiano, ndr) 
che sono state sporcate con la calce. In città non si vede una bandiera italiana, 
nessun trasparente (manifesto, ndr) in lingua italiana. Io so che a Pola esiste la 
bilinguità. Nei nostri blocchi stradali a Fiume nonsi parla più una parola in italiano. 
Va bene che dopo tanti anni tutti dovrebbero conoscere il croato, ma noi dobbiamo 
tener conto degli interessi della più piccola minoranza. Certi elementi italiani che 
ancora prima erano contrari, ora gettano le voci che è avvenuto ciò che loro 
prevedevano, cioè l’estinzione della minoranza. Tutti questi fatti specialmente ora 
non sono opportuni, ora che noi critichiamo l’attività del governo italiano contro i 
diritti della minoranza slovena. Non riesco a capire come mai siamo giunti a questa 
situazione, un compagno ha parlato in una occasione in italiano e quasi lo fischia- 
vano. La responsabilità di quello che accade ricade su tutti noi perché siamo noi 
colpa se precedentemente non abbiamo separato gli Italiani venuti dall’Italia da 
quelli che sono sempre qui vissuti ed hanno combattuto a fianco dei compagni 
croati. /.../ Io penso che sarebbe giusto nei prossimi miting parlare in italiano. 
Dobbiamo chiarire ai Bosniaci ed ai Montenegrini che sono da poco giunti quì, il 
ruolo della nostra minoranza che ha combattuto in queste parti al fianco dei 
compagni croati poiché loro se sentono parlare in italiano ci credono italiani di Pella. 
A Pola e in tutta l’Istria non si verificano di questi casi. /.../ Tutte queste sono 
piccole cose, ma non illudiamoci che esse non influiscono sulla gente. E queste 
sono le cause che oggi rendono passivi gli Italiani e difficile ad attivizzarli /.../”°!. 


60 La Voce del Popolo, 10 ottobre 1953, p. 2. 
6! Archivio del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno (C.R.S.), fascicolo n. 4779/85, p. 1. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 27 


Un tema ricorrente nelle discussioni all’interno dell’ UIIF è stato quello riguar- 
dante i problemi delle istituzioni scolastiche del gruppo nazionale. Sempre attin- 
gendo dal verbale della riunione del 3 dicembre 1953 veniamo a conoscenza di 
certe questioni connesse con la chiusura forzata di alcune scuole con lingua 
d’insegnamento italiana e dei criteri “amministrativi” adottati da apposite commis- 
sioni nel decidere “in base all’ appartenenza nazionale” l’iscrizione ad uno piutto- 
sto che ad un altro istituto scolastico: “Per quanto riguarda la questione di Montona 
non sappiamo più di tanto all’infuori di una lettera inviataci da un insegnante. 
L’altr’anno quando io sono stato a Montona il presidente del Kotar (distretto, ndr) 
m’aveva detto che Montona è una cittadina con molti italiani e che per tanto la 
scuola vi deve essere. Ora la situazione si è capovolta. E io penso che la causa sia 
appunto del segretario del partito di Montona che è un italiano e che non è stato 
capace di affrontare la situazione. /.../ A Pola si è notato il 40% dell’afflusso degli 
alunni alle scuole italiane in meno dell’anno scorso (1952, ndr)”. Un altro membro 
del Comitato UIIF rilevava: “Il problema delle scuole in Istria è molto critico. Nella 
quasi totalità dei consigli per la cultura distrettuali ci sono elementi che continuano 
l’attività antifascista e credono fascisti anche gli italiani attuali. Ora essi si impon- 
gono dittatoriamente, specialmente dopo lo scioglimento dell’Oblasni Komitet. 
Quest'estate a Pisino già parlavano che col prossimo anno scolastico la scuola 
italiana di Pisino e di Montona si chiuderà. Ciò non deriva dalla classe operaia 
croata ma da singoli elementi intellettuali. Per la questione di Pola ho parlato con 
un compagno connazionale ed ha detto che è stata formata una commissione che 
decideva amministrativamente chi doveva andare alla scuola italiana e chi in quella 
croata e non solo questo, ma mandava i casi dubbi alla scuola croata. Poi hanno 
convinto una quindicina di genitori a mandare i figli alla scuola croata dicendo che 
la scuola italiana non ha avvenire. Il compagno ha portato la questione in seno al 
Consiglio per la cultura dicendo che non è giusto agire amministrativamente e gli 
fu risposto che anche l’Italia aveva fatto lo stesso con loro. A Fiume gli isegnanti 
sono demoralizzati. /.../ Bisogna tenere conto che ad Albona il 50 per cento di quelli 
che sono passati nella scuola croata quest'anno sono stati bocciati. E questo è un 
danno. Il nostro compito è di formare uomini socialisti indipendentemente dalla 
lingua cui parlano”? 

In materia di rapporti infranazionali, non sarà superfluo, infine, riportare le 
opinioni di alcuni esponenti dell’UIIF circa i fatti occorsi 1°8 ottobre 1953 ed a 
proposito di una lapide con iscrizione monolingue: “In merito alla situazione dell’8 


62 Ibidem, pp. 2-3. 


28 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


ottobre è mancata una tempestiva reazione. Se proprio non si è potuto frenare 
quelle manifestazioni tempestivamente, i giorni seguenti almeno si poteva chiarire 
la questione e invece si è stati quasi accondiscendenti ad evitare di parlare in 
italiano durante quel periodo”. L’opinione di un’altro membro del Comitato era 
che “questi piccoli fatterelli non c'entrano con la nostra Costituzione. Questi sono 
casi singoli che noi dobbiamo assolutamente chiarire e accusare chi li fa. Dobbia- 
mo noi parlare agli italiani e non lasciare che loro parlino tra di loro e restino 
influenzati dagli elementi malsani. Sono convinto che i fatti che sono successi sono 
veri, ma sono del parere che noi li abbiamo drammatizzati. Io non sono tanto 
sentimentale per queste piccole cose quali ad esempio la questione delle scritte. Io 
non vedo che esistano dei problemi. I casi avvenuti sono casi sporadici e noi 
dobbiamo risolverli”. Un altro esponente ribatteva dicendo che “molti italiani sono 
troppo sensibili e non comprendono queste incomprensioni che si può dire sono 
naturali. Queste incomprensioni sono dovute al caso e si manifestano verso di noi 
come pure verso le istituzioni croate perché dobbiamo ammettere che anche nelle 
scuole croate, ad esempio, esistono dei problemi e tutto non va liscio. Per questo 
non dobbiamo interpretare queste incomprensioni subito come un problema poli- 
tico o come una questione nazionale. /.../ Trovo assurdo che un compagno dica e si 
ponga la domanda quale sarà il futuro della minoranza. Fintanto che esisteranno 
alunni di nazionalità italiana esisteranno anche le scuole. È nostro errore non 
reagire con gli insegnanti che si sono demoralizzati. Bisogna fare una riunione con 
loro e spiegare in questo modo la questione. Ad esempio il Circolo italiano di 
cultura dovrebbe farsi il promotore di questa campagna. Per l’Istria si dovranno 
prendere altri provvedimenti, ma a Fiume si potrà sopperire con questa attività 
promotrice del CIC (Circolo di cultura italiano, ndr) che dovrà impostare la 
questione non sul problema nazionale ma bensì sul lavoro corrente. /.../ Anch'io 
condanno il metodo che si è usato per le scritte e così via, ma non ammetto che si 
seguiti a fare di questo un problema. Ora non si sente più parlare di questo dalla 
nostra gente ma non perché ha compreso la questione ma perché si è rassegnata. E 
questo è nostro torto che non glielo abbiamo fatto comprendere. Noi dobbiamo 
abolire le discussioni sulle tabelle. Fiume deve avere un carattere croato perché fa 
parte del Litorale croato”. A quel punto interveniva nella discussione un membro 
che voleva esprimere il suo disappunto per le dichiarazioni riportate sopra. Infatti 
egli desiderava sottolineare che “la questione della lapide che s’è eretta sul ponte 
di Susak°* con su scritta una frase del compagno Tito in merito alla fratellanza tra 


63 Località presso Fiume che segnava il confine italo- jugoslavo dopo il Trattato di Rapallo. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 29 


croati ed italiani di questa località. La scritta è stata fatta solamente in lingua croata. 
La questione è stata posta in seno all’ Assemblea del C.P. (Comitato popolare, ndr) 
cittadino e non s’è ritenuto necessario che questa scritta fosse tradotta anche in 
italiano dato che trattava appunto della fratellanza di questi due popoli”. Il rappre- 
sentante cui era rivolta la critica, continuava ostinatamente a ribattere affermando 
che egli era “stato fra quelli che hanno votato contro per l’iscrizione in italiano 
della scritta perchè ritengo che quella frase sanziona la situazione esistente e non 
si tratta di un atto di propaganda. L’importante è che questa fratellanza che ivi sta 
scritta esista”. A quel punto l’altro membro rispondeva e concludeva seccamente: 
“Allora se si vuol parlare così, non occorre neanche la tabella con l’iscrizione in 
croato poiché la fratellanza esiste ugualmente. 
Questa discussione viene interrotta”. 


Esistevano dunque, vedute notevolmente contrastanti tra i membri dell’ UIIF, 
da attribuirsi anche alla differente provenienza territoriale-ambientale, ed alla 
diversificata estrazione sociale e culturale. Ed era complessa e difficile la situazio- 
ne sociale e politica in cui l'UIIF operava. Resta comunque significativo l’inter- 
vento del vicepresidente che con le proprie “conclusioni”, abbozzò una sintesi delle 
posizioni e dei compiti dell’ UIIF, quasi pronosticando gli eventi futuri: “A conclu- 
sione della nostra discussione sono convinto che di queste incomprensioni ne 
troveremo per diversi anni. Per diventare socialisti ci vuole un bel po’ di tempo e 
non è facile diventarlo. Sono completamente d’accordo con voi di non badare a 
questi piccoli casi e di lavorare con le masse italiane. Io penso di convocare i 
membri del Partito di nazionalità italiana e di far conoscere loro dal vero lato la 
questione. Nelle fabbriche bisogna parlare agli operai che nessuno proibisce loro 
di portare nelle manifestazioni le bandiere italiane. E se avvengono dei fatti 
dobbiamo risolutamente combatterli perché questi non sono solo nemici della 
minoranza ma del socialismo. 


Dopo di che la riunione ha termine”. 


64 Archivio del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno (C.R.S.), fascicolo n. 4779/85, pp. 4-5. 
65 Ibidem, p. 6. 


30 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


Storia dell’UIIF dal 1954 al 1963: Circoli di Cultura, istituzioni scolastiche 
e attività editoriale del Gruppo Etnico Italiano 


Come riesce facile evincere da quanto sino a qui detto, le garanzie autonomi- 
stiche solennemente promesse e proclamate nel corso della guerra a favore di 
quella che, in ambito regionale istriano costituiva allora la maggioranza, vennero 
accantonate e ignorate con modalità e argomentazioni diverse e furono sostituite 
da una brusca inversione di tendenza nell’impostazione delle relazioni inter-etni- 
che, poiché, al posto dell’autonomia, si imboccò la via della tutela legislativa, per 
di più non lineare e ascendente. Il periodo migliore, il più favorevole per la 
minoranza italiana, era stato quello dell’immediato dopoguerra, prima dell’esodo, 
quando, anche senza strumenti giuridici formali, essa si governava praticamente da 
sé, godeva di una posizione, sotto certi aspetti, privilegiata. Dopo lo sconvolgimen- 
to e la lacerazione del tessuto sociale provocato dalla massiccia emigrazione ebbe 
inizio un complesso processo di inesorabile riduzione numerica e di ridimensiona- 
mento del ruolo politico, culturale e linguistico della “nuova” minoranza, che 
divenne più vistoso proprio a partire dal 1954, dall’anno cioè che apre il secondo 
decennio che ci apprestiamo ad analizzare (fino al 1964). Un anno importante per 
gli avvenimenti che si susseguirono e che avrebbero lasciato profondi segni sul 
destino di queste terre. 

Il 3 marzo 1954 a Dignano si svolse una riunione del Comitato dell’ UIIF. 
All’incontro parteciparono numerosi membri dell’ UIIF e vennero trattati vari 
argomenti quali: le conferenze annuali dei CIC, i problemi della diffusione della 
stampa in lingua italiana, la ventilata chiusura della scuola italiana di Albona®°. 
Dall’intervento di uno dei presenti all’incontro, che ci sembra caratterizzante una 
situazione tipica di più d’una località istriana, ossia il prevalere numerico della 
popolazione italiana su quella slava, veniamo a conoscenza della situazione di 
Rovigno, dove il Circolo di Cultura svolgeva un’attività ridotta, non certo per 
negligenza, ma perché questa situazione era determinata dalle condizioni stesse 
che erano specifiche. Infatti “a Rovigno dove i Croati sono la minoranza e gli 
Italiani la maggioranza?” gli Italiani non hanno bisogno di una attività specifica in 
seno al Circolo. Il nostro fine è quello di rendere attivi gli Italiani nell’edificazione 
del socialismo indipendentemente dalle forme organizzative”. Così ad esempio a 
Fiume le varie istituzioni sociali e politiche non possono interessarsi completamen- 


66 Archivio del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno (A.C.R.S.), fasc. n. 4777/85, p. 1. 


67 Una situazione analoga esisteva per esempio a Dignano e Gallesano. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 31 


te di tutti i problemi della minoranza per cui è giusto allora che il CIC cerchi di 
colmare queste lacune, organizzi le conferenze dell’ Università popolare in italiano, 
che il CIC cerchi di colmare queste lacune, organizzi le conferenze dell’ Università 
popolare in italiano, che il CIC di Pola organizzi corsi, ecc. Ma, in sostanza, 
dovrebbe essere l’autorità costituita a fare questo”. 

Da queste affermazioni risulta che i Circoli di Cultura non erano ancora 
riusciti ad assumere l’importante ruolo di organismi di coesione del gruppo nazio- 
nale a livello locale. Infatti un membro del Comitato constatava che “il CIC non è 
riuscito a divenire una organizzazione autorevole. Quando esso ha qualche propo- 
sta da fare i compagni del Comitato non vengono accolti dalle autorità come 
dovrebbero ed ecco che allora si ricorre al compagno Benussi, a Massarotto 
affinché si intervenga per appoggiare la loro proposta. Anche nel Territorio Libero 
di Trieste esiste una certa passività nell’attività del CIC di quel territorio special- 
mente dopo i fatti successi in occasione dell’8 ottobre (/953, ndr). Per quanto 
riguarda il Circolo di Dignano, esso ha svolto finora una attività molto limitata. 
Fino a quando esisteva la società artistico-culturale il Comitato del CIC discuteva 
e si interessava dell’attività, ma da quando la V. Gortan®8 s’è unita a quella croata, 
il CIC non ha avuto più problemi da trattare. Per quanto riguarda l’attività politica 
essa viene svolta in seno alle organizzazioni di base e problemi della lingua non 
esistono perché Dignano è popolata più da italiani che da croati...”°°. 

Nella conclusione, si sottolineava che era necessaria un’intensa campagna di 
persuasione presso tutti gli italiani affinché partecipassero alle iniziative dei Cir- 
coli di Cultura. Si metteva inoltre in evidenza il fatto che non bisognava “separare 
l’attività degli italiani da quella dei compagni croati”? 

Mentre l’ Unione degli italiani, il 10 luglio del 1954, stava celebrando il suo 
decennale, esaltando la “lotta di liberazione, combattuta con entusiasmo a fianco 
dei fratelli croati e sloveni suggellando con il sangue versato in comune quella 
fratellanza e quella unità indistruttibili””!, nella Zona B del Territorio Libero di 
Trieste, affidata all’amministrazione jugoslava, si stava compiendo l’ultimo dram- 
matico atto, potremmo dire, di un fenomeno che aveva interessato, dal 1945 in poi, 
le zone popolate da italiani: si completava l’esodo di circa 200.000 anime”, anzi 


68 Nome della società artistico culturale degli Italiani di Dignano, nonché eroe popolare. 
69 A.C.R.S., fasc. n. 4777/85, p. 4. 

70 A.C.R.S,, fasc. n. 4777/85, p. 5. 

7 “10 anni di vita dell’UIIF”, Panorama, n. 13, Fiume, 1954, p. 3 

72 AA.VV., Storia di un esodo Istria 1945-1956, Trieste, 1980, p.l. 


32 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


più di 300.000, secondo quanto affermato dal presidente J. B. Tito”. 

Fra tutti i fatti accaduti nel 1954, il Memorandum d'Intesa firmato il 5 ottobre 
a Londra, rappresenta certamente lo spartiacque nella vicenda dei rapporti italo-ju- 
goslavi. Si concludeva, infatti, un periodo lungamente caratterizzato da tensioni tra 
i due Stati che erano culminate, nell’autunno del 1953, con il concentramento di 
carri armati ai confini, a seguito della decisione, da parte del governo Alleato di 
affidare all’Italia la Zona A del TLT. 

Il documento, firmato alla presenza dei rappresentanti degli Stati Uniti e del 
Regno Unito, assegnava praticamente in forma definitiva alla Jugoslavia la Zona 
B dell’ex TLT, mentre Trieste ritornava a far parte dello Stato italiano. Nell’ Alle- 
gato II allo “Statuto speciale””*, venivano sanciti i principi che avrebbero dovuto 
garantire uno sviluppo indisturbato alle due minoranze nazionali (italiana in Jugo- 
slavia e slovena in Italia). In particolar modo veniva assicurata l’uguaglianza dei 
due gruppi etnici in rapporto ai popoli di maggioranza sul piano dei diritti civili, 


73. B. TITO, “Relazione all’ Attivo Politico del Montenegro”, Glas /stre, del 30 dicembre 1972. 


74 La Voce del Popolo del 6 ottobre 1954, p. 3; riportiamo alcuni articoli dello “Statuto speciale”: 

Art. 2 

Gli appartenenti al gruppo etnico jugoslavo nel territorio amministrato dall'Italia e gli appartenenti al 
gruppo etnico italiano del territorio amministrato dalla Jugoslavia, godranno uguali diritti e trattamento come gli 
altri abitanti dei due territori. Questa uguaglianza significa che essi godranno: 

a) l'uguaglianza con gli altri cittadini per quanto riguarda i diritti politici e civili, nonché gli altri diritti 
dell’uomo e le altre libertà fondamentali garantite nell’art. | 

Art. 4 

a) questi gruppi etnici avranno diritto alla propria stampa nella loro lingua materna 

b) le organizzazioni educative, culturali, sociali e sportive di entrambi i gruppi, potranno agire liberamente 
conformemente alle leggi vigenti 

c) a entrambi i gruppi verrà porto l'insegnamento nella lingua materna nei giardini d'infanzia, nelle scuole 
elementari, medie e professionali. Tali scuole verranno mantenute in tutte le località del territorio in esame. I 
governi italiano e jugoslavo sono d’accordo di mantenere le scuole esistenti, come sono citate nella lista allegata. 
Queste scuole godranno di un eguale trattamento rispetto alle altre scuole dello stesso territorio situato sotto 
l’amministrazione italiana rispettivamente jugoslava, per quanto riguarda l’assicurazione di manuali, edifici ed 
altri mezzi nonché il riconoscimento dei diplomi /.../1 programmi d’insegnamento di queste scuole non debbono 
essere rivolti in una direzione in contrasto con il carattere nazionale degli alunni 

Art. 5 

Gli appartenenti al gruppo etnico jugoslavo nel territorio sotto l’amministrazione italiana e gli appartenenti 
al gruppo etnico italiano nel territorio sotto l’amministrazione jugoslava potranno servirsi liberamente delle 
propria lingua nelle comunicazioni personali e ufficiali con le autorità amministrative e giudiziarie di entrambi i 
territori. Nelle risposte orali essi avranno il diritto a ricevere dalle autorità le risposte nella stessa lingua, sia 
direttamente che mediante interprete. /.../ In quelle unità elettorali sotto l’amministrazione italiana, nei quali gli 
appartenenti al gruppo etnico jugoslavo costituiscono parte significativa (almeno un quarto della popolazione) le 
scritte sugli enti pubblici e i nomi delle località e delle vie figureranno nella lingua del gruppo etnico jugoslavo 
nonché nella lingua dell'autorità che esercita l’amministrazione. In quei comuni nel territorio sotto l’amministra- 
zione jugoslava, nei quali gli appartenenti al gruppo etnico italiano, costituiscono parte significativa (almeno un 
quarto della popolazione) queste scritte dei nomi figureranno in lingua italiana, nonché nella lingua dell'autorità 
che esercita l’ amministrazione 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 33 


politici e di uso e sviluppo della propria lingua e delle proprie tradizioni; veniva, 
inoltre, fornito un elenco delle istituzioni scolastiche appartenenti alle minoranze, 
esistenti al di là e al di qua del confine. 

In occasione di questo avvenimento d’importanza capitale per il Gruppo 
Nazionale, venne indetto a Dignano un Plenum dei rappresentanti dell’ Unione. 
Così, la minoranza italiana dei territori della Zona B annessi al territorio jugoslavo, 
entrava a far parte de jure dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume”?. Nel 
discorso del presidente Massarotto, tra l’altro, veniva auspicato che “agli sloveni 
(della Zona A, ndr) fosse garantita al pari nostro, una democrazia sostanziale fatta 
di auto-dirigenza dell’amministrazione, dell'economia e della vita politico sociale, 
come essa esiste nel nostro paese”””°. 

Venne posto l'accento anche sul fatto che si sarebbe dovuto approfondire lo 
sviluppo politico dei connazionali, ma risolvendo i loro problemi nelle rispettive 
Comuni. Pertanto, egli concludeva che l’ Unione degli Italiani doveva occuparsi 
solamente di questioni generali riguardanti la minoranza nel suo complesso, ovvia- 
mente esclusione fatta peri contenuti politici. Infatti, “un importante ruolo politico 
doveva svolgere nel futuro”? il Gruppo Nazionale in quanto costituito da individui 
che con le loro caratteristiche nazionali si sarebbero dovuti includere — questo sì — 
nei meccanismi politici della società jugoslava, naturalmente in ambito locale. 

Anche questa tesi era una conferma che gli italiani non avrebbero potuto 
svolgere attività politiche attraverso la loro specifica organizzazione. Ci sembra 
giusto ricordare, a questo punto, che l’UIIF, nei suoi programmi iniziali, era sorta 
innanzitutto come organismo politico. Purtroppo, soprattutto dopo la metà degli 
anni ’50*, essa cominciò a trasformarsi sempre più o quasi esclusivamente in “ente 
coordinatore”, attraverso i Circoli di Cultura, delle attività artistico-scolastico-edi- 
toriali del Gruppo Nazionale. 


75 La V.d. P., del 7 novembre 1954, p. |. 
76 La V. d. P., del 8 novembre 1954, p. |. 


77 Così di esprimeva significativamente in un articolo programmatico il quotidiano “La V. d. P.” (8 novembre 
1954), riportando e commentando le conclusioni del Plenum dell’UIIF a Dignano. 


78 Comunque v., Archivio C.R.S., fasc. n. 26/72, a tale proposito l’intervento di E. Sequi alla II Conferenza 
Plenaria di Parenzo (2 febbraio 1947) in cui si affermava che “Col sorgere dell’Unione Antifascista Italo-Slava è 
venuta a cessare la funzione direttamente politica dell’UIIF, in quanto, tutti gli italiani democratici non hanno 
alcun motivo di svolgere una particolare attività politica che li separi dalle masse democratiche slave. L'Unione 
degli Italiani, che riconosce suo il programma dell’U.A.I1.S. ed è parte integrante di tale istituzione, si dedica 
pienamente a quell’unica particolare attività, che nella sua stessa forma interessa separatamente italiani e croati e 
sloveni; e cioè l’attività culturale che, partendo dalle stesse fonti sociali ed ideologiche, devono esplicarsi 
secondo la lingua e il genio degli Italiani”. 


34 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


Nel 1955 l’attività dell’UIIF è caratterizzata dai preparativi per l’ VIII Assem- 
blea. Nella riunione della Segreteria del 14 febbraio venne esaminata la situazione 
finanziaria dell’Unione, uno dei problemi “spinosi”, in quanto la stragrande mag- 
gioranza dei suoi fondi, veniva elargita dal Comitato Esecutivo della Repubblica 
Popolare di Croazia. È un aspetto questo che rivela subito quanto il Gruppo 
Nazionale fosse già allora completamente dipendente, per le proprie attività, dai 
mezzi messi a disposizione dagli organismi statali maggioritari, dato che non 
disponeva di attività economiche che gli permettessero di accumulare il necessario 
e di godere di una certa autonomia finanziaria. Dalla documentazione relativa a 
quell’incontro”? veniamo a sapere che “la sovvenzione è diminuita di 20 milioni. 
Sorge una discussione sul da farsi. Ad ogni modo si esclude il fatto di eliminare 
qualche giornale o rivista. Si conclude di andare a Zagabria portando seco un piano 
di massima e uno di minima e che poi loro (/a dirigenza croata, ndr) stabiliscano 
il da farsi. Che a Zagabria si suggerisca l’idea che partecipasse alle spese 
dell’ Unione anche la R.P. di Slovenia8® e non solo quella di Croazia”. 

Altra questione, l’attività editoriale: in quella sede si fece notare che “se la 
Voce (del Popolo, ndr) riesce a guadagnare 3 milioni di dinari con gli avvisi 
pubblicitari, può uscire liberamente in 6 pagine e chiede se sono d’accordo su 
questo. Tutti approvano per cui si decide di informare della cosa il compagno 
Trento (recte Trenta) a Zagabria”. 

In quella sede, inoltre, venne stabilito che 1’ Assemblea dell’UIIF si sarebbe 
svolta a ottobre in una località ancora da fissare. Ma il 19 ottobre la Presidenza 
affrontava la questione rivelatasi alquanto complicata. Infatti, “per quanto riguarda 
l’ Assemblea dell’ Unione si decide di tenerla il giorno 20 novembre. Sorge qui una 
discussione in merito alla località dove tenere la nostra Assemblea. Il nostro 
progetto di tenere 1’ Assemblea in una località dell’ex territorio libero (Zona B, ndr) 
non sarebbe da realizzare in relazione proprio agli ultimi avvenimenti. L’Italia in 
questo ultimo tempo cerca di fare il possibile affinché gli italiani di questo 
territorio rimangano su queste terre per poter dimostrare che ci sono italiani. Noi 
tenendo l’ Assemblea proprio in quel territorio rafforziamo la politica dell’Italia. 
Dopo una breve discussione si conclude che un compagno del distretto, al suo 
rientro a Pirano si colleghi subito con i compagni del Comitato distrettuale del 
Partito per stabilire l'opportunità o meno di tenere 1° Assemblea in quel territorio. 


99 A.C.R.S,, fasc. n. 4774/85. 


80 Il Gruppo Nazionale Italiano che opera in Slovenia, viveva nelle cittadine del Litorale Sloveno, ossia 
Capodistria, Isola, Strugnano, Pirano, Portorose, S. Lucia. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 35 


Qualora la risposta fosse negativa allora si stabilisce di tenere |’ Assemblea a 
Pola”8!, 

E così sarebbe stato. 

In un’altra seduta della Presidenza tenutasi a Rovigno nel luglio 1955, la 
discussione si accese in merito alla scarsa efficacia dell’opera di “proselitismo” 
socialista svolta dai CIC (Circoli italiani di cultura, ndr) nell’intento di attivizzare 
tutti gli Italiani che avevano deciso di non abbandonare la propria terra. La 
situazione era molto critica soprattutto nei CIC dell’ex Zona B del TLT, in quanto 
le opzioni erano in pieno svolgimento, l’ atmosfera generale per i rimasti era, a dir 
poco, scoraggiante*. Neppure nel restante territorio abitato da Italiani, però, la 
situazione era delle più rosee: l’ Unione non riusciva a stabilire un contatto neces- 
sario con i CIC per un’azione omogenea, condotta al fine di un reale coinvolgimen- 
to dei connazionali nella vita socio-culturale della comunità stessa. Disquisendo 
del ruolo dei CIC ci si poneva la questione “se l’attività politica dobbiamo 
incanalarla nelle organizzazioni di base (organizzazioni di lavoro, organizzazioni 
socio-politiche della maggioranza, ndr), l’attività culturale svolgerla assieme ai 
compagni croati, allora, guardando teoricamente le cose, i CIC non dovrebbero 
esistere. Invece noi sappiamo che i CIC sono necessari, poiché in alcune organiz- 
zazioni di base non viene dedicata molta attenzione ai compagni italiani, per cui i 
CIC devono sopperire con la loro attività a questa mancanza”*3. 

D’altronde veniva ribadito che l’esistenza dei CIC era un fatto indiscutibile, 
anche per lo sviluppo del sentimento nazionale. Tuttavia il fine ultimo era certa- 
mente quello di “creare degli italiani, ma socialisti!”’. E qui torna utile proporre alla 
nostra riflessione, alcune considerazioni di E. Collotti84 sulla posizione della 
minoranza nazionale italiana in Jugoslavia. Egli proponeva di stabilire “intanto un 
primo punto fermo sul quale si dovrebbe essere tutti d'accordo: i diritti della 


8! A.C.R.S., fasc. n. 1073/73. 


82 Vedi A.C.R.S., fasc. n. 1073/73. Discorso d’apertura di G. Massarotto tenuto alla VIII Assemblea 
dell’UIIF e in particolare il passo: “Se in relazione alla soluzione del problema triestino nell’ex territorio libero si 
sono aperte le opzioni, ciò non ha niente di straordinario. Nell’altra parte dell’Istria l'abbiamo già provato. Noi 
siamo uomini liberi e intendiamo che ognuno si senta tale. Abbiamo il dovere si — perché la nostra coscienza è 
socialista — di spiegare ad ognuno la verità su ciò che lo può attendere un domani senza casa, senza terra e forse 
senza lavoro in qualsiasi luogo dovesse andare e specialmente a randagio quale emigrante. L'esperienza di tanti 
che lo hanno provato può molto insegnare. Noi questo lo dobbiamo fare, dobbiamo cioè dire cosa significa 
abbandonare un paese socialista per mettersi a disposizione dello sfruttamento capitalista”. 


83 A.C.R.S., fasc. n. 1073/73 (74), Intervento di A. Borme, p. 2. 


84 E, COLLOTTI, “Postilla” — in risposta al testo di A. Borme, /! Ponte-Rivista mensile di Politica e 
Letteratura, n. 8-9, 1955, pp. 1281-1282. 


36 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


minoranza nazionale non possono spingersi fino alla pretesa del riconoscimento 
del diritto a separarsi dallo Stato nel quale essa minoranza è incorporata. Giusti e 
leciti sono pertanto gli sforzi di uno Stato rivolti a perseguire l'inserimento della 
minoranza nella più ampia e complessa struttura dello Stato, in special modo 
quando questo Stato sia portatore e alfiere di una ben determinata ideologia. Lungi 
da noi l'intenzione di svalutare l’importanza per il popolo jugoslavo, e forse non 
per esso soltanto, dell’esperimento in atto nel vicino paese: quello che non ci 
convince sono taluni aspetti di questa nuova società in formazione che a noi, se 
dobbiamo stare alle proclamazioni di principio, sembrano quanto meno contraddit- 
torie. Proprio qui il problema nazionale, poiché questo per ora è quello che più ci 
interessa, offre un esempio cospicuo di queste incongruenze: in altri termini, e per 
essere brevi, come è possibile conciliare il socialismo con la protezione del 
patrimonio e della tradizione culturale delle minoranze? Perché, se non erriamo, 
l’immagine che noi ci dobbiamo fare del problema delle minoranze nazionali in 
Jugoslavia, si può tradurre in breve in questi termini: in Jugoslavia tutti devono 
pensare socialista, ma possono esprimere questi loro pensieri socialisti in italiano 
(non sempre fu così, ndr), in sloveno, in croato e così via. E qui appunto sta il centro 
della questione. Per noi, rispetto della minoranza significa rispetto non soltanto 
della lingua ma anche e soprattutto della tradizione culturale della minoranza, e ciò 
per il fatto molto semplice che non è possibile scindere la lingua dal mondo 
culturale nel quale essa si è venuta formando senza condannarla a morte, sia pur 
lenta ma sicura. Ora, ci pare che il socialismo jugoslavo persegua, consapevolmen- 
te o no, uno scopo ben diverso, poiché l’indottrinamento dell’ideologia ufficiale 
finisce necessariamente per eliminare ogni tradizione culturale particolare delle 
singole nazionalità. In tal modo si opera su una specie di livellamento sul piano 
dell’ideologia ufficiale, ma anche di conseguenza, l'eliminazione delle singole 
tradizioni culturali.” /.. / “Che noi si sappia, Carducci e Croce non sono mai stati 
socialisti. Ebbene, è possibile alla minoranza italiana in Jugoslavia leggere e 
studiare Carducci e Croce? Perché, ripetiamo, svellere la lingua dall’humus nel 
quale essa si è alimentata nel corso dei secoli significa a lungo andare spegnerla e 


con essa estinguere praticamente la minoranza”**. 


Il 20 novembre 1955 si svolse a Pola l'VIII Assemblea dell’UIIF. Dopo la 
“relazione politica” introduttiva del presidente Massarotto, nella “relazione orga- 


85 La forma linguistica dei singoli interventi riflette spesso i limiti delle persone addette alla stesura dei 
verbali (non si usavano quasi mai i registratori). 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 37 


nizzativa” Andrea Benussi rilevava che i Circoli si erano basati fino ad allora 
esclusivamente sull’attività artistico-culturale, conseguendo in certe località 
dell’Istria ottimi risultati ma, gli altri campi di attività, come quello politico, erano 
stati completamente trascurati*°. 

Alla relazione sulla situazione finanziaria seguì la discussione. Spiccano le 
valutazioni riguardanti gli atteggiamenti del mondo politico italiano nei confronti 
dell’UIIF nelle quali, per la prima volta, si parla dei contatti con società artistico- 
culturali della Nazione madre. Si segnalavanotre aree politiche: la prima era quella 
del Presidente Parri, che veniva considerata progressista e quindi positiva, al 
seconda che faceva capo alla Federazione giovanile comunista di Cucchi e Magna- 
ni e, infine i “circoli irredentistici”’ italiani che esprimevano sulle colonne del 
quotidiano triestino “Il Piccolo” le proprie opinioni circa la questione della regione 
istro-giuliana. L'intervento di un membro dell’ UIIF chiariva come ‘fino a poco 
tempo fa questa corrente politica negava o almeno ignorava l’esistenza di una 
minoranza italiana in Jugoslavia; è quindi positivo che ora si riconosce la nostra 
esistenza. Però tutti noi italiani in Jugoslavia veniamo considerati come degli 
irredentisti che lottano per il ritorno dell’Istria allo Stato italiano. È evidente che 
con tale corrente politica noi non possiamo cercare dei contatti. Bisogna perciò 
essere sul chi va là e fare attenzione a chi ci porge la mano. Noi dobbiamo dunque 
accettare contatti solo con quelle correnti della vita politica italiana che hanno un 
atteggiamento positivo di fronte al nostro Paese e alla nostra minoranza, e dobbia- 
mo usare i mezzi per esportare i nostri principi e far conoscere la nostra prassi 
socialista oltreconfine”*”. 

Veniva così realizzato, si affermava, uno dei diritti fondamentali di ogni 
individuo o organismo che operi in una società democratica: far politica. Ma 
“compito essenziale” dell’ UIIF diventava quello di far politica selezionando i 
contatti ed ‘“esportando le idee socialiste al di là dei confini”. Inoltre, veniva 
ribadito il principio secondo cui “l’ Unione degli Italiani non è un’organizzazione 
politico-culturale. Le iniziative politiche non sono il compito principale dell’ UIIF, 
bensì devono venir svolte come attività secondaria, di tanto in tanto”**. Tale 
orientamento veniva giustificato col fatto che l’azione politica degli Italiani doveva 
restare nell’ambito dell’ Unione Socialista del Popolo Lavoratore®?: se i CIC fosse- 


86 A.C.R.S., fasc. n. 1091/73. 
87 A.C.R.S,, fasc. n. 1091/73, p. 3. 
88 Ibidem, p. 4. 


89 L'Unione Socialista del Popolo Lavoratore (più tardi Alleanza Socialista del Popolo Lavoratore) 


38 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


ro divenuti campo per l’attività politica, si sarebbe “minata la fratellanza con i 
compagni croati e sloveni”. A dimostrazione e conferma del completo conformi- 
smo della maggioranza dei membri costituenti la Presidenza dell’UIIF “alle diret- 
tive che giungevano dall'alto”, ecco alcuni passi del discorso di saluto, pronunciato 
da Mika Spiljak®° durante i lavori dell’ Assemblea: “L’ Unione ha fatto molto per 
organizzare la vita della minoranza e legarla all’edificazione socialista. Ora i 
problemi fondamentali dei rapporti con l’Italia sono risolti e di fronte all’ Unione 
stanno nuovi compiti: il compito principale è educare gli italiani a una nuova 
attività sempre maggiore negli organi d’autogoverno (consigli operai, consigli 
scolastici, consiglio dei cittadini); l’autonomia è i diritti degli italiani non si 
realizzano nei CIC e nell’ Unione ma nella loro funzione e nella loro partecipazione 
all’attività delle organizzazioni sociali. Quanto più gli italiani si attivizzeranno 
nelle varie organizzazioni sociali e nei vari organi di autogestione, tanto meno 
diverranno necessarie certe attività che i CIC e l’ Unione svolgevano fino a ora; 
altro grande compito dell’ Unione e dei CIC è la cura dello sviluppo della cultura 
nazionale nello spirito socialista. Un terzo compito per cui appena oggi si sono 
create grandi possibilità di realizzazione è quello dell’azione socialista della nostra 
minoranza sui connazionali in Italia. Oggi la situazione politica del nostro Paese 
rende sempre più possibile una tale azione. La coesistenza della pace, ma politica 
di classe, socialista, da noi e nel mondo, sia in Occidente che in Oriente; oggi è 
possibile il progresso dell’umanità, la liberazione dall’arretratezza solo con l’eli- 
minazione del capitalismo privato, col socialismo”? 92, 


Vasta eco ebbe I’ VIII Assemblea nell’opinione pubblica del Gruppo Naziona- 
le. Particolare scalpore suscitò la notizia della presunta e dichiarata mancanza di 
omogeneità di vedute nel Comitato dell’ UIIF. Il presidente Massarotto propose di 
chiarire questo punto alla successiva riunione del Comitato. Effettivamente, all’in- 
terno della dirigenza dell’ Unione esistevano due correnti, diremmo quasi frazioni: 
la prima, si preoccupava di inserire il più possibile gli Italiani nei processi politico 
sociali in corso nella federazione jugoslava, ignorando la gravità dell’ assimilazio- 
ne avanzata della comunità italiana; all'altra corrente stava più a cuore la conser- 


raccoglieva tutti i soggetti (cittadini o associazioni di cittadini) che non facevano direttamente parte dell’apparato 
di Partito. 


9 Membro del Comitato Centrale dell’U.S.P.L. della Croazia. 
? A.C.R.S,, fasc. n. 1091/73, p. 4-5. 


°2 La V. d. P. del 21 novembre 1955 usciva con un articolo in prima pagina sull’ Assemblea dell’UIIF dal 
titolo ambiguo: “Adeguare l’attività dell’Unione allo sviluppo generale del nostro paese”. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 39 


vazione di una certa autonomia per il Gruppo Nazionale. Tale asserzione è conva- 
lidata dai documenti finora citati e da quelli che seguiranno. Dal canto suo, il 
presidente dell’ UIIF lamentava scarse possibilità di intervento dell’organizzazione 
nel frenare certe tendenze “autonomistiche” di alcuni CIC. Ciò era dovuto, egli 
stesso lo ammetteva, alle mutate condizioni (‘Legge sulle Comuni”)? (28), sicché 
“prima con l’apparato che avevamo ci era più facile controllare, ora dobbiamo 
lasciare questo compito alle autorità del comune, alle organizzazioni politiche del 
luogo”. 

Difatti, dalla documentazione disponibile, si desume che, anche se sino a quel 
momento non era esistito mai un controllo vero e proprio sull’operato dei CIC da 
parte dell’UIIF, le dirigenze dei CIC erano solite rivolgersi al presidente dell’ UIIF 
per risolvere i loro problemi contingenti, locali; si cercò di porre fine a questa 
prassi. Il vice-presidente Benussi si era dichiarato contrario all’opinione espressa 
da altri membri, secondo i quali il Partito doveva interessarsi di tutto, anche delle 
scuole della minoranza: non era necessario, disse, che i CIC eleggessero propri 
rappresentanti, al fine di un controllo efficace, nei Consigli delle varie scuole. 
Veniva persino negato, da un altro membro, che esistesse il problema della 
probabile chiusura di alcune scuole della minoranza, in quanto, con il tempo, esse, 
comunque, sarebbero state assorbite da quelle della maggioranza slava. 

Con tali posizioni si mettevano in dubbio la stessa legittimità dell’esistenza 
dell’Unione e dei CIC e la necessità di garantire la sopravvivenza del Gruppo 
Nazionale. Infatti si affermava che “stando così le cose l’ Unione non serve proprio 
a niente. A Parenzo il segretario del CPC (Comitato popolare cittadino, ndr) già 
parla di una classe con 21 alunni che con il prossimo anno non esisterà più. A Torre 
e a Visinada ugualmente. lo ho parlato con gli insegnanti ed ho constatato che sono 
demoralizzati. Un insegnante di Parenzo per aver tenuto una lezione su Dante è 
stato più volte chiamato dagli Affari Interni (polizia, ndr)””. 

La situazione dei singoli CIC avrebbe richiesto ancora molte ore di discussio- 
ne nelle riunioni della Presidenza dell’UIIF; all’inizio del 1956 furono così spediti 
alle varie sedi dei questionari destinati a sondare la consistenza numerica degli 
iscritti e la loro attività; venivano pure censiti i docenti delle istituzioni scolastiche 
dell’Etnia. Il questionario “tipo” consisteva di due parti: una riguardava i CIC: si 
dovevano specificare il numero dei soci (effettivi+onorari), l'appartenenza politica 


9 A.C.R.S,, fasc. n. 1074/73; Verbale della riunione della Segreteria UTIF del 16 gennaio 1956, p. 1. 
% Ibidem, p. 2. 
95 A.C.R.S., fasc. n. 1158/73(74). 


40 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


e sociale dei membri del Comitato (membri della Lega dei Comunisti, dell’USPL, 
ceto operaio, contadino, intellettuale, ecc.), la nazionalità (italiana o jugoslava) e, 
infine, la nazionalità dei soci onorari; l’altra concerneva la composizione socio-po- 
litico-nazionale degli organici degli insegnanti (attività politica svolta oltre a quella 
scolastica, comportamento verso la religione, numero dei docenti di nazionalità 
slava operanti nelle scuole con lingua d’insegnamento italiana) e gli alunni (l’in- 
fluenza esercitata dalla chiesa e le misure adottate in proposito dai rispettivi 
consigli insegnati), nonché il numero degli appartenenti al Gruppo Nazionale che 
ricoprivano posti di responsabilità nelle varie istanze politiche, economiche, nella 
vita sociale e culturale in genere”. 

A titolo illustrativo è bene esaminare i questionari compilati dai CIC di Pola 
e di Rovigno (con l’intestazione “Circolo Italiano di Cultura - Rovinj”) e quelli 
spediti all’ UIIF dai CIC di Isola e di Pirano”. 

Se ne deduce che del CIC di Pola facevano parte 477 soci, mentre della Società 
Artistico Culturale “Lino Mariani’ 122 soci. Dei 477 soci del CIC, 13 erano 
membri del PCI, 16 dell’USPL; dei 27 soci onorari, 16 erano di nazionalità croata. 
Nella scuola ottennale italiana di Pola, di 21 docenti ben 8 si dichiaravano croati 
ed un serbo, mentre si precisava che “la maggioranza degli insegnanti tengono un 
giusto atteggiamento nella lotta contro le credenze religiose e contro la loro 
influenza negativa. Nella scuola non vi è un problema religioso, la maggioranza 
degli alunni è di origine operaia, non frequentano la chiesa”. 

Il CIC di Rovigno, notificò le seguenti cifre: i soci effettivi erano 100, mentre 
quelli onorari 300; del PCJ facevano parte 11 membri, più 9 dell’USPL e di questi 
20, 13 erano operai, un solo contadino, 7 intellettuali; infine, 3 appartenevano ad 
altre categorie professionali. Tutti i soci (effettivi e onorari) erano di nazionalità 
italiana. Per quanto riguarda le scuole, non si dispone di dati precisi relativi alla 
consistenza numerica dei docenti e dei discenti, ma si sa che presso il liceo 
operavano due professori di nazionalità croata. E, inoltre, che tutti gli insegnanti 
provenivano da famiglie di operai e contadini escludendo due o tre anziani, tutti 
svolgono la loro attività, oltre che nella scuola, nelle varie organizzazioni sociali; il 
loro atteggiamento nei confronti della religione è quale lo esige la nostra Società”. 

Dal documento succitato, risulta che gli studenti erano influenzati dalla reli- 
gione cattolica soprattutto nelle prime classi della scuola elementare, mentre tale 


% Ibidem, arch. cit... 
97 Ibid. 
98 Ibid. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 41 


fenomeno andava riducendosi nelle classi superiori. Allo scopo di neutralizzare 
l’influenza della religione sui ragazzi, i docenti li seguivano anche nei pomeriggi 
nell’ambito delle attività extra-scolastiche. 

Presso le istituzioni scolastiche italiane di Isola, la situazione era diversa: su 
un totale di 53 studenti, 37 erano credenti; 6 insegnanti erano di nazionalità italiana, 
mentre 5 erano di nazionalità slovena, solamente 2 erano membri del PCI. Il locale 
CIC “Giordano Bruno” contava su 248 soci effettivi. È interessante rilevare che, a 
quel tempo, 231 soci erano “Cittadini del Comitato Popolare Distrettuale di 
Capodistria”, e 17 erano cittadini jugoslavi. 

Infine, dalla relazione pervenuta dal CIC di Pirano, forte di 116 soci, si ricava 
che gli Italiani di quel Comune ammontavano a circa 1400 unità nel 1956; gli 
insegnanti nelle scuole con lingua d’insegnamento italiana erano 11, dei quali 5 
italiani e 6 sloveni (8 erano atei). Per quel che riguarda l'influenza religiosa sugli 
alunni, essa andava attribuita non all’opera del clero locale, ma all’educazione 
familiare. Inoltre veniva lamentata la riduzione graduale del bilinguismo sia visivo 
(insegne, tabelle, avvisi) sia orale”. 

Due temi scottanti furono trattati in varie occasioni dalla Presidenza dell’ UIIF: 
quello dell’intolleranza nazionale" e quello dei cosiddetti “svincoli dalla cittadi- 
nanza jugoslava”!. All’interno dell’UIIF, esistevano due tipi di approccio alla 
questione dell’intolleranza: uno che si occupava esclusivamente dei piccoli fatti 
quotidiani, “tendeva ad ingrandirli e a farne un problema generale di tutta la 
minoranza” (atteggiamento, questo che veniva considerato sbagliato) e l’altro, 
ritenuto più giusto, che spingeva gli Italiani ad inserirsi il più possibile nella vita 
sociale jugoslava per “venire elevati culturalmente e politicamente”. In definitiva, 
si cercava di minimizzare la gravità del problema. 

Le stesse frequenti richieste di svincolo dalla cittadinanza jugoslava venivano 
considerate non come conseguenza del clima di intolleranza nazionale o della 
scarsa democraticità dei rapporti sociali, bensì venivano attribuite esclusivamente 
a moventi di natura economica, visto che anche cittadini di nazionalità croata 
manifestavano l’intenzione di cambiare cittadinanza. 

Si ventilò pure l’ipotesi che qualcuno agisse volutamente per dividere i 
membri della Presidenza. Si cercava di criticare tutto e di ridurre la partecipazione 


9 Per intolleranza nazionale intendiamo: chiusura forzata delle scuole italiane, scomparsa di insegne 
bilingui, rifiuto dell’uso della lingua italiana da parte della popolazione di maggioranza durante comizi o riunioni 
ma anche nella vita d’ogni giorno. 


100 Rappresentavano le pratiche necessarie al soggetto optante, onde conseguire la cittadinanza italiana. 


42 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


degli Italiani alla vita sociale: “Pochi sono oggi gli Italiani che si elevano politica- 
mente e ideologicamente. Qualcuno cerca di rompere l’unità fra gli italiani. Noi 
non dobbiamo erigerci a difensori dell’italianità”!°, 

Non tutti i membri, però, la pensavano allo stesso modo. Si sosteneva che 
bisognava tenere conto di tutti gli aspetti del problema. L’ Unione l’aveva sempre 
affrontato energicamente, ed era perciò da elogiare. “I piccoli casi di intolleranza 
nazionale che si verificano ogni giorno si potrebbero lasciar correre perché di poco 
conto, ma quando questa intolleranza proviene dalle autorità”! (38) allora ciò 
diventava grave e inammissibile, e bisognava reagire. Anche nella riunioni succes- 
sive fu ripreso tale argomento. Si chiarirono nuovamente i rapporti tra CIC e UIIF. 
Da un discorso del Presidente G. Massarotto si apprende l’esistenza di una “Com- 
missione per le minoranze”, nominata per la prima volta nel seguente passo: “Il 
lavoro dei CIC diverrà ideologico solo quando essi comprenderanno la lotta per il 
socialismo, vedranno la Jugoslavia in generale. Sorgeranno ancora dei problemi 
che le autorità locali lasceranno insoluti. Noi andremo in lotta tattica. Non diremo: 
con questa tua azione tu (l’autorità locale, ndr) hai danneggiato la minoranza, 
bensì diremo hai danneggiato il socialismo. In questo modo applicheremo lo 
statuto e realizzeremo i principi dell’Unione. /.../ Che i CIC si rivolgano alle 
autorità locali per risolvere i loro problemi. Se poi si vede che il problema 
impostato dai compagni non viene risolto, rivolgersi a Zagabria, alla Commissione 
per le minoranze, fino ad oggi poco sfruttata”'%. 

Nella medesima riunione vennero espressi dei giudizi tendenti quasi a dimo- 
strare che i problemi accennati erano stati “gonfiati”, inoltre si prese in esame un 
rapporto sulle condizioni esistenti in alcuni CIC, compilato!°, a conclusione di un 
viaggio itinerante in Istria, nel quale si constatava che nella maggior parte delle 
località visitate, le autorità locali si interessavano parecchio della minoranza 
italiana come, ad esempio, a Rovigno e Pola. Esistevano alcune eccezioni come nel 
CIC di Parenzo, i cui dirigenti venivano definiti dall’ autore del rapporto “uomini 
problematici, malcontenti”, incapaci quindi di agire, bloccati nell’ attendere l’inter- 
vento delle autorità locali o dell’ UIIF. Una sorte peggiore era toccata a Umago, il 


10! A_C.R.S,, fasc. n. 1074/73, verbale del 10 aprile 1956, pp. 3, 8. 
102 A.C.R.S., fasc. n. 1074/73, p. 4 

103 A_C.R.S., fasc. n. 1074/73, verbale dell’8 maggio 1956, p. 3 
104 Membro del C.C. dell’U.S.P.L. della Croazia 

105 A.C.R.S., fasc. n. 1074/73, verbale dell’8 maggio 1956, p. 4 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 43 


cui “CIC non esisteva più perché in pratica non esistevano gli Italiani. Erano state 
le autorità a far togliere la tabella con la denominazione. Di conseguenza erano 
sorti mormorii di malcontento e si era sparsa la voce che il CIC era stato chiuso con 
procedimento autoritario. Perché non si era lasciato che fosse un membro dello 
stesso circolo a levare la tabella? L'errore, quindi, consisteva nell’ingenuità e nella 
mancanza di diplomazia”. E per finire, l’autore dell’ affermazione rilevava che “a 
Rovigno viene molto ben compreso il problema della fratellanza e in questo senso 
si lavora in modo superlativo. Naturalmente a qualcuno la cosa disturba””!9, 

A ulteriore conferma che l’attività dell’UIIF e dei CIC, che a più riprese 
avevano proclamato e dimostrato la loro fedeltà al regime, veniva considerata per 
certi versi “sospetta”, arriva la dichiarazione conclusiva dell’intervento del succi- 
tato rappresentante il quale sosteneva che l'Unione, non appena si verificava 
qualche problema, doveva immediatamente risolverlo e non attendere che la 
questione si ingigantisca. “E che non vengano tenute le assemblee dei CIC senza 
l’intervento dell’ Unione. Potrebbe darsi che si tenti di includere nelle dirigenze 
delle CIC membri legati al Consolato italiano”. Inoltre si proponeva di scrivere una 
relazione in merito alla visita del viceconsole al CIC di Fiume e alla proposta di 
regalare al CIC stesso un televisore, Libri e altro. “Inviare questa relazione alla 
Commissione per le minoranze che a sua volta si interesserà a Belgrado sulla 
posizione da prendere”!07, 


Da lì a un decennio circa, i rapporti con la matrice nazionale attraverso la 
collaborazione con l’Università popolare di Trieste, sarebbero stati resi ufficiali e 
continui. Ma allora, nel 1956, i primi cauti passi in questo senso venivano ancora 
vissuti come un fatto straordinario, inconsueto, al limite del “sospetto”. Del resto, 
anche nel 1957 il Consolato di Capodistria aveva contattato alcuni CIC e la 
Presidenza dell’UIIF'!®; nella riunione del 4 ottobre 1957 del Comitato UIIF!®, 
vennero espresse in proposito le seguenti valutazioni: il Consolato, quale organo 
del Governo italiano, “di un governo capitalista, non può rappresentare nulla per 
noi. Noi non possiamo perciò venire incontro alla tendenza manifestata in questi 
ultimi tempi /... / di stringere rapporti diretti coi singoli Circoli”. Si elaborò tuttavia 
un programma di iniziative culturali da realizzare con il contributo dell’Italia: 


106 Ibid., p. 5 

107 A.C.R.S., fasc. n. 4769/85, p. 1 

108 A.C.R.S., fasc. n. 1075/73, verbale dell’4 ottobre 1957, p. 2-3 
10° Ibid., p. 2 


44 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


conferenze, spettacoli teatrali, ecc., “Decideremo noi con che organizzazioni 
italiane dovremo avere rapporti. La funzione delle autorità consolari italiane è 
quella di organizzare i rapporti anche culturali fra l’Italia e la Jugoslavia, cioè tutto 
il nostro Paese e non solo con la minoranza italiana /.../ Tutti i rapporti fra le 
autorità consolari italiane e la minoranza italiana devono passare attraverso l’orga- 
nizzazione politica socialista della minoranza: attraverso l’ Unione”. E doveva 
essere l'Unione a farsene promotrice. 

La stessa Presidenza preannunciò l’ intenzione di inviare una risposta “a mezzo 
voce”, nella quale si sarebbe precisata la propria posizione; veniva poi sottolineato 
che l’ufficio Consolare aveva preso contatti con i circoli, aveva inviato stampa e 
così via. “Logico che non rifiuteremo categoricamente ogni iniziativa, ma mette- 
remo sempre le mani avanti; faremo capire che i contatti con i circoli, visite ecc. 
sono esclusivamente affari nostri”. 

L’attività prospettata rientrava nel quadro delle competenze dell’UIIF; era 
necessario prepararsi in modo concreto e particolareggiato. “Logicamente parlia- 
mo di scambi che rientrano nei limiti delle nostre possibilità, come l’invio di nostri 
gruppi artistici ecc. mentre per gli scambi che sono fuori dalla nostra competenza 
che si faccia tra governi.” /.../ “L'Unione non può prendersi la responsabilità di 
rispondere senza prima aver consultato o parlato con alcuni compagni della 
Slovenia e della Croazia. Noi non possiamo dare una risposta chiara, perché per 
ogni programma che intendiamo fare, seppur minimo, abbiamo bisogno di mezzi 
finanziari. Nel capodistriano è già un’altra cosa poiché si è più vicini alla frontiera 
e poi tutto viene risolto in ambito distrettuale mentre noi siamo legati a Zagabria 
per ogni piccola cosa”!!°. 

Ma dal medesimo verbale emerge la posizione diversa, più aperta, del rappre- 
sentante sloveno!!!, infatti: “Egli dice che 1’ Unione non ha fatto quello che avrebbe 
dovuto. Afferma che l’ Unione dovrebbe essere l’iniziatrice di tutti i contatti con 
l’Italia. La minoranza slovena in Italia e in Austriaè sempre stata piena di iniziative 
ed è sempre un ponte di avvicinamento tra due popoli. Se la nostra minoranza 
(italiana, ndr) è socialista, non dobbiamo avere paura di questi contatti”. L’espo- 
nente sloveno continuava rilevando l'atteggiamento attendista-immobilista che 
dominava nella dirigenza dell’ UIIF: “Abbiamo saputo che sono state fatte delle 
ingiustizie verso la vostra minoranza nel passato, specie nelle scuole, ma l’ Unione 


110 Ibid,, p. 3 


!!! Curiosa è la citazione di materiale dell’ambito scientifico-matematico e non umanistico visto l’insistere 
sull’ispirazione ideale progressista. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 45 


non si è mai fatta avanti neanche con uno scritto. Siamo venuti a conoscenza di ciò 
tramite il governo italiano. Noi preferiamo che sia l’ Unione a renderci conto di 
queste cose e non il governo italiano. Compito dell’Unione è anche quello di 
tutelare i diritti della minoranza e segnalare i casi ingiusti. Mentre i nostri conna- 
zionali (della minoranza slovena, ndr) in Austria e Italia sono sempre in offensiva, 
qui voi siete costantemente in difensiva, non si protesta per niente. In futuro 
l’ Unione sia più attiva, cerchi di diventare questo famoso ponte con l’Italia. Penso 
che tutta la propaganda che ora si fa con l’Italia dovrebbe passare tramite 1’ Unione 
come pure tutto ciò che si stampa per l’Italia venga fatto dall’EDIT.” 

Ed è proprio delle relazioni con la nazione madre che l’UIIF si occupò nel 
novembre dello stesso anno, nel tentativo di concretarne l’ instaurazione in occa- 
sione della visita in Istria e a Fiume del membro della Direzione del PCI M. 
Alicata. A tale scopo, venne convocata pure una riunione, alla quale presenziarono 
i rappresentanti del CC dell’USPL della Croazia, del CC della LCC, il segretario 
del Comitato distrettuale della LC di Fiume nonché i rappresentanti dei periodici e 
della Casa Editrice della minoranza; vennero definiti alcuni punti, che si possono 
così sintetizzare: 

1. Scambio di giornalisti tra l' “Unità” e “La Voce del Popolo”; i giornalisti del 
quotidiano fiumano sarebbero stati inviati presso la sede dell’organo del PCI 
mentre quelli dell’“Unità” avrebbero lavorato nella redazione de “La Voce del 
Popolo”, per la durata di due-tre mesi, concorrendo così al miglioramento qualita- 
tivo del giornale; 

2. Collaborazione tra la Casa Editrice “EDIT” ed editori italiani gravitanti 
nell’area del PCI. Primo fra tutti gli “Editori Riuniti” di Roma, che era disposto a 
cedere all’EDIT le proprie edizioni e alcune di altri editori, a metà prezzo. Si 
prospettò, inoltre, la possibilità di proporre al Consiglio per l’ Istruzione della RP 
di Croazia testi scolastici italiani di “ispirazione progressista” (soprattutto riguar- 
danti la matematica, la fisica, la chimica), risparmiando così i mezzi destinati alla 
stampa dei testi necessari alla scuola della minoranza nazionale; 

3. Veniva rilevata la questione della struttura delle importazioni della stampa 
italiana in Jugoslavia, proponendo delle edizioni curate dal PCI rispetto a quelle 
cosiddette “borghesi”; 

4. Veniva preso l’impegno, da parte del PCI, di diffondere i periodici “Pano- 
rama” e “Il Pioniere” sul territorio italiano. Per quanto riguardava il quotidiano “La 
Voce del Popolo”, il PCI si sarebbe occupato della sua diffusione in tutte le 
Federazioni del Partito, mentre al pubblico poteva venire venduto, “per motivi 
logistici”, solamente a Trieste, Udine e Gorizia; 

S. Il gruppo parlamentare del PCI intendeva sollevare alla Camera dei deputati 


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la questione del progetto di legge per le scuole slovene in Italia. In tale contesto si 
propose di organizzare una visita da parte dell’ Associazione degli insegnanti e dei 
professori delle Scuole medie d’Italia, alle scuole dei connazionali in Istria. La 
visita avrebbe avuto lo scopo di constatare di quali diritti godesse la minoranza 
italiana, per armarsi di argomentazioni valide da sfoderare nel corso del dibattito 
parlamentare; 

6. Infine, Alicata si impegnava a fornire all’UIIF un elenco di personalità 
italiane di credo politico “progressista” adatte a tenere delle conferenze in Istria, 
ciò che sarebbe stato utile per un agile confronto con la lista di conferenzieri che a 
suo tempo era stata proposta all’ Unione dalle autorità consolari italiane di Capodi- 
stia. 


Sembra quindi evidente che a quell’epoca le offerte di aiuto e collaborazione 
da parte delle autorità italiane, venivano accolte dall’ UIIF con una certa cautela, 
ovviamente in conformità con una lunga prassi che faceva emergere, ancora una 
volta, la cronica assenza di autonomia politica e decisionale della minoranza. La 
situazione determinatasi per la minoranza nei distretti di Capodistria, Isola e Pirano 
nel periodo 1956/57"!5, quindi dopo la soluzione del problema del TLT, era in parte 
diversa e particolare se rapportata al resto del territorio istriano. Difatti, mentre qui 
il problema dell’appartenenza statale era stato risolto con il Trattato di Pace del 
1947, nella Zona B dell’ex TLT il contenzioso era rimasto aperto fino al 1954. Di 
conseguenza l’attività dell’Unione degli Italiani del cosiddetto ‘Circondario 
dell’ Istria”, ovvero nell’ex Zona B, aveva assunto un carattere prettamente politi- 
co, tendente soprattutto a coinvolgere i connazionali nel problema dell’ appartenen- 
za statale. Dopo la stipulazione del Memorandum d'Intesa e dopo le previste 
opzioni, e a seguito della perdita della superiorità numerica da parte degli Italiani 
residenti nelle cittadine del Litorale, per i connazionali “rimasti” (circa 3-4 mila), 
il clima politico e di autonomia mantenuto nel corso della campagna pro annessio- 
ne guidata dall’ Unione, mutò rapidamente: divenne sempre più evidente il proces- 
so di “distacco” tra la popolazione italiana e quella slovena. E ciò per una serie di 
motivi, non ultimo quello della presunta o reale “scarsa partecipazione dei cittadini 
di questo territorio alla Lotta di Liberazione”. 

Inoltre, un esiguo numero di Italiani conosceva e praticava la lingua slovena 
il che determinava un senso di inferiorità nei connazionali che si vedevano preclusa 


112 A.C.R.S., fasc. n. 4769/85, p. 1-3. 
113 A.C.R.S,, fasc. n. 1148/73 (74), p. 1-2. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 47 


la possibilità di partecipare attivamente alla vita pubblica. Infine, la vicinanza del 
confine italo-jugoslavo e i relativi contatti con la realtà quotidiana della nazione 
madre, frenavano ulteriormente “l’amalgamarsi” degli Italiani con la popolazione 
di maggioranza nella nuova compagine statale. Caratteristica diffusa di tutto il 
territorio popolato dai nostri connazionali, era la carenza di quadri professionali, 
soprattutto di intellettuali, il che la dice lunga sulla struttura sociale del gruppo 
nazionale italiano (GNI), costituito in gran parte dalle fasce più indifese e politica- 
mente influenzabili, quali il sottoproletariato, i pescatori, i piccoli e piccolissimi 
proprietari terrieri e qualche artigiano. Tutto ciò avrebbe causato con il tempo un 
processo di disaffezione e di disinteresse verso il senso di appartenenza nazionale 
che avrebbe prodotto inesorabilmente il fenomeno di una pesante assimilazione in 
tempi brevi. 

Elemento fondamentale per tastare il polso di una minoranza nazionale e 
avvertire se si tratta di un soggetto che gode di piena salute, sono le scuole. Così 
un documento del 1957"! testimonia che sul territorio dei distretti di Fiume, 
dell’Istria e di Capodistria operavano 23 scuole tra ottennali ed elementari con una 
popolazione scolastica pari a 2710 alunni, mentre i 5 licei esistenti erano frequen- 
tati da 433 studenti. La consistenza della popolazione scolastica italiana, rispetto 
al periodo 1947/48, risultava quasi dimezzata. La mancanza di docenti qualificati 
si faceva sentire pesantemente nella maggior parte delle località dell’ Istria (escluse 
Fiume, Capodistria e Buie). Siccome molte insegnanti, che prestavano servizio 
nelle scuole italiane dell’Istria, erano native di Fiume, esse chiedevano il trasferi- 
mento nella propria città natale e, non ottenendolo, si dimettevano. Tuttavia, erano 
frequenti anche i casi di insegnanti che si erano diplomate all’Istituto magistrale 
italiano di Fiume che, successivamente, si impiegavano nelle scuole croate. Tale 
situazione indusse i Consigli repubblicani per l’ Istruzione e la cultura della Slove- 
nia e della Croazia a prendere in serio esame il problema, suggerendo “soluzioni 
di carattere unitario” che comunque ebbero scarso effetto, lasciando i singoli 
istituti scolastici nelle difficoltà di sempre. 

La divisione territoriale del gruppo nazionale italiano nelle due repubbliche 
significò, come abbiamo già avuto modo di notare, disparità di trattamento sociale 
e nazionale e diversità di condizioni socio-economiche. Queste incongruenze 
determinavano però la comparsa di divergenze anche trai membri dell’ Unione nel 
valutare i problemi e nel proporre le soluzioni. 

Fu così che nel clima che si era venuto a cerare a seguito della preannunciata 


114 A.C.R.S., fasc. n. 4769/85, p. 1. 


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approvazione della proposta di legge, redatta dal governo italiano sulle istituzioni 
scolastiche degli appartenenti alla minoranza slovena, 1’ UIIF inviò una lettera di 
protesta al suddetto governo e al ministero della Pubblica istruzione della vicina 
repubblica. Una protesta che, a quanto sembra, sia stata in parte spontanea e in 
parte “consigliata”. La lettera!!, composta da 4 pagine dattiloscritte, esprimeva 
disappunto soprattutto in merito alla ventilata proposta di “istituire dei corsi in 
lingua slovena nella Provincia di Gorizia e nel Territorio di Trieste”, poiché in essa 
non si specificava se i medesimi sarebbero stati istituiti anche nella Slavia Veneta 
(Provincia di Udine), che pure era popolata da appartenenti alla minoranza slovena. 
Si voleva quindi far notare che le scuole italiane esistevano nell’ Istria e a Fiume 
ancor prima che fosse stipulato il Memorandum d’Intesa, e per di più su un 
territorio (che riguardava solo l’ex Zona B) da esso non contemplato. L’UIIF 
esigeva fra l’altro che venisse chiarita la portata del termine “corsi in lingua 
slovena”, che potevano anche venire intesi come “corsi paralleli in seno alle scuole 
italiane”, sicché il principio dell’ autonomia della minoranza slovena sarebbe stato 
seriamente disatteso, laddove le scuole italiane in Istria godevano di “piena auto- 
nomia” ed avevano lo stesso status giuridico di quelle croate e slovene. Infine 
suscitava perplessità la proposta di istituire una commissione di controllo incarica- 
ta di esaminare le varie domande di ammissione alle scuole della minoranza 
slovena per verificare se lo sloveno, per tali candidati, rappresentasse veramente la 
lingua materna; veniva però riconosciuta l’esistenza di metodi analoghi, usati per 
l’iscrizione alle scuole italiane, ma “solo in singole scuole di singole località”! La 
lettera si concludeva auspicando per la minoranza slovena “quei diritti che agli 
italiani di Jugoslavia erano pienamente assicurati”. 

Le affermazioni contenute in quel documento assumono il valore di un rap- 
porto sullo stato di efficienza della rete scolastica degli Italiani dell’Istria e di 
Fiume, dato che le mancanze rinfacciate al progetto di legge italiano, mettevano il 
dito anche sulle incoerenze della scuola italiana in Jugoslavia, dovute alla mancata 
applicazione di norme legislative che avevano l’ apparenza di essere quasi perfette. 
Nel 1958"! si susseguirono le riunioni del Comitato e della Segreteria dell’UIIF, 


!!5 A.C.R.S., fasc. n. 1148/73, “Dati sulla Minoranza”, p. 1. 


116 Lettera dell’UIIF spedita alla Presidenza del Consiglio e Ministero della Pubblica Istruzione italiano, 
A.C.R.S., fasc. n. 1148/73, pp. 1-4. 


117 C.f.r., intervento di A. Borme in merito alle scuole, alla riunione della segreteria tenutasi a Dignano il 
23 ottobre 1956 “Nel settore culturale l'aspetto nazionale si rivela più che in qualsiasi altro settore. Mentre in un 
distretto si agisce in un modo, in un altro si agisce diversamente. Il principio deve essere rispettato tanto in un 


«99 


posto che in un altro. Mentre a Rovigno il criterio dei nomi che finiscono in “c” (recte “ch”) non viene preso in 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 49 


in vista delle elezioni di marzo dei rappresentanti dell’ Assemblea federale e per i 
preparativi della IX Assemblea dell’Unione, che si sarebbe tenuta a Isola il 29 
giugno. Venne stilato un proclama elettorale che invitava gli “Italiani della mino- 
ranza a partecipare attivamente” a quella consultazione, visto che bisognava 
eleggere o rieleggere i rappresentanti del Gruppo nazionale previsti dalla legge, i 
quali avrebbero dovuto tutelare in sede parlamentare i diritti e gli interessi degli 
Italiani di Jugoslavia. Il testo del proclama venne approvato nella riunione del 
Comitato UIIF del 18 marzo!'8, Si decise che sarebbe stato pubblicato su “La Voce 
del Popolo” e trasmesso da Radio Capodistria, mentre un estratto sarebbe stato 
diffuso a mezzo manifesto ed esposto in tutte le località dell'Istria. Un altro 
problema affrontato nel corso di quella riunione, fu ancora l’annoso problema 
finanziario, soprattutto la gestione deficitaria del quotidiano “La Voce del Popolo”. 
Uno dei punti critici della gestione era la scarsa diffusione, anche se recentemente 
le vendite erano aumentate, raggiungendo quota 2400 nei giorni feriali e 3100 alla 
domenica. Si era pure contattata una ditta di Lubiana che programmava di vendere 
in Italia 1000 copie del giornale. Venne sottolineato il fatto che in molti CIC 
venivano acquistate poche copie del quotidiano, anche se i soci erano numerosi: 
bisognava dunque spingere i connazionali ad interessarsi maggiormente della vita 
della propria comunità, abituandoli a leggere “La Voce del Popolo”. Un altro 
gravoso problema era costituito dalla carenza di personale qualificato e di giorna- 
listi; i collaboratori esterni, provenienti di solito dai CIC, erano sempre più rari e 
difficilmente reperibili. Ma, il problema più gravoso era rappresentato dalla tipo- 
grafia (che non era più proprietà dell’EDIT)'!°, la quale era caratterizzata da una 
cattiva organizzazione interna e disponeva di rotative oramai obsolete. Si profilava 
così una fusione tra l’EDIT e il quotidiano di lingua croata “Novi List”? in quanto, 


considerazione, nel distretto di Pola esso è valido. I problemi più gravi sorgono nel distretto di Pola; così non si 
può andare avanti, poiché questo problema contrasta con la democratizzazione socialista del nostro paese. Il 
compagno Franulovie insiste nel dire che queste sono piccole cose, quando gli italiani hanno gli stessi diritti dei 
compagni jugoslavi: possono venir eletti in tutti gli organi del potere ecc.; ma ciò nonè tutto, la nostra Costituzione 
assicura alle minoranze un libero sviluppo nazionale e culturale”. 


!!8 Nel mese di aprile si tenne, fra l’altro, il VII Congresso della LCIJ, di cui abbiamo già parlato nella parte 
introduttiva. 


!!9 A.C.R.S,, fasc. n. 1076/73, p. l e allegato. 


120 La tipografia nella quale si stampava il quotidiano “La Voce del Popolo” era la medesima dalla quale 
nell’anteguerra usciva “La Vedetta d’Italia”, quotidiano di Fiume; il 5 maggio 1945, essa produsse il n. 4 de “La 
Voce del Popolo” - sino ad allora foglio partigiano alla macchia; “La Voce del Popolo”, continuò ad essere l’unico 
giornale fruitore e quindi “proprietario” di detta tipografia; appena nel marzo 1947 usciva il primo numero del 
quotidiano di Fiume in lingua croata “Novi list”, al quale nel 1948 venne affidata la tipografia in gestione, 
togliendola quindi al quotidiano in lingua italiana. 


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con la prospettata comune gestione finanziaria, si contava di usare più razional- 
mente i limitati mezzi a disposizione; si decise di studiare la questione nei minimi 
particolari. 

Purtroppo, problemi particolari riguardanti la scuola italiana sorsero con la 
riforma del sistema scolastico jugoslavo, avviata nel 1958. La segreteria dell’ UIIF 
convocò il 17 aprile'?! del medesimo anno una riunione straordinaria per discutere 
in merito al progetto di Legge Federale sul sistema scolastico: l’articolo 12 del 
disegno di Legge in questione risultava alquanto equivoco. Lo Stato era tenuto ad 
assicurare l’istruzione nella lingua materna solamente nelle scuole elementari — 
definite obbligatorie —, mentre venivano esclusi gli altri gradi d’istruzione. Ciò 
dava via libera alle più svariate interpretazioni, la più dannosa delle quali poteva 
prevedere, per la minoranza nazionale italiana, la chiusura delle scuole medie e dei 
licei, per mancanza di fondi, non garantiti dai bilanci delle rispettive Repubbliche. 
Il presidente dell’UIIF era convinto che in uno Stato socialista quale era le 
Jugoslavia non era possibile sopprimere le scuole medie delle minoranze tanto più 
che l’articolo 7 dello stesso disegno di Legge, diceva “chiaramente che l’insegna- 
mento e le scuole sarebbero state aperte per tutti i cittadini indipendentemente dalla 
loro nazionalità e religione”. L'articolo 12, invece, era in netto contrasto con il 
precedente. Inoltre, la discussione rilevò il fatto che “l’articolo è mal formulato e 
giuridicamente sbagliato; anche se ora non si ha l’intenzione di sopprimere le 
scuole medie della minoranza, può venire il momento in cui qualche comitato 
distrettuale decida di farlo e noi non possiamo farci niente perché non contemplato 
dalla Legge”. Dal canto suo, un membro della Segreteria sosteneva che lo stato 
s’impegnava a garantire l’insegnamento solo nelle istituzioni di primo grado, 
“mentre per quanto riguarda le scuole medie, la loro esistenza risultava facoltativa, 
per cui ogni distretto può comportarsi come vuole. Ma è proprio questo che noi non 
vogliamo”. Si decise pertanto di inviare una nota a Belgrado, al Segretariato per 
l’Istruzione e la Cultura, anche per mettere le mani avanti in merito a una situazione 
che se non incanalata subito positivamente rischiava di diventare incontrollabile e 
tendenzialmente assai pericolosa. Assistiamo così, finalmente, ad un’iniziativa 
politica attiva della minoranza italiana; ne riportiamo alcuni passi!??: /.../ “Parten- 
do da una posizione di principio sul problema delle scuole delle minoranze e 
tenendo conto dei riflessi negativi che una tale interpretazione dell'articolo 12 del 
disegno di Legge generale applicata alle istituzioni educative e scolastiche già 


121 Azienda giornalistico-editoriale dell’U.S.P.L. di Fiume. 


122 A.C.R.S,, fasc. n. 1076/73, p. 1. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 SI 


esistenti della minoranza italiana (istituzioni prescolastiche, ginnasi e scuole pro- 
fessionali), avrebbe sulla situazione politica della minoranza italiana in Jugoslavia, 
la Segreteria dell’ Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume pensa sia opportuno 
modificare l’articolo 12 del summenzionato disegno di Legge in modo da mettere 
chiaramente in rilievo la possibilità di insegnamento nella lingua della minoranza 
per i membri della minoranza anche in altri tipi di scuole e istituzioni educative 
oltre alle scuole elementari, legalizzando così in maniera più chiara la prassi finora 
seguita per quel che riguarda le scuole per i membri della minoranza nazionale 
italiana e anche di altre minoranze. /.../ Perciò si propone che l’articolo 12 del 
disegno di legge generale sulle scuole sia completato prevedendo oltre le scuole 
elementari anche le istituzioni prescolastiche, le scuole medie di cultura generale 
e le scuole professionali, per le materie di cultura generale, demandando alle 
Repubbliche popolari l’elaborazione di disposizioni particolareggiate corrispon- 
denti alla situazione concreta di ogni minoranza”!?3. 


123 Cfr., ancora le seguenti affermazioni: /.../ “Motivando la nostra impostazione del problema con i 
seguenti argomenti: 

a) le istituzioni prescolari nella lingua della minoranza nazionale rappresentano la base necessaria per 
l'ulteriore edificazione del sistema scolastico nella lingua delle minoranze nazionali la condizione indispensabile 
perla prosperità degli altri tipi di scuole; da notare che istituzioni prescolastiche in cui l'educazione viene impartita 
in lingua italiana esistono nei distretti di Pola e di Capodistria; 

2.coloro che compiuta la scuola elementare continuano gli studi nei licei approfondiscono la loro cultura 
generale nelle scienze naturali e sociali. Ora un approfondimento della cultura generale in lingua che non è la 
propria lingua materna porta inevitabilmente alla perdita della forma nazionale della propria cultura. Di più, esso 
rende impossibile una conoscenza adeguata della lingua materna in corrispondenza al grado di cultura generale 
raggiunto. Il grado di conoscenza della lingua materna che si può raggiungere nelle scuole elementari non è 
sufficiente per dare espressione a una cultura generale superiore a quella elementare. Non ammettendo quindi per 
i ginnasi la lingua materna, come potrebbe risultare da una interpretazione letterale dell’articolo 12, si verrebbe a 
limitare lo sviluppo della loro cultura nella forma nazionale. 

3.Attraverso i ginnasi con lingua d’insegnamento della minoranza si formano i quadri intellettuali per le 
attività culturali della minoranza, per il giornalismo, il teatro, l’attività artistico-culturale ecc. e i quadri insegnanti 
per le scuole elementari della minoranza (vedi articoli 42 e 94 del disegno di legge). /.../ le stesse considerazioni 
debbono anche valere per le scuole professionali se esse, conforme ai principi fissati nel disegno di legge federale 
sulle scuole (art. 53) non hanno solo la funzione di preparare i quadri qualificati per la nostra economia e di dare 
ai giovani una qualifica professionale, ma “contribuiscono all’ulteriore educazione ed istruzione fisica, morale e 
sociale degli alunni per renderli atti a una vita personale, sociale, sanitaria e culturale attiva” e “rendendo possibile 
l’ulteriore proseguimento degli studi nelle facoltà e nelle scuole superiori. 

Per quel che riguarda i ginnasi con lingua d’insegnamento italiana (a Fiume, Pola, Rovigno, Capodistria e 
Pirano) notiamo che essi funzionano dal momento dell’annessione alla Jugoslavia e possiedono tutte le condizioni 
per il regolare funzionamento (insegnati qualificati, libri di testo, biblioteche per la lettura ausiliaria ecc.) cosicché 
la qualità della cultura che essi possono fornire agli alunni non è affatto inferiore a quella degli altri ginnasi. La 
funzione politica che essi compiono come centri in cui vengono formati i nuovi intellettuali socialisti della 
minoranza italiana, destinati ad inserirsi alla vita politica sociale del nostro paese è rilevante. La conoscenza della 
lingua serbo-croata, rispettivamente slovena che questi ginnasi forniscono agli alunni è sufficiente perché giesti 
possano continuare gli studi nelle scuole superiori e inserirsi nella vita economica e sociale. La posizione della 
lingua serbo-croata e slovena nei piani e programmi d’insegnamento dei ginnasi italiani è stata sempre uguale a 


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All’inizio di giugno 1957'’* si tenne la riunione della segreteria dell’UIIF: 


venne stabilito che la futura Assemblea andava impostata non in funzione della 
“difesa dei diritti della minoranza ma sulla base del rafforzamento socialista”. Il 29 
giugno 1958, presso la Casa Sindacale di Isola, vennero aperti dal vicepresidente 
Gino Gobbo i lavori della IX Assemblea dell’Unione. La parte principale dell’as- 
sise era costituita dalle cinque relazioni che affrontavano le seguenti tematiche: 
politica, finanziamenti, situazione nelle scuole della minoranza, attività editoriale 
e attività del Dramma Italiano. La relazione politica venne presentata dal vice-pre- 
sidente Gobbo che esordì ribadendo che: “l’ Unione degli Italiani dell'Istria e di 
Fiume, sorta su iniziativa del Partito Comunista della Jugoslavia, ha svolto nel 
corso della Lotta Popolare di Liberazione, come organismo politico, una importan- 
te funzione, mobilitando in massa gli italiani della nostra regione, per la propria 
liberazione nazionale e sociale. Si è trattato di lotta comune per ideali comuni, in 
quanto nella liberazione nazionale e sociale dei popoli jugoslavi, cioè soltanto nel 
trionfo della rivoluzione socialista, i lavoratori italiani potevano trovare la loro 
garanzia del loro libero sviluppo”'?°. Quindi affermava che fin dal tempo della lotta 
armata, il ploretariato di nazionalità italiana della regione istro-quarnerina aveva 
dimostrato d’essere pronto a divenire una minoranza etnica nel futuro territorio 
croato e sloveno. D'altro canto, si precisava che il riconoscimento del diritto del 
popolo sloveno e croato alla “propria unità e alla propria emancipazione nazionale 
era stato per gli italiani dell’Istria il presupposto essenziale per l'affermazione dei 
loro diritti sociali e nazionali”. Diritti che si erano concretizzati nella specifica 
posizione di “primo nucleo in assoluto di nazionalità italiana che edificava una 
società socialista”. Gobbo proseguiva ricordando che con la conclusione del 
conflitto mondiale non venivano a esaurirsi i compiti dell’Unione: essa infatti 
diveniva fattore importante dell’approfondimento della fratellanza, dell’inseri- 
mento degli Italiani nella vita politica, economica e sociale del Paese. La rivolu- 
zione socialista “era stata messa in risalto” ed era proprio in virtù dei suoi principi 
che le differenziazioni nazionali venivano a cessare. 


quella della lingua materna. Gli alunni imparanola letteratura dei popoli jugoslavi sulla base dei programmi validi 
per gli altri ginnasi. I professori, i medici, gli ingegneri, gli economisti ecc. ex alunni dei ginnasi italiani, usciti 
dalle facoltà universitarie del nostro paese sono pratica conferma della precedente asserzione. Tuttavia ci sembra 
contraddittorio e netto cedimento di principio quanto asserito nel medesimo documento (pag. 4) circa le scuole 
professionali: “Si intende che in queste scuole non c’è necessità di insegnare nella lingua della minoranza le 
materie professionali che danno la qualifica professionale, ma solo le materie che contribuiscono all’apprendi- 
mento della cultura generale degli alunni”. 


124 A.C.R.S., fasc. n. 1076/73, p. 1, verbale del 4 giugno 1957. 
125 A.C.R.S., fasc. n. 1092/73, p. 1. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 53 


Dopo una lunga carrellata sulla situazione politica interna e internazionale, il 
vicepresidente Gobbo presentava l’attività svolta dai CIC nonché gli obiettivi 
futuri che si identificavano nella collaborazione sempre più stretta tra la scuola e 
gli stessi CIC, e nell’incremento dell’attività artistico-culturale dei suoi membri. 
La scuola della minoranza, in virtù delle leggi socialiste, godeva di una posizione 
paritetica rispetto a quella degli altri popoli e nazionalità della Jugoslavia. Allo 
stesso modo era garantita la libertà di iscrizione, sicché si poteva esser certi che la 
nuova legge scolastica federale, grazie all’emendamento proposto dall’UIIF, sa- 
rebbe stata la massima garanzia di sviluppo per le generazioni future. Nella 
relazione in esame, i problemi comparsi negli anni precedenti all’atto delle iscri- 
zioni e provocati dalla carenza di personale insegnante, venivano minimizzati, 
definendoli “naturali di tutti i settori della vita sociale””!?°. A questo proposito ci 
sembra interessante riportare il passo che accenna ai connazionali e alla loro 
inclusione attiva nel “sistema comunale e nelle assemblee bilingui dei cittadini”. 
“Conlo sviluppo del sistema comunale, con il maggior interessamento dei cittadini 
alla discussione dei problemi comunali, le riunioni degli elettori e dell’Unione 
socialista si sono fatte più intense e le discussioni sono diventate più numerose. Per 
evitare lunghe traduzioni che appesantivano e prolungavano le riunioni in due 
lingue (croato o sloveno e italiano, ndr) e per dare la possibilità di conoscere e di 
trattare meglio i problemi attuali della propria località e del proprio territorio, 
alcuni Circoli hanno avuto la felice iniziativa di organizzare, parallelamente e a 
integrazione delle riunioni degli elettori, dei dibattiti sui problemi dell’amministra- 
zione comunale come pure su problemi di politica interna ed esterna, i quali hanno 
dimostrato che i membri della minoranza si vanno politicamente sviluppando sul 
terreno del sistema comunale di pari passo con tutti gli altri cittadini della Jugosla- 
Viglioi, 

Seguirono le altre relazioni, stese e lette dai membri del Comitato; quella 
conclusiva del professor Antonio Borme sembra utile per individuare e intendere 
le tendenze allora crescenti all’interno dell’UIIF. Veniva infatti rilevata l’opportu- 
nità del rafforzamento dell’unità politica e ideologica della minoranza (gli iscritti 
alla Lega dei Comunisti, cioè del partito; erano in netta flessione, addirittura del 50 
per cento)!?8. Si ribadiva il bisogno di trattare in senso unitario la minoranza, 


126 Ibid., 10-16. 
127 Ibid., p. 18. 


!28 Era forse sinonimo di disaffezione al sistema sociale? Anche a causa degli scarsi risultati ottenuti 
dall’ UIIF? 


54 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


indipendentemente dalla sua distribuzione geografica (esistevano, come si è detto, 
grosse differenze di “presenza attiva” degli italiani tra una località e l’altra. Ad 
esempio Rovigno, Dignano e Gallesano erano centri importanti ma i rispettivi CIC 
erano sprovvisti di una sede vera e propria. Borme sollecitava quindi l’intensifica- 
zione dei rapporti culturali con la matrice nazionale cioè con la società italiana, allo 
scopo di far conoscere la realtà jugoslava, la vita della minoranza, le tappe 
dell’edificazione socialista. Si chiedeva inoltre l'apertura di asili d’infanzia nelle 
località abitate da Italiani. Si insisteva inoltre sull’ urgenza della soluzione dell’an- 
noso problema della carenza di quadri specializzati. Per la scuola italiana si 
indicava quale impegno prioritario la cura della purezza linguistica, il controllo del 
lavoro degli insegnanti specialmente nei centri minori, l’organizzazione di corsi di 
perfezionamento linguistico'?’, nonché la nomina di due ispettori scolastici per le 
scuole italiane, con competenza regionale. E, infine, la costituzione presso i 
distretti e i comuni di commissioni per le istituzioni pre-scolastiche e scolastiche 
della minoranza, i cui membri dovevano essere delegati dai CIC e dalle scuole 
stesse. Si proponeva quindi alle autorità competenti di introdurre lo studio della 
lingua italiana “quale prima lingua straniera obbligatoria” nelle scuole croate e 
slovene delle maggiori località mistilingui. 

Ad un mese dall’assemblea, si tenne una riunione del comitato dell’UIIF!9, 
che rivestì particolare importanza, sia perché vi parteciparono i rappresentanti delle 
autorità croate, sia per i contenuti del dibattito i cui effetti si fecero sentire anche 
nelle sedute successive. “L’impostazione vera e propria della riunione verrà stabi- 
lita sul posto pochi istanti prima, secondo quanto avranno da dire i compagni di 
Zagabria” recitava l’ordine di convocazione"?! Dopo il saluto alle autorità presenti 
del vicepresidente, il presidente espose le conclusioni emerse dalla IX Assemblea 
e le necessità di uniformare ad esse i compiti futuri. 

E dichiarò che risolvere il problema della mancanza di quadri insegnanti era 
compito del Potere popolare. In effetti, continuava, “non esiste il problema delle 
scuole italiane come tali, anche se ci sono delle difficoltà materiali comuni anche 
alle scuole slovene e croate; esiste però il problema della qualità dell’insegnamen- 
to, della qualità degli insegnanti, cioè va dato un maggior aiuto politico per metterli 
in grado di operare con maggiore adeguatezza ai principi ideologico-politici 
nell’insegnamento”. Infine veniva auspicata una più intensa collaborazione tra CIC 


129 Ibid., relazione conclusiva A. Borme. 
130 A_C.R.S,, fasc. n. 1076/73, 31 luglio 1958, p. 1. 
13! Ibid, p.6. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 =) 


La Voce del Papalo = 


ORGANO DELL' USPL PER LA REGIONE DI FIUME IT 










XI — Ne MORTE AL FASCISMO - LIBERTA" AI POPOLI DOMENICA 13 MARZO 1955 — DIN 10 




















\ CONFERENZA COMUNE D'LLA LCC D'LLA CITTA' E DISTRETTO DI FIUME 


DIFICAZIONE COMUNALE APPROFONDIRA' LA DEMOCRAZIA 
TRAVERSO LO SVILUPPO DELLA GESTIONE SOCIALE 


\seduta apérta dal compagno Nikola Racki presenti Antun Biber, Nikola Bozanic e Ivan Rajacic - L'unificazione 
due organizzazioni della Lega viene effettaata nello spirito della prossima riorganizzazione territoriale per 
attuare la futura Uni i comuni di Fiume - La conferenza continua oggi i suoi lavori 


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Il quotidiano “La Voce del Popolo” (13 marzo 1955) 


e singoli docenti, ritenuta il fulcro attorno al quale doveva gravitare tutta l’attività 
culturale e politica della minoranza. 

Nel corso della discussione, venne sollecitata una azione più marcata tendente 
ad abilitare un numero sempre maggiore di connazionali a “far parte degli organi- 
smi del Potere”, ribadendo che criterio fondamentale per giudicare la validità 
dell’operato di cittadino nella società jugoslava, non era l'appartenenza nazionale, 
ma il suo impegno concreto negli organi del sistema. Si continuò pure a disquisire 
sul ruolo effettivo dell’Unione, cui vennero attribuiti in determinati casi una 
funzione politica, in altri limitando la sua azione esclusivamente “all’elevamento 
artistico-culturale”. Le medesime contraddizioni erano presenti nel definire l’atti- 
vità che dovevano svolgere i CIC!*?, 

A discussione conclusa, si passò al secondo punto dell'ordine del giorno, ossia 
all’elezione della nuova segreteria. Nonostante le perplessità espresse da alcuni 
membri, Gino Gobbo venne riconfermato presidente dell’ UIIF!*3, 


132 Ibid., vedi discussione a pagg. 9-10. 
133 Ibid., 30 settembre 1958, p. 1-2. 


56 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


Il dibattito pubblico svoltosi alla IX Assemblea aveva evidenziato le difficoltà 
incontrate dall’ Unione nei suoi interventi, volti a risolvere i problemi emersi nei 
vari campi di attività del GNI. Per ovviare a questa mancanza venne proposto di 
istituire, in seno alla stessa Unione, delle commissioni di lavoro che avrebbero 
dovuto occuparsi direttamente e in modo sistematico di alcuni aspetti della vita e 
dell’attività della minoranza. Alla riunione del 30 settembre'** vennero definite le 
direttrici e i contenuti dell’impegno futuro dell’UIIF: attività delle commissioni, 
maggior collegamento con la base, contatto più stretto con le istituzioni che 
trattavano i problemi della minoranza (Commissione per gli scambi culturali con 
l’estero di Belgrado; Commissioni per le minoranze federale e repubblicane; 
Commissione mista italo-jugoslava), intensificazione della collaborazione tra i 
Circoli e le organizzazioni locali del Partito e del fronte socialista del Popolo 
Lavoratore. Veniva pure rilevata l’urgenza di insediare presso la sede dell’ Unione 
un segretario fisso chiamato ad essere la forza motrice di tutta l’attività e il 
necessario collegamento con le varie commissioni. Quest’ultime sarebbero state 
quattro e precisamente: commissione politico-ideologica, commissione per le 
scuole e la cultura, commissione per l’editoria, commissione per l’organizzazione 
e la politica dei quadri. 


Ci sembra di poter distinguere due periodi. Uno che ha termine nel 1958, 
quando l’attività dell’ UIIF in collegamento con i CIC, era distinta da quella delle 
istituzioni scolastiche ed artistico-culturali, del GNI. Con la formazione delle 
commissioni si inaugura un nuovo periodo nel quale CIC, attività editoriale, 
Dramma Italiano e scuole entrano a far parte dell’attività dell’UIIF, formando la 
storia dell’UIIF stessa. 

Dai documenti consultati risulta che, nel novembre 1958, si riunirono due 
delle quattro commissioni menzionate, quella ideologico-politica e quella per le 
scuole e il lavoro culturale. 

La commissione ideologico politica, presieduta da A. Benussi, “si prefiggeva 
di educare, nello spirito del socialismo, i connazionali attraverso le attività dei vari 
CIC”. Venne riscontrata nel GNI una certa disaffezione per la vita politica, 
rafforzata da una analoga tendenza generale presente nel paese. Ma si giustificò la 
stasi in tal campo, attribuendola all’impegno maggiore profuso nel settore artisti- 
co-culturale. Quale riflesso negativo di tale stato di cose, veniva indicata con 
preoccupazione una consistente flessione degli iscritti connazionali alla LCJ. 


134 A.C.R.S,, fasc. n. 1079/73, p. | 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 57 


Si fece anche un accenno “all’ aspetto linguistico”, raramente affrontato; molti 
componenti della minoranza, soprattutto quelli più anziani, non comprendevano la 
lingua croata, e perciò correvano il rischio di essere completamente esclusi dai 
dibattiti pubblici e da quelli che si svolgevano nelle riunioni degli organi del potere. 
La responsabilità per questa situazione veniva adebitata ai “comunisti italiani” 
della regione. La commissione decise perciò di adoperarsi per eliminare queste 
disfunzioni nel più breve tempo possibile'*. “I nostri circoli devono quindi inte- 
ressarsi maggiormente delle scuole e dell’educazione che viene data alle nuove 
generazioni. Ed è proprio nella scuola che bisogna creare quella coscienza sociali- 
sta della nuova generazione. Inoltre poco abbiamo fatto per attirare il corpo 
insegnante nell’attività politica; in certe località, gli insegnanti sono isolati dal 
Circolo oppure essi stessi si tengono appartati dall’organizzazione di massa”!?°, 

La commissione si impegnò a prestare particolare attenzione alla stampa che 
giungeva dall’estero, in particolare dall'Italia e di consigliare i connazionali a 
“leggere sia la stampa nazionale che quella edita dalla minoranza italiana”; nel 
mirino della commissione vennero a trovarsi soprattutto giornali scandalistici, 
rosa, fantastici “ed altra letteratura gialla che corrompe la coscienza della nostra 
gioventù”. 

La commissione per le scuole e il lavoro culturale, venne convocata il 7 
novembre 1958!*. E qui la discussione si svolse sulla traccia del programma di 
lavoro steso da A. Borme e G. Massarotto; venne osservato, innanzitutto, che il 
campo d’azione assegnato a questa commissione era troppo vasto e veniva propo- 
sto, perciò, di demandare alla commissione ideologico politica il lavoro culturale 
dei Circoli italiani, in tale modo la commissione si sarebbe occupata esclusivamen- 
te della problematica riguardante le scuole. Il dibattito, ricco e innovatore nei 
contenuti e nelle proposte avanzate, mise in luce la necessità di effettuare un’inda- 
gine sulla rete scolastica esistente, con particolare riguardo alle scuole miste e agli 
asili d’infanzia “che non esistono dappertutto”. Fu affrontato nell’ambito delle 
scuole per apprendisti (previsto dalla nuova legge). “Per risolvere il problema dei 
quadri soprattutto in relazione alla necessità di sostituire nei comuni di Buie, 
Umago e nel distretto di Capodistria parecchi insegnanti di nazionalità slovena o 
croata con insegnanti di nazionalità italiana, come richiesto dalla commissione 
mista per l’applicazione dello statuto speciale (Memorandum d’intesa, n.d.r.), è 
necessario avere a disposizione fin dall’inizio del prossimo anno un certo numero 


135 Ibid,, p. 2 
136 Ibid., p. 3 
137 Ibid., p. 3. 


58 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


di insegnanti nuovi. Ciò è stato ripetutamente richiesto all’ Unione dai distretti di 
Pola e Capodistria”'58. Per quanto concerne l’elevamento professionale e ideologi- 
co degli insegnanti si decise di chiedere al Comitato popolare distrettuale di Fiume 
di istituire ufficialmente la sezione italiana dell'Istituto per l’elevamento ideologi- 
co e politico dei quadri insegnanti. Il servizio di ispezione per le scuole italiane 
doveva essere organizzato nei tre distretti mediante l’impiego di appositi ispettori 
onorari; la loro attività sarebbe stata coordinata dall'Istituto per l’elevamento dei 
quadri insegnanti di Fiume. Si proponeva, infine, di organizzare un festival radio- 
fonico dei gruppi artistici delle scuole italiane parallelamente a quello dei CIC, 
“allo scopo di dare maggiore impulso al lavoro artistico-culturale nelle scuole e 
creare fra esse una gara”!9, 

In effetti la situazione nelle scuole della minoranza italiana era confusa e 
precaria. Si rendeva quindi indispensabile l’intervento degli ispettori a sostegno 
degli istituti scolastici. Tanto per fare alcuni esempi!‘ presso la scuola ottennale 
di Dignano si parla di fusione delle quattro classi superiori, dato che il numero 
totale degli alunni (143) veniva considerato, dagli organi competenti, esiguo. Ciò 
comportava dei problemi non indifferenti di varia natura; d’altro canto, a causa 
dell’esodo, le scuole italiane dell’Istria e di Fiume, non sarebbero mai state 
sovraffollate. Presso la scuola ottennale di Parenzo, dipendente da quella croata, le 
lezioni di alcune materie (ed. artistica, ed. fisica, ed. musicale) venivano svolte in 
lingua croata da docenti croati. A Torre, invece, esisteva una sola insegnante con 
20 alunni, mentre a Visinada le sezioni italiane erano state soppresse. 

All’inizio del 1959, si susseguì tutta una serie di sedute allargate del Comitato 
dell’ UIIF, dedicate soprattutto alla questione finanziaria che assillava la Casa 
editrice “EDIT” e il quotidiano “La Voce del Popolo”. Come è stato in precedenza 
rilevato, tali enti, non godendo di buona salute ed essendo gestiti separatamente, 
necessitavano di un tempestivo superamento delle difficoltà. Verso i primi di 
gennaio 1959", la Segreteria dell’UIIF si occupò dei problemi che affliggevano 
l’attività editoriale della minoranza (presente pure un rappresentante della com- 
missione per le minoranze di Zagabria); la discussione sottolineò che era indispen- 
sabile gestire nel modo più razionale i mezzi forniti dalle due Repubbliche al GNI, 
adottando nuove metodologie operative. 


138 Ibid., p. 4. 
139 Ibid., Consultazione degli insegnanti delle scuole italiane, 3-4 novembre 1958, pp. 2, 4. 
140 A_C.R.S., fasc. n. 4767/85, 13 gennaio 1959, p. |. 


14! Pari a circa 100 milioni di lire odierne (nel 1989). 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 59 


A tale scopo, si pensò di porre “La Voce del Popolo”, l' “EDIT”, il quindicinale 
“Panorama”, il mensile per ragazzi “Il Pioniere” e l’UIIF sotto l’amministrazione 
di un unico ente; le sovvenzioni sarebbero così state assegnate direttamente 
all’ Unione la quale, a sua volta, le avrebbe opportunamente impiegate. Per svolge- 
re più efficacemente questa molteplice attività, l'UIIF aveva bisogno di una 
persona capace, di un segretario tecnico dotato di adeguate qualità organizzative e 
in stretto contatto con la sua Segreteria. Tale segretario sarebbe diventato il 
dirigente del nuovo ente in via di costituzione. A ricoprire questa carica venne 
proposto G. Raunich, già dirigente dell’EDIT. L’intervento del rappresentante 
croato precisò che il Potere aveva riservato un trattamento privileggiato alla 
minoranza italiana rispetto alle altre. Infatti, “mentre alle altre venivano assegnati 
7-8 milioni di dinari all’anno!*, la nostra (recte vostra, ndr) nel 1959 ha richiesto 
una dotazione di 85 milioni”! Si aggiunse che aveva approfondito lo studio delle 
varie minoranze nel mondo e che “in nessun altro paese esistevano etnie così 
largamente sovvenzionate dallo Stato!*4. Perciò vennero avanzate alcune proposte, 
tese a ridurre le spese: tutti i mezzi finanziari dovevano venir assegnati all’ Unione; 
urgeva la costituzione di un nuovo ente, che avrebbe cominciato ad operare dopo 
la liquidazione dell’ “EDIT” e della “Voce”, e si sarebbe occupato sia dell’aspetto 
editoriale sia di quello amministrativo; entro il mese di gennaio bisognava compi- 
lare lo statuto del nuovo ente e legalizzarlo. 

A questo punto, ci preme di fare una considerazione; questo continuo “rinfac- 
ciare” da parte dell’autorità all’UIIF, di essere una sorta di “fruitore privilegiato” 
degli stanziamenti previsti dai bilanci repubblicani, portava inevitabilmente a due 
fenomeni distinti: nel primo caso, ciò induceva i connazionali a credere di rappre- 
sentare effettivamente un gruppo di “sperperatori di denaro pubblico”; nel secondo 
caso, il clima instauratosi, portava sicuramente ad una “indisposizione” da parte di 
altre minoranze nazionali (e anche della stessa maggioranza) verso il GNI, quale 
etnia che godeva di un particolare trattamento. Seguirono gli interventi di alcuni 
membri; G. Raunich affermò che l’importo richiesto dall’UIIF per il 1959 era 
veramente elevato; e quindi da una parte bisognava ridurre gli sprechi, e dall’ altra 
però restringere l’attività; “penso che per quel che riguarda il Pioniere, levando la 
copertina a colori non perda molto. Una bella fotografia potrebbe fare al caso 


142 Ne vennero stanziati 41.180.000, equivalenti a circa 400 milioni di lire odierne (sempre nel 1989). 
143 A.C.R.S., fasc. n. 4767/85, 13 gennaio 1959, p. 2. 


144 Si ricorderà che il passaggio da 4 a 6 pagine, era avvenuto ai tempi della visita del membro della 
Direzione del PCI Alicata e della prospettata, ma non realizzata diffusione sul territorio italiano. 


60 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


nostro. Con questa piccola riduzione si avrebbe già un risparmio di 120.000 dinari 
per numero. Per quanto riguarda la “Voce” credo che la minoranza non perderebbe 
niente se si stampasse in 4 invece che in 6 pagine; per “Panorama” sarei propenso 
di farlo uscire mensile in 48 pagine anziché quindicinale in 24 pagine”. AI’ EDIT 
Raunich assegnava il compito di stampare esclusivamente testi scolastici, ricorren- 
do all’importazione dall'Italia dei classici della letteratura. Un altro membro 
ribatteva sostenendo la necessità di far uscire “La Voce del Popolo” a 6 pagine!*. 
Il rappresentante croato ipotizzava quindi la conversione del quotidiano in settima- 
nale. Le reazioni a questa ipotesi furono negative: Questa la conclusione: “passa 
una grande differenza tra un quotidiano e un settimanale, sono giornali che hanno 
una diversa funzione. Mentre un quotidiano è un informatore politico, un settima- 
nale diverrebbe un surrogato di Panorama”. Il rappresentante croato ribatteva 
facendo notare che i giornali della minoranza erano alquanto modesti e che “non 
dobbiamo farci illusioni che i nostri giornali, come in genere i giornali e le riviste 
di tutta la Jugoslavia, superino tecnicamente quelli italiani. La nostra industria 
grafica è ben lungi da essere alla pari con quella italiana, noi però dobbiamo 
distinguerci per il contenuto. La “Voce” non ha niente di originale nonostante i suoi 
corrispondenti. La maggior parte del materiale è riportato e tradotto (dai dispacci 
di agenzia jugoslavi, ndr)”!7, 

Tale tesi venne contrastata dal rappresentante dei CIC del Capodistriano, il 
quale sostenne che, trasformando il quotidiano “La Voce del Popolo” in settima- 
nale, si sarebbe eliminato l’unico giornale socialista in lingua italiana. 

Si decise, alla fine, di portare a termine quanto prima le pratiche per la 
costituzione del nuovo ente. La seduta successiva si sarebbe tenuta dopo un mese. 

A febbraio, infatti, era già stata definita a grandi linee la futura struttura della 
nuova organizzazione: l’UIIF avrebbe svolto le sue attività attraverso le sue sezioni 
“Voce”, “Panorama”, “Il Pioniere”. L’amministrazione sarebbe stata unica. Per 
quel che riguardava la Libreria dell’EDIT a Fiume, anch’essa avrebbe fatto parte 
dell’Unione. Nella lettera da spedire al Comune di Fiume con cui si sarebbe 
comunicato l’interesse di liquidare le due aziende, bisognava giustificare le diffi- 
coltà economiche, altrimenti l'approvazione da parte delle autorità sarebbe stata 
messa in forse. Inoltre, si rendevano necessarie la registrazione dell’UIIF come 
“soggetto legale o soggetto giuridico” (‘“pravna osoba”) e la stesura di un nuovo 
statuto. 


145 A.C.R.S,, fasc. n. 4767/85, 13 gennaio 1959, p. 1. 
146 Ibid., p. 5. 
147 Ibid., 5 febbraio 1959, pp. 1-3. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 61 


Si propose di indirela successiva riunione dapprima per il 22 dello stesso mese 
e, poi, per il mese di marzo, e di darle la valenza di assemblea straordinaria. E 
straordinaria poteva venir definita pure la situazione in cui si era trovata “La Voce 
del Popolo”. Sprovvista di mezzi, aveva ricevuto una comunicazione giudiziaria 
da parte del Tribunale di Zagabria (una specie di TAR, ndr), che le imponeva entro 
8 giorni di saldare il debito contratto con la “Tipografia del Popolo” ammontante 
a 12 milioni di dinari. Questo inconveniente avrebbe frenato la fondazione del 
nuovo ente progettato. 

Pertanto venne deciso di consultare le autorità competenti. Anche i due 
periodici (“Panorama” e “Il Pioniere”) si dovevano adeguare alla nuova era: il 
primo sarebbe mutato da quindicinale in mensile ed avrebbe avuto 48 pagine, 
mentre il secondo avrebbe perso la copertina a colori per riceverne una più 
economica in bianco e nero; inoltre veniva preannunciato il licenziamento di nove 
impiegati dell’amministrazione!. 

Il clima si fece ancor più rovente, allorché, le autorità consultate diedero 
questa risposta categorica: la RP di Croazia non era disposta a stanziare un dinaro 
in più di quelli previsti!4, A Zagabria si dichiarò che dal 1952 la Repubblica di 
Croazia aveva assegnato alla minoranza italiana 294 milioni di dinari mentre a tutte 
le altre minoranze insieme non erano andate oltre i 50 milioni”, si richiedeva la 
partecipazione pure della RP di Slovenia a questo tipo di sovvenzione, proporzio- 
nalmente al numero di Italiani residenti entro i suoi confini. 

A quel punto, si cominciò a considerare la possibilità reale di diminuire le 
pagine del quotidiano “La Voce del Popolo” da 6 a 4; ciò avrebbe, però, a detta di 
alcuni membri, compromesso la qualità e il contenuto del giornale. Considerando 
anche il fatto che, dati alla mano, a Fiume nel 1959 si contavano 7700 abitanti di 
nazionalità italiana, di cui 1600 leggevano regolarmente “La Voce”, l’operazio- 
ne avrebbe potuto avere conseguenze negative; ed era inconcepibile una minoranza 
senza il proprio giornale. Fu sostenuto che “La Voce del Popolo” era stata portata 
da 4 a 6 pagine, dopo una riunione a livello di federazione jugoslava, nella quale 
era stata decisa la quota di partecipazione rispettivamente della Federazione, della 
RP di Croazia e della RP di Slovenia nella realizzazione di questo obiettivo. Venne 
constatato che solamente la RP di Slovenia non aveva versato la somma! A 


148 Ne servivano 50 milioni, ne erano stati stanziati, come abbiamo avuto modo di vedere, 40 milioni e in 
più bisognava saldare il debito contratto da “La Voce del Popolo” (12 milioni di dinari) 


149 A.C.R.S., fasc. n. 1077/73, verbale dell’ 11 febbraio 1959, p. 1. 
!50 [pid,, p. 2. 
IS [bid., p.3. 


62 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


conclusione della seduta venne deciso di recarsi a Lubiana per chiarire la posizione 
in merito al finanziamento. Non appena si fossero definite le soluzioni, sarebbe 
stata indetta una riunione a Pola, ai primi di marzo, cui avrebbero presenziato 
rappresentanti sia delle due repubbliche sia della federazione. 


L’iter della costituzione del nuovo ente, come si può constatare, fu irto di 
ostacoli e dovevano trascorrere alcuni mesi prima che si intravedesse qualche 
risultato concreto. 

Dai dati disponibili, è possibile desumere che l’incontro con i rappresentanti 
sloveni abbia avuto effettivamente luogo. Infatti da un dattiloscritto!?? risulta che 
la RP di Slovenia assicurò la sua partecipazione finanziaria all’attività editoriale in 
proporzione al numero degli italiani abitanti sulla sua giurisdizione. Così, il 7 
marzo 1959!*, si tenne la riunione della Segreteria dell’Unione alla quale interven- 
nero alcuni rappresentanti delle autorità. Per l'ennesima volta, un rappresentante 
croato nel suo intervento ripeté, che il compito fondamentale dell’UIIF era “di 
sviluppare la cultura nazionale e le tradizioni; di attivizzare gli italiani nella 
costruzione del socialismo, di badare che gli Italiani partecipino attivamente in 
tutte le organizzazioni sia del potere che politiche e non allontanare gli stessi da 
queste organizzazioni per fare una attività separata. Non è il caso di formare un 
piccolo stato nello stato”!*. L’esponente croato continuava affermando come fosse 
opportuno porre sotto il diretto controllo dell’ USPL tutta l’attività editoriale della 
minoranza italiana, in particolare i giornali: solo in tal modo essa avrebbe potuto 
godere di tutti i diritti’. Gli faceva eco un altro rappresentante, ricordando i 
presenti che si stava discutendo di “cittadini jugoslavi che parlano l’italiano, 
cittadini jugoslavi che devono avere lo stesso trattamento di tutti gli altri cittadini 
della Jugoslavia; pertanto per risolvere i problemi delle scuole ci sono i Distretti e 
le Repubbliche”; i CIC dovevano dipendere, continuava, dai Consigli per la cultura 
comunali, rispettivamente distrettuali; a suo avviso, nello statuto dell’Unione, il 
paragrafo riguardante i circoli, era male impostato. 

Un membro del distretto di Capodistria manifestò il suo disaccordo con quella 


152 Archivio cit., verbale del 7 marzo 1959, p. l. 
153 Ibid., p. |. 
154 Ibid., p. 2. 


155 Abbiamo avuto già modo di constatare che, a seguito degli avvenimenti riguardanti la campagna pro 
annessione del TLT alla Jugoslavia, la stampa della minoranza aveva subìto una forte “strumentalizzazione”. 


156 Archivio cit., p. 2. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 63 


proposta, poiché doveva essere l’ Unione il motore di tutte le iniziative del GNI. E 
poi, era stata formata appositamente una commissione per la stampa, della quale 
facevano parte anche i rappresentanti delle autorità. E respinse le critiche espresse, 
sostenendo che faceva parte della segreteria dell’UIIF “già da 10 anni e che da 
sempre è stato detto che l’ Unione fa parte integrante dell’ Unione Socialista (USPL, 
n. d. r); la minoranza è attiva nella costruzione del socialismo e non vedo che 
l’ Unione degli Italiani sia una organizzazione a parte. Constato invece che l’unico 
problema esistente è rappresentato dalla suddivisione della minoranza in 3 distretti 
e che in certi casi, per la soluzione di determinati problemi riguardanti la minoranza 
esiste poca coordinazione; l’ Unione degli italiani ha cercato finora di coordinare e 
unificare l’attività della minoranza fra i tre distretti”!5?. La maggioranza dei 
presenti si dichiarò convinta che Il’ UIIF fosse l’organizzazione più idonea ad 
occuparsi dell’attività editoriale della minoranza italiana. Secondo il rappresentan- 
te dell’EDIT, invece, la riorganizzazione editoriale comportava vantaggi, in quanto 
il nuovo ente sarebbe dipeso direttamente dall’USPL dei tre distretti istriani, la 
quale avrebbe così dedicato più attenzione al problema della stampa italiana. Il 
consiglio editoriale sarebbe stato composto da rappresentanti dei tre distretti, in 
formazione mista (sloveni, croati e italiani). A questo punto, intervenne un membro 
per esprimere la propria contrarietà in merito alla costituzione della commissione 
mista: “È come se qualcuno venisse a comandare in casa mia, ciò vorrebbe dire che 
io non sono buono a nulla”!58, 


Nel mese di giugno dello stesso anno, ci fu un’altra riunione della Segreteria 
dell’UIIF; si constatò che il previsto incontro con i rappresentanti dei tre distretti 
non era avvenuto. Tuttavia, il distretto di Fiume aveva preso unilateralmente 
l’iniziativa, apportando decisioni e nomine riguardanti la questione dell’attività 
editoriale della minoranza; questo modo d’agire suscitò non poche perplessità. 
Comunque, nel frattempo, tutte le questioni concernenti la stampa poste all’ordine 
del giorno delle sedute precedenti, erano state risolte: ossia, “La Voce del Popolo” 
continuava ad uscire in 6 pagine, mentre “Panorama”!° passava a 24 pagine; “Il 
Pioniere” aveva cambiato il colore della copertina; ovviamente era stata effettuata 


!57 Ibid, p. 5. 
158 Archivio cit., verbale del 8 marzo 1958, p. 5. 


159 Dal primo numero del febbraio 1952 fino al num. 4 del marzo 1959, il quindicinale “Panorama” porta 
l’intestazione “Edizioni della Casa Editrice EDIT” con direttore G. Raunich; dal numero 4-5 di aprile dello stesso 
anno, a causa delle vicende che stiamo analizzando, l’intestazione cambia in “attività giornalistica dell’USPL”, 
sotto la direzione di L. Michelazzi, mentre caporedattore restava G. Raunich. 


64 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


la prevista fusione amministrativa, dando vita al nuovo ente con un’unica grossa 
differenza rispetto alla struttura organizzativa prefigurata: la nuova azienda, che 
contava 42 persone, non dipendeva più dall’UIIF, bensì era passata sotto il control- 
lo dell’USPL. Lo status giuridico del nuovo ente fu quello di “organizzazione 
sociale”, il che non gli permetteva di essere anche casa editrice. Perciò si decise di 
superare le difficoltà nel più breve tempo possibile restituendogli lo status di 
“azienda giornalistica”; a dirigere l'azienda era stato incaricato Luciano Michelaz- 


74 lun 


Come si è avuto modo di constatare, i problemi della scuola e l’attività 
editoriale rappresentavano un argomento permanente presente. Per questo motivo 
erano state formate le commissioni incaricate di mantenere costanti consultazioni 
con i Comitati Distrettuali; vero è che la situazione generale, dopo la loro costitu- 
zione, andò migliorando, come si evince da alcuni verbali dell’UIIF, soprattutto 
per quanto riguardava il coordinamento delle azioni volte a risolvere i problemi 
della scuola, almeno nei primi anni, ma fu svilito il ruolo dell’ Unione degli Italiani 
ridotta a vero e proprio ente artistico-culturale, quasi apolitico, sotto il patrocinio 
della “grande sorella”, dell’unica organizzazione politica esistente, accanto alla 
LCJ, l'Unione Socialista del Popola Lavoratore. 

E quindi sembra più che legittima la decisione dell’ UIIF, presa durante la 
seduta del settembre 1959'°', di abrogare la commissione per la pianificazione dei 
quadri professionali e quella per la stampa, dal momento che tali competenze erano 
state demandate all’ USPL. Pertanto le commissioni dell’UIIF sarebbero state in 
futuro tre: ideologico-politica'9? scolastica e artistico-culturale. 

Le commissioni funzionarono abbastanza bene soprattutto nei primi anni di 
attività, in particolar modo la scolastica. Da una relazione della medesima commis- 
sione!93, risultava che la situazione nelle scuole della minoranza era molto buona; 
la rete di tali istituzioni contava 30 scuole elementari con 2282 alunni e 5 licei con 
272 studenti. Veniva però messa in evidenza la mancanza di asili infantili in lingua 


160 A_C.R.S., fasc. n. 1077/73, verbale del 15 giugno 1959, p. 1-2. 
161 Archivio cit., verbale del 30 settembre 1959. 


162 A.C.R.S., fasc. n. 1082/73, la commissione ideologico-politica era costituita principalmente dall’attivo 
dei conferenzieri dell’ UIIF, che operò in particolare dopo il 1960; da documenti disponibili, abbiamo attinto alcune 
informazioni riguardanti i temi trattati nelle conferenze, tenute nelle sedi dei CIC della regione; ecco alcuni titoli: 
“Smareglia e le nozze istriane”, “Kardelj: il socialismo e la guerra”, “La lotta contro il colonialismo in Africa”, 
“Elettrificazione della R.F.P.J.”.. 


163 A.C.R.S., fasc. n. 1078/73, verbale del 15 aprile 1960, p. I, 2. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 65 


italiana, dove esistevano le condizioni per la loro costituzione, in quanto essi 
rappresentavano la vera e propria linfa indispensabile alla continuità del sistema 
scolastico italiano in Jugoslavia. In qualche località dell’ Istria il problema era stato 
risolto, ma in grossi centri quali Pola e Fiume la soluzione era ancora da venire. 
Nella sola Fiume, nel periodo 1956-1960, il numero degli iscritti alle prime classi 
delle elementari era sceso da 120 a 50 unità. Per quel che riguardava la direzione 
delle scuole miste (con sezioni sia italiane sia croate), il direttore della scuola 
doveva essere di nazionalità croata, e il vicedirettore di nazionalità italiana. Si 
lamentava anche uno scarso coordinamento tra le stesse scuole di lingua italiana, 
che comprometteva il necessario scambio di esperienze! A proposito dei testi 
scolastici, venerro ribaditi punti di vista già espressi in precedenza e cioè che non 
era opportuno importare libri dalla Nazione madre, in quanto essi non corrispon- 
devano per contenuto, per impostazione didattica e ideologica, alle esigenze dei 


programmi d’insegnamento del sistema scolastico jugoslavo!9. 


La commissione artistico-culturale, nel 1960, ebbe il compito di coordinare i 
preparativi della progettata Rassegna-raduno della minoranza italiana, che si sareb- 
be svolta il 18 e 19 giugno a Pola!°°. Ci si prefiggeva di organizzare un raduno 
massiccio e di allestire uno spettacolo artistico-culturale di alto livello. Per rag- 
giungere questo obiettivo, si rese necessaria un’analisi particolareggiata del lavoro 
svolto nei mesi precedenti dai CIC e dall’ Unione. 

La Rassegna e il Raduno degli Italiani a Pola, avrebbe concluso una serie di 
manifestazioni che 1’ UIIF aveva promosso per celebrare il XV anniversario della 
sua costituzione (1944 — 1959) e che avevano avuto inizio già l’anno precedente!’”, 
La sera del 18 giugno, al Teatro Istriano di Pola, 480 esecutori suddivisi in 6 cori, 
3 orchestrine, 2 gruppi mandolinistici, 2 gruppi folcloristici e uno filodrammatico 
in rappresentanza di sette Circoli italiani di cultura e di quattro Società artistico 
culturali diedero vita alla Rassegna artistico culturale della minoranza italiana, 
frutto dell’attività svolta nelle rispettive località per diversi mesi. La giornata 
successiva, invece, fu dedicata ad altre manifestazioni, fra cui la mostra di disegno 


164 Il fenomeno avrebbe ridotto l'Unione, con il passare del tempo, a sviluppare scambi sistematici fra le 
scuole delle diverse località, istituendo gare di conoscenza della lingua italiana, concorsi artistici vari, organizzan- 
do incontri sportivi, ecc. 


165 Solamente in casi limite, l’importazione di libri dall’Italia sarebbe stata effettuata dopo un’accurata 
analisi di una specifica commissione che avrebbe svolto il ruolo tra non poche difficoltà e diffidenze. 


166 Archivio cit., p. 4: si sarebbero svolte pure le Rassegne locali e circondariali, prima della finale di Pola. 


!67 Celebrazione per il XV anniversario della fondazione dell’UIIF e della “Voce” il 25 e 26 ottobre a Fiume. 
n 


66 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


infantile e quella di pittura degli artisti dilettanti della minoranza. Nell’ Aula Magna 
del CIC di Pola si effettuò una gara-quiz tra gli alunni delle scuole, divisa in due 
sezioni (per le scuole ottennali e per i licei). Le domande vertevano sui contenuti 
delle riviste “Il Pioniere” (n. 6) e “Panorama” (n. 9) e del quotidiano “La Voce del 
Popolo” per il periodo dal 20 maggio al 20 giugno 1960. Si riportano in nota lacune 
delle domande poste ai concorrenti, in quanto caraterizzano il clima esistente nel 
periodo in questione!?8. 

Al convegno letterario, organizzato dal periodico “Panorama”, parteciparono 
una cinquantina di connazionali. La discussione sottolineò la necessità di divulgare 
maggiormente opere di carattere letterario fra la minoranza. Venne anche proposto 
di istituire presso 1’ UIIF una giuria permanente che indicesse concorsi letterari, 
allo scopo di stimolare al massimo la creatività dei giovani ', Si tenne inoltre una 
consultazione-incontro dei dirigenti giovanili del GNI. Vi aderirono i dirigenti 
degli attivi giovanili delle scuole italiane di Fiume, Pola, Isola e Rovigno, i quali 
proposero di organizzare un raduno giovanile nell’ambito del raduno annuale 
dell’UTIF e di inserire i giovani attivisti nelle varie commissioni della medesima. 
Il pomeriggio dello stesso giorno, nei pressi del parco di Stoia (Pola), si svolse il 
Raduno, al quale convennero oltre 2000 connazionali, provenienti da tutte le 
località della regione. In serata nell'arena 6000 persone assistettero allo spetacolo 
conclusivo consistente nel festival della canzone, organizzato dai CIC di Pola e di 
Fiume!” 

All’inizio degli anni Sessanta assistiamo al determinarsi di un clima efferve- 
scente, per quel che riguarda l’attività culturale del GNI. Dopo le grandi manife- 
stazioni di massa dei primi anni Cinquanta, caratterizzate dai Raduni, avevamo 
avuto già modo di rilevare l'abbandono di questa formula di “associazione”, quale 
conseguenza anche delle opzioni e dell’esodo. Venne dunque rispolverata, con un 
certo successo, la formula del Raduno-Rassegna. La massiccia partecipazione dei 
connazionali verificatasi in quelle giornate, consigliò di ripetere tale manifestazio- 
ne l’anno successivo, cercando di equilibrare le attività dei vari CIC, molti dei quali 


168 Ecco alcune delle domande: 

“Com'è stata chiamata quest’anno la tradizionale azione dei giovani esploratori della Croazia? Quando e 
in quale città del nostro Paese l’Ufficio Politico del Comitato Centrale PCJ decise di trasformare la lotta 
clandestina fino allora condotta contro gli occupatori in una insurrezione armatag Il 7 giugno è stato conferito 
l’ordine di Eroe del lavoro socialista ad un’ alta personalità politica del nostro Paese: come si chiama; quale carica 
ricopre?, Chi a porto, quest'anno, a nome di tutti i popoli, del nostro Pese, gli auguri al compagno Tito per il 68 
esimo compleanno?”. 


169 Panorama, n. 11, 1960, p. 6-7. 
170 A.C.R.S., fasc. n. 1078/73, relazione sulla Rassegna, pp. 4, 5. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 67 


si trovavano in cattive condizioni. Di quest'ultimi, alcuni che avrebbero voluto 
essere più attivi non ricevevano alcun aiuto, né morale né materiale (ad es. 
Parenzo). Altri invece, che godevano del pieno appoggio delle autorità locali, non 
erano in grado di organizzare nulla (ad es. Buie)!”!. 

La X Assemblea dell’ UIIF, fu preceduta da una riunione preparatoria del 
Comitato!”?, nella quale si rilevò la necessità di rivedere ed aggiornare lo Statuto 
dell’organizzazione. Si precisò, tra l’altro, che lo Statuto doveva venir approvato 
dagli organi federali in quanto l’ Unione operava sul territorio di tre distretti e di 
due repubbliche. Nella discussione sulle modifiche, si pose in risalto l'esigenza che 
l’ente doveva restare una associazione di carattere culturale, escludendo un ruolo 
politico di qualsiasi genere come invece prevedeva il precedente Statuto. Per i 
problemi politici esistevano altre organizzazioni che avevano la competenza per 
risolverli. L'Unione, secondo alcuni interventi, non doveva limitarsi ad occuparsi 
dei CIC e dell’attività artistico-culturale, ma era tenuta ad avere cura soprattutto 
delle istituzioni scolastiche, per il tramite delle commissioni !?; inoltre, si sentiva 
la necessità di chiarire la posizione giuridica dei CIC, nei rispettivi comuni. Proprio 
la situazione di alcuni Circoli quali Buie, Umago e Cittanova, destava preoccupa- 
zione in quanto l’attività ivi svolta era stata insignificante. A Cittanova, dove il CIC 
era stato da poco costituito, il problema principale era quello della sede, ma 
esistevano incomprensione e scarso interesse da parte delle autorità locali, le quali 
sottovalutavano l’esistenza stessa del sodalizio. Infine, il rappresentante di Zaga- 
bria'?, approvò le posizioni assunte dai singoli intervenuti nel dibattito aggiungen- 
do che i problemi dei CIC minori dovevano venire risolti dalle autorità della 
moggioranza in collaborazione con le commissioni per le minoranze presso i 
Comitati distrettuali!??. 

Il 18 marzo 1961 a Fiume si tenne così la programmata X assise dell’UIIF. 
L’intervento introduttivo del presidente G. Gobbo!” e gli interventi degli altri 


171 Ibid., verbale del 6 ottobre 1960, p. 8. 
172 A.C.R.S., fasc. n. 1106/73, verbale della riunione del Comitato del 26 febbraio 1961, pp. 2, 3. 


173 I] che conferma le nostre considerazioni fatte in precedenza, secondo cui le commissioni UIIF diventano, 
dalla loro costituzione in poi, strumento di intervento operativo nei campi ideologico-politico, artistico-culturale 
e soprattutto scolastico. 


174 Notiamo che, a quasi tutte le riunioni del Comitato o della Segreteria, era regolarmente presente almeno 
un rappresentante del potere. 


175 Archivio cit., p. 4. 


176 Gino Gobbo venne rieletto presidente dell’UIIF e lo apprendiamo dal num. 5-6 di “Panorama” del 1961, 
nel servizio dedicato alla X Assemblea, pubblicato alle pagg. 10-11. 


68 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


membri!””, misero in risalto l’attività svolta dall'Unione nel triennio trascorso 
dall'assemblea precedente. I risultati, confortanti, erano stati possibili a detta del 
presidente per i seguenti motivi: per il giusto indirizzo impresso all’azione 
dell’ Unione degli Italiani, cui si riconosceva una funzione di rilievo nello sviluppo 
della democrazia socialista, nella soluzione dei problemi della minoranza, affron- 
tati dagli organi del potere, ai quali era demandata la tutela politica e sociale del 
gruppo etnico nell’ambito della “risolta questione nazionale”; per l'adozione di 
giuste forme di lavoro che avevano consentito, oltre ad una maggiore iniziativa da 
parte dei CIC, anche un migliore collegamento tra gli stessi, nonché tra i CIC e 
l’unione e, soprattutto, una più larga partecipazione attiva dei singoli alle grandi 
manifestazioni artistico-culturali dell’etnia, con risultati — come si afferma — che, 
prima di allora, non erano stati mai raggiunti. 

L’oratore proseguiva, prendendo in esame la situazione politica interna e 
internazionale e rilevando che “in un momento in cui i rapporti tra l’Italia e la 
Jugoslavia ricevevano un nuovo significativo successo con la visita del segretario 
agli Esteri Koèa Popovie allo Stato italiano, subito dopo che il ministro degli Esteri 
italiano dichiarava che il governo avrebbe decisamente accettato il memorandum 
per Trieste e promessa la soluzione di quei problemi inerenti alla minoranza 
(slovena, ndr) che da essi derivano, si sono inscenate a Trieste e a Venezia 
manifestazioni sciovinistiche e anti-jugoslave. Infatti, gruppi di studenti aizzati da 
irresponsabili, hanno insultato la popolazione provocando danni ai cittadini sloveni 
senza che le autorità locali prendessero il minimo provvedimento per ostacolarli 
/...I La democrazia in Italia è in pericolo proprio sui problemi delicati come quello 
della parità dei diritti dei cittadini indipendentemente dalla loro nazionalità”. 

Altro argomento figurante all’ordine del giorno era l'elaborazione del nuovo 
Statuto UIIF a proposito del quale, evidentemente, erano sorte delle divergenze o 
diversità di opinione fra i membri della Segreteria, soprattutto in relazione all’ar- 
ticolo che doveva definire il ruolo e i compiti dell’ Unione stessa. Dall’intervento 
introduttivo si evince che si era “parlato di una funzione di ponte della minoranza 
italiana in rapporto alle forze progressiste d’Italia /.../ una funzione chiamiamola 
così politica, in quanto la minoranza italiana, vivendo in Jugoslavia, ha già realiz- 
zato determinati obbiettivi, ha già raggiunto determinati traguardi e può parlare con 
cognizione di causa, di determinati fondamenti socialisti e di determinati principi 
socialisti che sono stati già realizzati. Di conseguenza si tratta di precisare meglio 
i compiti dell’Unione degli Italiani”. A tale scopo, veniva costituita una commis- 


!77 A.C.R.S,, fasc. n. 1078/73, verbale del 15 aprile 1960, pp. 1, 2. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 69 


sione per redigere il nuovo Statuto e chiarire, interpellando le commissioni per le 
minoranze della RP di Croazia e di Slovenia, quale avrebbe dovuta essere, in 
definitiva, la “funzione della minoranza italiana”. 

L’opuscolo redatto in occasione di questa assise'8, così ne riassume le con- 
clusioni: rafforzamento dell’unità politica ed ideologica della minoranza, inaugu- 
rando nuove forme specifiche di lavoro politico-ideologico (conferenze, corsi, 
seminari); trattamento unitario della minoranza, indipendentemente dalla sua di- 
slocazione geografica; intensificazione dei rapporti culturali con la Repubblica 
italiana, allo scopo di “fare conoscere la realtà jugoslava, la vita della minoranza e 
le tappe dell’edificazione socialista”. 


Anno molto intenso di attività, dicevamo. Nel mese di maggio, si tenne una 
riunione della Segreteria con all’ordine del giorno, tra l’altro, l’analisi dei contenuti 
di alcuni libri di testo per le scuole della minoranza, nei quali (soprattutto in quelli 
di storia), era evidente la tendenza a presentare la nazione italiana in modo 
negativo, ossia come “nazione nemica”, mentre certi non meglio precisati avveni- 
menti storici venivano posti sotto falsa luce. In conseguenza della pronunciata 
riforma scolastica, quasi tutti i testi dovevano venire sostituiti. Sfruttando tale 
circostanza si richiese di introdurre modifiche che sottolineassero gli aspetti posi- 
tivi che accomunavano l’Italia e la Jugoslavia. Perciò, bisognava accordarsi con gli 
autori dei testi originali croati e sloveni, perché accogliessero quelle istanze, visto 
che i libri destinati alle scuole italiane “venivano tradotti alla lettera”. I membri 
presenti furono, infine, informati dei mutamenti organizzativi della casa editrice 
EDIT, la quale aveva ottenuto l’autorizzazione ad importare libri dall'estero. E 
proprio dei rapporti con l’estero si occupò uno dei presenti, affermando che il 
futuro Statuto dell’unione doveva essere un documento moderno, in linea con i 
tempi. Egli auspicava soprattutto un’azione più decisa nella funzione di ponte 
dell’ UIIF, di collegamento con le “forze progressiste della nazione italiana”!”?, Ma 
è proprio nei suggerimenti di modifiche da apportare allo Statuto che ci sembra di 
riconoscere un “mutamento di principio”, puntualizzato nell’articolo 2: “L’ Unione 
degli Italiani è sorta durante la L.P.L. come espressione della volontà degli italiani” 
non più passivamente, come traspariva dal precedente Statuto (secondo cui 1’ UIIF 
era sorta su iniziativa del PCJ, ndr). Si cercava così di rilevare la partecipazione di 
quegli antifascisti italiani che avevano accettato i punti programmatici del Partito: 


178 X Assemblea UTIF, Fiume, 18 marzo 1961 — Relazione sull’attività svolta dall'Unione e dai CIC, giugno 
1958 — marzo 1961. 


179 Archivio cit., 29 maggio 1961, pp. 1, 2. 


70 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


a) cacciata dell’occupatore, b) organizzazione di una società su basi socialiste, c) 
soluzione democratica della questione nazionale. “L'Unione degli Italiani era 
entrata a far parte del fronte Popolare e si era prestata alla mobilitazione delle 
masse italiane nella lotta armata, ecc.”?!8°. Era inoltre opinione comune che lo 
Statuto dovesse definire l'inserimento degli Italiani nell’autogoverno, nel sistema 
comunale in genere. Vennero inclusi anche altri compiti importanti: tutelare, 
curare e arricchire il patrimonio culturale del GNI; agire affinché il gruppo etnico 
usufruisse delle conquiste del pensiero sia del popolo italiano sia dei popoli 
Jugoslavi; concorrere allo sviluppo delle scuole e degli altri enti e associazioni 
culturali della minoranza nell’ambito dei diritti democratici garantiti al cittadino 
Jugoslavo; approfondire i rapporti con le altre minoranze della Jugoslavia. 

Infine fu accennato ai preparativi in corso per il Raduno-Rassegna il quale, 
forte del grande concorso pubblico ottenuto l’anno precedente a Pola, si sarebbe 
svolto nel distretto di Capodistria dal 15 al 18 giugno. Avevano inviato la propria 
adesione alla manifestazione numerosi connazionali, i quali intendevano prendere 
parte alle varie competizioni e alle esibizioni teatrali, sul modello dell’edizione 
precedente. 

Il 1961 fu sicuramente un anno proficuo per l’attività scolastica e artistico-cul- 
turale dell’ UIIF. Soprattutto nelle scuole si era instaurato un clima di ottimismo, 
che era mancato nel periodo intorno la metà degli anni Cinquanta. Infatti l’anda- 
mento delle iscrizioni nell’anno scolastico 1960/61 era soddisfacente: le scuole 
elementari dei tre distretti contavano in tutto 2281 alunni, e i licei erano frequentati 
da 317 studenti; erano soci dei CIC 3294 connazionali, mentre 1991 erano membri 


di società, complessi e gruppi artistico-culturali operanti presso i Circoli!*!. 


Il 1961 fu anche l’anno del censimento della popolazione!*?. I risultati pubbli- 
cati successivamente e contestati da più parti rivelarono un fortissimo calo demo- 
grafico della minoranza italiana che vedeva ridotta di due terzi la sua consistenza 
numerica, rispetto al rilevamento precedente del 1953. 

Gli Italiani dell’Istria e di Fiume passavano così da 75.424 a soli 25.615. Una 
delle principali cause che determinarono un fenomeno di così vaste proporzioni, fu 
costituita certamente dal clima sfavorevole di intolleranza nazionale, e da una 


180 Ibid., p. 3. 
181 Op. cit., tabelle n. 3, 6,7. 


182 Statisticki godi$njak Jugoslavije — 1987 — (Annuario Statistico della Jugoslavia — 1987). 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 71 


buona dose di opportunismo dimostrato da determinate componenti il GNI. Erano 
queste le persone più indifese, perché succubi dell’indottrinamento intensivo 
esercitato dall’ apparato del regime. Fecero la loro parte, anche le sollecitazioni di 
carattere economico, poiché il dichiararsi appartenenti al popolo di maggioranza 
garantiva innegabili “vantaggi” all’atto delle assunzioni, negli iter amministrativi 
e nella vita quotidiana in genere. Ma anche la scarsa attività e le difficoltà 
incontrate dall’ UIIF ebbero il loro peso. Non vanno scordate le opzioni dopo il 
1954. 


Nel 1962 venne abbandonata dall’ UIIF la formula del Raduno-Rassegna. In 
sua sostituzione, si optò per una serie di manifestazioni particolari e specializzate: 
la mostra e il convegno di arte figurativa, tenutasi a Fiume dal 16 al 30 gennaio, ai 
quali parteciparono numerosi artisti del GNI; la rassegna delle filodrammatiche dei 
CIC, svoltasi in aprile a buie; la rassegna artistico-culturale delle scuole a Rovigno; 
la rassegna del folklore; il festival della canzone; le turnée del Dramma Italiano, 
ecc.!83 Il motivo del mutamento di forma di queste manifestazioni di massa, non ci 
è noto. Possiamo supporre una carenza di mezzi; in ogni caso ci sembra una mossa 
controproducente, in quanto tale frazionamento in tante manifestazioni artistico- 
culturali particolari, perdevano quello scopo cui aveva aspirato la formula del 
Raduno-Rassegna: il senso della consistente presenza numerica dava, all’animo 
dei connazionali, forza e ottimismo per il futuro. 


Fu quello un periodo di dibattiti a vari livelli sulla questione nazionale e sulla 
posizione delle minoranze nel contesto della società jugoslava, decisamente avvia- 
to verso l’esperienza dell’autogestione. Nel marzo 1962 si tenne una seduta del CC 
della LCJ a Belgrado che affrontò i problemi di principio della vita delle minoranze 
nazionali. Il “Komunist”!8*, organo ufficiale della Lega dei Comunisti, illustrò in 
alcuni significativi articoli tali questioni nello spirito e nel clima allora esistenti, 
che avrebbero concorso a determinare i mutamenti costituzionali del 1963: “’1’at- 
tuazione di rapporti di assoluta uguaglianza fra i popoli fondamentali del program- 
ma politico e di azione della Lega dei Comunisti. La nostra posizione nei confronti 
delle minoranze non è mai dipesa, nel dopoguerra, dai rapporti internazionali con 
i paesi vicini; anche nei momenti di maggior tensione e di persecuzione delle nostre 
minoranze nei paesi vicini, nei momenti in cui ci si doveva difendere dagli attacchi 


183 A.C.R.S,, fasc. n. 4752/85, Relazione sull'attività svolta dall’ UIIF nel 1962. 
184 Komunist, 29 giugno 1962. 


72 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


degli imperialisti e degli sciovinisti, le minoranze nazionali in Jugoslavia si sono 
sviluppate normalmente senza sconvolgimenti, perché la nostra politica si fonda 
già dalla guerra e dalla rivoluzione sui principi marxisti; proprio la coerente 
attuazione dei principi socialisti nella prassi ha consentito il rafforzamento dei 
legami e dell’unità delle minoranze nazionali con i popoli della Jugoslavia. Le 
minoranze conservano le proprie peculiarità come parte della nazione alla quale 
appartengono etnicamente e delle quali emanano, specialmente nel settore cultura- 
le, fattori specifici che li infondono nell’ ambiente specifico in cui vivono; tuttavia, 
le minoranze nazionali non sono soltanto parte del popolo del quale sono sortite, 
ma sono collegate con lo stato in cui vivono e ciò in modo tanto più forte, quanto 
maggiore è la posizione di parità e quanto maggiore è la possibilità di indisturbato 
sviluppo. Per la completa affermazione culturale delle minoranze è appropriata 
l’organizzazione e lo sviluppo di associazioni artistico-culturali delle minoranze 
sul terreno che, analogamente alle altre forme di attività, si collegano localmente 
con le altre organizzazioni artistico-culturali a livello comunale o distrettuale. Non 
sono invece necessarie nel nostro sistema particolari forme di organizzazione 
verticale (politiche, ndr); la Lega dei Comunisti della Jugoslavia, forza basilare del 
progresso sociale, è strettamente collegata con le masse dei gruppi di minoranza 
nazionale. In tale collegamento essa trova le condizioni più favorevoli per l’acco- 
glimento nelle proprie file di nuovi membri e bisognerà curare maggiormente 
anche la scelta e l’avvio di giovani della minoranza alle scuole politiche. Alle 
repubbliche spetta il compito importante nella soluzione dei problemi delle mino- 
ranze e non ultimi quelli di natura materiale. La soluzione dei problemi scolastici, 
culturali e di altro genere, ha richiesto grandi impegni finanziari”. 

Anche il “Delo” di Lubiana si inserì in questi dibattiti, organizzando una 
tavola rotonda, alla quale parteciparono pure membri della commissione per gli 
emendamenti alla Costituzione slovena: “La costituzione della repubblica (slove- 
na, ndr) ha molto bene sottolineato il principio, in base al quale le minoranze 
nazionali sono elementi di avvicinamento, di arricchimento della cultura e della 
convivenza sociale. In base a tale principio deriva che l’esistenza di minoranze non 
è un male. L'integrazione naturale dei popoli e delle minoranze si sviluppa da noi 
nel rispetto assoluto dello sviluppo economico, sociale e culturale di ciascuna 
parte. La nostra costituzione e quella di alcune repubbliche sono più concrete, 
perché sono le repubbliche a determinare la politica nazionale del proprio territo- 
rio. Il nostro progetto tratta con sensibilità ed in modo approfondito i rapporti verso 
le minoranze nazionali, che sono di minor consistenza e vivono ai bordi delle 
repubbliche, in primo luogo perché i problemi delle minoranze sono primariamente 
problemi della maggioranza. Spetta alla maggioranza stabilire le premesse per la 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 73 


convivenza su basi di parità delle due nazionalità. Le minoranze identificano 
sempre più il loro sviluppo socialista con il rafforzamento dell’autogestione. Una 
novità nel progetto è la definizione del territorio in cui, accanto agli Sloveni, 
vivono minoranze nazionali (italiani e ungheresi, ndr). Il territorio nazionalmente 
misto viene definito territorio bilingue; il bilinguismo così concepito, non garanti- 
sce soltanto al singolo e al gruppo minoritario nel suo insieme l’uso della lingua 
materna, ma si manifesta in tutta la vita sociale del territorio, che è uguale per la 
minoranza e la maggioranza e si intreccia dalla scuola all’amministrazione statale, 
dalle scritte delle località e delle vie, ai moduli bilingui per tutti i cittadini” !85, È 
significativo il fatto che lo schema della costituzione repubblicana slovena non 
faccia riferimento in nessun passo alla consistenza numerica del gruppo minorita- 
rio quale criterio per l'attuazione del territorio bilingue, ritenuto una delle misure 
più idonee a porre un freno all’assimilazione. 

Tuttavia, nonostante l’adozione di certe norme di tutela non in modo uniforme 
da parte delle varie costituzioni (slovena, croata, jugoslava) a favore delle mino- 
ranze, si è verificato il graduale, inesorabile assottigliamento numerico dell’etnia 
italiana, culminato nei minimi termini delle quindicimila unità rilevate dal censi- 
mento del 1981. La seconda metà del 1962, segnò la conclusione dei dibattiti 
pubblici sulle costituzioni federale e repubblicane!*°. Dopo la loro promulgazione, 
nei primi mesi del 1963, si passò all'esame degli statuti comunali, considerati gli 
atti fondamentali dell’autogoverno socialista!*”. 


185 L'argomento era “La nostra Costituzione, le minoranze nazionali e la comunità internazionale”. 
186 Delo del 18 novembre 1962. 


187 Questi i diritti delle minoranze nazionali contemplati nella Costituzione della RS di Croazia del 1963: 

Art. 96 

“Ad ogni gruppo etnico nazionale è concesso di usare liberamente la propria lingua, di esprimersi e 
sviluppare la propria cultura, come pure altri diritti stabiliti dalla Costituzione e dalle leggi.” 

Art. 97 

Nelle località dove vivono gruppi etnici nazionali, l'istruzione e l’educazione degli appartenenti a questi 
gruppi si realizzano nelle scuole e nelle istituzioni educativi con insegnamento nella lingua di questa nazionalità. 
Tramite legge si stabilisce il programma nelle scuole e nelle istituzioni educative nelle quali l’insegnamento si 
svolga nella lingua dei gruppi etnici nazionali. Nelle località in cui vivono in comune gli appartenenti ai gruppi 
etnici e i cittadini di nazionalità jugoslave possono venir costituite delle scuole o sezioni con insegnamento 
bilingue.” 

Art. 98 

“Ai gruppi etnici nazionali è garantito il diritto a formare istituzioni in grado di assicurare il regolare 
svolgimento e lo sviluppo della propria cultura.” 

Art. 99 

“Se nel territorio del comune vive un congruo numero di appartenenti ai gruppi etnici nazionali, le decisioni 
e gli altri atti pubblici degli organi del comune devono essere esposti e pubblicati anche nella lingua del gruppo 
etnico nazionale. In questi territori agli appartenenti ai gruppi etnici nazionali deve essere garantito il diritto di 


74 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


Ai fini della nostra ricerca, sono di grande interesse le norme statutarie 
riguardanti la minoranza italiana. Il Comune, quale cellula fondamentale dell’or- 
dinamento politico-sociale jugoslavo, diventa ora il luogo in cui si sarebbero 
attuate le più importanti funzioni politico-economiche e regolati i rapporti sociali 
per la realizzazione dei diritti delle minoranze sanciti dalla Costituzione. Come si 
è precedentemente constatato, il GNI risultava geograficamente distribuito su un 
vasto territorio sottoposto alla giurisdizione di due repubbliche e all’amministra- 
zione di tre distretti. È sufficiente rilevare questa peculiarità per comprendere le 
difficoltà cui si andava incontro nell’attuare una politica unitaria per la minoranza 
italiana. Inoltre esistevano delle differenze tra gli stessi comuni. Analizzando le 
piccole costituzioni comunali di Pola e Rovigno, ci si rende pienamente conto di 
questi divari. 

Lo statuto di Pola contemplava due soli articoli che avrebbero dovuto regolare 
la vita del GNI. L’articolo 14 recitava testualmente: “Gli appartenenti al gruppo 
etnico italiano hanno il diritto di comunicare in lingua italiana con tutti gli organi 
del potere, le organizzazioni di lavoro ed altre esistenti nel territorio del comune. 
Nei contatti con le parti che si svolgono in lingua italiana, gli organi del potere sono 
in dovere di rispondere in lingua italiana; l’ Assemblea comunale può stabilire per 
mezzo di speciali disposizioni che in determinate località del comune vengano 
affissi avvisi pubblici e scritte anche in lingua italiana”. L'articolo 44 poi si 
occupava delle istituzioni scolastiche: “Il comune assicura agli appartenenti al 
gruppo etnico italiano l’istruzione in lingua italiana nelle scuole elementari, nei 
ginnasi e nelle istituzioni pre-scolastiche”’!88, 

Lo statuto del comune di Rovigno invece conteneva una regolamentazione più 
organica dei diritti minoritari. L'articolo 16 fissava il concetto di “località nazio- 
nalmente mista”, precisando che Rovigno e Valle d’Istria erano “località nazional- 
mente miste”; per cui, il principio del bilinguismo andava in esse applicato, e le 


usare la propria lingua nei contatti con gli organi del comune. Tramite il comune vengono stabilite le condizioni 
e il procedimento per assicurare l'applicazione dei suddetti diritti dei gruppi etnici nazionali come pure per 
condurre l'amministrazione negli organi e nelle istituzioni dei servizi sociali del comune, nella lingua del gruppo 
etnico nazionale.” 

Art. 258 

“La procedura nei tribunali e negli organi viene condotta nella lingua serbo-croata. La non conoscenza della 
lingua nella quale si svolgono i procedimenti non può essere di intralcio alla difesa e alla realizzazione di diritti e 
di interessi giustificati dei cittadini, delle istituzioni e delle organizzazioni. Si garantisce a chiunque il diritto di 
adoperare la propria lingua nei vari processi giudiziari ed dinanzi ad altri organi, istituzioni ed organizzazioni che 
sono chiamati a decidere sui diritti e doveri dei cittadini e di essere informati nella propria lingua su tutti i più 
importanti fattori riguardanti detti procedimenti”. 


188 «Statuti comunali”, Panorama, n. 7, 1963, p.4. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 fa 


due lingue venivano parificate. L'articolo 21, recitava così: “In tutti gli organi del 
potere, nelle organizzazioni di lavoro e altre istituzioni nelle località nazionalmente 
miste, devono essere previsti dei posti di lavoro in cui sarà occupato personale che 
conosce la lingua italiana al quale gli appartenenti al gruppo etnico italiano possano 
rivolgersi in lingua italiana /.../; in queste località nazionalmente miste, tutte le 
scritte pubbliche, le denominazioni, i documenti, gli avvisi, i timbri degli uffici 
pubblici, il funzionamento degli organi amministrativi e giudiziari, nonché tutti i 
rapporti scritti con gli appartenenti al gruppo etnico italiano sono bilingui”. L’ar- 
ticolo 18 si occupava delle scuole e assicurava il diritto a disporre in lingua italiana 
di istituzioni pre-scolastiche, di scuole elementari e di licei, aggiungendo che 
l'Assemblea comunale poteva “costituire nel territorio del comune anche altre 
scuole con lingua d’insegnamento italiana”. Gli insegnanti dovevano essere di 
nazionalità italiana oppure persone con speciale preparazione e sensibilità adegua- 
te alle esigenze dell’insegnamento nelle scuole del gruppo etnico italiano. Si 
doveva abilitare il personale insegnante e dirigente pianificando le necessità e 
assegnando borse di studio. Infine, si stabiliva l'introduzione, nelle località nazio- 
nalmente miste, dell’insegnamento della lingua italiana come materia obbligatoria 
nelle scuole croate, iniziando dalla seconda elementare. Tale norma rivestiva 
fondamentale importanza per la realizzazione di tutti gli altri diritti precedente- 
mente menzionati in quanto, se i cittadini del comune sin da bambini avessero 
cominciato a conoscersi e a comunicare meglio, studiando le rispettive lingue, non 
solo il bilinguismo sarebbe diventato una realtà ma sarebbero stati rispettati i diritti 
nazionali di ambedue le componenti e sarebbero stati creati i presupposti di una 
convivenza di tipo superiore. 

Il dibattito si accese, ovviamente, anche all’interno dell’UIIF, inducendola ad 
organizzare una “tavola rotonda” !8° nella sede dell’EDIT, nell’aprile dello stesso anno. 

Vennero avanzate tre richieste fondamentali: il GNI doveva essere trattato in 
modo unitario; le località in cui vivevano i connazionali dovevano essere definite 
come nazionalmente miste e quindi in esse andava applicato il bilinguismo nelle 
sue varie forme (visivo, parlato); gli statuti comunali, codificando la materia 
riguardante la minoranza, non potevano mantenersi sul generico, ma dovevano 
entrare dettagliatamente nel concreto della questione, il che era di estrema impor- 
tanza, siccome essi erano chiamati a regolare i rapporti tra il comune e il singolo, 
sia come cittadino sia come soggetto economico attivo!90, 


189 “Criterio unitario per il Gruppo Etnico” Panorama, n. 8, 1963, p. 4. 


190 Ibid,, p. 5. 


76 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


Grande eco tra i connazionali ebbe 1’ XI Assemblea dell’UIIF svoltasi il 30 


giugno 1963 a Rovigno!”!. 


Effettivamente l’assise, che si svolse con in anticipo di un anno rispetto ai 
tempi prima fissati, apportò nelle sue conclusioni alcune decisioni importanti: 
approvò il nuovo Statuto!”, che aveva avuto tempi lunghi di preparazione e nella 
sua nuova forma sanciva l’istituzione di “sotto-unioni”, ossia le cosiddette consul- 
te, le quali, dividendosi in comunali, intercomunali e distrettuali, avrebbero potuto 
promuovere, dirigere e coordinare l’attività di più CIC di una stessa giurisdizione. 
Altra novità fu costituita dalla possibilità di associazione all’UIIF anche da parte 
di società artistiche e Circoli di Cultura composti da connazionali che non risiede- 
vano nella regione istro-quarnerina, quali gli Italiani di Lubiana, di Nuova Gorizia, 
nonché quelli di Plostine'”? che vi si erano insediati, quasi un secolo prima, 
provenienti dal bellunese. Infine, abolita la Segreteria dell’ UIIF, questa sarebbe 
stata rimpiazzata da un Comitato più ristretto, e perciò più efficiente. Soprattutto 
si riconfermò la validità della scelta fatta anni prima di istituire le commissioni di 
lavoro, e su questa scia si sentì la necessità di fondare in tempi brevi un circolo di 


19! XI Assemblea dell’UIIF — Relazione sull’attività svolta, Rovigno, 30 giugno 1963. 


192 Per fare un esempio, sulle differenze che esistevano tra i due statuti, notiamo in quello precedente, che 
l’articolo 26 diceva testualmente: “In caso di cessazione dell’Unione degli Italiani i beni patrimoniali della stessa 
divengono patrimonio dell’Unione socialista del popolo lavoratore”, mentre lo statuto del 1963, all'articolo 25 
dettava: “In caso di cessazione dell’Unione degli Italiani i beni patrimoniali della stessa divengono patrimonio 
dei Circoli e delle altre organizzazioni affiliate”; Riportiamo alcuni significativi articoli del summenzionato 
statuto: 

Art. | 

L’Unione degli Italiani dell’ Istria e di Fiume è un’associazione di carattere culturale nella quale convergono, 
come organizzazioni autonome, i Circoli Italiani di Cultura e le società e gruppi culturali e ricreativi del gruppo 
nazionale italiano dei distretti di Fiume, Pola e Capodistria. 

Per l’attuazione dei compiti previsti da questo statuto i CIC possono associarsi in consulte comunali, 
intercomunali o distrettuali. La struttura e l’attività di queste consulte vengono regolate da propri statuti o 
regolamenti in armonia con lo statuto dell’Unione, previa approvazione del comitato dell’Unione. 

Costituita nel corso della Guerra Popolare di Liberazione come espressione di volontà degli antifascisti 
dell'Istria e di Fiume di nazionalità italiana di dare il loro apporto alla lotta di liberazione, al consolidamento 
dell’unità e della fratellanza e alla rivoluzione socialista dei popoli della Jugoslavia, l'Unione degli Italiani, nelle 
condizioni dell’edificazione del socialismo in Jugoslavia promuove, cura, sviluppa e coordinale varie attività nel 
campo della cultura per garantire al gruppo nazionale italiano della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, 
in armonia con i diritti e i doveri costituzionali dei cittadini jugoslavi e nello spirito dell’autogoverno di tutte le 
attività sociali, il più libero sviluppo delle loro tradizioni e della loro cultura nazionale. 

Art. 3 

L’Unione degli Italiani si impegna a diffondere frai popoli della Jugoslavia il patrimonio e le conquiste del 
pensiero, della cultura e dell’arte della nazione italiana e, nella nazione italiana, il patrimoni e le conquiste del 
pensiero, della cultura e dell’arte di tutti i popoli della Jugoslavia, al fine di contribuire alla mutua conoscenza e 
la consolidamento della stima reciproca tra i due popoli vicini. 


193 Località della Bosnia. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 77 


PA 


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Almanacco degli italiani dell’Istria e di Fiume (1951) 


78 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


poeti, narratori e artisti con il compito di indirizzare e coordinare l’attività creativa 
del GNI. A presidente del Comitato dell’ UIIF venne eletto il prof. Antonio Borme. 

“Una scelta decisiva”! veniva definita la XI Assemblea dal quindicinale 
“Panorama”. E in effetti un ritrovato entusiasmo ed una rinnovata fiducia nel futuro 
caratterizzano, in quei mesi, l’azione dell’UIIF e dei suoi singoli membri. 

Difatti, l’autunno del 1963 vide una intensa attività svolta dal Comitato, che 
sfociò nell’esigenza di compilare un importante documento, la “Dichiarazione 
programmatica”. Questa, prima di essere diffusa a mezzo di stampa, fu preven- 
tivamente discussa e approvata!’°. Si era deciso anche di tradurla in lingua croata 
e slovena per poi inviarla alle USPL dei tre distretti. 

L’organicità e la sistematicità del lavoro dell’UIIF, la necessità di mobilitare 
tutte le forze disponibili per una azione più intensa e più efficace, esigevano un 
indirizzo programmatico chiaro e preciso, indicante i contenuti e le forme di lavoro 
dell’Unione per il periodo seguente. “L’indirizzo programmatico” constava di due 
parti, e cioè: principi generali e programma di attività. I principi generali imposta- 
vano tutta l’attività futura. L'Unione, quale associazione culturale del gruppo 
nazionale italiano, doveva adottare le misure atte a mobilitare le riserve ancora 
latenti per imprimere un ritmo più sostenuto, più intenso alla propria azione, con 
l’intento di allargarla in estensione e in profondità, creando gradualmente, dove non 
esistevano ancora, le condizioni per la maturazione di determinate soluzioni, pro- 
muovendo nuove forme di attività idonee a favorire una spinta in avanti. L'Unione 
doveva poi consolidare le sue posizioni autonome nella valutazione delle singole 
situazioni e in genere nella sua attività e sviluppare al massimo la propria iniziativa. 
Doveva inoltre tendere al risveglio in tutti i campi del GNI ed attuare azioni concrete 
e iniziative adeguate la sua funzione di ponte nell’avvicinamento e nella collabora- 


194 “Una svolta decisiva”, Panorama, n. 13, 1963, pp. 4-5. 


195 La Voce del Popolo, 26 ottobre 1963, p. 1; nel maggio 1971 assistiamo alla stesura definitiva dell’indi- 
rizzo programmatico alla XIV Assemblea svoltasi a Parenzo; ne riportiamo alcuni passi: “L’UIIF è l'associazione 
sociale autogestita degli Italiani viventi sul territorio della penisola istriana e del Quarnero, chiamata a soddisfare 
le loro esigenze specifiche in tutti i campi della loro vita sociale; di conseguenza essa non può essere considerata 
una semplice istituzione culturale. Nell’interesse del gruppo etnico italiano, del suo sviluppo e della sua completa 
affermazione, è necessario demandare ad essa un bagaglio più consistente di diritti e di doveri specifici. L’UIIF 
non può essere estranea ai processi in atto promossi dal principio caratteristico della vera democrazia socialista e 
consistente nel trasferimento di sempre più ampie competenze ai diretti interessati in ogni campo della vita sociale; 
l’Unione degli Italiani, nel quadro di tali processi, richiede la propria forma specifica di autonomia che le assicuri 
tutte le componenti atte a renderla effettivamente un’associazione autogestita dagli appartenenti al gruppo etnico 
italiano, efficiente nella sua azione; si tratta di un suo dovere e di un suo diritto inalienabili ...””, “XIV Assemblea 
ordinaria dell’UIIF — Indirizzo programmatico”, “Documenti”, vol. I del CRS, Pola, 1972. 


196 A.C.R.S., fasc. n. 4753/85, verbale della riunione del Comitato tenutasi a Pola il 20 ottobre 1963. 


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zione reciproca dei due paesi confinanti, imprimendo a questa sua importante 
funzione un carattere di organicità mediante una accurata programmazione!?”, 

La seconda parte era più specifica e riguardava il programma di attività per il 
periodo 1963/1964: cura per la posizione dei connazionali nella vita sociale, il che 
significava dare un contributo all’elaborazione e alla stesura definitiva degli statuti 
comunali e alla loro necessaria applicazione in quelle località dove ciò non era ancora 
avvenuto; partecipazione costante nel garantire un’adeguata rappresentanza dei con- 
nazionali negli organi del potere; soluzione dei problemi delle istituzioni scolastiche e 
pre-scolastiche (ad esempio: a Torre, Fiume, Pola e Parenzo); avvio dell’opera di 
elevazione culturale mediante conferenze e parallelamente adozione di misure concre- 
te, in accordo con gli organi competenti, per organizzare un ciclo sistematico di 
conferenze con oratori qualificati provenienti dall'Italia; aiuto al Dramma Italiano per 
il suo rafforzamento organizzativo, costituendo a tal fine un consiglio di gestione; 
apertura, in accordo con il museo civico di Rovigno, della mostra permanente di arti 
figurative dei membri del Circolo dei poeti, artisti e letterati; impegno della stampa 
della minoranza nel sollevare tempestivamente i problemi e nel farli oggetto di 
pubblico dibattito; intensificazione della collaborazione con giornali e riviste del Paese 
e dell’Italia per una informazione sistematica sull’attività del GNI; convocazione 
periodica di conferenze stampa per una informazione più ampia; sostegno ad alcuni 
CIC per la collaborazione con enti affini progressisti della vicina Repubblica italiana, 
allo scopo di giungere a uno scambio di stampa, libri, di materiale politico, di mostre, 
ecc; soluzione del problema concernente la partecipazione proporzionale della 
Repubblica di Croazia e Slovenia al finanziamento di tutti gli enti associati 
all’ Unione (Radio Capodistria, Dramma Italiano)!®, 

Si andava così incontro negli anni a venire a un clima di decisione e di 
ottimismo. In grande risalto venivano posti, dai due governi, il ruolo di ponte tra le 
due sponde adriatiche demandato alla minoranza e l’inderogabile riallacciamento 
di rapporti organici con la matrice nazionale. Un anno dopo, nel settembre del 1964 
a Rovigno, si sarebbe svolto il primo incontro tra i rappresentanti dell’ UITF e alcuni 
funzionari dell’ Università Popolare di Trieste, onde concordare i primi interventi 
a favore dell’elevamento culturale e ai fini della conservazione dell’identità nazio- 
nale del GNI'°. Inoltre si instaurarono rapporti con l’ Unione Economico-Culturale 


197 La Voce del Popolo, 26 ottobre 1963, p. 1. 
198 Ibid., p. 2. 


199 25esimo della collaborazione UIIF-UPT, intervista a Luciano Rossit, segretario generale dell'UPT 
apparsa su La Voce del Popolo, 15 settembre 1989: “Veramente bisogna dire che questocammino oggi, se fossero 
stati assecondati i desideri ed i propositi dell’Università popolare di Trieste, potrebbe essere 35.ennale, perché noi 


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Slovena (gennaio 1965). Una delegazione dell’ UIIF fu ricevuta dal Presidente 
Josip Broz Tito a Brioni (gennaio 1965). 

Fu un periodo, quindi, quello della seconda metà degli anni Sessanta, innova- 
tore e costruttivo che, nelle speranze dei dirigenti dell’UIIF, avrebbe dovuto 
segnare una svolta nella realizzazione dei diritti nazionali da tanto tempo disattesi. 

Questo argomento, però, spetta a una nuova ricerca. 


Conclusione 


Al termine di questa esposizione, è doveroso trarre alcune conclusioni a 
proposito delle vicende che caratterizzarono la storia dell’ Unione degli Italiani negli 
anni forse più difficili e oscuri della sua esistenza. Dopo aver percorso un decennio 
di storia non solo di una istituzione ma della stessa minoranza nazionale italiana, ci 
sembra legittimo poter affermare che l’adesione di molti italiani dell’Istria e di 
Fiume alla Lotta popolare di Liberazione jugoslava, era stata caratterizzata inizial- 
mente da un sincero entusiasmo, che portò ovviamente all’instaurarsi di un rapporto 
di piena fiducia negli organismi popolari neocostituiti. L'Unione degli italiani fu 
uno di questi, un garante del rispetto dei diritti e dell’autonomia della popolazione 
italiana autoctona della regione istro-quarnerina. A questi presupposti però seguì 
tutta una serie di deviazioni e delusioni, e soprattutto un fenomeno che avrebbe 
sconvolto la struttura etnica del territorio, l’esodo, che raggiunse proporzioni quasi 
bibliche. Successivamente, la progressiva trasformazione della nuova compagine 
statale in un apparato fortemente centralizzato, burocratico e talora repressivo, 


abbiamo posto il problema della conservazione nazionale del nostro gruppo etnico in Jugoslavia sin dall’ottobre 
del 1954. Quando cioè è cessato qui il governo militare alleato, noi ci siamo proposti subito all'opinione pubblica 
ed alle autorità competenti come l’istituto che aveva la volontà, il proposito, il desiderio di prendere contatti con 
i nostri connazionali rimasti oltre confine per assicurare loro il contatto con la nazione d’origine, quindi per 
assicurare la loro conservazione culturale che più specificatamente significava conservazione dell’identità nazio- 
nale. Diverse situazioni hanno fatto si che il nostro progetto non potesse essere attuato subito, anche perché se 
nell’ambito della Jugoslavia, nell’ambito dell'Istria c’era qualche perplessità a questo proposito, anche l'opinione 
pubblica italiana aveva delle riserve su questi contatti che noi, e modestamente io in particolare, vedevamo come 
necessari ed urgenti. Quindi abbiamodovuto aspettare il 1964. Le difficoltà sono durate a lungo, per le perplessità 
da parte italiana, da parte dei miei concittadini in particolare, e la diffidenza che si manifestava in molti settori, a 
molti livelli, in Jugoslavia, in diverse sedi, in particolare le sedi municipali, diciamo. L’UPT, che aveva ormai una 
storia centenaria veniva vista come un istituto irredentista, come uno strumento di propaganda politica, come un 
veicolo di eventuali rivendicazioni che anche allora sarebbe stato ridicolo avanzare. Questo è durato parecchio 
tempo. So che l'Unione ha avuto, specie agli inizi, delle difficoltà per questa collaborazione un po’ al di fuori dei 
fori ufficiali. Quindi forse era anch'essa oggetto di qualche riserva, di qualche sospetto, ma bisognava pensare che 
i tempi erano diversi: per andare in Jugoslavia in quegli anni bisognava avere il visto consolare...”. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 81 


istituzionalizzò una sorta di controllo sull’operato dell’UIIF e del GNI, e che aveva 
le sue propaggini anche all’interno degli stessi meccanismi minoritari. 

Le conseguenze furono deleterie: la componente italiana della popolazione, 
divenuta con l’esodo abbondantemente minoritaria e addirittura esigua, duramente 
colpita soprattutto nelle sue strutture, non si presentò più come soggetto politico, e 
venne pervasa da un senso di indifferenza, sconforto, pessimismo e delusione. 
Questi furono elementi che determinarono un'ulteriore effettiva flessione numeri- 
ca della minoranza. Il mancato risveglio “unitario” fu determinato anche dalla 
distribuzione della popolazione italiana su un vasto territorio diviso, come si è 
detto, in due repubbliche, tre distretti e 15 comuni. 

Gli anni Sessanta videro un progressivo, seppure ancora timido, interessamento 
del Governo italiano ai problemi dei connazionali in Jugoslavia, a seguito del 
riavvicinamento avvenuto tra i due Stati e, più in generale, tra la Jugoslavia e 
l'Occidente. L'approvazione del nuovo statuto dell’ UIIF (1963) avrebbe poi portato 
nuova linfa allo spirito e alle iniziative della minoranza italiana, dandole una 
qualche prospettiva di presenza autonoma nella società locale. Tuttavia la strada 
sarebbe stata lunga e irta di ostacoli poiché come ebbe a precisare Enzo Collotti “la 
struttura di una minoranza nazionale incorporata in un altro Stato subisce necessa- 
riamente nel volgere del tempo delle modificazioni; raramente tuttavia la minoranza 
si estingue per processo naturale di assimilazione. L’assimilazione spontanea è in 
definitiva un fenomeno sporadico, specie quando si tratti di nuclei nazionali com- 
patti. Ma le vie dell’assimilazione più o meno violenta e doatta sono infinite”? 


200 E. COLLOTTI, “Postilla” in risposta al testo di A. Borme, /! Ponte-Rivista mensile di Politica e 
Letteratura, n. 8-9, 1955, p. 1282 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 83 


VERBALE DELL'VIII ASSEMBLEA DELL’UNIONE DEGLI ITALIANI 
DELL’ISTRIA E DI FIUME TENUTASI A POLA IL 20 NOVEMBRE 1955 NELLA 
SEDE DEL CIRCOLO ITALIANO DI CULTURA 


L'A bien ba inidio all 10,30, 

Il Presidente dell’Unione, compagno Giusto Massarotto apre i lavori e propone la seguente 
presidenza: Arrigoni, Benussi A., Abrami, Bonetti, Fioranti B., Tomasin, Crollini, Bertoldi, Massa- 
rotto. La proposta viene accettata e gli eletti prendono i loro posti. 

Viene eletta la Commissione di Verifica: Stell Romano, Fiducioso. 

Viene eletta la Commissione di candidazione: Raunich (Fiume). Quicchi (Pola), Fusilli (Capodi- 
stria), Biasol (Dignano), Albertini (Rovigno). 

Viene eletta la Commissione elettorale: Bonassisi, Volghieri, Giuricin Luciano. 


Il presidente dell’ Assemblea, Abrami propone l’ordine del giorno: 
-Relazione Politica 

-Relazione organizzativa 

-Relazione finanziaria 

-Discussione 

-Elezione del nuovo Comitato 


I)Al primo punto dell’O. d. G., il compagno Giusto Massarotto presenta la relazione politica 
(Vedi Allegato n. 1). 


II) AI secondo punto dell’O. d. G., il compagno Andrea Benussi presenta la relazione sui compiti 
e sull’attività dell’Unione. (Allegato n. 2). 
AI termine di questa relazione si decide di fare una pausa di 15 minuti e di continuare poi i lavori 


senza alcuna altra interruzione. 


II) AI terzo punto dell’O. d. G., il compagno Giuseppe Fattori presenta la relazione finanziaria. 
(Allegato n. 3). 


IV) Ha inizio la discussione. 

Riprende subito la parola il compagno Andrea Benussi per scusarsi di aver tralasciato nella sua 
relazione, laddove parlava della stampa della nostra minoranza di accennare a “La nostra lotta”. 

ANTONIO BORME. Egli si ricollega anzitutto con la nuova situazione della politica estera e 


anche alla politica generale del nostro paese, sottolineando in particolare quei momenti che più 
direttamente possono riguardare la nostra minoranza, e cioè la soluzione del problema triestino e 


84 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


conseguente normalizzazione dei rapporti con l’Italia. Da qui si deduce anche il rafforzamento dei 
rapporti e degli scambi culturali: egli propone visite di delegazioni, di gruppi artistici in tutti e due i 
sensi. Analogamente si adopera per uno scambio di informazioni, proponendo ad esempio la 
creazione di un numero speciale de “La voce del popolo” dedicato all'Italia. Egli accenna come un 
iniziativa da parte dell’Italia sia stata già fatta con il numero speciale della rivista “Il ponte” dedicato 
esclusivamente alla Jugoslavia. Attacca inoltre Radio Venezia Giulia per la campagna di menzogne 
e calunnie sul nostro paese e in particolare sulla vita nelle nostre regioni: egli afferma che Radio 
Venezia Giulia essendo un organo del Governo italiano non dimostra che la distensione e la 
normalizzazione dei rapporti tra i due paesi sia stata ben compresa e conseguentemente applicata 
dall’altra parte, conclude affermando che l’attività di questa radio trasmittente è un disturbo allo 
sviluppo dei buoni rapporti tra i due paesi. 

Passa quindi ad analizzare il ruolo della gestione sociale nel nostro paese e conclude col proporre 
periodiche consultazioni e delle analisi periodiche, da organizzarsi da parte dell’ Unione degli Italiani 
al fine di stabilire qual è il grado di presa di coscienza e di preparazione della minoranza italiana a 
questo riguardo. 

Parlando dell’attività dell’EDIT e della sue pubblicazioni egli afferma la necessità di provvedere 
affinché queste pubblicazioni vengano diffuse all’estero, in Italia particolarmente: ciò servirebbe a 
diffondere colà le nostre idee e le nostre realizzazioni e, nel contempo a creare un fondo di valute per 
l’acquisto di necessari libri dall'Italia. A questo proposito egli sottolinea in particolare la necessità 
dell’acquisto di libri in Italia per il regolare funzionamento delle nostre scuole. Sottolinea in 
particolare quanto sia nefasta la mancanza di vocabolari della lingua italiana. 

Parlando del materiale a disposizione dei gruppi artistico-culturali egli raccomanda di curarne il 
contenuto e in secondo luogo di salvaguardare lo spirito nazionale. Egli riprende una vecchia 
proposta: quella per cui l’ Unione dovrebbe procedere ad una cernita di tutto questo materiale ed 
organizzarne la stampa, magari a ciclostile. 

Egli si prodiga quindi affinché venga forzata la creazione di detto materiale attraverso l’opportu- 
no lancio di concorsi, quindi per mezzo di traduzioni dal croato e, infine, scegliere con criterio da 
quanto può fornire il mercato italiano. 

Venendo a parlare della rassegna egli saluta l'iniziativa presa da Radio Capodistria di organizzare 
festival radiofonici, tuttavia è del parere che in nessun caso va abbandonata la forma delle Rassegne 
tradizionali com’erano state concepite ed organizzate negli anni precedenti. a questo punto egli 
rivolge alcuni appunti critici alle forme organizzative (soprattutto per quanto riguarda il funziona- 
mento delle giurie) al I festival radiofonico organizzato da Radio Capodistria. 

Parlando dell’attività del Dramma Italiano egli insiste nell'affermare che il Dramma Italiano è 
soprattutto in funzione dell'Istria e non solo di Fiume. Analizzando quindi le varie difficoltà 
finanziarie sorte per l’organizzazione delle “tournée” istriane, pensa che la migliore delle soluzioni 
sia quella di affidare il Dramma all'Unione e che le sovvenzioni per i suoi giri artistici vengano 
direttamente date, dal nostro potere, all’ Unione. 

Egli si è infine soffermato sulla situazione delle nostre scuole. Dopo un accenno generico alla 
loro posizione ed al loro ruolo egli ha in particolare analizzato il problema dei quadri. Si è detto 
insoddisfatto dei quadri, in particolare di quelli usciti dall’Istituto magistrale di Fiume. In particolare 
le loro debolezze si sono rivelate gravi dal punto di vista dell’educazione e della preparazione 
ideologico-politica. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 85 


ARMINIO S(C)HACHERL propone che l’intervento del compagno Borme venga considerato 
come una correlazione dell’assemblea e pubblicato assieme alle relazioni presentate dal comitato 
dell’ Unione. 


Il presidente Appolinio Abrami mette ai voti la proposta che viene accettata all'unanimità. 


ARRIGONI GIUSEPPE parla dell’attività del Circolo italiano di Cultura di Fiume constatando 
che essa l’anno scorso è stata debole, tanto che il CIC di Fiume è stato superato da quello di Pola. Per 
il futuro mentre continua normalmente l’attività del coro della Fratellanza è prevista la ricostruzione 
della filodrammatica e il riadattamento della biblioteca. Si cercherà di mobilitare maggiormente gli 
italiani e specialmente gli insegnanti delle scuole della minoranza nell’attività del CIC. 


ALDO BRESSAN Afferma che nella relazione si sarebbe dovuto parlare di più di Radio 
Capodistria data la sua funzione di unica stazione radio jugoslava con programmi in lingua italiana 
per la minoranza. Bisogna notare poi che Radio Capodistria svolge anche una funzione importante 
nell’ informare obiettivamente le masse italiane oltre confine sulla realtà sociale e politica del nostro 
paese. 

Da qualche tempo Radio Capodistria ha iniziato i programmi radio per le scuole della minoranza. 
Sarebbe desiderabile una maggiore mobilitazione degli insegnanti nella compilazione di questi 
programmi. Per il prossimo anno è previsto il II Festival dei CIC e un Festival per le scuole. 


GRZINIC (Parenzo) Espone alcune difficoltà nell’attività del CIC di Parenzo, ma afferma che 
recentemente sono stati dati alcuni spettacoli con discreto successo. Chiede aiuti, consigli e visite da 
parte dell’Unione. A Parenzo sono in tutto molto pochi gli attivisti — cinque o sei — ed essi debbono 
fare di tutto, anche gli attori, ecc. 

Dice che la scuola italiana e quella croata sono state fuse senza che il CIC non ne sapesse niente. 
Da qui sono sorti dei malumori che sono poi stati appianati. Dice che del quotidiano “La voce del 
popolo” arrivano a Parenzo una ventina di copie che poi non vengono neanche tutte vendute. Critica 
questo giornale poiché è secondo lui povero e poco interessante. La biblioteca comprende 4.000 
volumi, ma sono tutti vecchi. 


LUCIANO MICHELAZZI ci sono nella vita politica italiana atteggiamenti diversi nei riguardi 
della minoranza italiana in Jugoslavia. Tre correnti politiche italiane cercano contatti con noi. 

La prima corrente di Parri, progressiva, e il suo atteggiamento si può considerare positivo. 
Positivo è anche l’atteggiamento dell’organizzazione giovanile che fa capo a Cucchi e Magnani. C’è 
però una terza tendenza che non si può giudicare positiva: è la tendenza dei circoli irredentistici 
italiani che ha trovato frequentemente la sua espressione sulle colonne del “Piccolo” di Trieste con 
la pubblicazione di articoli di carattere storico e politico su tutti i problemi culturali, sociali e 
organizzativi della minoranza italiana. Fino a poco tempo fa questa corrente politica negava o almeno 
ignorava l’esistenza di una minoranza italiana in Jugoslavia; è positivo dunque almeno il fatto che 
ora si riconosce la nostra esistenza. Però tutti noi italiani in Jugoslavia veniamo considerati come degli 
irredentisti che lottano per il ritorno dell’Istria allo stato italiano. È evidente che con una tale corrente 
politica noi non possiamo cercare dei contatti. Bisogna perciò essere sul chi va là e fare attenzione a 
chi ci porge la mano. Saranno bene accetti gli scambi di visite di società artistico-culturali, ma 


86 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


certamente non sarà bene accetta né si potrà permettere la tourné che la società irredentistica “Dante 
Alighieri” vorrebbe organizzare in Istria. Noi dobbiamo dunque accettare contatti solo con quelle 
correnti della vita politica italiana che hanno un atteggiamento positivo di fronte al nostro paese e alla 
nostra minoranza e dobbiamo usare tutti i mezzi per esportare i nostri principi e far conoscere la nostra 
prassi socialista oltre confine. Il problema essenziale non è quello di collegarsi con organizzazioni 
italiane di oltre confine per ricevere da esse qualcosa, ma per esportare le nostre idee. 

Il compagno Borme ha proposto consultazioni che i Circoli e 1’ Unione dovrebbero organizzare 
con i lavoratori politici e sociali della minoranza. Ma l’ Unione degli Italiani non è un’organizzazione 
politico- culturale, bensì un’organizzazione culturale-politica. L'attività politica, le iniziative politi- 
che non sono il compito principale dell’ Unione e dei Circoli italiani di Cultura, ma solo un’attività 
secondaria che deve essere svolta di tanto in tanto. Il campo della attività politica deve essere anche 
per gli italiani l’unione socialista del Popolo lavoratore. Se per essi il campo dell’attività politica 
fossero i Circoli italiani di Cultura si verrebbe a separare gli italiani dai compagni croati e sloveni e 
a minare la fratellanza. Su questo problema sono esistite nel Comitato dell’Unione due tendenze: 
l’una che sosteneva che l’attività politica degli italiani deve svolgersi nell'Unione socialista del 
popolo lavoratore, l’altra che sosteneva invece che essa debba svolgersi nei Circoli italiani di Cultura 
e attraverso l’ Unione degli italiani. Occorreva prendere una posizione di fronte a questo problema. Il 
Comitato dell’Unione degli italiani dovrebbe avere sempre meno iniziative politiche, per esempio 
non sarebbe suo compito quello di organizzare consultazioni di consigli scolastici perché queste 
devono essere realizzate assieme con i consigli scolastici delle scuole croate. L'assemblea dovrebbe 
chiarire la questione. 


LUCIANO GIURICIN Parla sulle Società artistico-culturali operaie e in particolare dei problemi 
finanziari che impediscono loro di svolgere una sempre più proficua attività. Egli ha portato ad esempio la 
“Fratellanza” di Fiume che non può mai muoversi dalla sua sede per non averne i mezzi finanziari. 


MIKA SPILJAK Porge i saluti del Comitato Centrale della Lega dei comunisti della Jugoslavia 
e dell’Unione socialista del popolo lavoratore all’ Assemblea. L’ Unione degli italiani ha svolto una 
grande funzione nella vita della minoranza finora. Grande è stato il suo lavoro prima che ci fossero i 
problemi fondamentali dei rapporti fra il nostro paese e l’Italia. In questo periodo la vita degli italiani 
non era ancora ordinata, la minoranza non aveva ancora una posizione ben determinata nel nostro 
paese. L'Unione ha fatto molto per organizzare la vita della minoranza e legarla all’edificazione 
socialista. Ora i problemi fondamentali dei rapporti con l’Italia sono risolti e di fronte all'Unione 
stanno nuovi compiti. I) il compito principale è educare gli italiani ad un’attività sempre maggiore 
negli organi di autogoverno (consigli operai, consigli scolastici, consigli di cittadini). L'autonomia e 
i diritti degli italiani non si realizzano nei CIC e nell’Unione, ma nella loro funzione e nella loro 
partecipazione all’attività delle organizzazioni sociali. Quanto più gli italiani si attivizzeranno nelle 
varie organizzazioni sociali e nei vari organi di autogestione, tanto meno diverranno necessarie certe 
attività che i circoli italiani e l'Unione degli italiani svolgevano finora. II) altro grande compito 
dell’ Unione e delle CIC è la cura dello sviluppo della cultura nazionale. III) un compito per cui appena 
oggi si sono create grandi possibilità di realizzazione è quello dell’azione socialista della nostra 
minoranza sui connazionali in Italia. Oggi la situazione politica del nostro Paese rende sempre più 
possibile una tale relazione. Dall’ultima assemblea, la situazione politica nel nostro paese è mutata. 
Si sono normalizzati i rapporti con l’Italia con l'URSS, si è concluso il Patto balcanico e si intrecciano 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 87 


sempre nuovi rapporti con il Vicino oriente e coi paesi dell'Occidente. Su nessun confine, oggi la 
Jugoslavia ha dei nemici, essa svolge una funzione importante nella situazione politica mondiale, 
nella lotta per la pace e la distensione internazionale. La normalizzazione dei rapporti con l'URSS, 
che significa il riconoscimento da questa parte della nostra indipendenza è stata la condizione per la 
normalizzazione e la distensione tra l'URSS e l'Occidente, dopo di ciò è cessato il tentativo da parte 
dell’Occidente di trascinarci nel loro blocco e anche da questa parte è stata riconosciuta la nostra piena 
indipendenza; anzi gli USA ci riconoscono come un elemento attivo di capitale importanza nelle 
questioni europee e del Medio oriente, (Germania, Paesi dell’ Europa orientale, ecc.). Foster Dulles è 
venuto a sentire il parere di Tito su questi problemi. Il punto di vista della Jugoslavia nella politica 
internazionale, influisce anche sull’URSS (per esempio il suo atteggiamento di fronte all’India e alla 
Birmania). E questo nostro punto di vista è quello della coesistenza pacifica e attiva. Coesistenza non 
significa solo conservazione della pace, ma politica di classe, socialista, da noi e nel mondo, sia in 
Occidente che in Oriente. Oggi è possibile il progresso dell’ umanità, la liberazione dall’arretratezza 
solo con l’eliminazione del capitalismo privato, col socialismo; ecco perché è possibile la coesistenza 
e la lotta in comune contro l’arretratezza con stati borghesi come l’Italia e l’Egitto. Non bisogna 
dimenticare poi che il nostro paese ha una grande importanza per lo sviluppo delle forze progressive 
nel mondo perché in esso si sono creati per la prima volta forme nuove di autogoverno operaio. Questi 
sono gli argomenti con cui dobbiamo influire sulle forze socialiste positive in Italia. 


V) elezioni 

Il compagno Raunich presenta a nome della commissione di candidatura le seguenti liste: 

comitato dell’ Unione: Giusto Massarotto, Andrea Benussi, Alfonso Bogna, Giuseppe Arrigoni, 
Apollinio Abrami, Romano Benussi, Rodolfo Benic, Marcello Moscarda, Antonio Borme, Bruno 
Fioranti, Dario Scher, Plinio Tommasin, Romano Bonetti, Ermanno Brussich, Alfredo Cuomo, 
Nerina Bertoldi, Antonio Gorlato, Gino Gobbo, Ugo Romani, Matteo Scoccir, Luciano Michelazzi, 
Ferruccio Gravina [Glavina], Giorrio [Giorgio] Gianbiastiani, Gildo Biasiol, Quicchi Gianni, Elia 
Crollini, Agarinis, Davilla. 

Comitato di Controllo: Dario Avancini, Alfredo Visentin, Arminio S(c)hacherl, Giovanni Sirotti, 
Sergio Turconi, Giuseppe Fattori. 


La lista, posta alle votazioni, viene accettata. Poi sorgono discussioni sul metodo di votazione. 
Due tendenze: chi è per la votazione pubblica della lista e chi per votazioni segrete. 

Viene poi richiesto lo statuto dell’Unione secondo cui le votazioni devono essere segrete e in tal 
senso si decide definitivamente. 

Hanno luogo le votazioni. 

I lavori si riprendono alle 2,25. 

Il compagno Massarotto, a nome del Comitato dell’Unione consegna dei premi a Nello Milotti, 
Dario Scher, Giuseppe Moschieni, Mario Rotar, Mario Vlasich, Vittorio Jes, e ad un compagno di 
Rovigno che designerà la società Marco Garbin. 

Il compagno Raunich propone di inviare telegrammi di saluto al presidente Tito, al compagno 
Bakarié ed al compagno Miha Marinko. 

I telegrammi sono nell’allegato n. 4. 

Sempre il compagno Raunich presenta una mozione di protesta contro il processo intentato agli 
ex partigiani iniziato ad Udine. 


88 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


Telegrammi e mozione vengono accettati all’ unanimità. 

Prende quindi la parola il compagno Giusto Massarotto il quale dice che le conclusioni dei lavori 
dell’ Assemblea saranno tratte dal nuovo comitato in base alle risultanze dei verbali. Accenna 
all’intervento del compagno Michelazzi e in particolare alla parte in cui egli afferma una divisione 
nel Comitato dell’ Unione. Egli [ritiene] che ciò non corrisponde a verità e che nessuno ha mai voluto 
staccare il lavoro degli italiani dalle organizzazioni sociali e politiche di massa del nostro paese. Del 
resto, dice, anche lo statuto chiarisce i compiti dell’Unione che sono principalmente quelli di 
mobilitare gli italiani che vivono in Jugoslavia nel lavoro d’edificazione del socialismo. 


Su invito del compagno Massarotto, vengono approvate le relazioni. Le votazioni si fanno 
pubbliche per alzata di mano. Il voto è unanime. 


Il compagno Luciano Giuricin, a nome della Commissione elettorale comunica i risultati delle 
votazioni che sono i seguenti: 


Massarotto Giusto 115 voti, Benussi Andrea 115, Bogna Alfonso 113, Arrigoni Giuseppe 116, 
Abrami Apollinio 11I, Benussi Romano 115, Benic Rodolfo 112, Moscarda Marcello 114, Bonne 
Antonio 116, Fioranti Bruno 115, Scher Dario 108, Tommasin Plinio 115, Bonetti Romano 112, 
Brussich Ermanno 116, Cuomo Alfredo 110, Bertoldi Nerina | 14, Gorlato Antonio 110, Gobbo Gino 
III, Romani Ugo 112, Scoccie [Scoccir] Matteo 114, Michelazzi Luciano 110, Giambastiani Giorgio 
115, Glavina Ferruccio II 1, Biasiol Gildo III, Quicchi Gianni 110. 

Pertanto questi compagni sono entrati a far parte del nuovo Comitato dell’Unione. Altri voti 
hanno ricevuto: Crollini Elia 12, Agarinis 11, Favilla 12, Giuricin Antonio 2, Raunich Giacomo |, 
Paliaga Giordano 1, Tarlao Gino 1, Makov Lidia 1. 


I voti per il Comitato di controllo sono i seguenti: Avancini Dario 113, Visintin Alfredo 116, 
S(c)hacher]l Arminio 116, Sirotti Giovanni 113, Turconi Sergio Il. 

Pertanto il comitato di controllo è formato dai suddetti compagni. Hanno inoltre ricevuto i voti: 
Fattori Giuseppe 3, Crollini 1, Benussi Romano 1. 


Con la proclamazione dei risultati delle elezioni l’ assemblea dell’Unione degli Italiani si conclu- 
de. 
Sono le ore 15. 
I VERBALISTI 
Arminio S(c)hacherl 


Sergio Turconi 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 89 


VERBALE DELLA RIUNIONE DELLA SEGRETERIA 
TENUTA IL 16 GENNAIO 1956 


Presenti alla riunione: Massarotto, Benussi, Cuomo, Bogna. Assenti: Abrami, Gobbo, Tomasin. 

Essendo i compagni in numero ridotto, si considera la presente riunione come una riunione 
preliminare. 

Si incomincia a discutere in merito all’andamento ed al più o meno successo ottenuto all’ Assem- 
blea dell’ Unione tenuta nel novembre a Pola. Il compagno Benussi considera che l’ Assemblea in 
generale è riuscita abbastanza bene, così pure afferma anche il compagno Massarotto, aggiungendo 
però che l’intervento del compagno Michelazzi è stato abbastanza antipatico in quanto dalla sua 
esposizione si potrebbe capire che in seno al Comitato dell’Unione esistono due tendenze. Il 
compagno Massarotto propone che alla prossima riunione del comitato si chiarisca questo punto. 

Il compagno Cuomo polemizza sull’intervento del compagno Michelazzi all’ Assemblea dicendo 
che l’essenziale è di incanalare gli italiani nelle organizzazioni di massa, che dobbiamo staccare 
l’attività degli italiani e che non siamo capaci di elevare un quadro di nazionalità italiana. La 
discussione di Michelazzi va intesa in questo senso. 

Il compagno Massarotto aggiunge che da quando esiste l’ Unione si sono sempre verificati e si 
verificheranno anche nel futuro delle tendenze d’isolatismo di certi circoli italiani di cultura, tendenze 
dovute allo scarso elevamento politico. Si pone il problema come fare per rompere queste tendenze. 
Prima con l’apparato che avevamo ci era più facile controllare, ora, dobbiamo lasciare questo compito 
alle autorità; cioè alle organizzazioni politiche del luogo. 

Il compagno Benussi afferma che gli italiani che svolgono attività nei CIC sono oberati da altri 
compiti e finiscono con lo svalutare l’attività da svolgere in seno ai CIC. In discussione privata con 
Benussi il compagno Michelazzi ha esposto che il nostro Partito deve interessarsi di tutto, delle scuole 
e così via. Cosa occorre che i CIC eleggano i rappresentanti per i Consigli scolastici. Il compagno 
non vede alcun problema nella chiusura delle classi e delle scuole, dice che la scuola deve man mano 
assorbirsi in quella croata. Allora il compagno Benussi si domanda cosa sta a fare l’ Unione ed i 
Circoli. Stando così le cose l’ Unione non serve proprio a niente. A Parenzo il segretario del C. P. già 
parla di una classe con 21 alunni che con il prossimo anno non esisterà più. A Torre e a Visinada 
ugualmente. lo ho parlato con gli insegnanti ed ho constatato che sono demoralizzati. Il compagno 
Benussi cita il caso dell’insegnante di Parenzo che per aver tenuto una lezione su Dante è stato più 
volte chiamato dagli Affari Interni. Per Michelazzi questi non sono problemi. All’ultima Assemblea 
a Pola il compagno Spiljak aveva incaricato il compagno Sirola di andare sul terreno per risolvere 
certi problemi, ma a un mese di distanza Sirola non s’è ancora fatto vivo. 

Il compagno Bogna dice che i CIC hanno poco per l’elevamento culturale della minoranza. Basta 
vedere ciò dai bilanci. A Fiume per tutto il 1955 hanno speso la somma di dinari 5000 per la stampa. 
Conseguenza logica è quindi che il CIC diventa solamente una betola. 

Parla il compagno Cuomo che dice che i problemi esistono e che noi dobbiamo pensare come 
risolverli. Secondo lui questi problemi dovrebbero venir risolti dal Komitet del luogo. Solo nel caso 
in cui si vede che questi problemi seguitano, allora 1’ Unione come autorità, [deve] intervenire tramite 
il Komitet. Se Sirola non è andato sul terreno all'Unione spetta il compito di richiamarlo al dovere. 
Dobbiamo imparare i compagni dei CIC a rivolgersi per risolvere i loro problemi a chi di dovere. 

Massarotto dice che non dobbiamo parlare solo teoricamente. Questi problemi non sono nostri 


90 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


ma principalmente dei dirigenti locali. Qui all’ Unione si viene a sapere più facilmente di più località. 
Ogni cittadino ha il diritto d’intervenire quando vede che qualcosa non va e così anche l’ Unione. 
Dobbiamo però evitare che i problemi si rivolgano tramite l'Unione. Se si rivolgono all'Unione 
indirizzarli a chi rivolgersi. Nostra deficienza è quella di non controllare l’attività dei CIC. Esistono 
certe cose però che devono venir risolte in collaborazione con l’ Unione, ad esempio in merito a certi 
problemi scolastici, dare suggerimenti in occasione a problemi diversi. Coordinare il lavoro della 
stampa ecc. 

Passando a parlare sulla questione della stampa, il compagno Bogna mette al corrente i presenti 
della nostra richiesta di lire italiane per la compera di libri in Italia, della richiesta della casa editrice 
Vallecchi di far smercio di suoi libri in Italia. Questo si potrebbe organizzare con una specie di 
scambio tra EDIT e Vallecchi. 

In merito all’antologia di scrittori jugoslavi ci si è messi in contatto con gli slavisti Urbani e 
Salvini i quali sono entusiasti di una simile iniziativa e si prevede quindi un ottimo smercio in Italia. 
La stessa cosa si prevede anche per il libro di Barbieri “L’uomo del vaticano”. 

Massarotto propone di metterci in contatto con la “Jugoslavenska knjiga” che è stata autorizzata 
e riceve sovenzioni per lo scambio con l’estero. 

Si decide di tenere la riunione del Comitato dell’Unione a Rovigno il 10 febbraio. Ordine del 
giorno: |. Programma di lavoro dell’Unione per il 1956; 2. Attività editoriale; 3. Questioni organiz- 
zative e 4. Collegamento culturale con l’estero. 

In relazione alla delegazione di giovani indipendentisti italiani si decide di prendere delle 
decisioni concrete e di formare una commissione per organizzare l’ospitalità a questa delegazione alla 
riunione del Comitato del giorno 20 febbraio. 

Il compagno Cuomo accenna che in relazione all’esposizione del compagno Vukmanovic sulla 
questione dei teatri, anche noi per il nostro Dramma italiano, dovremmo prendere misure economi- 
che, diminuendo personale o altro. 

Massarotto propone che Raunich si interessi sulla questione del Dramma per fornire una 
relazione. 

Si incarica il compagno Benussi di informarsi come stanno le cose in relazione agli svincoli. 
Vedere poi quanti di loro hanno ripreso il cognome d’origine. 

Dopo di che la riunione ha termine. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 91 


RIUNIONE DEL COMITATO DELL’UNIONE 
10 APRILE A ROVIGNO 


PRESENTI: Benussi, Bogna, Arrigoni, Abrami, Benussi Romano, Moscarda, Borme, Fioranti, 
Tomasin, Brussich, Cuomo, Bertoldi, Gorlato, Gobbo, Romani, Scoccir, Michelazzi, Glavina, Quic- 
chi, Avancini, Schacherl, Sirotti Giovanni, Turconi Sergio, Elio Dessardo, Elda Sansa, un compagno 
della “Nostra lotta”, il compagno Krajcer del Comitato distrettuale, ed altri ancora. 

Ordine del giorno: 

1.Applicazione delle conclusioni prese alla recente Assemblea. 

2.Problemi della stampa. 

3.Varie: 

d)delegazione giovani italiani 

e)Festival radiofonico 

f)Cooptazione nel Comitato di ancora un membro. 


Il compagno Benussi apre la riunione e fa una breve esposizione nella quale, tra l’altro, dice che 
l’ Unione dall’ultima Assemblea ad oggi ha cercato di coordinare il lavoro tra i vari Circoli italiani di 
cultura. Che molti Circoli sono stati attivi mentre altri non hanno dato alcuna attività. Il compagno 
Benussi riporta inoltre che alla recente Assemblea la discussione fatta dal compagno Michelazzi ha 
dato adito a delle interpretazioni secondo cui in seno all'Unione esistono due tendenze, cosa, la quale, 
bisogna chiarire nell’odierna riunione. 

In questo ultimo tempo mi sono recato spesso sul terreno ed ho visitato i Circoli italiani di cultura 
di Isola, Pola Capodistria, ecc. 1 compagni mi hanno esposto le loro difficoltà ed abbiamo cercato 
assieme di risolverle. Un fenomeno però che ho constatato generale è la questione delle sedi dei 
Circoli italiani di cultura che in tutto i posti si cerca di occuparne i locali. Di questa cosa dovremmo 
parlare nell’odierna riunione e prendere una soluzione in merito. 

Dopo quella riunione in cui il compagno Spiljak a Zagabria aveva riunito i segretari di Partito 
distrettuali della nostra regione, pareva finalmente risolto lo spinoso problema delle scuole, invece 
sorgono ancora dei malcontenti. Ad Umago avevano già portato via i locali del Circolo, ma per 
intervento mio personale li hanno ricevuto nuovamente. A Buie mancano compagni che dirigano il 
Circolo perché quelli che potrebbero farlo sono stracarichi di compiti e altri non vogliono farlo per 
paura di venir accusati di tenere per gli italiani. 

Esistono poi delle opinioni secondo le quali 1’ Unione degli italiani non occorre più che esista, che 
il suo ruolo oramai è finito. Questo è un errore madornale. L’ Unione per il momento deve esistere ed 
esisterà fino quando ci sarà la minoranza. Le scuole diminuiscono annualmente di numero, certi 
dirigenti dicono che in seguito si chiuderanno tutte le scuole e questo demoralizza molto gli 
insegnanti, specie quelli di Parenzo. Ma se fossero coscienti dovrebbero combattere contro simili 
elementi. 

Se il Circolo italiano di cultura ha da risolvere dei problemi è inutile che si rivolga all’ Unione 
degli italiani. Cerchi prima di risolvere con le autorità locali e, solo nel caso in cui non si trovi 
comprensione sul terreno, allora rivolgersi all'Unione. 

Compagni noi non possiamo dire che questi che ho citato non siano problemi, oppure se si 
ammettono che siano che non vale la pena di risolverli perché sono piccoli. Noi come comunisti 
dobbiamo ragionare e dire che qualsiasi problema, anche se piccolo, deve avere le sue soluzioni. È 


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errato considerare che tutti gli scolari il cui nome termina in ® debbono andare alle scuole croate 
anche contro la loro volontà. La scuola della minoranza italiana è socialista e da essa escono 
solamente uomini socialisti per cui cosa occorre essere tanto pignoli. Nel distretto di Pola i problemi 
della scuola sono stati risolti abbastanza bene. Solo a Parenzo sembra che non vada ancora bene. 

Dico inoltre che in questo ultimo periodo i migliori Circoli sono risultati quelli di Fiume, Pola, 
Dignano e un elogio particolare al Circolo di Isola. 

TI compagno Benussi accenna poi al problema degli svincoli che in questo ultimo tempo, sono 
numerosissimi. Invita i compagni poi, nella discussione a dire la loro opinione in merito alle ragioni 
che inducono tanti compagni a chiedere lo svincolo. 

In ultimo poi, il compagno Benussi accenna alla questione del Dramma Italiano, che in un primo 
tempo era stato deciso di eliminare il Dramma ma che poi la cosa è stata risolta e non v'è più problema 
in merito. 

Dopo di che ha inizio la 

DISCUSSIONE 

Apre la discussione il compagno SCOCCIR di Capodistria il quale dice che anche a Capodistria 
è sorto il problema riguardante la sede del CIC. Afferma che ora il CIC è costretto a svolgere la sua 
attività in sole due stanze. 

Afferma poi che problemi di intolleranza nazionale avvengono ogni giorno ma che però non 
bisogna farci caso poiché questi fatti vengono provocati da persone ignoranti. Solo, quando questi 
fatti vengono provocati direttamente da persone autorevoli la cosa è un po’ seccante. E per documen- 
tare quanto esposto cita alcuni casi. 

L'attività del Circolo di Capodistria va abbastanza bene ed ha incominciato ad essere attivo subito 
dopo la chiusura delle opzioni e dopo il grande freddo di questa stagione. Funziona la filodrammatica, 
il balletto, la mandolinistica, ecc. 

Il compagno ARRIGONI accenna all’attività svolta dal CIC di Fiume che è molto buona. La 
Fratellanza anche funziona bene, ecc. In relazione al problema della sede spiega come si siano svolti 
i fatti: accenna che prima dissero che l’attività è minima e per questo non occorre la sede presente, 
poi, avendogli dimostrato il contrario, dicono che il CIC non ha la possibilità di restaurare i locali che 
un tempo erano di lusso. Spiega poi la questione del cambiamento di sede, ecc. Il CIC tiene delle 
conferenze, concerti, rappresentazioni, ecc. alle quali partecipano molti membri della minoranza. 

ll compagno MICHELAZZI dice che è costretto a rispondere al compagno Benussi in merito alla 
discussione da lui sostenuta all’ Assemblea. Dice che deve correggersi lievemente e precisamente 
ritirare la parola “correnti” ed al suo posto mettere “tendenze”. 

Secondo il compagno Michelazzi in seno all’ Unione esistono due tendenze: la prima è quella di 
occuparsi esclusivamente di piccoli problemi di intolleranza nazionale, tendenza questa che egli 
considera errata; la seconda tendenza invece è quella secondo cui gli italiani debbono partecipare alla 
vita sociale, debbono venirelevati culturalmente e politicamente. 

Queste due tendenze esistono realmente. Dobbiamo togliere una buona volta dall’ordine del 
giorno questi piccoli fatti di intolleranza nazionale. Se la minoranza è indietro politicamente è colpa 
nostra. Perché nelle fabbriche non esistono problemi di intolleranza nazionale, perché nel consiglio 
operaio italiani e croati discutono dei problemi di comune accordo. Questi sorgono solo nell'ambiente 
culturale. 

Per quanto riguarda il problema degli svincoli, secondo quanto dice il compagno Benussi sembra 
siano dovuti a questi casi di intolleranza nazionale. Questo non è un problema della minoranza, ci 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 93 


sono anche croati che vogliono scappare e questo è dovuto al problema economico. Per conto mio 
non siamo marxisti se la pensiamo altrimenti. 

Non esiste la tendenza di eliminare 1’ Unione bensì la funzione dell’ Unione è diversa. L'Unione 
non può essere un doppione del SSRN. L’Unione deve svolgere un'attività dove la minoranza trovi 
sfogo di quelle cose particolari che in seno al SSRN non può. 

Sembra oggi che la minoranza sia attaccata da tutte le parti, che tutti siano nemici della minoranza 
e così via. Questo è molto sbagliato. 

Il compagno BORME risponde al compagno Michelazzi che la sua esposizione è unilaterale. Dice 
che le due “tendenze” citate dal compagno sono due cose inscindibili che non si possono separare. 
Bisogna tener conto di una tendenza ma anche dell’ altra. L'Unione ha sempre portato energicamente 
a termine il suo compito e questo lo ha affermato anche il compagno Spiljak all’ Assemblea di Pola. 
L’Unione è da elogiare per la sua attività. I piccoli avvenimenti di intolleranza nazionale che 
avvengono ogni giorno sono cose che si potrebbero lasciar passare e di poco conto, ma quando queste 
intolleranze avvengono da parte delle autorità allora no bisogna permettere che ciò avvenga. 

Il compagno Spiljak nella sua esposizione a Pola ha condannato l’asserzione di Michelazzi, ha 
detto che alla minoranza bisogna permettere uno sviluppo di minoranza come tale. 

Ogni anno ritorna di moda il problema dalle scuole. L’Unione aveva formato una Commissione 
per risolvere il problema. Questo problema pareva risolto, ma ora siamo nuovamente daccapo. Gli 
insegnanti hanno ragione a lamentarsi quando vedono questa instabilità della popolazione scolastica. 

Si dovrebbe istituire presso le scuole elementari italiane degli asili infantili dove si preparano i 
bambini per la scuola, così, come esistono in lingua croata. 

Ripeto poi le proposte da me fatte all’ Assemblea in merito alla pubblicazione di libri e di opuscoli 
da smerciare in Italia per propagandare la nostra realtà socialista, in relazione poi alla raccolta di 
materiale teatrale, musicale, ecc. di modo che la Casa editrice EDIT stampi a ciclostile diverse copie 
da distribuire ai CIC che ne facessero richiesta per le loro attività. 

Per quanto riguarda il problema del Teatro, precisamente del Dramma Italiano, penso che non 
siano ancora mutate le condizioni per le quali è stato costituito, anzi, al contrario, dato il maggiore 
sviluppo della minoranza è più che mai necessario. Bisogna tener solo in considerazione che il 
Dramma deve avere un carattere regionale poiché la minoranza non risiede solamente a Fiume. Ma 
questo dipende dalla questione finanziaria e l’unica soluzione sarebbe che il Dramma venisse 
sovvenzionato dalla Repubblica e non pesasse esclusivamente sui bilanci della città di Fiume. 

Prende la parola poi il compagno SCHACHERL il quale dice, rispondendo al compagno 
Michelazzi, che è logico che nelle fabbriche non succedono e non si manifestano problemi di 
intolleranza nazionale. Nelle fabbriche sono tutti d’accordo nella realizzazione dei diritti sociali. Ma 
nell’ambiente culturale questi fatti se si verificano sono conseguenza logica, è più evidente. Di fatto 
bisogna ammettere che ci sono elementi che hanno tendenze negative di eliminare le scuole della 
minoranza. Logico ed ammissibile è che a molti non sono chiari i problemi delle scuole italiane, ad 
esempio, anche a Zagabria ad una riunione della commissione scolastica della minoranza alcuni 
compagni avevano detto di adottare l'insegnamento in lingua croata di alcune materie anche nelle 
scuole italiane; ma una volta chiarita la questione sulla cosa non s’è discusso più. Di questi fatti invece 
possono approfittarne alcuni elementi sciovinisti locali facendosi scudo con qualche dichiarazione 
fatta da alcuni compagni del centro perché poco al corrente dei fatti. 

Anch’io sono d’accordo con il compagno Borme che l’Unione deve interessarsi alla partecipa- 
zione degli italiani alla vita sociale ma che d’altra parte non deve neanche trascurare questi fatti 


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d’intolleranza nazionale. Noi dobbiamo smascherare gli elementi sciovinisti come pure quelli irre- 
dentisti. 

Ammetto però che fra gli insegnanti, specie quelli che non hanno fatto gli esami professionali 
esiste la tendenza a pensare al loro futuro. Considerano una tragedia l’assimilazione della popolazione 
scolastica italiana in quella croata. Io non la vedo invece così, sempre naturalmente tenendo conto 
che questa assimilazione avvenga per vie naturali e non amministrative. La preoccupazione per il 
futuro regna solo tra gli insegnanti mentre tra i professori no. 

Il compagno MOSCARDA prendendo la parola critica 1’ Unione degli italiani che ha aspettato 
tanto tempo dopo l'Assemblea prima di riunire il Comitato dell’Unione. Dice inoltre che questa 
questione delle “correnti” doveva venir risolta prima e non attendere tanto tempo. 

Alla recente Assemblea il compagno Spiljak ha, in poche parole, dato l’indirizzo d’attività 
dell’Unione. Ha detto che l’ Unione deve preoccuparsi dell’elevamento culturale della minoranza, 
della partecipazione degli italiani alla vita sociale, dello sviluppo dei rapporti con l’Italia. L’esposi- 
zione fatta dal compagno Benussi non ha citato nulla di cosa è stato fatto dall’ Unione in questo senso. 
Il compagno Michelazzi dice bene che dobbiamo tracciare una linea d'attività. Noi a Pola abbiamo 
adottato le conclusioni dell’ Assemblea e si lavora in questo senso. All’infuori di un piccolo incidente 
sorto per via della sede del CIC dove alcuni elementi hanno approfittato per lanciare la voce che si 
vuole eliminare il CIC, tutto è andato per il meglio. L’attività è stata buona. La questione della sede 
del CIC è così stato deciso, siccome a Pola non esiste una casa di cultura, di alzare di un piano l’attuale 
casa in cui ha sede il CIC ed installarvi questa casa di cultura. Ma nessuno ha mai parlato che si vogli 
far sloggiare il CIC. 

Il compagno BORME riprende la parola e dice che l'osservazione fatta dal compagno Moscarda 
in merito ai collegamenti con l’estero è buona. L’ Unione dovrebbe interessarsi in merito. 

Afferma inoltre che quanto detto da Schacherl sulla questione che gli incidenti di intolleranza 
nazionale succedono più nell’ambiente culturale che in quello operaio, è pienamente giusto. Nelle 
fabbriche non c’è ragione che succedano simili cose. 

Il compagno QUICCHI prende la parola e dice che l’attività del CIC di Pola va abbastanza bene. 
Accenna però che il direttore dell’ Università popolare che ha sede nei locali del CIC s’è autoprocla- 
mato il padrone dell’edificio. Tutti si rivolgono a lui per chiedere in prestito la sala per qualche 
rappresentazione ed egli dispone di tutto. Questo ha portato a dei malcontenti fra i nostri compagni. 
Ma queste sono piccole cose. In una riunione che avevamo tenuto pochi giorni fa con le maestre esse 
si lamentano di incomprensione. Noi avevamo stabilito di organizzare per il I° Maggio uno spettacolo 
per i bambini delle scuole italiane, ma i dirigenti delle scuole si sono opposti ed hanno detto perché 
gli scolari italiani debbono essere più privilegiati. 

Per quanto riguarda gli svincoli anchio sono del parere che questi che vanno via oggi sono operai 
coscienti. 

La fusione di tutte le scuole italiane ha portato a dei buoni risultati, solamente esiste un problema 
per quanto riguarda le aule scolastiche per cui i bimbi sono costretti a giorni a venire a scuola al 
pomeriggio ed altri al mattino. 

Parla quindi il compagno JADREIJCIC il quale dice che per quanto riguarda le aule scolastiche il 
problema non è solo per le classi italiane bensì anche per quelle croate. Per quanto riguarda poi il 
direttore dell’ Università popolare è un elemento che è stato anche ultimamente richiamato all’ordine 
dal Partito. Questi fatti che vengono riportati dovrebbero venir discussi anche altrimenti. Il più delle 
volte succede che questi fatti vengono provocati più dagli italiani che dai croati. Per quanto riguarda 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 95 


poi la rappresentazione per il I° Maggio che il CIC voleva organizzare. I ragazzi a scuola vivono 
assieme ai croati, perché fare per loro delle rappresentazioni a parte? 

Il compagno CUOMO accenna che nella riunione della Segreteria tenuta nel mese di gennaio si 
aveva anche accennato a queste diversità di opinioni e pertanto si aveva concluso di discuterne in 
merito anche all’odierna riunione. Relatore doveva essere il compagno Massarotto e ciò che è stato 
esposto da Benussi non sono altro che opinioni personali che non hanno nulla a che vedere con 
l’opinione della Segreteria. Io sono dell’opinione che è logico che l'Unione s’interessi sia di una 
tendenza che dell’altra, ma penso invece che si voglia dare più importanza alla tendenza riguardante 
i problemi di intolleranza nazionale che a quella di indirizzare gli italiani alla vita sociale ecc. Penso 
che si cerchi di sviare i problemi della minoranza con scopi tendenziosi. Si cerca di criticare tutto e 
di sminuire la partecipazione degli italiani alla vita sociale. Pochi sono oggi gli italiani che si elevano 
politicamente ed ideologicamente. Qualcuno è che cerca di rompere l’unità fra gli italiani. Dall’ As- 
semblea ad oggi, cosa abbiamo fatto per portare in atto le conclusioni? Niente. Si cerca solo di pescare 
nel torbido i piccoli fatti e di creare con questi fatti dei problemi. Noi non dobbiamo erigersi come 
difensori dell’italianità. 

In merito al problema del Dramma italiano. Non si cerca di eliminare il Dramma bensì di 
riorganizzarlo, che alcuni membri passino alla SACO “Fratellanza” e che lavorino in seno alla CIC. 
Perché esigere dei privilegi solo perché siamo italiani. Il Dramma costa molto. Perché il nostro stato 
deve pagare per tutto l’anno degli attori che danno in tutto 6 commedie. Poi c’è un altro problema, 
perché il C. P. di Fiume deve sobbarcarsi tutte le spese del Dramma. Noi pensavamo di dare una parte 
di questo danaro al CIC affinché non sia costretto a organizzare balli per vivere. 

Il compagno BOGNA prende la parola e dice che non si può dire che l'Unione non ha fatto niente 
dopo l'Assemblea. Il compagno Benussi è andato più volte sul terreno, gli altri membri della 
Segreteria invece si sono poco recati sui posti a vedere come funzionano i CIC. È inutile qui stare a 
ripetere qual è l'indirizzo d’attività dell’ Unione. Questo l’ Unione lo sa perché già tante volte s’è già 
discusso in merito. Se esistono tendenze esse si verificano in basso ma no nell’Unione che sa la linea 
da intraprendere. 

I CIC spendono poco per l’elevamento culturale (biblioteche, ecc.) della minoranza. Basti citare 
il caso del CIC di Fiume che nel corso del 1955 ha speso solo 5000 dinari per questo. 

Il compagno BRUSSICH afferma che nel corso della discussione odierna ci siamo perduti in 
polemiche. Noi oggi qui dobbiamo trovare o metodi di lavoro, si potrebbe discutere se il sistema di 
lavoro e commissioni adottato dal Circolo di Pola è buono e se si potrebbe applicarlo anche negli altri 
Circoli. Per quanto riguarda poi l’organizzazione della celebrazione per il I Maggio che avevamo 
intenzione di organizzare per i bambini delle scuole italiane, penso che se si organizzano delle cose 
che rientrano in seno delle nostre leggi tutto si può fare. Quando uno lavoro onestamente tutto è buono 
quello che si fa. 

Prende la parola il compagno ABRAMI il quale afferma che dalla discussione di oggi egli non è 
per nulla riuscito ad intravedere le due tendenze a cui menziona il compagno Michelazzi. Sono 
anch'io senz'altro del parere di non dare risalto a quei piccoli fatti di valore locale. D'altra parte sono 
però d’accordo d’incanalare gli italiani nella vita sociale ma nello stesso tempo di educare gli italiani 
nello spirito nazionale. Noi sappiamo che la linea dell’Unione è questa. Dobbiamo vedere se i CIC 
seguono questa linea e non si vada avanti solo con l’organizzazione di balli e basta. Non è necessario 
doppiare il lavoro del SSRN, ma ci sono delle località in cui bisogna fare anche questo. Ormai è chiaro 
come che bisogna agire nelle scuole se si verificano dei problemi se gli alunni sono croati o italiani, 


96 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


è chiaro che bisogna reagire immediatamente sul luogo. I CIC debbono interessarsi delle scuole, del 
contenuto dell’insegnamento, il CIC deve essere di complemento al lavoro del SSRNIJ. 

Il compagno KRAJCER del Comitato distrettuale di Pola porta i saluti alla presente riunione ed 
augura un buon successo nel lavoro. Cosaeglipensa che l’ Unionedeve fare. In Jugoslavia il problema 
nazionale è risolto. Nella nostra regione la situazione è tale che anche gli optanti non si sa bene se 
sono italiani o croati. Gli uomini scappano oltre confine indipendentemente se sono italiani o croati 
perché non comprendono la nostra vita e le nostre difficoltà e per conseguenza alla nostra questione 
economica. Da noi si è fatto un grande passo in avanti con la costituzione dei consigli operai e questo 
progresso è valido anche per la minoranza i cui membri oggi possono far parte di questi consigli 
operai. Da noi non si guarda se nei consigli ci sono più italiani che croati, si guarda l’uomo che sia 
bravo e dia buone garanzie. L’ Unione degli italiani non è solo necessaria per difendere i diritti della 
minoranza, ma è necessario come una qualsiasi delle altre nostre organizzazioni. 

Il compagno MICHELAZZI avanza le seguenti proposte: che l’ Unione si tenga informata di 
quanti italiani fanno parte nei consigli operai e nella vita sociale in genere. Fare un’analisi di modo 
che la prossima volta si possa discutere in modo esauriente. Poi in relazione ai rapporti con l’estero, 
portare concretamente la cosa. In poche parole dare compiti più concreti alla Segreteria. Inoltre in 
relazione alla scuola. Non conoscere solo i dati numerici ma anche come lavorano i Consigli scolastici 
ecc. Conoscendo tutti questi dati si potrà più avere la possibilità di analizzare il lavoro degli italiani. 

Prosegue il compagno JADREICIC dicendo che il metodo adottato dal CIC di Pola si è dimostrato 
molto buono e che esso potrebbe venir adottato, dove ne esista la possibilità, anche negli altri CIC. 

Il compagno MOSCARDA aggiunge che i CIC lavorino maggiormente con la gioventù per 
preparare nuovi quadri dirigenti. 

Prende la parola il compagno BENUSSI il quale dice che qualcuno vuol far credere che quanto 
da lui esposto siano cose prettamente personali. Il compagno Benussi legge alcuni passi del verbale 
dell’ultima riunione della Segreteria per far vedere che quanto da lui riportato è stato trattato 
veramente dalla Segreteria. Afferma inoltre che non si può dire che l’ Unione non ha fatto nulla. Essa 
ha sempre lavorato in linea con le conclusioni dell’ Assemblea. Il compagno Benussi afferma 
categoricamente che non è vero che l'Unione si interessa esclusivamente dei piccoli problemi e 
trascura i problemi principali. Che oggi si vuole accusare la Segreteria. Ma ognuno si prenda la 
propria responsabilità come egli saprà rispondere per i propri atti. 

A questo punto sorge un piccolo scambio di parole in cui i compagni affermano che nessuno ha 
voluto accusare la Segreteria. 

Il compagno BRUSSICH propone che all’odierna riunione si formi una Commissione che 
stabilisca le tesi per un piano di lavoro da inviare a tutti i CIC. 

In un primo tempo si fanno dei nomi per formare la Commissione, ma poi si conclude che le tesi 
vengano preparate dalla Segreteria e che la Segreteria le invii ai CIC. 


Si passa quindi al secondo punto dell’ordine del giorno. 

La compagna ELDA legge una relazione che è allegata al presente verbale. 

Dopo di ché ha inizio la discussione sui problemi della stampa. 

Prende la parola il compagno QUICCHI il quale dice che a Pola esiste proprio un problema per 
quanto riguarda la diffusione dei libri. Afferma inoltre che le maestre vorrebbero che il “Pioniere” 
porti di più materiale per i ragazzi delle prime classi elementari. Manca il libro di aritmetica per la II 
classe. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 97 


Per la stampa propone che “Panorama” esca mensile con carta migliore e più pagine e che si 
dedichi maggior spazio per le donne. Propone di organizzare a Pola una mostra del libro della EDIT 
per poter vedere. 

Il compagno SCHECHERL porta a conoscenza che Scuola Nuova non uscirà più e che al suo 
posto si stamperanno a ciclostile dei sussidiari per gli insegnanti. 

Il compagno GOBBO dice che a Pirano tra breve si aprirà una nuova tipografia così si migliorerà 
il lavoro della EDIT. 

La compagna ELDA dice che due o tre mesi fa la direttrice del Pioniere aveva tenuto una riunione 
con tutte le maestre di Pola ma che a questa riunione non erano stati portati questi problemi. 

Il compagno BORME dice che la EDIT dovrebbe raccogliere materiale musicale e filodramma- 
tico da stampare a ciclostile e poi vendere ai CIC che ne fanno richiesta. 

Propone inoltre che anche gli altri CIC organizzino la mostra del libro. Egli dice che subito dopo 
Pola si potrebbe organizzare a Rovigno. 

Il compagno BOGNA dice che la proposta di far uscire PANORAMA mensile non è buona. Con 
questo la carta del giornale non migliorerebbe e si avrebbe un discapito invece di un miglioramento. 

Il compagno GOBBO accenna alla possibilità della fusione tra la “VOCE” e “LA NOSTRA 
LOTTA”. Dice che “LA NOSTRA LOTTA” in questo ultimo tempo è poco diffusa, si vendono circa 
2000 copie. Poi anche c’è la questione che il distretto di Capodistria sovvenziona già la Radio con 15 
milioni all’anno ed altri 5 per il suddetto giornale. Pensa invece che dando una parte di questi soldi 
alla “VOCE” e facendola diffondere in quel territorio si avrebbe lo stesso risultato, mentre con i soldi 
rimanenti sovvenzionare i CIC del territorio dando loro la possibilità di una maggiore attività. 
Propone che si decida in merito nel corso dell’odierna riunione. 

Ancor prima dell’intervento del compagno Gobbo il compagno Benussi porta a conoscenza il 
Comitato che l'Unione ha organizzato delle riunioni a Pola, Fiume e Capodistria per discutere in 
merito a queste consultazioni. 

Il compagno MICHELAZZI dice che la proposta non è cattiva. Che attualmente la “VOCE” 
riceve 15 milioni all’anno più i 5 della Nostralotta fanno 20 che il nostro stato deve sborsare, mentre 
con solo 17 milioni la VOCE può benissimo uscire in sei pagine riportando materiale del territorio 
dell’ex zona B. Le critiche e le proposte fateci in queste consultazioni sono state molto costruttive. 
Per migliorare esteticamente il giornale non possiamo far nulla, ma come contenuto possiamo fare. 

Il compagno BENUSSI propone che la Segreteria studi la cosa e poi la risolva. 

In linea di principio tutti i presenti sono d’accordo per la fusione. Si propone che Michelazzi prenda 
dei contatti con la Nostra lotta e presenti delle proposte concrete. Che tutto ciò si faccia entro questo mese. 


Si passa quindi al terzo punto dell’ ordine del giorno. 

Il compagno BENUSSI porta a conoscenza della questione della delegazione. Si conclude che la 
Segreteria formi una Commissione e organizzi come e dove portare questi ospiti. 

Per quanto riguarda il Festival radiofonico che la Segreteria prenda contatti con Radio Capodistria 
e formi anche qui una commissione. 

Si parla poi sulla questione del Dramma Italiano. Si dice che in nessun caso il Dramma deve venir 
sciolto. Logico è che attualmente il Dramma pesa col suo bilancio su Fiume. Ma si dovrebbe trovare 
una soluzione per ricevere la sovvenzione della repubblica e che il Dramma abbia un carattere 
maggiormente regionale. Perché tramutarlo in filodrammatica non ci da alcuna garanzia. 

Dopo di che la riunione ha termine. 


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COMMISSIONE IDEOLOGICO-POLITICA 


La Commissione ideologico-politica s’è riunita il giorno 4-XI-1958. 
Presenti: Benussi, Bradicic Elda, Fioranti Bruno. Assenti: Tomasin Plinio e Susanj Zdenka. 


Sono state formate recentemente presso l’ Unione degli Italiani delle commissioni che dovranno 
svolgere la loro attività in tutti i campi. Noi siamo stati nominati membri della Commissione 
ideologico-politica e questo vuol dire che il nostro compito è quello di educare la nostra minoranza 
attraverso i nostri Circoli. Dobbiamo lavorare politicamente più di quanto abbiamo fatto finora. Dalla 
relazione presentata alla nostra IX Conferenza abbiamo constatato che esiste fra la nostra minoranza 
un certo rilassamento per quanto riguarda l’attività politica, però dobbiamo ammettere che ciò si 
verifica anche su scala nazionale. Certo è però che i nostri Circoli si sono dati maggiormente da fare 
nel campo artistico-culturale che in quello politico. Questo rilasso dell’attività politica da parte dei 
CIC ha portato di conseguenza ad una diminuzione di iscrizioni alla Lega dei comunisti di membri 
appartenenti alla nostra minoranza. Se diamo uno sguardo al numero degli abitanti della nostra 
minoranza e la percentuale degli appartenenti alla Lega possiamo chiaramente constatare che siamo 
di gran lunga inferiori ai compagni jugoslavi. 

Dobbiamo pure ammettere che la maggioranza dei dirigenti dei nostri Circoli sono oberati da altri 
incarichi nelle altre organizzazioni politiche e sociali per cui non possono e non vogliono dedicarsi 
al lavoro tra la minoranza. Se avessero un po’ di buona volontà troverebbero il tempo da dedicare alla 
minoranza. 

Esiste pure la tendenza in mezzo a qualche compagno che non sente di lavorare ed educare la 
nostra minoranza dicendo che è superfluo lavorare con la minoranza a parte, cioè che tutti dovrebbero 
imparare la lingua croata ecc. Possiamo ammettere che la nuova generazione può facilmente 
apprendere la lingua croata al contatto con i compagni di lavoro, nelle cooperative, nelle fabbriche 
ecc. Ma noi abbiamo centinaia e centinaia di vecchi agricoltori e operai che, anche se comprendono 
qualcosa della lingua nazionale, ma nelle organizzazioni di massa dove vengono trattati problemi 
politici ed economici essi non possono comprendere tutto il senso della discussione, e da questo 
deriva che spesso i nostri compagni non sono attivi nelle organizzazioni di base. 

Il lavoro politico nella nostra industria fra la nostra minoranza viene pure trascurato da parte di 
certi dirigenti. I compagni della minoranza italiana hanno diminuito la loro attività. Per esempio le 
riunioni di fabbrica si fanno dopo il lavoro ed a Fiume e Pola molti compagni per non perdere il treno 
per rincasare non partecipano alla riunione e la loro attività è quindi minima. È quindi dovere dei CIC 
in accordo con le cellule del terreno di attivizzare questi compagni nelle nostre varie organizzazioni 
politiche e culturali. 

Le conclusioni del VII Congresso non valgono esclusivamente per i compagni croati e sloveni, 
ma anche per un più intenso lavoro politico e ideologico tra la nostra minoranza. Questo lavoro 
specifico deve venir svolto dai compagni comunisti del Circolo Italiano di cultura. 

Le constatazioni della nostra IX Assemblea sulla passivizzazione politica dei nostri connazionali 
fanno ricadere la responsabilità sui comunisti italiani. Queste lacune devono venir eliminate entro il 
più breve tempo possibile e questo sarà il compito della nostra Commissione. 

I nostri circoli devono quindi interessarsi maggiormente delle scuole e dell'educazione che viene 
data alla nuova generazione. Ed è proprio che nella scuola bisogna creare quella coscienza socialista 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 99 


della nuova generazione. Inoltre poco abbiamo fatto per attivare il corpo insegnante nell’attività 
politica. Dei 160-170 tra insegnanti e professori pochissimi fanno parte della Lega. In certe località 
gli insegnanti sono isolati dal Circolo oppure essi stessi si tengono appartati dalle organizzazioni di 
massa. Se qualcuno svolge qualche attività essa consiste nell’attività culturale, ma ben pochi sono 
quelli che tengono conferenze politiche o su altri temi sociali. Nell’avvenire sarà necessario mobili- 
tare in questo campo i compagni insegnanti. 

Sarà pure necessario che la nostra Commissione si colleghi con i dirigenti delle organizzazioni 
politiche nell’industria, affinché si tenga conto di quei lavoratori che hanno tutte le caratteristiche di 
divenire dei buoni membri della Lega e che finora sono stati lasciati da parte. 

In quanto alla stampa straniera che giunge nel nostro Paese, dobbiamo cercare di fare opera di 
persuasione tra i nostri connazionali, consigliandoli di leggere la nostra stampa. Bisogna trovare il 
modo di boicottare certa stampa scandalistica, romanzi fantastici ed altra letteratura gialla che 
corrompe la coscienza della nostra gioventù. 

Sulla nostra Commissione incombe un compito duro e difficile però noi siamo certi che con 
tenacia e costanza ognuno di noi darà tutto di se stesso per portare a termine il suo impegno in breve 
tempo la situazione esistente sarà migliorata. 


Andrea Benussi 


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VERBALE DELLA RIUNIONE DELLA SEGRETERIA 
DEL GIORNO 13-I- 1959 


Presenti: Cuomo, Drog, Benussi, Glavina, Raunich, Gobbo, Abram, Moscarda, Bogna, Borme, 
Michelazzi e il compagno Ante Soric. Assenti: Massarotto, Tomasin e Susanj. 


Ordine del giorno: 
1.Alcuni problemi del nostro lavoro futuro 
2.Relazione della Commissione sulle scuole. 


Il compagno Gobbo sottolinea che nella riunione odierna si dovranno prendere certe decisioni in 
merito a nuove forme di lavoro, specie nel nostro campo editoriale. Afferma inoltre che la base di 
questa riorganizzazione del lavoro non sta sulla questione finanziaria, per mancanza di mezzi ma per 
una migliore e più buona applicazione dei fondi che vengono annualmente assegnati all'Unione. 
Quindi le nuove forme di lavoro che sottoporremo oggi all’approvazione della Segreteria oggi sono 
state ideate per un miglioramento generale del lavoro e per la diminuzione di alcune spese. Prima di 
tutto s'è pensato di raggruppare VOCE, EDIT, Panorama, Pioniere e Unione in un unico Ente con 
una unica amministrazione. Le sovvenzioni dovrebbero venir assegnate direttamente all’ Unione e 
sarà essa a disporre completamente delle stesse. Anche il Dramma italiano dovrebbe essere sotto il 
controllo diretto dell’Unione. Sarebbe veramente ancora da discutere sul ruolo del Dramma italiano 
e se esso svolge la sua funzione come dovrebbe. Comunque queste sono cose che verranno discusse 
più avanti e fintanto che il Dramma esiste esso dovrà dipendere dall’ Unione. Su questa base, in un 
secondo tempo dovrà basarsi anche tutta l’attività pubblicistica. L'Unione italiana dovrà seguire 
l’attività di tutti i poeti, scrittori, ecc. della minoranza. 

Per svolgere questa plurilaterale attività l'Unione ha bisogno qui di una persona capace, di un 
segretario tecnico che organizzi e si occupi di tutto, sempre in contatto con il segretario dell’ Unione. 
Questo segretario tecnico dovrebbe essere il dirigente di questo nuovo Ente. Io penso che la persona 
più idonea a svolgere questa funzione sia il compagno Giacomo Raunich. 

Il compagno Benussi dice che risolvere il problema del Dramma italiano è una cosa molto 
difficile. I fondi del Dramma vengono assorbiti dal Teatro. Egli pensa che il Dramma dovrebbe avere 
una certa autonomia. Indi, legge il programma di lavoro del Dramma italiano presentato dal 
compagno Ramous su richiesta della Segreteria dell’ Unione. 

Il compagno GOBBO dice che nonostante più volte sia stato richiesto al compagno Ramous un 
programma dettagliato d’attività nel quale siano specificate anche le spese, egli ha presentato oggi un 
programma astratto dal quale non ci si può fare neanche la più pallida idea della situazione del 
Dramma. Questo fatto è riprovevole in quanto si vede che il direttore del dramma italiano non è 
approfondito sulle questioni della sua sezione. 

Il compagno BORME sottolinea che prima di tutto la segreteria dovrebbe prendere una posizione 
se il Dramma italiano deve o no esistere e poi appena in seguito stabilire la riorganizzazione del 
Dramma. 

Il compagno SORIC, afferma che finora il Dramma italiano non ha svolto la funzione che avrebbe 
dovuto svolgere e che se esso continuerà la sua attività così come finora; una migliore soluzione 
sarebbe quella di assegnare la stessa somma che ora viene assegnare al Dramma alle varie sezioni 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 101 


filodrammatiche delle Società artistico-culturali della minoranza. Il profitto ne sarebbe maggiore. 

Anche il compagno CUOMO è d’accordo nel dire che l’ Unione dovrebbe prendere una volta per 
sempre una posizione nei confronti del Dramma italiano. 

Il compagno SORIC precisa che c’è una grande differenza tra le altre minoranze in Jugoslavia e 
la nostra. Mentre per le altre vengono assegnati circa 7-8 milioni di dinari all’ anno, la nostra nel 1959 
ha richiesto 85.000.000. Dice inoltre che egli s’è approfondito sullo studio delle minoranze nel mondo 
e che in nessun altro Paese esistono delle minoranze così largamente sovvenzionate dallo Stato. 

Il compagno GOBBO e ABRAM obiettano qualche argomento. 

Il compagno GLAVINA dice che bisogna prendere delle conclusioni in merito al nuovo indirizzo 
di attività dell’ Unione e fa le seguenti proposte: 

1.Tutti i mezzi finanziari vengano assegnati all’ Unione che li amministrerà; 

2.Formazione di un ente editoriale dell’ Unione su base sociale che si occupi dell’attività editoriale 
anche di quella amministrativa. Entro questo mese fare lo statuto di questo nuovo ente e legalizzarlo. 
Che il compagno Raunich prepari lo statuto assieme ai dirigenti della VOCE, EDIT, Pioniere. 
Preparare anche il nuovo bilancio e tutto questo molto in fretta. 

3.Per quanto riguarda il dramma italiano penso che esso occorre solo se svolge la sua attività in 
mezzo a tutta la nostra minoranza dell’Istria, altrimenti non sarebbe necessario. L’ Unione dovrebbe 
prendere in mano questo problema, stipulare dei contratti d’affari con il teatro Ivan Zajc e vedere 
come stanno le cose in generale. 

4.AIl’EDIT togliere tutti i libri di letteratura. Essa dovrebbe occuparsi esclusivamente di libri 
scolastici. 

S.AI PIONIERE togliere la pagina a colori. 

6.II PANORAMA da 36 pagine venga portato a 24. 

7.Per la VOCE esiste il problema delle 6 o 4 pagine. 

Anche il compagno GOBBO è d’accordo di fare un contratto con il Teatro ed è certo che questo 
porterà a dei risparmi. 

Il compagno ABRAM dice che se c’è il problema del risparmio non sia però il caso di restringere 
l’attività. Egli non è d’accordo con la riduzione delle pagine del Panorama e di ridurre la VOCE a 4 
pagine. Che questo nuovo ente veda di risparmiare e di ridurre la VOCE a4 pagine. Che questo nuovo 
ente veda di risparmiare e di non sbollire. Dobbiamo essere sinceri che quello che abbiamo non è 
molto e non sarebbe il caso di ridurlo ancora di più. Per quanto riguarda il Dramma sono d’accordo 
che esso esista ma che però svolga la sua funzione tra la minoranza. 

Il compagno RAUNICH afferma che l’importo richiesto quest'anno è veramente alto. Mentre da 
una parte dobbiamo ridurre lo spreco, dall’altra dobbiamo anche ridurre qualcosa. Penso che per 
quanto riguarda il Pioniere, levando la copertina a colori non perda molto. Una bella fotografia 
potrebbe fare al caso. Con questa piccola riduzione si avrebbe già un risparmio di 120.000 dinari per 
numero. Per quanto riguarda la VOCE se in 6 o 4 pagine sono del parere che la minoranza non 
perderebbe niente se come prima si stampasse la pagina istriana e quella fiumana; cioè un determinato 
numero di copie esca con la pagina fiumana e le altre, quelle che vanno in Istria con le pagine istriane. 
Così praticamente la VOCE uscirebbe ogni giorno in 5 pagine. 

Per quanto riguarda Panorama sarei del parere che invece di farlo uscire quindicinalmente con 24 
pagine, di farlo diventare mensile con 48 pagine. 

Per quanto riguarda la EDIT sono del parere che stampi esclusivamente i libri scolastici, che 
importi dall’Italia libri di letteratura (e con questa attività invece di perdere guadagni) ed in più che 


102 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


stampi qualche libro politico o qualche altro libro molto importante per il quale si farà una richiesta 
separata della sovvenzione. 

Il compagno BOGNA dice di essere d’accordo su quanto detto dal compagno Raunich solo che 
è dell’opinione che Panorama piuttosto di uscire in 24 pagine esca una volta al mese in 48. Per quanto 
riguarda la VOCE non è d’accordo che vada in 4 pagine. 

Il compagno SORIC esprime il suo parere secondo il quale la VOCE dovrebbe diventare un 
giornale settimanale tipo “Globus”. 

Il compagno GOBBO ribatte che questa decisione non sarebbe opportuna e che la minoranza 
perderebbe molto. Indi invita singolarmente ogni membro della Segreteria a dire il suo parere in merito. 

Il compagno MICHELAZZI dice che se la VOCE va in 4 pagine in poco tempo la tiratura 
scenderebbe considerevolmente tanto da compromettere l’uscita del giornale. Sarebbe quindi del 
parere che oggi si decida o per la VOCE in 6 pagine o addirittura della VOCE settimanale. Per lui 
altre alternative non ci sarebbero. 

Il compagno MOSCARDA dice che da quando la VOCE è in 6 pagine i compagni della base sono 
molto contenti. Quindi sostiene per le 6 pagine. 

Il compagno BORME dice che passa una bella differenza tra un quotidiano e un settimanale, sono 
giornali che hanno una diversa funzione. Mentre il quotidiano è un informatore politico un settima- 
nale diverrebbe un surrogato di Panorama. Quindi egli è per la tesi o 6 pagine o piuttosto niente. Per 
quanto riguarda la EDIT è d’accordo, invece per la riduzione di Panorama sarebbe ancora da 
discutere. 

Il compagno RAUNICH afferma anch'egli che un settimanale diverrebbe un secondo Panorama. 
Mentre un quotidiano riporta i problemi tempestivi, segue gradatamente lo svolgimento degli stessi, 
un settimanale deve limitarsi a trattare largamente senza seguire lo svolgimento di questi problemi. 
Anch’egli non è d’accordo per il settimanale. 

Il compagno GLAVINA non è d’accordo per il settimanale anche perché esso richiederebbe 
personale maggiormente qualificato, ciò che è impossibile da noi. Per quanto concerne Panorama è 
d’accordo per la sua uscita mensile in 48 pagine. 

Il compagno BENUSSI è anch’egli d’accordo per le 6 pagine affermando che da quando la 
VOCE è in 6 pagine ha ottenuto maggiori successi tra i lettori. Si dovrebbe però migliorare ancora, 
istituire la rubrica peri contadini. Per quanto riguarda Panorama è d’accordo per mensile e 48 pagine. 

Il compagno DROG è invece d’accordo con il compagno Soric per quanto riguarda di fare la 
VOCE settimanale. Dice che il giornale non è tanto bello. Oppure se la VOCE restaa 6 pagine bisogna 
migliorarla. 

Il compagno CUOMO dice che per il momento non sarebbe il caso di discutere per la VOCE 
settimanale. Siamo stati noi ad approvare le 6 pagine sebbene quella volta le condizioni erano anche 
diverse (periodo della venuta in Jugoslavia di Alicata e probabilità di vendita del giornale anche in 
Italia). Comunque sono d’accordo con Drog che bisogna migliorare il contenuto del giornale. 

Per quanto riguarda Panorama si dovrebbe maggiormente rafforzarlo e non diminuirlo in quanto 
penso che nel futuro egli resterà l’unico giornale della minoranza. 

Il compagno SORIC dice che non dobbiamo farci l’illusione che i nostri giornali, come in genere 
i giornali e le riviste di tutta la Jugoslavia superino tecnicamente quelli italiani. La nostra industria 
grafica è ben lungi dal raggiungere un livello pari a quella italiana; noi però dobbiamo distinguerci 
per il contenuto. La VOCE non ha niente di originale nonostante i suoi corrispondenti (grandemania). 
La maggior parte del materiale riportato è tutto traduzione. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 103 


Il compagno ABRAM dice che eliminando la VOCE si eliminerebbe l’unico giornale socialista 
in lingua italiana. Egli non si fa illusioni sulla diffusione del giornale in Italia ma è significativo il 
fatto che certi dirigenti del Partito comunista italiano del goriziano si fanno mandare la VOCE di 
nascosto. 

Il compagno RAUNICH dice che realmente in questo ultimo tempo il giornale è molto migliorato 
anche dal lato linguistico. Solo che bisogna dare il ritmo. 

Si conclude quindi: 

1.La formazione dell’ente con amministrazione unificata 

2.Direttore dell’ente il compagno Giacomo Raunich 

3.Il PIONIERE senza la copertina a colori 

4.Panorama mensile a 48 pagine 

S.Per quanto riguarda la VOCE che il problema resti ancora vivo. Si preparino i bilanci con due 
varianti per 6 e per 4 pagine. Nonché in seguito si faccia un “anketa” (sondaggio, nda) tra la 
minoranza sull’opportunità o meno del quotidiano o settimanale. 

6.Che la EDIT pubblichi esclusivamente libri di testo, qualche opuscolo politico, libri economi- 
camente indipendenti e importanti dall’Italia e pubblicazioni. 

7.Sì faccia quindi lo Statuto dell’Ente, si nomini il comitato direttivo e il Consiglio editoriale del 
quale dovrebbero far parte rappresentanti di tutti i tre distretti e dell’ Unione. 

8.Che i compagni Cuomo, Benussi e Glavina, assieme al compagno Raunich concretizzino 
quanto di cui sopra (formazione dell’Ente, liquidazione degli attuali enti, ecc.) tenendo conto il lato 
umano della faccenda, nel caso dei licenziamenti. 

9.Non appena tutto questo sarà pronto (possibilmente entro la fine di questo mese ed al massimo 
subito ai primi giorni di febbraio), indire la riunione del Comitato dell’ Unione. Il compagno Glavina 
stabilirà la data precisa. 

10.Per quanto riguarda il bilancio per il 1959 orientarci su quello che abbiamo ricevuto nel 1958 
calcolando a parte il deficit di questi ultimi anni. 

11.Si conclude che le sovvenzioni vengano assegnate all’ Unione dalla Repubblica di Croazia e 
Slovenia in proporzione al numero degli abitanti. 

12.Per quanto concerne il Dramma italiano che il direttore dello stesso prepari un programma 
dettagliato e rispettivo bilancio. Si conclude che esso svolga la sua attività sotto il controllo e 
l’amministrazione dell’Unione. 

13.Alla riunione del Comitato trattare gli stessi punti dell’ordine del giorno della riunione 
odierna. 


Si passa quindi a trattare del problema della trasmissione in lingua italiana di Radio Fiume. Si 
dice che essa è sotto ogni critica. Si conclude che il compagno Abram Mario di Radio Capodistria 
s’incarichi di vedere se si potrebbe fare qualcosa di meglio, e che alla prossima riunione del Comitato 
si sappia dire qualcosa in merito. 

Dato che la riunione odierna s'è protratta fino a tardi, il punto dell’ordine del giorno sulle scuole 
verrà svolto alla prossima riunione del Comitato. 

A proposito dei problemi scolastici il compagno Soric sottolinea che essi devono venir risolti dai 
vari Distretti e che non succeda come è avvenuto recentemente che il compagno Schacherl si rechi a 
Zagabria per risolvere certi problemi mentre i compagni del distretto di Pola avevano già preceden- 
temente risolto gli stessi. 


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Il compagno Borme sottolinea però che per risolvere certi problemi specifici ci vuole un centro 
presso l'Unione che consigli; ad esempio sui problemi dei quadri, del centro pedagogico, ecc. Il 
distretto risolverà i problemi che riguardano le scuole del suo territorio e basta. Ci deve essere un 
centro che coordini l’attività di tutte le scuole della minoranza. 

Il compagno Soric dice che il centro deve avere un carattere consultivo che per risolvere ogni 
problema si rivolga alle autorità competenti. 


Il compagno Gobbo mette al corrente la Segreteria di essere stato informato dei due Comitati 
distrettuali della Lega che il numero dei nostri connazionali appartenenti alla Lega va sempre più 
diminuendo. Si conclude che gli attivi della Lega esistenti in seno ai Circoli e alle scuole dovrebbero 
proporre per accogliere nella Lega quei compagni che svolgono la loro attività in seno a queste 
istituzioni della minoranza, e che sono meritevoli di un tale riconoscimento. 

Dopo di che la riunione ha termine. 


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VERBALE DELLA RIUNIONE DELLA SEGRETERIA 
TENUTA A POLA IL 7-III-1959 


Presenti: Gobbo, Raunich, Benussi, Cuomo, Dessardo, Moscarda, Abram Mario, Abram Apollo- 
nio, Karlo Mrazovic e Ante Soric da Zagabria, Ljubej da Lubiana, Jurcan del Komitet distrettuale di 
Pola, un compagno del Komitet distrettuale di Capodistria e i compagni Crnobori e Kogoj Danica 
rispettivamente del Consiglio per la cultura dei distretti di Pola e di Capodistria. 


Il compagno Gobbo apre la riunione accennando brevemente allo scopo della stessa che non 
sarebbe altro che una riunione preparatoria all'Assemblea straordinaria dell’Unione indetta per 
l’indomani mattina che dovrà trattare i problemi editoriali della minoranza. Passa quindi la parola al 
compagno Raunich che è stato incaricato dall’Unione a preparare un progetto di riorganizzazione 
dell’attività editoriale. 

Il compagno Raunich espone il suo progetto che in praticaè stato accettato precedentemente dalla 
Segreteria dell’ Unione. Allo scopo di ridurre le spese e quindi la richiesta di bilancio sono state prese 
le seguenti decisioni: di liquidare le aziende oggi esistenti e cioè la “VOCE” e la “EDIT” e formare 
assieme all’ Unione un Ente unico con un’unica amministrazione. Di ridurre le pagine della rivista 
“Panorama” da 36 a 24, di stampare la copertina del giornalino “Il Pioniere” non più a colori ma solo 
in bianco e nero. Resta l’alternativa per “La voce del popolo” se in 6 o 4 pagine, cosa che dovrebbe 
venir risolta oggi. Per ogni evenienza abbiamo preparato i bilanci con le due alternative. Se la VOCE 
esce in 4 pagine occorrono 1 6.500.000. — se in 6=22.425.000.- din. Panorama con la riduzione otterrà 
3.000.000.- di risparmio e Il Pioniere 1.500.000.- La Casa editrice EDIT verrebbe completamente 
liquidata ed anche qui verrebbero ridotti altri 5 milioni. Si sopperirebbe alla liquidazione dell’EDIT 
con l’importazione dall’Italia di libri per la minoranza. Questo nuovo Ente però dovrebbe preoccu- 
parsi della stampa di libri scolastici per le scuole della minoranza. 


Esiste il problema scottante del deficit della “VOCE” di 12.000.000.- di dinari. La Tipografia ha 
denunciato la VOCE al Visi privredni Sud di Zagabria (Tribunale economico superiore, nda) e 
quest’ultimo ha già inviato la disdetta di pagamento. Causa questo non si può fare la fusione perché 
l’ Unione dovrebbe addossarsi anche i debiti per cui di conseguenza verrebbe bloccato anche il conto 
corrente dell’Unione. 

Prende quindi la parola il compagno Mrazovia il quale dice che il problema non sta nel dinaro 
ma bensì nel suo impiego razionale e quanto più utile. Il fine principale della minoranza italiana 
dev'essere l’edificazione del socialismo alla stregua degli altri uomini che vivono in Jugoslavia. 
Compito dell’Unione e quello di attivizzare tutti gli italiani e per far di loro degli attivisti nel senso 
di come detto più sopra deve cioè cercare che questi italiani partecipino attivamente nei Consigli 
operai, nei consigli dei produttori, nelle comuni, ecc. e che diano il loro contributo alla costruzione 
del socialismo. Nessuno in Jugoslavia vuole ostacolare l’attività degli italiani svolta nel senso 
nazionale; anch'essi hanno i loro diritti, il diritto di sviluppare la loro cultura nazionale e le loro 
tradizioni, e questi diritti non devono per nessuna ragione venir contrastati. Compito dell’ Unione è 
quello di badare che gli italiani partecipino attivamente in tutte le organizzazioni sia del potere che 
politiche e non allontanare gli italiani da queste organizzazioni per fare un'attività a parte. Non è il 
caso di formare un piccolo stato in seno allo stato (mala drzava na drzavi, sic!). Lasciamo ai fori 
politici i compiti politici e noi aiutiamoli per quanto concerne la minoranza, ma principalmente 


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occupiamoci della nostra attività culturale. Il compagno Mrazovic dice di essere del parere che tutti 
i giornali come pure l’attività editoriale in genere della minoranza passi sotto il diretto controllo 
dell’ Unione socialista. In questo modo la minoranza goderà di maggiori utili. Come il Comitato 
distrettuale si occupa del quotidiano “Novi List’ perché non avrebbe da occuparsi anche per la stampa 
della minoranza italiana? 

Dall'altra parte egli dice di non essere d’accordo che per risparmiare si debba ridurre delle pagine; 
perché non ridurre invece altre spese e lasciare i giornali come stanno; per esempio la questione dei 
giornalisti. Egli pensa che tutti quei giornalisti impiegati alla VOCE è impossibile lavorino 8 ore. 
Inoltre dice che sarebbe molto da discutere sulla qualità del giornale. Perché invece non migliorare il 
giornale e dare alla minoranza di più, fare in modo che questi milioni vengano assegnati, vengano 
sfruttati al massimo e rendano di più. Per quanto riguarda il Dramma Italiano è del parere che quei 
10 milioni assegnati quest'anno sarebbero stati molto più utili se assegnati a vari gruppi dilettantistici 
della minoranza; ne goderebbero 1000 persone e non 10 come ora. 

Il compagno Moscarda Marcello di Pola dice come la minoranza del distretto di Pola trovi piena 
comprensione nell’autorità per risolvere certi problemi e come si lavori di comune accordo. Per 
quanto riguarda “La voce del popolo” dice che il giornale è necessario per la minoranza e che non 
sarebbe il caso di farlo settimanale, come si accennava in una riunione precedente. Per quanto 
concerne poi il Dramma italiano dice che sarebbe una cosa ideale assegnare ai gruppi dilettantistici 
dei vari Circoli delle somme di denaro affinché possano svolgere un’attività più proficua. Noi a Pola 
abbiamo una sezione dilettantistica ma non abbiamo un insegnante per la stessa. Gli attori del 
Dramma italiano potrebbero benissimo prestarsi per insegnare a questi gruppi dilettantistici. 

Il compagno Dessardo dice che alla VOCE sono state fatte delle riduzioni di personale e che dopo 
un attento esame le cifre richieste sono concrete, meno di così non si può. Egli vorrebbe inoltre 
precisare che la tiratura della VOCE non è affatto piccola come si vorrebbe far intendere. Riporta i 
seguenti dati e cioè che nel distretto di Fiume viene venduta una copia del giornale su ogni 12 abitanti. 
Dice che la media è quasi come la vendita della ‘“Borba” che si vende in proporzioni | ogni 11 abitanti. 

Il compagno Mrazovic dice che questo non è un paragone da fare. Che si sommino le tirature di 
tutti i giornali che si vendono nel distretto di Fiume e poi si vedrà che la differenza è grande. Il 
problema è che bisogna migliorare il giornale e ditfonderlo di più. Non per questo occorre fare un 
giornale umoristico affinché la tiratura cresca, ma mantenga sempre una certa serietà. 

Il compagno Abram Mario di Capodistria dice di non essere del parere che l’attività editoriale 
della minoranza passi sotto il diretto controllo dell’Unione socialista. Egli pensa che l’ Unione degli 
italiani sia l’unica che possa lavorare con la minoranza e che anzi sarebbe da criticare che l'Unione 
lavora troppo poco politicamente. 

Il compagno Mrazovic dice che la minoranza non deve vedere solo l'Unione ma bensì anche i 
“Zzbor biraca” (consiglio degli elettori, nda) e le altre organizzazioni. 

Il compagno Gobbo si sofferma a dire che l'Unione degli Italiani ancora prima dell’ Assemblea 
di Isola sapeva che la stampa della minoranza non andava tanto bene e che c'erano problemi da 
risolvere, come pure c’erano problemi da risolvere riguardanti le scuole. Ora, almeno per quel che 
riguarda le scuole sembra che le cose vadano bene. Eravamo anche rimasti d'accordo che l’ Unione 
non avrebbe dovuto risolvere direttamente i vari problemi ma consigliare e coordinare. E in questo 
senso s'è lavorato finora. Per quanto concerne l’ Unione se è un organizzazione politica o culturale 
penso che essa è parte integrante del fronte, ha lo stesso programma ed è di conseguenza un'attività 
complementare del Fronte. Per svolgere questaattività deve però avere degli strumenti e uno di questi 


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è il giornale. Dato che Fronte e Unione sono una cosa sola sarebbe anche indifferente se i giornali 
dipendessero dall’una o dall’altra organizzazione, ma perché ora cambiare quando l’Unione è in 
grado di adempiere a questo compito. L'Unione ha formato una Commissione per la stampa della 
quale fanno parte anche compagni degli organi repubblicani e distrettuali. 

Per quanto concerne il Dramma italiano non siamo noi soli che dobbiamo risolvere questo 
problema. 

Per quanto riguarda il problema finanziario, la repubblica slovena per tramite dei compagni 
Vilfan e Ljubej assicura di partecipare al finanziamento della nostra stampa in proporzione al numero 
degli abitanti. 

Riprende la parola il compagno Mrazovic e parla a proposito del Dramma italiano. Se il Dramma 
avesse lavorato altrimenti sarebbe Stato forse anche necessario. Ad esempio, qui a Pola mancano 
insegnanti per il gruppo filodrammatico; perché i componenti del Dramma non potrebbero prendersi 
l’incarico di guidare gruppi filodrammatici, di prestar loro la loro opera di artisti? 

È giusto che i Circoli italiani di cultura organizzino nella loro sede delle conferenze politiche o 
svolgano altro lavoro ideologico tra la minoranza nella lingua nazionale; i problemi verranno appresi 
con più facilità e si avrà una partecipazione alle discussioni più proficua. Però questa attività politica 
e queste conferenze dovrebbero venir organizzate su iniziativa dell’Unione socialista perché questa 
sarebbe un’attività dell’ Unione socialista svolta tra compagni che parlano la lingua italiana. 

Per quanto concerne i giornali è del parere che dipendano dall’ Unione socialista distrettuale o 
repubblicana. Non può essere come finora che 15 persone decidevano su tutto senza il suggerimento 
di alcuno. 

Parla quindi il compagno Abram Apollonio di Capodistria. 

Egli dice di far parte della Segreteria dell’ Unione già da 10 anni e che da sempre è stato detto che 
l’Unione fa parte integrante dell’Unione socialista. La minoranza è attiva nella costruzione del 
socialismo e non vedo e non ho mai visto che l’ Unione degli italiani sia un’organizzazione a parte. 
Constato invece che l’unico problema esistente è rappresentato dalla suddivisione della minoranza in 
3 distretti e che in certi casi, per la soluzione di determinati problemi riguardanti la minoranza esiste 
poca coordinazione. L’ Unione degli italiani ha cercato finora di coordinare e unificare l’attività della 
minoranza tra i tre distretti. 

L’ Unione degli Italiani ha avuto sempre in mano la questione della stampa. Il compagno Dessardo 
è membro del Comitato dell’Unione come lo era prima anche il compagno Michelazzi; per cui il 
problema della stampa era sempre all’ordine del giorno. È giusto che il denaro che viene impiegato 
per il giornale deve dare il suo controvalore cioè essere utile alla minoranza; sono d’accordo che il 
giornale ha delle manchevolezze, che abbiamo fatto poca azione di propaganda e così via, ma sono 
anche del parere che l’ Unione degli italiani sia la più idonea ad occuparsi dei giornali della minoranza 
anche per il fatto della coordinazione tra i tre distretti come accennavo prima. Del resto il giornale 
anche oggi porta la testata con su scritto “organo dell’U.S.P.L.” 

Per quanto riguarda il Dramma italiano non è che voglia difenderlo poiché qui ci sono numerose 
manchevolezze, ma assegnando al Dramma ancora 1.500.000 dinari per le turnée in Istria gli attori 
sarebbero impegnati con una settantina di rappresentazioni annue delle quali potrebbero godere gli 
italiani di tutte le località. Assegnando invece soltanto 10.000.000 di dinari gli attori farebbero 16 
rappresentazioni esclusivamente a Fiume. 

Prende la parola il compagno CUOMO il quale dice che negli ultimi mesi l'Unione s’è occupata 
di cose che non sono di sua competenza ma che devono venir risolte altrove. Dice che per quanto 


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riguarda il lavoro di coordinazione tra i tre distretti esiste un organo repubblicano che può fare ciò. 
Perché 1’ Unione degli italiani deve addossarsi dei compiti quando ci sono altri organi che hanno il 
compito di risolverli. Per quanto concerne il Dramma discutiamo già da tanto tempo e siamo 
d’accordo che così com'è ora non vale. Dobbiamo prendere una volta per sempre una decisione. Io 
sono del parere che i mezzi finanziari assegnati al Dramma sarebbero molto più utili se assegnati alle 
varie Società, come ad esempio la “Fratellanza”. 

Il compagno Benussi Andrea dice di essere d’accordo che se il Dramma debba esistere solo a 
Fiume è meglio non esista, ma se si assicurassero i mezzi per le turnee allora si avrebbe raggiunto un 
bel risultato perché il Dramma verrebbe goduto da tutta la minoranza. E poi il Distretto di Fiume 
assegna al teatro 150.000.000.- di dinari; a Fiume esistono 7000 italiani e il distretto potrebbe 
benissimo aiutare anche il Dramma italiano con una piccolissima sovvenzione. Gli italiani del 
distretto di Fiume partecipano al reddito nazionale con la cifra di 4 miliardi di dinari. In tutta la nostra 
regione esistono 600 comunisti italiani e tutti sono attivi. Se il numero dei comunisti va diminuendo 
la causa è nostra. Poco si lavora tra la minoranza perché si pensa che il lavoro che si svolge fra la 
minoranza non è tanto importante. Ci sono nostri compagni che non frequentano il Circolo perché 
oberati di lavoro in altre attività. In una località ci sono 70 comunisti attivissimi in altri campi ma che 
non sono capaci di mantenere in piedi il Circolo italiano di cultura in questa stessa località si vendono 
S copie de “La voce del popolo”. Questo è il non voler lavorare proprio tra la minoranza. 

Il compagno Drog dice che non è il caso che un compagno debba frequentare la sede del CIC per 
essere attivo tra la minoranza, ma che può benissimo fare dell’attività tra la minoranza altrove. Per 
quanto riguarda “La voce del popolo” secondo egli è incompleta e non riporta tutto. Egli dice di non 
comperare la VOCE perché in essa non trova quello di cui sente il bisogno. In relazione al Dramma 
italiano è del parere che è più utile la SACO “Fratellanza” perché lavora tra la gente, mentre il 
Dramma no. 

Prende la parola il compagno Raunic il quale dice che o il Fronte o l’ Unione qualcuno deve pur 
amministrare i 40 milioni che ci sono stati assegnati. Egli pensa che la miglior soluzione sarebbe 
quella di rendere operativa la Commissione per la stampa come si aveva precedentemente previsto, 
composta da compagni dell’Unione, e dei 3 distretti. In relazione al Dramma italiano dice che se si 
ha intenzione di prendere qualche misura bisogna prenderla subito in quanto nel mese di aprile 
vengono rinnovati tutti i contratti con gli attori, contratti che varranno per 2 anni. 

Il compagno Ljubej da Lubiana dice che gli sembra che esistano due tendenze, una che difenda 
l’attività della minoranza e l’altra che invece l’attacchi. Bisogna tener sempre presente che il lavoro 
tra la minoranza è da considerarsi uguale a quello di qualsiasi altra attività. 

Per quanto concerne il Dramma fare in modo che funzioni bene. 

Che i giornali rimangano così come finora, solo è del parere che passino sotto il diretto controllo 
dell’Unione socialista perché la politica deve dipendere dalle nostre organizzazioni politiche. 
L’Unione degli Italiani abbia pure la propria Commissione per la stampa, servirà d’aiuto. 

L’ Unione degli Italiani dovrà cambiare la sua intestazione da “organizzazione politico-culturale” 
a “organizzazione artistico-culturale” perché in Jugoslavia non esistono altre organizzazioni politiche 
all’infuori della Lega dei comunisti e dell’ Unione socialista. 

La Slovenia parteciperà proporzionalmente al finanziamento delle spese. Per quest'anno ha 
previsto di assegnare 3.500.000.- dinari. 

Il compagno Ante Soric dice che bisogna tener presente di aver da fare con cittadini jugoslavi che 
parlano l’italiano, cittadini jugoslavi che devono avere lo stesso trattamento di tutti gli altri cittadini 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 109 


della Jugoslavia. Pertanto per risolvere i problemi delle scuole ci sono le Commissioni presso i 
Distretti e le Repubbliche. I Circoli italiani di cultura debbono dipendere dai Consigli per la cultura 
comunali, rispettivamente distrettuali e solo così potranno partecipare incorporati con gli altri 
compagni all’attività generale. Nello Statuto dell’Unione il paragrafo riguardante i Circoli è male 
impostato. Qui si parla solo in senso verticale e cioè che i Circoli devono essere collegati all’ Unione 
ecc. ma non si accenna minimamente all’allacciamento con le altre organizzazioni. 


Conclusioni: |. Rivedere completamente lo Statuto dell’ Unione. 
2. Che il quotidiano porti la seguente testata: 
“LAVOCEDELPOPOLO” 
ORGANO DELL'UNIONE SOCIALISTA DEL POPOLO LAVORATORE DELLA JUGOSLAVIA PERLA 
MINORANZA ITALIANA DEI DISTRETTI DI POLA, FIUME E KOPAR 


3. Formare un consiglio editoriale composto da compagni rappresentanti i 3 distretti 
e l'Unione. Formare un Comitato interredazionale. 


110 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


VERBALE 
RIUNIONE DELLA SEGRETERIA DELL’UNIONE 


29-V- 1961 


Presenti: Gobbo, Glavina, Michelazzi, Benussi, Abrami A., Abram M., Tomasin, Borme, Rau- 
nich, Susan]. 

Ordine del giorno: 

1.Esposizione sulla riunione interdistrettuale per i problemi della minoranza. 

2.Statuto dell’ Unione 

3.Rassegna 

4.Varie 

e)Centenario dell’unificazione italiana 

f)Delegazione dell’ ANPI (Vidotto) 

g)Ramous 


al primo punto dell’ordine del giorno il compagno Michelazzi espone sugli argomenti trattati alla 
riunione interdistrettuale per i problemi riguardanti i libri scolastici e la EDIT. 

Per quanto riguarda i libri di testo sono state mosse delle critiche secondo le quali in certi punti 
si parla della nazione italiana come di una nazione nemica e si pongono sotto falsa luce avvenimenti 
storici, questo specie nei libri di storia. È stato deciso di formare una Commissione che entro la fine 
di luglio esamini i libri di testo in parola e indichi alla EDIT quali sono da scartare. 

In base alla riforma scolastica, quasi tutti i testi devono venir sostituiti. Nella compilazione dei 
nuovi testi bisogna porre in risalto le cose accomunano l’Italia e la Jugoslavia. Si decide che se queste 
modifiche valgono per le scuole della minoranza altrettanto devono valere anche per quelle della 
maggioranza. Quindi è necessario accordarci precedentemente con l’autore di ogni libro. I libri della 
minoranza vengono tradotti alla lettera da quelli croati. 

L’Unione propone una Commissione che si incarichi di ciò. Composta: da un rappresentante 
repubblicano della Croazia (in questo caso Grubisité), da un rappresentante della Slovenia, da un 
rappresentante di ogni Zavod za Skolstvo (Istituto per l'Istruzione, nda)dei tre distretti, dall’intera 
nostra Commissione scolastica più i compagni Zekar e Agostini. 

Per quanto concerne il compendio di storia italiana per le scuole della minoranza sarebbe il caso 
di farcelo scrivere da fuori. Questa è una cosa molto difficile e seria. 

Il compagno Michelazzi informa inoltre dell’intenzione della EDIT di comperare una macchina 
per stampare libri di modo che una buona parte dei libri scolastici potrebbero venir stampati con 
maggiore sollecitudine. 

Informa inoltre del nuovo ruolo e funzione della EDIT e precisamente che è stato accettato, anche 
da parte di chi ci dà la sovvenzione, il principio di commercializzazione della EDIT. Sono stati 
assegnati in questi giorni alla EDIT 8000 dollari per l’acquisto di libri La EDIT ha ricevuto 
l’autorizzazione per l'importazione di giornali. (Accenna ai contrasti con la Jugoslavenska Knjiga). 


Per quanto concerne lo Statuto dell’ Unione il compagno Gobbo accenna che nella compilazione 
del nuovo Statuto si dovrebbero elaborare meglio certi concetti che siano più adeguati allo stato di 
sviluppo attuale. Dice che nella compilazione si dovrà tener conto anche del linguaggio che deve 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 11l 


essere aggiornato. Dal nuovo Statuto deve trasparire che l’ Unione è una organizzazione che prende 
iniziative da sola e non aspetta direttive; deve far vedere che è una organizzazione che comprende la 
più larga cerchia di simpatizzanti. 

Oltre a quello che l'Unione ha fatto e sta facendo finora, essa ha raggiunto attualmente una 
maturità per compiere anche una funzione esterna. Non sarà certamente una esportatrice di politica, 
ma ha ugualmente dei compiti che solo essa può fare. In Italia le forze progressiste agiscono e 
prendono sempre più piede, noi, come Unione, siamo all’oscuro di ciò. La nostra deve essere una 
opera di collegamento con la Nazione italiana. 

Dobbiamo essere aggiornati il più possibile sullo sviluppo progressista in Italia che per questioni 
idiomatiche possiamo capire più bene degli altri. In questo caso siamo in obbligo di fornire anche al 
nostro Partito un valido aiuto. Come gruppo etnico non ci deve restare indifferente quello che sta 
succedendo di là. Se sono cose positive dobbiamo appoggiarle. 

Vengono quindi proposti i seguenti aggiornamenti del vecchio statuto: 


Art. | 

L’ Unione degli Italiani è la comunità dei Circoli Italiani di cultura, delle Società artistico-culturali 
e delle altre organizzazioni culturali e ricreative del gruppo etnico italiano, dei distretti di Capodistria, 
Fiume e Pola. 

Sono membri dell’ Unione degli italiani i Circoli Italiani di cultura, le SAC, le sale di lettura, le 
comunità studentesche, i vari gruppi artistici-culturali, altre associazioni artistico-culturali, ecc. 

Nominare poi nello Statuto le funzioni dell’Unione nei riguardi della EDIT e del Dramma 
Italiano. Anche i compiti dell’ Unione verso le scuole, ecc. 


Art. 2 

L’Unione degli Italiani è sorta durante la L.P.L. come espressione della volontà degli Italiani e 
no passiva come traspare dal presente Statuto. Si deve vedere la partecipazione degli antifascisti 
italiani che accettano i punti programmatici del Partito: a) cacciata dell’occupatore, b) organizzazione 
di una società su basi socialiste, c) soluzione democratica della questione nazionale. L’Unione degli 
italiani entra a far parte del Fronte Popolare e si presta alla mobilitazione delle masse italiane nella 
lotta armata, ecc. 

Tra i compiti dell’Unione deve figurare la partecipazione della minoranza all’autogoverno ed 
all’autogestione e a tutto il sistema comunale in genere; - tener conto dei rapporti internazionali e i 
rapporti fra i popoli nel mondo dove si afferma la coesistenza. 

-Tutelare, curare e arricchire il patrimonio culturale del gruppo etnico italiano. 

-Tenendo conto della sua posizione l’ Unione degli italiani deve adoperarsi (o agire) affinché il 
nostro gruppo etnico sia partecipe alle conquiste ed al pensiero del popolo italiano ed al pensiero ed 
alla cultura dei popoli jugoslavi. 

-Concorrere allo sviluppo delle scuole e di altri enti e associazioni culturali del gruppo etnico 
nell’ambito dei diritti democratici garantiti al cittadino jugoslavo. 

-Deve prodigarsi per la formazione di un cittadino cosciente, socialista, capace di divenire un 
buon autogestore; contribuire alla sua formazione professionale e tecnica e facilitarlo per il suo 
inserimento nella vita pubblica. 

-L’Unione deve fungere da ponte tra i due paesi. Approfondire i rapporti tra le minoranze 
nazionali jugoslave (scambi di esperienze). 


112 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


-L’Unione degli Italiani si preoccupa dei contatti e del collegamento con le altre organizzazioni 
Jugoslave. 


Art.4e 5 

Ampliare nei particolari i mezzi e i compiti dell’unione. 

La stesuradefinitiva dello Statuto viene affidata ai compagni Raunich, Battelli e Volghieri. 

Per quanto concerne la Rassegna, si decide di tenere una riunione il 31 — V con i dirigenti dei vari 
Circoli per stabilire nei particolari l’organizzazione di queste manifestazioni. 

Si discute inoltre su chi invitare a queste Rassegne, e su altri particolari organizzativi. 

Per il | di luglio con inizio alle ore 17 è indetta a Capodistria una riunione con i dirigenti dei 
Circoli del capodistriano. 


-Nelle varie il compagno Vidotto accenna all’opportunità di invitare una delegazione di apparte- 
nenti all’ AMPI (Anpi, nda), per stabilire eventuali contatti. L’ Unione è in linea di principio d’accor- 
do. L’invito però dovrebbe venir fatto da una associazione combattentistica jugoslava. 

-Per quanto concerne la questione del compagno Ramous, si informa la Segreteria, che per 
raggiunti limiti di età, il compagno in parola abbandona la direzione del Dramma Italiano. Si decide 
di compilare da parte dell’ Unione una bella lettera di ringraziamento per l’attività prestata, di offrire 
al compagno Ramous un piccolo ricordo e di proporlo per una medaglia. 

-Il compagno Gobbo informa la Segreteria della celebrazione per il centenario dell’unità d’Italia 
tenuta a Capodistria e della ripercussione politica derivata. Informa però anche del comportamento 
non del tutto leale del console italiano di Capodistria, Zecchin, il quale mirando al carrierismo, non 
svolge come si deve l’attività governativa italiana. Da molto tempo cerca di screditare i dirigenti della 
minoranza italiana. prega i presenti di informare gli attivisti dei Circoli a premunirsi di questa attività 
deleteria del console. 


La riunione ha quindi termine. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 113 


(Proposta, 12-V-1963) 


Disposizioni i 


Art. 1 

L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume è un’associazione di carattere culturale nella quale 
convergono, come organizzazioni autonome, i Circoli Italiani di Cultura e le società e gruppi culturali 
e ricreativi del gruppo nazionale italiano dei distretti di Fiume, Pola e Capodistria. 

Per l’attuazione dei compiti previsti da questo statuto i Circoli Italiani di Cultura possono 
associarsi in consulte comunali, intercomunali o distrettuali. La struttura e l’attività di queste consulte 
vengono regolate da propri statuti o regolamenti in armonia con lo statuto dell’Unione, previa 
approvazione del comitato dell’Unione. 

L’Unione degli Italiani può accettare come soci le società e gruppi culturali e ricreativi che 
svolgono la loro attività in altri distretti della Jugoslavia e i cui membri sono di nazionalità italiana. 

Costituita nel corso della Guerra Popolare di Liberazione come espressione della volontà degli 
antifascisti dell’Istria e di Fiume di nazionalità italiana di dare il loro apporto alla lotta di liberazione, 
al consolidamento dell’unità e della fratellanza e alla rivoluzione socialista dei popoli della Jugosla- 
via. l’ Unione degli Italiani, nelle condizioni dell’edificazione del socialismo in Jugoslavia promuove, 
cura, sviluppa e coordina le varie attività nel campo della cultura per garantire al gruppo nazionale 
italiano della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, in armonia con i diritti e i doveri 
costituzionali dei cittadini jugoslavi e nello spirito dell’autogestione di tutte le attività sociali, il più 
libero sviluppo delle loro tradizioni e della loro cultura nazionale. 


Art. 2 
La denominazione dell’associazione è: Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume. 
La sede dell’ Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume è a Fiume. 
L’ Unione degli Italiani è persona giuridica. 





Art. 3 

L’Unione degli Italiani si pone i seguenti compiti: 

-coltivare ed arricchire le tradizioni nazionali e il patrimonio culturale del gruppo nazionale 
italiano della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia; 

-promuovere iniziative per diffondere la cultura e per incrementare le attività artistico-culturali e 
ricreative fra i cittadini del gruppo nazionale italiano della Repubblica Socialista federativa di 
Jugoslavia; 

-curare in particolare le attività editoriali, giornalistiche, teatrali e radiofoniche, completare le 
biblioteche, organizzare corsi d'aggiornamento di lingua italiana, allestire mostre, convocare raduni 
e convegni su problemi culturali e ricreativi; 

-seguire ed incoraggiare, con l’aiuto delle comunità politico-sociali comunali e in casi particolari 


114 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


con l’aiuto diretto, la formazione di quadri artistico-culturali, di letterati e di intellettuali in genere 
che possono degnamente esprimere le conquiste del pensiero, della cultura e dell’arte del gruppo 
nazionale italiano della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia; 

-collaborare strettamente con gli organi delle comunità politico-sociali per risolvere adeguata- 
mente tutti i problemi relativi alle istituzioni scolastiche e alle altre di particolare importanza per il 
gruppo nazionale italiano e porgere i propri consigli per la migliore applicazione di tutte le norme 
relative ai rapporti con il gruppo nazionale italiano che sono previste dalla Costituzione, dalle leggi 
e dagli statuti dei distretti e dei comuni; 

-organizzare e curare la collaborazione tra le organizzazioni culturali ed artistiche del gruppo 
nazionale italiano e le analoghe organizzazioni delle altre nazionalità della Jugoslavia, al fine di 
concorrere a uno sviluppo armonico delle attività artistico-culturali del gruppo nazionale nell’ambito 
dell’integrazione della cultura dei popoli della Jugoslavia; 

-promuovere, curare e mantenere, per mezzo dei suoi organi ed istituzioni, quanto più proficui 
contatti con istituzioni, uomini ed ambienti culturali italiani, al fine di arricchire costantemente il 
patrimonio culturale del gruppo nazionale italiano della Jugoslavia delle conquiste del pensiero, della 
cultura e dell’arte della nazione italiana; 

-impegnarsi a diffondere fra i popoli della Jugoslavia il patrimonio e le conquiste del pensiero, 
della cultura e dell’arte della nazionalità italiana e, nella nazione italiana, il patrimonio e le conquiste 
del pensiero, della cultura e dell’arte di tutti i popoli della Jugoslavia, al fine di contribuire alla mutua 
conoscenza e al consolidamento della stima reciproca tra i due popoli vicini. 


Art.4 
Per l’attuazione dei suoi compiti, 1’ Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume: 
a) promuove, sprona e coordina l’attività dei Circoli Italiani di Cultura, delle società artistico- 
culturali operaie e studentesche e delle altre organizzazioni del gruppo nazionale italiano; 
b) aiuta i Circoli italiani e le società artistico-culturali del gruppo nazionale italiano; 
c) promuove e organizza concorsi a premi letterari, mostre di pittura e di disegno, conferenze di 


vario genere, rassegne artistico-culturali generali o per gruppi, dibattiti, raduni e convegni per 
i membri del gruppo nazionale italiano; 


d) aiuta gli organi dell’istruzione a risolvere i problemi delle istituzioni prescolastiche e scola- 
stiche; 

e) si interessa affinché il Dramma Italiano organizzi secondo un programma dei giri artistici 
nelle varie località in cui vive il gruppo nazionale italiano; 

f) analizza, discute e fissa orientamenti dell’attività dell’EDIT; 

2) provvede nel limite del possibile ad arricchire le biblioteche dei Circoli Italiani di Cultura e 


delle sale di lettura; 
h) opera in generale per la più proficua attuazione di tutti i compiti che l'Unione degli Italiani 
si pone nell’ Art. 3 del suo Statuto. 


Organi dell’Unione degli Italiani 


Art. 5 
Il massimo organo dell’Unione è |’ Assemblea. 
L’Assemblea può riunirsi in sessione ordinaria o straordinaria. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 115 


L’ Assemblea ordinaria viene convocata ogni tre anni. 
L’assemblea straordinaria viene convocata quando se ne presenti la necessità o su richiesta di 
almeno un terzo dei membri dell’Unione. 


Art. 6 
L’ Assemblea dell’Unione è formata dai delegati eletti nelle Assemblee dei Circoli Italiani di 
Cultura e delle società artistico-culturali e delle altre organizzazioni affiliate in ragione di 30 per la 
zona di Fiume, 30 per la zona di Pola e 30 per il Capodistriano. 


Art. 7 
L’assemblea è deliberativa quando è riunita in sessione e sono presenti almeno due terzi dei 
delegati eletti. 
L’assemblea viene convocata dal Comitato dell’Unione con invito diretto ai delegati da fare 
pervenire almeno 20 giorni prima della data stabilita per l’ assemblea. 
Per l’ Assemblea straordinaria il termine è di 10 giorni prima della convocazione. 


Art. 8 
Nella sua sessione 1’ assemblea dell’ Unione: 
a) elegge la presidenza dei lavori; 
b) esaminale relazioni del Comitato dell’ Unione e del comitato di controllo ed apporta decisioni 
in merito; 
c) fissa l'indirizzo generale del lavoro dell’Unione per l’attuazione dei compiti previsti da 
questo Statuto; 
d) accoglie ed espelle i membri dell’ Unione; 
e) emana, modifica e completa lo Statuto dell’ Unione; 
Î) esonera dalle loro funzioni il Comitato dell’Unione e il comitato di controllo dell’Unione; 
2) elegge il Comitato dell’Unione e il Comitato di controllo dell’ Unione. 


Le decisioni dell’ Assemblea sono valide se per le stesse hanno votato oltre i 2/3 dei delegati 
presenti. 


Art.9 
Per il lavoro dell’ Assemblea straordinaria valgono le disposizioni di cui agli articoli precedenti, 
con la differenza che 1’ Assemblea straordinaria può decidere solo in merito a quei problemi che 
figurano all’ ordine del giorno dell’atto di convocazione. 


Art. 10 

Il Comitato dell’Unione degli Italiani dirige e imposta l’attività dell’Unione nel periodo che 
intercorre tra le due sessioni dell’ Assemblea ordinaria. 

Il Comitato dell’Unione può avere da 15 a 19 membri. 

Il Comitato si riunisce almeno 4 volte all’anno. 

Il Comitato può essere convocato in qualsiasi tempo su richiesta di almeno un terzo dei suoi 
membri. 

Il Comitato apporta il regolamento sull’organizzazione interna dell’ Unione. 

Il Comitato emana decisioni durante le sue sedute. Può riunirsi in seduta se è presente oltre la 


116 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


metà dei suoi membri. le sue decisioni sono valide se approvate da oltre 2/3 dei membri presenti. 

Il Comitato dell’Unione forma commissioni per lo studio e l’attuazione pratica dei compiti 
dell’ Unione. 

Ha le seguenti commissioni stabili: 1) 2) 3). Altre commissioni possono essere formate in caso 
di necessità. 


Art. Il 

La prima seduta del Comitato dell’Unione si tiene immediatamente dopo la conclusione dell’ As- 
semblea o entro otto giorni dell’ Assemblea per l’elezione del Comitato Esecutivo dell’ Unione degli 
Italiani. 

Il Comitato Esecutivo è formato dal presidente, da due vicepresidenti, dal segretario e dal 
cassiere. 

Il Comitato Esecutivo dell’Unione convoca la seduta del Comitato ai sensi del terzo capoverso 
dell’articolo 10. 


Art. 12 
Il Comitato Esecutivo sbriga gli affari correnti per l’attuazione dei compiti dell’ Unione, da una 
riunione all’altra del Comitato. 


Art. 13 
Il Comitato di Controllo dell’ Unione controlla l’attività e la gestione finanziaria dell’ Unione e 
riferisce in merito al Comitato dell’Unione e dell’ Assemblea. 


Il Comitato di Controllo è composto da cinque membri e prende decisioni a maggioranza 
semplice di voti dei membri presenti. 


Art.14 

Tutti gli organi dirigenti dell’Unione vengono eletti di regola mediante votazione segreta. Essi 
rispondono del proprio lavoro al corpo che li ha eletti e sono tenuti a presentare a questo la relazione 
sul lavoro svolto. 

Gli organi dirigenti dell’ Unione devono mettere a verbale quanto è stato discusso o deciso nelle 
sessioni o nelle sedute. 

Il verbale sul lavoro dell'Assemblea, del Comitato dell’ Unione e del Comitato Esecutivo viene 
convalidato dal presidente e da due verificatori, mentre il verbale sul lavoro del Comitato di Controllo 
viene verificato dal suo presidente e da un altro membro. 


Membri dell’Uni li italiani 


Art. 15 
Membro dell’Unione può essere ogni Circolo di Cultura o altra organizzazione dei territori dei 
distretti di Fiume, Pola e Capodistria ed altri ai sensi dell’articolo 1 Comma 3 il quale, dopo aver 
presentato domanda di affiliazione assieme al versamento del canone previsto, ne sia accettato come 
membro. 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 117 


Art. 16 
Quali membri dell’ Unione, i Circoli di Cultura hanno il diritto: 
a) di essere rappresentati alle Assemblee dell’Unione da un dato numero dei soci secondo 
l’importanza del C. I. C. 
b) di presentare proposte per lo sviluppo e il miglioramento dell’attività culturale in tuttii campi 
di attività dell’ Unione; 
c) di inoltrare ricorsi all’ Assemblea e presso gli altri organi dell’Unione; 
d) di usufruire dell’aiuto dell’ Unione degli Italiani; 
e) di apportare in conformità allo Statuto dell’ Unione il proprio regolamento interno ed il 
proprio piano di lavoro. 
Art. 17 
I membri dell’ Unione hanno il dovere: 
a) di attuare le decisioni dell’ Assemblea e del Comitato dell’ Unione; 
b) di informare la loro attività allo spirito dello Statuto dell’ Unione; 
c) di eseguire nei rispettivi territori i compiti dell’Uione di cui all’articolo 2 di questo Statuto in 
armonia con la linea generale dell’attività stabilita dall’ Assemblea; 
d) di versare regolarmente il canone stabilito. 
Art. 18 


I Circoli Italiani di Cultura, che sono membri dell’ Unione, possono uscire dalla stessa su 
decisione della loro Assemblea dopo avere adempiuto ai loro obblighi. 


Art. 19 
L'Assemblea dell’ Unione può espellere dall’ Unione i Circoli Italiani di Cultura: 
a) che non adempiano ai compiti dell’Unione di cui all’articolo 2 del presente Statuto; 
b) che non seguano la linea generale di lavoro stabilita dall'Assemblea dell’ Unione degli 
Italiani; 
c) che non adempiono ai loro compiti verso l'Unione. 


Chi venta l’Uni 


Art. 20 
Davanti agli organi dello Stato e davanti a terze persone rappresenta l’ Unione, in quanto persona 
giuridica, il presidente del Comitato. 
In assenza del presidente del Comitato rappresentano l’ Unione degli Italiani i vicepresidenti per 
ordine di elezione. 


Timbro 


Art. 21 
L’Unione degli Italiani ha il suo timbro. 


118 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


Il timbro è di forma circolare e porta scritta circolarmente la dicitura: UNIONE DEGLI ITALIA- 
NI DELL’ISTRIA E DI FIUME. 


lei fomioni 


Art. 22 
L’ Unione degli Italiani ha il suo bilancio annuale di entrate e di uscite. Il bilancio viene approvato 
dal Comitato dell’ Unione degli Italiani e viene realizzato dal Comitato Esecutivo. 


Art. 23 
Le entrate dell’ Unione sono: 
a) quote d’iscrizione e canoni annui dei Circoli Italiani di Cultura; 
b) entrate di varie rappresentazioni, spettacoli ed altre attività organizzate direttamente 
dall’ Unione; 
c) dotazioni (sovvenzioni). 
Art. 24 


Dei beni e dei mezzi dell’ Unione dispone il Comitato dell’ Unione, che è tenuto a presentare 
relazione circa il loro impiego all’ Assemblea dell’ Unione alla quale esso risponde del suo operato. 


Art. 25 
In caso di cessazione dell’Unione degli Italiani i beni patrimoniali della stessa divengono 
patrimonio dei Circoli e delle altre organizzazioni affiliate. 


L i interni dell’Uni 


Art. 26 
I rapporti interni dell’ Unione derivanti dall’attività svolta per l’esecuzione dei compiti di cui al 
presente Statuto vengono regolati mediante regolamento sull’organizzazione interna del lavoro 
dell’ Unione. 


bicsgdatni 


Art. 27 
Questo Statuto è stato approvato dall’ Assemblea ordinaria dell’ Unione degli Italiani dell’Istria e 
di Fiume, che si è tenuta a ............. Discrete 
Questo Statuto entra in vigore con l’approvazione dello stesso da parte degli organi competenti. 


Il presidente dei lavori 





I verificatori 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 119 


[Da “La Voce del popolo”, del 26 — X — 1963; Buie, UIIF 1963-65] 


Indirizzo programmatico dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume 


L’organicità e la sistematicità del nostro lavoro, la necessità di mobilitare tutte le nostre forze 
disponibili per un’azione più intensa e più efficace esigono che venga fissato un indirizzo program- 
matico chiaro e preciso comprendente il contenuto e le forme di lavoro della nostra associazione per 
il prossimo periodo e indicante le lacune che dovranno essere colmate; su tale piattaforma dovrà 
poggiare tutta la nostra attività, ad essa dovremmo ispirarci ed attenerci, attorno ad essa dovremmo 
unire le nostre energie in unità d'intenti, e d'azione, tanto più che in ciò potremmo contare, come nel 
passato, sulla comprensione e sull’aiuto concreto di tutti gli organi competenti della nostra comunità 
socialista, che in più circostanze hanno non solo appoggiato le nostre iniziative, ma addirittura le 
hanno sollecitate. Tale atteggiamento del resto è pienamente giustificato, poiché è ben salda la 
consapevolezza che i problemi dei cittadini di nazionalità italiana non sono competenza esclusiva 
dell’Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume, ma in primo luogo di tutta la nostra comunità e dei 
suoi organi di autogoverno politico e sociale. 


Principi generali 


Fatta tale premessa, si ritiene opportuno sottolineare alcuni principi che a giudizio del comitato 
costituiscono i presupposti indispensabili dell’impostazione generale da dare alla nostra attività 
futura: 

I) L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume non deve trascurare in nessun momento 
l’apporto determinante che può e deve essere offerto dai fattori politico-sociali del terreno 
all’atto dell’impostazione e dell’attuazione dei suoi compiti, sviluppando ulteriormente la 
prassi positiva del passato, senza peraltro demandare ad altri la responsabilità e l'onestà che 
derivano a lei dallo Statuto evitando di accontentarsi della semplice impostazione e trattazio- 
ne dei problemi, lasciando quindi ad altri il compito di risolverli; 1’ Unione con i suoi organi 
deve essere la più attiva, la più sensibile, la più dinamica e la più decisa nell’applicazione del 
suo programma. 

Il) L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, quale associazione culturale del gruppo 
nazionale italiano, deve adottare tutte le misure atte a mobilitare le riserve ancora latenti per 
imprimere un ritmo più sostenuto, più intenso alla propria azione, con l’intento preciso di 
allargarla in estensione e in profondità, penetrando anche in quelle parti in cui la sua voce non 
sì è fatta sentire o e stata troppo sommessa, sfruttando ogni situazione a tal fine favorevole, 
creando gradualmente, dove non esistano ancora, le condizione per la maturazione di 
determinate soluzioni, promuovendo arditamente nuove forme di attività giudicate idonee a 
favorire una spinta in avanti, esigendo con decisione la soluzione di alcuni problemi che si 
rimandano in anno in anno. 

III) L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume deve assumere, per metodologia d'impostazione 
e per stile di lavoro, una fisionomia sempre più seria e matura; deve consolidare le sue 
posizioni autonome nella valutazione delle singole situazioni e in genere nella sua attività, e 


120 


IV) 


Vv) 


VI) 


VII) 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


sviluppare al massimo la propria iniziativa, promuovendo singole azioni e non accontentan- 
dosi di accettarle talvolta solo per suggerimento esterno, ponendosi sempre all'avanguardia 
nell’espletamento della propria funzione. 

La presenza dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, quale organizzazione facente 
parte integrante di tutto il processo sociale, deve avvertirsi in tutte le situazioni della nostra 
vita sociale; tale presenza è insostituibile in tutte le situazioni in cui sono oggetto di 
discussione i problemi specifici del gruppo nazionale italiano. 

L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume deve impegnarsi a fondo per l’attuazione 
conseguente e completa del suo programma mediante la fattiva collaborazione di tutti i suoi 
enti (Circoli italiani di cultura - Dramma italiano — EDIT - ecc.) e dei suoi singoli membri, 
attenendosi e facendo rispettare in ogni occasione e a tutti i livelli i principi democratici della 
direzione e delle responsabilità collettive, pretendendo da ognuno dei suoi affiliati il massimo 
contributo alla realizzazione dei suoi compiti. 

L’azione dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume deve tendere ad un risveglio in tutti i 
campi del gruppo nazionale italiano; deve vigilare sulla validità ideale dei contenuti; deve 
consolidare la fiducia che i connazionali hanno per le nostre istituzioni; deve allargare le 
prospettive di uno sviluppo culturale in senso nazionale ancora più intenso e completo; deve 
favorire con le sue iniziative un loro inserimento ancora più determinante nella vita sociale; 
deve contribuire a spianare la via per un'affermazione sempre più piena dei nostri connazionali. 
L’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume deve attuare con azioni concrete e iniziative 
adeguate la sua funzione di ponte nell’avvicinamento e nella collaborazione reciproca dei due 
paesi confinanti, perfezionando tutto ciò che in tal senso finora è stato intrapreso ed è stato 
coronato da successo, imprimendo a questa sua importante funzione un carattere di organicità 
mediante un’accurata programmazione. 


Programma di attività 


Partendo da tali presupposti e attenendosi ai compiti fissati dallo statuto e dalle conclusioni 
dell’ultima assemblea tenutasi a Rovigno e dal fatto che nel corrente anno (1963/64) ricorre il 
ventesimo anniversario della fondazione dell’Unione, il programma di attività della nostra associa- 
zione si articolerà come segue: 


1) Celebrazione del Ventennale dell’Unione 


Ci si riferisce alle celebrazioni sociali, che rappresentano qualche cosa di nuovo rispetto al 


programma dello scorso anno; a tale scopo è stato elaborato un programma a parte dall’apposita 
commissione, programma che è stato, nelle sue linee generali, inviato ai C. I. C. 


2) Cura per la posizione dei connazionali nella vita sociale: 


a) 


b) 


contributo all’elaborazione e alla stesura definitiva degli statuti comunali e quindi alla loro 
conseguente applicazione — a tale scopo organizzare consultazioni e dibattiti pubblici (tavole 
rotonde); 

seguire costantemente la rappresentanza dei connazionali negli organi politico-sociali delle 
comunità politico-sociali; 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 121 


c) 


d) 


e) 


a) 


b) 


c) 


d) 


e) 


8) 


h) 


)) 


seguire e aiutare con proposte e suggerimenti adeguati la politica della formazione del personale 
specializzato in genere e in particolare per le istituzioni del gruppo minoritario (istituzioni 
scolastiche — enti comunali (bilinguismo) — stampa — società artistico-culturali, ecc.); 
promuovere l’elevazione professionale ed ideologica dei connazionali per mezzo di corsi 
speciali organizzati da parte delle università popolari, per mezzo delle apposite sezioni delle 
scuole politiche, ecc.; 

sollecitare la costituzione delle commissioni comunali per i problemi della minoranza presso 
l’ Unione socialista del popolo lavoratore e renderle funzionali; 

sollecitare l'emanazione della legge sulle scuole del gruppo nazionale italiano nella Repub- 
blica socialista di Croazia. 


3) Istituzioni prescolastiche e scolastiche: 


curare la rete delle istituzioni scolastiche e prescolastiche, perfezionarla e adeguarla sempre 
più alle condizioni reali del terreno; in particolare: risolvere il problema della scuola di Torre, 
degli asili di Parenzo, Fiume, Pola, delle scuole degli apprendisti; proporre la formazione di 
sezioni prescolastiche presso scuole elementari soprattutto se esistono già quelle della 
maggioranza; 

chiarire il problema delle iscrizioni: le iscrizioni alle scuole italiane devono essere libere, 
poiché esse in base alla costituzione godono di uno status paritetico; eliminare ogni procedura 
speciale all’atto dell’iscrizione; 

promuovere l’analisi delle cause della sproporzione verificatasi in determinate località tra il 
numero della popolazione italiana e quello degli alunni che si iscrivono alla scuola della 
minoranza; 

risolvere il problema dell’insegnamento integrale nella lingua materna: in alcune scuole 
qualche materia viene ancora insegnata in lingua croata (Parenzo, Dignano, Umago, Fiume); 
regolare la vita interna della scuola a partire dalla sua amministrazione per arrivare ai corpi 
insegnanti (formulari bilingui — una delle due lingue nei dibattiti di natura didattico-pedago- 
gico, ecc.); 

impostare e risolvere il problema dell’autonomia didattico-pedagogica delle sezioni italiane 
nelle scuole miste e parallelamente a ciò definire legalmente lo status del vicedirettore delle 
scuole miste; 

sollecitare la nomina degli ispettori scolastici per le scuole di I grado rispettivamente per 
quelle di II grado dato che una proposta in tal senso è stata già avanzata dalla commissione 
scolastica dell’Unione; 

promuovere la formazione di centri didattici comunali o di più comuni assieme per assicurare 
un aiuto costante, uno scambio di esperienze e una coordinazione delle iniziative nell'opera 
di riforma delle nostre scuole (centro didattico del buiese: Buie, Umago, Cittanova, - centro 
didattico di Rovigno: Rovigno, Parenzo — centro didattico di Pola: Pola, Dignano, Gallesano 
— centro didattico di Fiume: tutte le scuole di Fiume — centro didattico di Capodistria: 
Capodistria, Pirano, Isola); 

portare a terntine la stesura di un piano e programma d’insegnamento unitario per i ginnasi; 
accelerare la realizzazione del piano delle pubblicazioni dei libri di testo; a tale proposito 
studiare la possibilità di giungere alla collaborazione con specialisti italiani per la compila- 
zione di determinati libri di testo; 


122 


k) 


m) 


n) 


0) 


p) 


q) 


r) 


s) 


a) 


b) 


c) 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


risolvere il problema dell’importazione di determinati testi per i ginnasi e di determinato 
materiale didattico (schedari per l’insegnamento elementare — biografie — ecc.); 

attirare l’attenzione delle librerie di certi comuni sulla opportunità di mostrarsi più sensibili 
verso i libri di testo delle scuole italiane; 

impostare la corrispondenza interscolastica in triplice direzione (tra le scuole del gruppo 
nazionale, tra le scuole del gruppo nazionale e quelle della maggioranza, tra scuole del gruppo 
nazionale e alcune scuole italiane), affinché tale iniziativa si inserisca quale utile mezzo di 
esercitazioni linguistiche, di conoscenze reciproche e perché porti anche all’apporto dei 
giovanissimi alla funzione di ponte della nostra associazione; 

procedere all’abbonamento e stabilire una fattiva collaborazione trale nostre scuole e i singoli 
lavoratori culturali con alcune riviste didattico-pedagogiche dell’Italia (Riforma della scuola 
— Cooperazione educativa, ecc.) e con l’apposita cooperativa del Movimento di cooperazione 
scolastica che costruisce mezzi didattici per colmare almeno in parte la mancanza di un 
periodico specializzato e il problema di certo materiale didattico e inoltre per favorire la 
divulgazione delle nostre esperienze nel campo della lotta per una scuola veramente moderna 
e democratica; 

promuovere la formazione di gruppi letterari e di arti figurative presso tutte le nostre scuole 
allo scopo di favorire l’attività creativa e quella delle redazioni scolastiche per la collabora- 
zione e la diffusione della nostra stampa; 

continuare la prassi positiva dell’organizzazione dei seminari estivi di perfezionamento 
professionale degli insegnanti delle nostre scuole estendendola a quelli delle istituzioni 
prescolastiche, tenendo conto anche nel futuro della preziosa collaborazione di docenti 
italiani; sollevare il problema dell’opportunità di estendere i seminari che si tengono in 
febbraio nel Capodistriano, anche agli altri centri dell'Istria e di Fiume, adottando a tale scopo 
speciali forme organizzati ve; 

organizzare visite di gruppi di insegnanti alle nostre scuole italiane, che per indirizzo e 
risultati di lavoro si sono distinte e presentano affinità o identità d'impostazione e di soluzione 
di determinati problemi di natura didattico-pedagogica; 

promuovere il perfezionamento professionale dei nostri insegnanti per quanto concerne la 
lingua materna in Italia; 

formare bibliotechine circolanti anche per le scuole e specialmente per quelle delle località 
minori. 


4) Cultura: 


impostare seriamente l’attività delle conferenze quale mezzo importante dell’elevazione 
culturale; a tal fine elaborare un piano di conferenze interessanti e mobilitare i CIC per la 
parte organizzativa di questa iniziativa; parallelamente intraprendere misure concrete, in 
accordo con gli organismi a ciò addetti, per organizzare un ciclo sistematico di conferenze 
con relatori qualificati provenienti dall’ Italia; 

potenziare ulteriormente il patrimonio librario delle biblioteche dei CIC e delle scuole e 
adottare misure divulgative e culturali per la diffusione della lettura (inserzioni di recensioni 
dei nuovi libri sulla stampa — organizzare dibattiti tra i lettori nell’ambito dei Circoli, ecc.), 
mediante l'importazione sistematica; 

promuovere l’allestimento, almeno una volta all’anno nei principali centri dell’Istria, di 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 128 


d) 


a) 


b) 


c) 


d) 
e) 


8) 


a) 


b) 


c) 


d) 


e) 


a) 


b) 


mostre ambulanti del libro italiano, offrendo la possibilità ai connazionali di fare acquisti sul 
posto e organizzare [per la] circostanza serate letterarie quale forma di promozione di singole 
opere e di singoli autori; 

riordinare e arricchire la sezione del museo civico di Rovigno dedicata al contributo degli 
italiani alla L. P. L. e all’edificazione socialista. 


5) Attività artistica: 


curare l’organizzazione delle tradizionali rassegne in modo che qualitativamente e quantita- 
tivamente diventino migliori; 

procedere seriamente alla raccolta e alla pubblicazione del materiale necessario per l’attività 
artistica (cori — copioni per filodrammatiche, bozzetti vari, ecc.); 

studiare la possibilità di organizzare un nuovo festival: quello della canzone del bambino, 
riservato ai bambini delle istituzioni prescolastiche e scolastiche; 

procedere alla registrazione del materiale folkloristico e impostare un’apposita nastroteca; 
porgere l’aiuto al Dramma italiano per il suo rafforzamento organizzativo, per una politica di 
repertorio qualitativamente all’altezza e corrispondente alle necessità dell’elevazione cultu- 
rale e artistica dei connazionali, per la programmazione di giri artistici quanto più efficienti 
per partecipazione di pubblico (mobilitando i CIC e introducendo il sistema degli abbona- 
menti che lega gli spettatori al teatro); formare a tal fine un consiglio di gestione; 

iniziare quanto prima l’attività del teatro dei burattini e collegare questa iniziativa con le 
scuole e le istituzioni prescolastiche; 

curare l’organizzazione di “Serate letterarie” per il tramite del Circolo dei poeti, artisti e 
letterati. 


6) Attività creativa: 


porgere al Circolo dei poeti, letterati e artisti per il suo rafforzamento organizzativo (elabo- 
razione e approvazione definitiva dello statuto, programmazione dell’attività, ecc.); 
promuovere per il tramite del circolo dei poeti, letterati e artisti il bando dei concorsi, 
ampliandone i limiti e i campi (vedi programma a parte); 

curare l’allestimento di mostre di pittura e di scultura, di disegno infantile, di fotografia 
artistica, ecc. per il tramite del Circolo dei poeti, letterati e artisti; 

procedere, in accordo con il museo civico di Rovigno, all’ apertura di una mostra permanente 
di arti figurative dei membri del Circolo dei poeti, letterati e artisti; la medesima iniziativa 
potrebbe ripetersi in qualche località dell’Istria onde popolarizzare i nostri giovani artisti; 
promuovere convegni di poesia, arte, ecc. con la partecipazione di artisti qualificati jugoslavi 
e italiani (almeno un convegno del genere all’anno). 


7) Attività editoriale e radio 


analizzare il ruolo svolto sinora dalla nostra stampa e adeguarlo maggiormente alle esigenze 
in tale campo dei connazionali e ai compiti dell’Unione; indirizzare la nostra stampa a 
sollevare tempestivamente i problemi e farli oggetto di pubblico dibattito; 

intraprendere iniziative rivolte a lumeggiare meglio certi problemi e a porli all'attenzione 
degli organi competenti, suscitando l’interesse dei lettori attorno ai medesimi (organizzazioni 
di dibattiti pubblici, di tavole rotonde, ecc.); 


124 


c) 
d) 


e) 


p) 


a) 


b) 


c) 


d) 


e) 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


intensificare la collaborazione con giornali e riviste dell'interno e dell’Italia per un’informa- 
zione sistematica sull’attività del gruppo nazionale italiano; 

programmare l’invio dei nostri giornalisti a specializzarsi all’estero e intraprendere le misure 
adeguate per il tramite degli organismi competenti; 

introdurre il sistema del “Mese della nostra stampa”, da ripetersi ogni anno, in ottobre, in 
coincidenza con l’anniversario della fondazione della Voce quale mezzo di diffusione, 
ingaggiando i CIC e le scuole per un’azione coordinata ed efficace; 

dare maggiore consistenza organizzativa alla rete dei corrispondenti e adottare misure per 
migliorare la rete di distribuzione e il suo funzionamento; 

iniziare la pubblicazione della nuova “Rivista di varia cultura” con i fini già esposti e 
appoggiandosi in special modo sul Circolo dei poeti, letterati e artisti; 

intensificare la pubblicazione dei quaderni politici; 

iniziare la pubblicazione di collane di opuscoli di altro contenuto; 

pubblicare il libro-documento sulla partecipazione degli italiani alla LPL “Fratelli nel sangue”, 
risolvere definitivamente il problema dell’importazione della stampa italiana; 

porgere aiuto per una regolare attività delle sezioni italiane di Radio Fiume e Radio Pola; 
analizzare il ruolo finora svolto da Radio Capodistria nell’ opera di popolarizzazione della vita 
del gruppo nazionale italiano, quale ente importante e coadiutore dell’azione informativa e 
dell’elevazione culturale che si prefigge l’ Unione; 

adottare periodicamente il sistema delle conferenze stampa per una più ampia informazione. 


8) circoli italiani di cultura 


procedere al rafforzamento organizzativo dei CIC e delle sale di lettura e al perfezionamento 
ed eventuale ampliamento della loro rete (vedi: Albona, Dignano, Parenzo, Torre, Valle, 
Buie, Cittanova, ecc.); 

impostare seriamente il problema dei soci dei circoli e delle sale di lettura (rinnovare le 
iscrizioni, approfittando delle medesime per un’azione mobilizzatrice su scala capillare — 
distribuire i nuovi tesserini, ecc.); 

promuovere, dove esistono le condizioni favorevoli, la formazione di nuove sezioni nell’am- 
bito dei CIC (fotoamatori - filatelia — gruppi letterari, ecc. — sezioni giovanili, senza intaccare 
l’attività della gioventù studentesca); 

procedere alla formazione delle consulte distrettuali dei CIC e aiutare a precisare il proprio 
programma di lavoro; 

elaborare un piano efficiente di scambi, soprattutto tra Circoli maggiori e quelli minori per 
porgere un concreto aiuto e ciò quanto prima; 

organizzare un giro artistico dei migliori complessi dei CIC nell’interno del nostro paese e in 
Italia; 

favorire la collaborazione di alcuni CIC con enti affini progressisti della vicina repubblica 
allo scopo di giungere a uno scambio di stampa, libri, materiale politico, mostre, ecc.; 
promuovere presso i CIC la formazione di gruppi ricreativi. 


9) Amministrazione dell’Unione: 


Creare presso l’Unione l’evidenza e la cartoteca di tutte le nostre attività, per mezzo di una 
documentazione precisa e aggiornata; 


A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 7-126 125 


b) Risolvere il problema della partecipazione proporzionale delle Repubbliche, al finanziamen- 
to di tutti gli enti dell’Unione (Radio — Dramma, ecc.); 
c) Impegnare la commissione dell’Unione, il Circolo dei poeti, letterati e artisti e i Circoli 


italiani di cultura, le scuole, il Dramma, l’EDIT e in genere tutti gli enti dell’associazione 
nell’elaborazione definitiva e particolareggiata del programma e nella sua attuazione. 


126 A. RADOSSI, Evoluzione interna della Jugoslavia (1955-1965), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 7-126 


SAZETAK 

U ovom ێlanku autor smjesta pod istragu jedno od najkompleksnijih i 
najtezih razdoblja povijesti zajednice istarskih i rijeèkih Talijana, odnosno 
dekadu 1955-1964, za vrijeme kojeg se provodio sloZen proces brojéanog 
smanjenja i oslabljenja istarskih Talijana u politiékoj, kulturnoj i 
lingvistitkoj sferi. 

Posebice su analizirani problemi vezani uz kulturne krugove, skolske 
institucije i izdavatke djelatnosti Talijanske etniéke skupine preko 
skupova Tajnistva, Predsjednistva i Komiteta organizacije Talijana. Rijec 
Je o vrlo vaZnim izvorima arhiva koji svjedoée ne samo o atmosferi u 
kojoj je djelovala Talijanska Nacijonalna Zajednica (zatvaranje talijanskih 
Skola, kulturnih centra, promjena toponomastike) veé i o suprostavije- 
nosti unutar same upravljatke grupe koja otkriva dvije struje ili frakcije: 
jedna se usmjeravala ka ukupnom ukljuéivanju Talijana u socijalistiéki 
proces a druga je pokuSavala uévrstiti odredenu autonomju. ZapoCinju 
se medu ostalim analizirati i prvi odnosi sa nacionalnom maticom koji 
se sredinom 50-tih godina poèinju polako nazirati ali se uobliCuju tek 
u narednom desetljeéu. 


POVZETEK 

Avtor èlanka obravnava eno najbolj kompleksnih in tezavnih obdobij 
zgodovine Skupnosti istrskih in reskih Italijanov, desetletje 1955-1964, 
ko je zapleten proces privedel do itevilînega padca in preoblikovanja 
politiéne, kulturne in jezikovne vloge istrskih Italijanov. 

Najveùja pozornost je posvetena tezavam kulturnih kroZkov, solskih 
ustanov in zaloZnistva italijJanske narodnostne skupnosti, o katerih priéajo 
zapisniki s sej sekretariata predsednistva in odbora zdruZenja Italijanov. 
Gre za zelo pomembne arhivske vire, ki priéajo ne le o ozraòju, v 
katerem je delovala italijanska skupnost (ukinjanje italijanskih Sol in 
kulturnih kroZkov, spreminjanje toponomastike), temveè tudi o naspro- 
tovanjih znotraj samih vodilnih kadrov Italijanov, ki so privedla do 
nastanka tveh tokov oz. taborov: eden se je zavzemal za popolno 
vkljuditev Italijanov v socialistiéni proces, drugi pa za ohranitev dolotene 
samostojnosti skupnosti. Predstavljeni so tudi prvi odnosi z matiîno 
domovino, ki so bili sredi petdesetih let zelo sumljivi, ki pa so se 
udejanjili Sele v naslednjem desetletju. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 127 


GLI ANNI DIFFICILI (1971-1987) 
Il percorso storico dell’Unione degli Italiani 
dall’ Assemblea di Parenzo al ‘dopo Borme” 


EZIO GIURICIN 
Centro di ricerche storiche CDU 325.15(=50):930” 1971/1987” 
Rovigno 


Nel testo si ripercorrono le principali tappe di uno dei periodi più difficili e complessi, e, insieme, più 
significativi della storia dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume: quello che va dalla XIV 
Assemblea dell’UIIF ( Parenzo, 23 maggio 1971) sino alle Conferenze UIIF sulla socializzazione 
(Parenzo, 14 dicembre 1984, e Pirano, 22 novembre 1985) e alla Petizione sui problemi della 
minoranza promossa da Gruppo ’88 (Capodistria, dicembre 1987). Un periodo contrassegnato da una 
delle più importanti fasi di risveglio politico, civile e culturale del gruppo nazionale cui seguì, quale 
conseguenza dei moti nazionalistici in Croazia e della repressione attuata dal regime jugoslavo, la 
destituzione (il 13 settembre del 1974) del presidente Antonio Borme ed un lungo momento di stasi 
per la comunità nazionale italiana che si protrarrà praticamente sino alla metà degli Anni ottanta. Con 
l'emergere, prima, dell’azione e delle proposte riformatrici dei giovani riuniti attorno alla Commis- 
sione giovanile dell’UIIF, e quindi con le Tesi sulla socializzazione promosse dalla Seconda 
Conferenza dell’ Organizzazione (Parenzo, 1984 e Pirano, 1985), si aprirà, anche se con difficoltà, 
una nuova fase di apertura, di trasformazione e di rilancio politico del gruppo nazionale che culminerà 
con la petizione, la tribuna pubblica e le altre importanti iniziative di Gruppo ’88. 


La XIV Assemblea dell’UIIF di Parenzo segnò l’ultima tappa della rinascita 
della comunità italiana, iniziata negli anni Sessanta. Stavano ormai esaurendosi le 
spinte democratiche manifestatesi allora nella società jugoslava: timide aperture 
che, se da una parte avevano dato linfa a forze autenticamente liberali e riformatri- 
ci, dall’altra contribuirono a ridestare il nazionalismo più sfrenato. 

La ripresa dell’UIIF e l’acquisizione di una maggiore soggettività politica e 
sociale dell’Organizzazione della minoranza giunte alla massima espressione con 
l’ Assemblea di Parenzo incontrarono una durissima battuta d’arresto. Gli obiettivi 
programmatici sanciti dall’ Unione di quel periodo suscitarono l’immediata reazio- 
ne dei movimenti nazionalisti e delle forze politiche della maggioranza, determi- 
nando una frattura insanabile che si sarebbe risolta con la defenestrazione di Borme 


128 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


nel 1974 e la normalizzazione delle strutture dell’UIIF ad opera delle autorità 
Jugoslave. 

I momenti più difficili, di aperta ostilità, iniziarono in Croazia con il propagar- 
si dei movimenti nazionalisti (confluiti nel “Masovni Pokret”) che si erano svilup- 
pati con il pieno appoggio delle strutture dello Stato e del Partito, e grazie alla 
complicità dei mass-media. 

In Istria e a Fiume il nazionalismo assunse aspetti del tutto particolari. Bersagli 
principali divennero il gruppo nazionale italiano e le sue istituzioni: V’UIIF, il 
quotidiano “La Voce del Popolo”, il Centro di ricerche storiche di Rovigno e, in 
particolare, la collaborazione UIIF-UPT che si stava espandendo, con notevoli 
successi, in tutti i campi. 

I primi attacchi diretti alla comunità italiana vennero promossi da alcuni 
intellettuali croati dell’Istria che facevano capo al “Cakavski Sabor”, fra i quali il 
letterato Zvane Crnja, fondatore e responsabile della rivista “Dometi”. 

Fu proprio questa pubblicazione ad avviare la polemica contro le “Tesi sul 
bilinguismo” elaborate nel 1970 dai massimi organismi socio-politici della regione 
assieme all’UIIF. 

Gli esponenti del “Cakavski sabor” e della rivista “Dometi” si scagliarono, in 
particolare, contro la bozza dello Statuto comunale di Rovigno, considerato allora, 
sul piano dei diritti e degli strumenti di tutela della comunità italiana, il più 
avanzato in Istria. Il loro fine dichiarato era quello di difendere le zone “tradizio- 
nalmente e storicamente croate di Canfanaro e di Gimino dall’invadenza italiana”. 

Da rilevare che lo Statuto non prevedeva l’applicazione del bilinguismo 
integrale in queste aree del comune rovignese, bensì l’introduzione dell’insegna- 
mento della lingua italiana, quale lingua dell’ambiente sociale, anche nelle scuole 
croate (per parificarle alle istituzioni italiane nelle quali l’insegnamento della 
lingua croata era stato sempre obbligatorio e favorire così un clima di attiva 
comprensione e convivenza). 

L’atteggiamento assunto dai nazionalisti creò fortissime tensioni in Istria. Si 
arrivò a volgari metodi di linciaggio morale nei confronti di esponenti del gruppo 
nazionale, con l’invio di lettere anonime e insinuazioni di ogni tipo. Le forze naziona- 
liste vennero sostenute direttamente dal clero croato che inviò alla stampa e a tutte le 
principali istanze politiche una petizione sottoscritta da una novantina di sacerdoti 
istriani. Si trattava di una chiara protesta nei confronti dello Statuto rovignese e del 
bilinguismo in particolare. Scontato e prevedibile il risultato della manovra: la 


1“ dvojeziènosti u Istri”, Dometi, n.10 (1970), p.90. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 129 


polemica accantonò definitivamente l'approvazione dello Statuto rovignese?. 

Lo stesso accanimento si ebbe nei confronti del “Programma d’azione” appro- 
vato dalle strutture politiche del Comune di Pola, che fissava i principi, in materia 
di bilinguismo, che avrebbero dovuto ispirare il futuro Statuto comunale. Il docu- 
mento stabiliva infatti le norme e i criteri applicativi del bilinguismo da introdurre 
a Dignano e Gallesano, a Pola città, Sissano e Fasana. 

Anche in questo caso le polemiche innescate dalle forze nazionaliste croate 
sortirono l’effetto desiderato: il “Programma d’azione” non venne mai approvato). 


Il Centro di ricerche nel mirino 


Il nazionalismo decretò la fine del dibattito costituzionale e statutario portato 
avanti sino ad allora con tanto entusiasmo e tante speranze. Purtroppo il processo 
di crescita civile, democratico e politico del gruppo nazionale venne bruscamente 
interrotto. 

Venne preso di mira il Centro di ricerche storiche di Rovigno che, fin dalla sua 
nascita, si era effettivamente rivelato uno dei punti di forza della presenza culturale 
italiana in Istria e un insostituibile fattore della collaborazione con la Nazione 
Madre in campo scientifico e in quelli culturale, storico ed editoriale. 

Ad un anno dalla fondazione, il Centro presentò al pubblico il primo volume 
della collana degli “Atti”. La cerimonia si svolse il 21 febbraio del 1971 nella sede 
del CIC di Dignano. Alla manifestazione seguì lo scoprimento della lapide, nella 
vicina Barbana, in onore di Pietro Stancovich, autore della “Biografia degli uomini 
illustri dell’Istria”, opera di cui il Centro e l’UIIF, (nel quadro della collaborazione 
con l’Università Popolare di Trieste) avevano voluto promuovere la ristampa. 

L’iniziativa venne duramente criticata dalla rivista “Dometi” in un commento 
firmato dal suo caporedattore Zvane Crnja*. 

L’intervento innescò un’aspra polemica con il Centro rovignese sulle pagine 
del “Glas Istre-Novi List”. 

In questo periodo iniziò inoltre un’ampia azione propagandistica e “patriotti- 
ca” (promossa dalle autorità politiche e dalle emergenti forze del nazionalismo 


? Archivio del Centro di ricerche storiche di Rovigno (=ACRSR), “Promemoria dell’ UIIF”, fascicolo (=f.) 
5047/86. 


3 La Voce del Popolo, 18 giugno 1970 e ACRSR, Foglio di informazioni dell’UIIF, n.1 (1970). 
4 “Naert odgovora”, Dometi, n. 4-5 (1971), pp. 124-125. 
5 Glas Istre-Novi List, 4 e 17 marzo, 19 e 21 aprile, 2 e 19 maggio 1971. 


130 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


croato) a favore del prestito pubblico per la realizzazione del traforo del Monte 
Maggiore (tunnel stradale la cui funzione, secondo gli slogan politici del momento, 
sarebbe dovuta essere quella di “collegare meglio e vincolare in modo indissolubile 
l’Istria alla Croazia”). L'azione venne contrassegnata da una serie di manifestazio- 
ni e persino da eccessi nazionalistici che l’UIIF non esitò a condannare sin 
dall’ Assemblea di Parenzo del maggio 1971. 

Da qui le accuse e le insinuazioni lanciate nei confronti dell’UIIF, fatte 
immediatamente proprie anche dai massimi fori politici e ampiamente divulgate da 
quasi tutta la stampa della maggioranza. 

L’Organizzazione della comunità italiana aveva compiuto allora una scelta 
molto difficile e coraggiosa: i documenti, le conclusioni, i principi programmatici 
sino allora approvati dall’ UIIF non si limitavano a criticare duramente il naziona- 
lismo croato ma mettevano sotto accusa, per le inadempenze e le vessazioni 
perpetrate ai danni della minoranza, l’intero apparato statale e di partito. 

La resa dei conti nei confronti dell’Unione ebbe inizio subito dopo la svolta 
decisiva di Karadordevo, nel dicembre del 1971; evento che determinò la “liquida- 
zione” ufficiale e la repressione del nazionalismo in Croazia, ma anche la rimozio- 
ne della linea liberale e riformista ai vertici della Federazione e in tutte le altre 
repubbliche della Jugoslavia. 


Le vittime alla pari degli aggressori 


Le strutture di potere, in seguito alla svolta di Karadordevo, dopo avere 
eliminato, anche se solo di facciata, le forze nazionaliste, decisero di concentrare 
la loro attenzione sull'Unione degli Italiani per cercare di opporsi alle istanze e 
condizionare l’azione di un’Organizzazione che, con Borme, era riuscita a raggiun- 
gere un elevato grado di autonomia e ad assumere, via via, sempre maggiore peso 
e soggettività politici. 

Durissime furono infatti le conclusioni della Conferenza regionale della Lega 
dei comunisti di Fiume (riunitasi il 10 dicembre del 1971), così come le prese di 
posizione assunte dal Comitato centrale della LC croata (alla XXIII seduta, il 12, 
14 dicembre 1971). La Lega dei comunisti volle porre strumentalmente sullo stesso 
piano il ruolo sostenuto dalle forze nazionaliste croate in Istria ed a Fiume e quello 
esercitato dall’UIIF, identificando paradossalmente le vittime con gli aggressori®. 


6 Vjesnik, 13,14 e 16 dicembre 1971; La Voce del Popolo, 17 dicembre 1971. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 131 


La reazione della comunità fu immediata. Il Comitato dell’ UIIF, riunitosi a 
Fiume il 23 dicembre del 1971, protestò decisamente denunciando una “manovra 
tesa a rovesciare la situazione ed i fatti, ed a colpire le strutture del gruppo 
nazionale che si erano opposte per prime, e spesso da sole, contro ogni manifesta- 
zione di nazionalismo”? All’inizio del 1972 vi furono altre prese di posizione da 
parte dei massimi organismi politici regionali; le autorità stavano cercando di 
dimostrare che il nazionalismo croato in Istria — guidato, a parer loro, esclusiva- 
mente da gente “venuta da fuori”’— era stato poco più di un fuoco di paglia. 
L’intento evidentemente era di giustificare il loro operato e di proteggere quei 
dirigenti locali che si erano compromessi col nazionalismo. 

Mentre le autorità stavano cercando di scagionare da ogni responsabilità gli 
esponenti delle forze nazionaliste e del “Masovni pokret”, sul banco degli accusati 
venne posta quasi dappertutto l’ UIIF (anche se ci furono diversi distinguo, come a 
Rovigno, da parte di dirigenti della maggioranza che avevano collaborato attiva- 
mente con la comunità e contribuito all’affermazione dei diritti costituzionali e 
statutari della minoranza). 

L’UIIF si trovò completamente isolata a causa della pesante offensiva politica 
scatenata nei suoi confronti dalle strutture di potere regionali e repubblicane e 
dell’azione generale di disinformazione condotta dai mass-media. 

Da qui la decisione della Presidenza dell’UIIF di elaborare un ampio “Prome- 
moria” (Memoriale) per illustrare all’opinione pubblica il ruolo, gli indirizzi 
programmatici, le istanze e, soprattutto, la vera storia dell’ Unione degli Italiani e 
del gruppo nazionale. Il documento venne sottoposto all’attenzione di tutti gli 
organismi politici e le strutture istituzionali jugoslave, dai comuni alla Federazio- 
ne. 

Emblematiche furono le conclusioni assunte alla Nona Conferenza elettorale 
della LC del Comune di Pola (25 aprile 1972); assise nel corso della quale vennero 
pesantemente criticati i contenuti del nuovo Statuto dell’UTIF approvato a Parenzo. 
L’UIIF voleva assumere — secondo le strutture di partito polesi — il “ruolo di una 
vera e propria organizzazione socio-politica, diventare un partito; principi questi 
che non potevano essere accettati, come non poteva essere accolta la proposta di 
costituire delle Comunità degli Italiani al posto dei Circoli di cultura nelle località 
in cui vivevano gli appartenenti al gruppo nazionale italiano*. 


? La Voce del Popolo, 29 dicembre 1971. 
8 ACRSR, f. 5047/86. 


132 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


Il primo voltafaccia 


Ulteriori appunti furono mossi nei confronti dell’UIIF dal Comitato di coor- 
dinamento dell’ ASPL regionale di Fiume (28 aprile del 1972), che stigmatizzò 
duramente l’atteggiamento assunto dall’Unione degli Italiani, o meglio, come si 
affermò nel documento, da una parte della sua direzione, nei confronti del traforo 
del Monte Maggiore?. 

Le critiche riguardavano le prese di posizione dell’ UIIF relative al nazionali- 
smo croato e al ruolo assunto dal Cakavski Sabor e dalla rivista “Dometi” in 
particolare. Inaccettabili furono definiti gli articoli della “Voce del Popolo” nei 
quali si commentavano questi fenomeni. L° ASPL decise inoltre di avviare un’ap- 
profondita analisi della situazione e dei problemi riguardanti i diritti costituzionali 
del gruppo etnico italiano. 

Nel giugno del 1972 l’analisi era pronta. La relazione, elaborata da un apposito 
gruppo di lavoro nominato dal Comitato intercomunale LC e dall’ ASPL regionale, 
con l’apporto di Emma Derossi Bijelajac e Ivan Miskovié del Comitato Centrale 
della LC croata (CC LCC), venne immediatamente trasmessa agli attivi delle 
organizzazioni socio-politiche comunali. 

I principi su cui si basava il nuovo “materiale” ribaltavano completamente le 
volontà espresse nei documenti del 1970 (le “tesi sui diritti del gruppo nazionale” 
elaborate congiuntamente dall’UIIF e dall’ ASPL e approvate dai massimi fori 
politici regionali nonché lo “Statuto Modello” del 1970 che doveva servire da base 
per la nuova elaborazione degli Statuti comunali istriani). Il dibattito sulle tesi 
venne rinviato “a tempi migliori”, al momento cioè in cui si fosse stabilizzata la 
situazione politica del Paese. 

Una delle contraddizioni più evidenti riguardava il ripristino del fattore nume- 
rico quale condizione per la concessione dei diritti costituzionali alle minoranze. 
Risultava così che nessun comune istriano si sarebbe potuto considerare mistilin- 
gue, nemmeno quello di Rovigno al quale, per ovvie ragioni, era stato deciso di 
aggiungere anche l’abitato di Gimino, per mettere così in minoranza gli italiani. 
Naturalmente era impensabile che nelle scuole croate si studiasse anche l’italiano. 
Un no deciso venne espresso pure alla richiesta di autonomia, all’autogoverno e 
alle esigenze specifiche dell’ Unione degli Italiani. La risposta delle autorità fu che 
tali concessioni avrebbero potuto “portare l’UIIF a mettersi in concorrenza con le 
organizzazioni socio-politiche ufficiali”. Gli italiani, peranto, — si ribadiva — se 


? Ibidem. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 133 


volevano continuare ad esistere “dovevano operare esclusivamente nel campo 
culturale”. 

Nel documento la Lega e l’ ASPL espressero chiaramente l’intenzione, inoltre, 
di prendere parte attiva nella scelta dei quadri dirigenti dell’ UIIF. Venne rifiutato 
il principio della “rappresentanza qualificata”. Vennero inoltre valutati negativa- 
mente i contenuti della collaborazione con l’UPT, ritenuti “inaccettabili e privi di 
alcun fondamento giuridico”. 


Rinnegare Parenzo 


Si registrò una brusca inversione di tendenza che, se attuata in pieno, avrebbe 
portato il gruppo nazionale ai tempi bui degli anni Cinquanta. Da qui la mobilita- 
zione generale dell’UIIF e di tutte le sue istituzioni in difesa dei diritti della 
comunità. 

Il primo grosso scontro ebbe luogo il 2 ottobre 1972 nella seduta congiunta 
delle commissioni per le questioni nazionali della LC intercomunale e dell’ ASPL 
regionale, dove furono messi a confronto la citata “Analisi sulla posizione degli 
appartenenti al gruppo etnico italiano” e il “Promemoria” presentato dall’ UIIF. 
Due testi, opposti ed antitetici, che risultavano essere irrimediabilmente inconci- 
liabili!9, 

Il documento dell’Unione venne liquidato sin dalle prime battute di questa 
riunione, perchè ritenuto “inaccettabile”. 

I pochi rappresentanti del gruppo nazionale presenti diedero subito battaglia 
criticando il fatto che nell’elaborazione del documento presentato dalle autorità la 
minoranza non fosse stata mai interpellata. A queste argomentazioni venne rispo- 
sto con arroganza e persino con minacce. I maggiori responsabili della Lega e 
dell’ ASPL, Drago Vlahinié e Ante Ferlin, intimarono all’ Assemblea dell’UIIF di 
“rinnegare i principi e le decisioni assunte a Parenzo”. Alla fine però, in conside- 
razione delle obiezioni opposte da alcuni esponenti delle forze politiche locali e 
della minoranza, l’ assise concluse di aggiornare il dibattito sino alla chiarificazione 
defintiva dei problemi e delle divergenze. 


10 ACRSR, f. 4630/86. 


134 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


Nascono le Comunità degli Italiani 


Per l'Unione degli Italiani rimanevano valide le decisioni approvate a Paren- 
zo. I suoi organismi erano impegnati nella realizzazione dell’indirizzo programma- 
tico e dei dettami dello Statuto. Tra i compiti principali dell’Unione vi era quello 
di promuovere la costituzione delle Comunità degli Italiani (che dovevano suben- 
trare, avviando un profondo processo di riforma dell’assetto organizzativo, sociale 
e politico del gruppo nazionale, ai Circoli italiani di Cultura). 

Il Comitato dell’UIIF riunitosi a Pola il 10 ottobre 1972 volle fare un primo 
bilancio dell’attività e delle iniziative promosse dall’Organizzazione della mino- 
ranza. L'organismo affrontò alcuni punti chiave del programma dell’Unione: la 
costituzione delle Comunità, l’introduzione dell’autogoverno (di strumenti atti ad 
assicurare cioé una maggiore autonomia e la piena soggettività politica, culturale, 
didattica ed economica delle strutture della minoranza) e l’elaborazione della sfera 
dei diritti del gruppo nazionale nell’ambito dei nuovi statuti comunali !'. 

In base alle informazioni pervenute dalla base le Comunità degli Italiani 
risultavano essere state costituite ufficialmente in tutte le località all’infuori di Pola 
e Gallesano, dove le autorità politiche avevano opposto fortissime resistenze. Il 
compito principale dell’Unione — queste le decisioni unanimi del Comitato — 
doveva essere quello di concludere quanto prima il processo di “trasformazione” 
delle strutture associative dell’etnia, al fine di assicurare loro un ruolo sociale e 
politico preminente e più incisivo. 

L'argomento venne affrontato nuovamente nel corso di una seduta congiunta 
della Presidenza dell’UTIF con i presidenti di tutti i sodalizi, il 6 dicembre del 1972. 
In quell’occasione vennero presentate delle dettagliate informazioni, località per 
località, che rilevavano l’estrema articolazione organizzativa delle singole Comu- 
nità. Rimaneva purtroppo aperta la questione della trasformazione in Comunità del 
Circolo Italiano di Cultura di Pola, a causa degli ostacoli frapposti delle autorità 
politiche locali!?. Tra il 26 dicembre del 1972 e il 10 gennaio del 1973 nel corso di 
vari incontri e riunioni tra i massimi esponenti politici regionali (LC e ASPL) e i 
rappresentanti dell’UIIF, vennero individuate delle linee di “compromesso” che 
contribuirono ad attenuare, almeno temporaneamente, le divergenze". 


!! ACRSR, Appunti Glavina. 
1? Ibidem. 


13 Ibid. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 135 


L’ inversione di tendenza 


Durante questi incontri i massimi dirigenti dell’ ASPL assunsero dei toni più 
concilianti riconoscendo che “erano stati commessi alcuni errori e mancanze nei 
confronti della minoranza e dell’ UIIF”. Alcuni rappresentanti delle autorità politi- 
che regionali giunsero sino al punto di ‘considerare valide buona parte delle tesi e 
delle istanze formulate dall’ UIIF nel 1970”. Alla luce di queste considerazioni le 
due parti stabilirono di “operare di comune accordo per contribuire allo sviluppo 
di un nuovo clima politico e di convivenza in quell’area”4. 

Quali i motivi di questo repentino mutamento degli orientamenti politici? Le 
strutture politiche jugoslave erano impegnate allora ad affrontare una nuova fase 
del dibattito sugli emendamenti costituzionali e l’avvio di una radicale riforma 
degli statuti comunali. Si stavano manifestando delle spinte significative tese ad 
assegnare maggiore autonomia alle singole repubbliche (la Costituzione jugoslava 
del 1974, infatti, riconoscerà alle unità federali il ruolo di veri e propri Stati). Un 
contesto che imponeva alle autorità della Croazia di allentare momentaneamente 
la “morsa” nei confronti delle minoranze e di ricercare, con una manovra che si 
dimostrerà essenzialmente strumentale e “di facciata”, delle linee di intesa anche 
con i gruppi nazionali. 

Nella seduta della Presidenza del 7 febbraio 1973, 1’ UIIF ribadì l’esigenza di 
individuare delle soluzioni volte ad assicurare una maggiore uniformità di tratta- 
mento giuridico della minoranza tra le repubbliche di Slovenia e Croazia. L’Unio- 
ne richiese in quell’occasione un incontro con i massimi vertici politici della 
Slovenia e il diritto di nominare un proprio rappresentante nella Commissione di 
esperti del Comitato misto italo-jugoslavo. 

Era ormai evidente che nello schema della nuova Costituzione della Repub- 
blica Socialista di Slovenia sarebbero state introdotte delle soluzioni legislative più 
avanzate rispetto a quelle previste dalla Croazia, soprattutto per quanto atteneva la 
facoltà delle minoranze di “organizzarsi in comunità autogestite”. Secondo l’Unio- 
ne tali forme di tutela si sarebbero dovute estendere pure alla Croazia". 

A questo scopo vennero organizzate alcune importanti riunioni con i massimi 
esponenti della LC e dell’ ASPL della Croazia e della regione istro-quarnerina. Fu 
così che il 23 maggio del 1973 le Commissioni regionali per le questioni nazionali 
della LC e dell’ ASPL approvarono, nel corso di una seduta congiunta, la proposta 


14 Ibid. 
!5 La Voce del Popolo, 6 agosto 1972. 


136 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


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Antonio Borme alla XIV Assemblea dell’Unione (Parenzo, 1971) 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 137 


di costituire delle “specifiche comunità autogestite” anche per gli appartenenti al 
gruppo nazionale italiano dell’Istria e di Fiume, alla stregua di quelle previste dalla 
nuova legislazione slovena nel Capodistriano!°. 


Il dibattito costituzionale 


In contrasto con la linea tracciata dai massimi fori socio-politici regionali, a 
Pola le autorità locali continuavano ad operare in quel momento contro gli elemen- 
tari interessi del gruppo nazionale. Le autorità locali, infatti, sottoposero a dibattito 
pubblico, il 19 maggio 1973, una nuova bozza di statuto comunale che non teneva 
conto delle istanze della comunità italiana e delle indicazioni contenute nel “Pro- 
gramma d’azione” formulato dall’ Unione nel 1970. Il nuovo testo riconosceva lo 
status di “zone nazionalmente miste” solamente alle località di Dignano, Gallesano 
e Sissano, escludendo i centri di Pola e di Fasana. Erano stati introdotti, ancora una 
volta princìpi basati esclusivamente sul fattore numerico. Vi fu una generale alzata 
di scudi da parte del gruppo nazionale, che obbligò i fattori politici locali a 
riformulare, parzialmente, il testo dello Statuto, il quale comunque venne approva- 
to in una versione assolutamente non corrispondente ai bisogni e alle aspettative 
della comunità". 

Superati definitivamente gli ostacoli e le resistenze opposti dalle autorità 
locali, venne finalmente costituita, il 5 settembre del 1973, anche la Comunità degli 
Italiani di Pola, chiudendo così la complessa fase di “trasformazione” dei sodalizi 
della minoranza, segnata da notevoli difficoltà, contrasti e divergenze politiche "5. 

Nel corso del dibattito pubblico sugli emendamenti costituzionali nelle Comu- 
nità degli Italiani vennero organizzati comizi e tavole rotonde seguiti con interesse 
e partecipazione da centinaia di connazionali. L’UIIF volle promuovere inoltre, in 
questo periodo, un’importante iniziativa allo scopo di sensibilizzare l’opinione 
pubblica ed informare adeguatamente la maggioranza sui problemi e le istanze del 
gruppo nazionale italiano. 


!6 La Voce del Popolo, 6 ottobre 1973. 
!7 ACRSR, Foglio d'informazioni dell'UIIF, n.1. 
18 La Voce del Popolo, 6 settembre 1973. 


138 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


Il “Foglio d’informazioni” dell’UIIF 


Nacque così l’idea di pubblicare un “Foglio di informazioni” (Bollettino) 
dell’Unione degli Italiani (in lingua croata e slovena). L'iniziativa era ritenuta 
indispensabile data la poca obiettività e la mancanza di sensibilità dimostrate della 
stampa croata e slovena nei confronti dei problemi della comunità italiana. 

Il primo numero del “Foglio”, uscito all’inizio di ottobre, comprendeva 
un’analisi comparativa dei nuovi schemi delle costituzioni croata e slovena, e 
denunciava il notevole divario esistente tra i due testi per quanto atteneva la 
posizione, il ruolo e i diritti della comunità nazionale!?. 

La costituzione slovena aveva accolto buona parte delle richieste avanzate 
dall’ Unione, mentre quella croata non solo le aveva ignorate, ma aveva persino 
respinto le proposte degli organismi socio-politici dell’area istro-quarnerina, i 
quali avevano ipotizzato di costituire, sull’esempio delle CIA previste in Slovenia, 
come già rilevato, delle comunità autogestite per gli appartenenti alla comunità 
italiana anche in Istria ed a Fiume?®. 

Il primo (ed unico) numero del “Foglio di informazioni” offriva inoltre 
un’ampia panoramica relativa alla posizione giuridica ed ai diritti previsti dagli 
statuti comunali nell’area istro-quarnerina e denunciava l’ involuzione registrata, in 
questo campo, negli ultimi anni, con la messa al bando dello “Statuto modello”. 


Processi inquisitori 


Il “Foglio di informazioni” divenne il pretesto per dare inizio ad una nuova, 
ancor più aspra, campagna di accuse nei confronti dell’UIIF. I rilievi contenuti 
nella pubblicazione ponevano in risalto le gravi responabilità accumulate dalle 
autorità politiche della Croazia che, negli ultimi decenni, avevano perseguito una 
pesante politica assimilatrice e di “contenimento” nei confronti della comunità 
italiana. Quasi tutti i comitati comunali della Lega dei comunisti dell’Istria e di 
Fiume intentarono dei veri e propri “processi politici” nei confronti dell’UIIF. Il 
primo a lanciare l'attacco con accuse diffamanti fu il Comitato della LC polese?'. 

Dopo Pola fu la volta del Comitato comunale della LC di Fiume. Anche in 


!° La Voce del Popolo, 6 ottobre 1973. 
20 Ibidem. 


2! Glas Istre-Novi List, 3 novembre 1973. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 139 


questa occasione non venne preso di mira solo il “Foglio”, ma l’attività comples- 
siva, l’indirizzo programmatico e lo Statuto dell’UIIF, approvati all’ Assemblea di 
Parenzo. Quasi tutti i comitati della LC della Regione si erano associati all’atto di 
accusa. L’azione promossa dalle strutture locali del Partito unico attendeva ora solo 
l’avallo conlusivo e l’“imprimatur” del Comitato intercomunale della Lega. Un 
atto che avrebbe inevitabilmente comportato anche l’applicazione di “severe mi- 
sure nei confronti di singoli e di istituzioni”. 

Secondo gli organismi della LC le posizioni dell’ UIIF “stavano falsando la 
vera situazione degli italiani in Jugoslavia ed aderendo in pieno alle tesi degli 
irredentisti d’oltreconfine”. Interessanti pure alcune segnalazioni che ben illustra- 
vano il carattere delle riunioni dei vari comitati della Lega convocati per discutere 
sul “Foglio d’informazioni” dell’ UIIF. La maggior parte dei rappresentanti politici 
presenti, infatti, non sapeva nemmeno quali fossero i contenuti del Foglio “incri- 
minato” né aveva mai avuto in visione una copia dello stesso. Le accuse più pesanti 
comunque riguardavano un passo in cui gli autori definivano “travagliata” l’esi- 
stenza della comunità italiana dal dopoguerra in poi. 

Il Comitato regionale della LC inferse il colpo finale. Furono subito messi 
“sotto accusa” e richiamati alle “responsabilità di partito” i cinque membri della 
redazione del Foglio, appartenenti tutti alla Presidenza dell’Unione (Luciano 
Giuricin, responsabile, Antonio Borme, Giovanni Radossi, Corrado Iliasich e Leo 
Fusilli). L’imputato principale però non poteva essere che il Presidente Antonio 
Borme il quale ben presto divenne oggetto di ogni tipo di indagini e di controlli, 
sia da parte delle autorità politiche che di quelle di polizia. Nei suoi confronti i 
servizi di sicurezza jugoslavi, (come verrà reso noto solo alla alla fine degli anni 
Ottanta) aprirono un voluminoso dossier di oltre mile pagine?. 


Le reazioni dell’ Unione 


Una prima e immediata risposta a quesa campagna venne dalla Presidenza 
dell’UIIF?4. In questa occasione, l’ Organismo espresse il grave stato di inquietu- 
dine presente nelle file della comunità italiana in seguito alle accuse gratuite ed 
ingiustificate rivolte al Foglio di informazioni dell’ UIIF. 


22 La Voce del Popolo, 7 novembre 1973. 


23 “Relazione di Ernest Cukrov alla Commissione per le questioni nazionali dell'ASPL regionale”, La Voce 
del Popolo, 15 marzo 1988. 


24 La Voce del Popolo, 8 novembre 1973. 


140 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


L’UIIF inoltre protestò per il fatto che queste critiche erano state rivolte all’ 
Organizzazione della comunità italiana senza consentire ai suoi rappresentanti 
ufficiali di difendersi, ovvero di esprimere, nelle sedi adeguate, i punti di vista e le 
posizioni della minoranza. 

Secondo il Comitato dell’Unione — come rilevato dai resoconti de “La Voce 
del Popolo” — si trattava di un vero e proprio “atto intimidatorio teso a bloccare le 
istanze e le rivendicazioni avanzate dall’ UIIF nell’ambito del dibattito sugli emen- 
damenti costituzionali e statutari”. Da qui l'appello dell’ Unione a “farla finita con 
le insinuazioni e le accuse di irredentismo, puntualmente indirizzate alla minoranza 


italiana ogni qual volta questa chiedeva l’attuazione dei propri diritti”??. 


La requisitoria zagabrese 


L'ultima doccia fredda venne registrata nel corso della riunione di una dele- 
gazione dell’ UIIF con alcuni tra i principali esponenti del CC LC della Croazia, 
tenutasi a Zagabria il 29 novembre del 1973. A nulla valsero le ragioni esposte dal 
presidente Borme e dai suoi collaboratori. 

In quell’occasione gli esponenti repubblicani (guidati dall’alto funzionario 
Marinko Gruié) espressero delle accuse pesantissime nei confronti dell’ UIIF?°, 

La causa del deteriorarsi dei rapporti interetnici e del pesante clima politico in 
Istria venne attribuita esclusivamente ai dirigenti dell’ UIIF, mentre venivano posti 
in secondo piano i danni provocati dal nazionalismo croato che, sino alla riunione 
di Karadordevo, aveva trovato ampi spazi ed appoggi nelle stesse strutture della 
LC repubblicana e regionale. All’ Unione venne intimato di allontanare quanto 
prima “tutti coloro che avevano contribuito alla realizzazione del tanto deprecato 
Foglio di informazioni e, naturalmente, di sospendere immediatamente la sua 
pubblicazione”. 

Netto fu inoltre il rifiuto della LC della Croazia di adeguare e di uniformare 
lo schema costituzionale di quella repubblica, per quanto atteneva i diritti della 
comunità italiana, alle soluzioni giuridiche adottate in Slovenia. Per gli esponenti 
politici croati non si trattava che di “assurde speculazioni”. L'Unione venne 


25 Ibidem. 
26 ACRSR, Appunti Glavina. 


27 Ibidem. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 141 


sollecitata a riformulare i propri orientamenti programmatici e le proprie istanze. 

Quanto successo aZagabriaera la dimostrazione più chiara che il conflitto non 
poteva avere più alcuna via d’uscita e che, di conseguenza, si sarebbero profilati 
all'orizzonte dei momenti ancora più difficili per il gruppo nazionale. 

Il 1974 può essere considerato uno dei periodi più critici di tutta la storia della 
comunità nazionale italiana in Jugoslavia. 

Già nel mese di marzo scoppiò un’altra delle numerose crisi nelle relazioni fra 
Italia e Jugoslavia per la delimitazione dei confini e la sovranità sulle Zone A e B 
dell’ex Territorio Libero di Trieste (questione che avrebbe trovato una composi- 
zione definitiva, l’anno successivo, solo con la firma degli Accordi di Osimo). 

Si sviluppò un pesante clima di tensione, acuito dallo scambio di note diplo- 
matiche e da manifestazioni di piazza. Si giunse, pur indirettamente, sino alla 
minaccia delle armi e alla mobilitazione, da parte jugoslava, di migliaia di riservisti 
dell’esercito. La situazione non poteva che ripercuotersi negativamente sul gruppo 
nazionale e l’attività dell’UIIF. 

L’azione intimidatrice nei confronti dell’Unione e dei suoi dirigenti, rivolta in 
particolare contro il presidente Antonio Borme, continuò imperterrita. 

A Rovigno il Presidente dell’ UIIF, con un’azione orchestrata dall’alto, venne 
espulso dalla Lega dei comunisti. Il provvedimento, infondato e del tutto arbitrario, 
era dettato dalla necessità di fornire un pretesto alla sua destituzione anche dalla 
carica di presidente dell’ Unione. 

In questo periodo, inoltre (maggio-giugno 1974) furono messi sotto accusa a 
quindi allontanati i maggiori esponenti delle organizzazioni socio-politiche e delle 
strutture municipali di Rovigno, rei di avere appoggiato le posizioni dell’Unione. 
L’eliminazione di molti dirigenti politici della maggioraza favorevoli alle tesi del 
gruppo nazionale (non solo a Rovigno e in altri comuni, ma anche a livello 
regionale) indebolì notevolmente la posizione della comunità italiana”. 


La Conferenza internazionale sulle minoranze 
L’azione repressiva venne momentaneamente bloccata in occasione della 


Conferenza internazionale sulle minoranze svoltasi a Trieste dall’ 11 al 14 luglio 
del 1974? Durante i preparativi per l’organizzazione della Conferenza, le autorità 


28 “Presentazione di G. Radossi”, Etnia, vol. III (1992), CRSR. 
29 ACRSR, f. 4685/85, vedi anche La Voce del Popolo, 1 1, 12, e 25 luglio 1974. 


142 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


Jugoslave tentarono, con numerosi pretesti, di escludere il presidente Borme dalla 
guida della delegazione dell’UIIF. Venne avanzata la proposta di dare vita ad 
un’unica delegazione ufficiale jugoslava assieme ai rappresentanti di tutte le altre 
minoranze della Federazione. La reazione immediata e risoluta dell’UIIF e delle 
forze politiche italiane permisero a Borme non solo di presenziare al Convegno, 
ma anche di presentare, a nome dell’UTIF, una dettagliata relazione sui problemi, 
la situazione e le istanze della minoranza italiana in Jugoslavia?®. 

I rappresentanti di alcuni partiti italiani proposero all’UIIF di denunciare 
pubblicamente, nel corso della Conferenza, i pesanti attacchi mossi dalle autorità 
Jugoslave contro il gruppo nazionale e le manovre tese a rimuovere i suoi massimi 
dirigenti. 

Allo scopo di evitare uno scandalo internazionale e le gravi ripecussioni che 
ne potevano derivare (in una fase delicata che stava preludendo alla stipulazione 
degli Accordi di Osimo), le autorità politiche slovene promisero di intervenire a 
sostegno di Antonio Borme e di convincere le autorità croate e federali a desistere 
dagli attacchi contro |’ UIIF. 

La delegazione dell’ Unione, alla luce di queste promesse (che in seguito non 
sarebbero state mantenute), decise di non compromettere i lavori della Conferen- 
2001. 

Le diplomazie italiana e jugoslava (impegnate allora in trattative per l’elabo- 
razione degli Accordi che sarebbero stati successivamente siglati ad Osimo) 
avevano ventilato l’ipotesi di coinvolgere direttamente nei negoziati — per la parte 
concernente i diritti delle comunità nazionali e le relazioni culturali — pure i 
rappresentanti delle minoranze slovena in Italia e italiana in Jugoslavia. 

La Presidenza dell’ UIIF (nella seduta del 7 febbraio del 1973) decise, alla luce 
delle proposte formulate allora dalle diplomazie, di nominare, quale rappresentante 
dell’Unione, nell’ambito dei negoziati per la definizione degli Accordi di Osimo, 
il presidente Antonio Borme. La proposta di coinvolgere nelle trattative anche ai 
rappresentanti delle minoranze venne successivamente accantonata. 

In concomitanza con la Conferenza di Trieste, il 12 luglio ebbe luogo il primo 
incontro ufficiale tra una delegazione dell’UIIF e la Giunta regionale del Friuli- 
Venezia Giulia. Un incontro importantissimo che segnò l’inizio della fattiva 
collaborazione anche con quest’amministrazione regionale e il coinvolgimento 
diretto delle strutture della Regione autonoma nei programmi e gli interventi 
culturali avviati, a partire dal 1964, dall’ Università Popolare di Trieste. 


30 Ibidem. 


3 ACRSR, Appunti Glavina. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 143 


La destituzione di Borme 


Spentisi definitivamente i riflettori sulla Conferenza internazionale delle mi- 
noranze di Trieste riprese l’azione repressiva delle autorità politiche croate nei 
confronti dell’UIIF; azione che si sarebbe conclusa pochi mesi dopo con la 
destituzione del presidente dell’Unione degli Italiani. L’esautorazione doveva 
riguardare inizialmente tutti i componenti la Presidenza. L’azione si sarebbe 
dovuta inoltre estendere anche a diversi membri del Comitato ed ai dirigenti delle 
principali istituzioni del gruppo nazionale. 

I condizionamenti ai quali furono sottoposti numerosi dirigenti dell’ UIIF 
produssero conseguenze estremamente negative e di vasta portata. 

Dato il deciso e ripetuto rifiuto del presidente Antonio Borme di rassegnare le 
dimissioni, richieste insistentemente dalle autorità croate, ebbe inizio un’ esaspe- 
rante opera di convincimento rivolta soprattutto ai membri della Presidenza 
dell’UIIF iscritti alla Lega dei comunisti. Nei loro confronti fu esercitata ogni sorta 
di pressioni e di minacce, al punto da costringerli ad agire contro la propria 
coscienza. 

Il 6 settembre nel corso di una riunione promossa a Fiume dai vertici dalla LC 
e dall’ ASPL (presieduta dai dirigenti Vlahinic e Ferlin) l’ Unione venne sottoposta 
ad un vero e proprio “ultimatum”. Alla luce di questi fatti lo stesso giorno si riunì 
la Presidenza dell’UIIF (seduta straordinaria, cui non presenziò il presidente) per 
decidere il da farsi. Venne prospettata la soluzione di rassegnare le dimissioni 
collettive, in segno di protesta e di solidarietà con il presidente Borme. Nel corso 
del dibattito emersero però vari distinguo e divergenze che, di fatto, impedirono ai 
presenti di adottare una linea comune. Naufragata l’ipotesi delle dimmissioni 
collettive (e considerato che le dimissioni di una parte sola dei componenti la 
Presidenza sarebbe risultata inutile e controproducente) l’ Organismo si piegò al 
diktat del potere”. 

Il presidente Antonio Borme venne “esautorato” nella drammatica seduta del 
Comitato, tenutasi a Pola il 13 settembre 1974 su “precisa richiesta delle organiz- 
zazioni socio-politiche regionali delle Repubbliche socialiste di Croazia e di 
Slovenia e sostituito dal facente funzioni Luigi Ferri” (come rilevato nell’ articolo 
pubblicato dalla “Voce del Popolo” del 16 settembre 1974). 

In quell’occasione il Comitato volle ribadire, in un comunicato trasmesso agli 


32 “Testimonianza di Apollinio Abram”, La Voce del Popolo, 14 marzo 1988, 


33 “Testimonianze di Glavina, Iliasich e Giuricin”, La Voce del Popolo, marzo 1988. 


144 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


organi di stampa, che “tutta l’attività svolta sino a quel momento era stata condotta 
collegialmente e in piena sintonia con il Presidente, nel rispetto dello Statuto 
dell’UIIF e del suo indirizzo programmatico”. 

La “fretta” con cui le autorità politiche avevano imposto la destituzione di 
Borme era certamente da ascriversi — in quel momento — all’obiettivo di eliminare 
una voce “scomoda” in una fase delicata dei negoziati per gli Accordi di Osimo. 
Tra gli obiettivi delle autorità vi era anche quello di porre “sotto controllo” le 
imminenti celebrazioni per il Trentesimo della fondazione dell’UIIF; di evitare 
cioé che i dirigenti della comunità potessero sfruttare quell’importante tribuna per 
denunciare le prevaricazioni subite o rivendicare ancora una volta con forza le 
istanze e i diritti della minoranza. Le celebrazioni del Trentennale, infatti, si 
svolsero nella più assoluta “normalità”, senza Borme, (dopo essere state più volte 
rimandate) ad Albona, il 29 settembre, alla presenza delle più importanti autorità 
politiche e statali?”. 

In base allo Statuto dell’UIIF allora in vigore il Presidente avrebbe potuto 
essere destituito solamente dal massimo organo politico e deliberativo dell’Orga- 
nizzazione, ovvero dall’ Assemblea, che sull’argomento non fu mai interpellata. 


Il dopo-Borme 


Con la destituzione del presidente Borme si diffuse in seno ai connazionali un 
senso di costernazione e di profonda amarezza, che contribuì a segnare per lungo 
tempo l’attività dell’UIIF e a determinare un clima generale di sfiducia nelle 
prospettive di sviluppo del gruppo nazionale. 

L’operazione di definitivo “smantellamento” delle conquiste realizzate 
dall’ Unione venne portata a termine proprio in questo periodo. Una fase lunga e 
complessa — quella del “dopo-Borme” — caratterizzata da una profonda involuzione 
dei diritti e dei livelli di tutela della comunità, dall’ annullamento di ogni spazio di 
autonomia e di soggettivita e da una timida e larvata lotta delle strutture dell’ UIIF 
in difesa, almeno in parte, delle posizioni acquisite. 

La grave crisi che aveva investito l’UIIF con la destituzione di Borme e i duri 
attacchi condotti dalle strutture politiche jugoslave avrebbero potuto seriamente com- 
promettere i rapporti di collaborazione con l’Università Popolare di Trieste. Fortuna- 


34 Verbale della riunione del Comitato dell’UIIF. 13 settembre 1974, ACRSR, f. 1695/74. 
35 La Voce del Popolo, 30 settembre 1974. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 145 





Conferenza UIIF (Parenzo, 1984) 


tamente grazie all'alto livello raggiuto negli anni precedenti dalla collaborazione, 
al suo consolidarsi all’interno del tessuto del gruppo nazionale, e, soprattutto, all’inte- 
resse delle autorità jugoslave a non incrinare i rapporti con l’Italia in seguito alla sigla 
degli Accordi di Osimo, le relazioni con l’ UPT non solo non subirono alcuna battuta 
d’arresto ma, al contrario, conobbero una nuova stagione di crescita. 

A rompere il ghiaccio fu la Giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia, la 
quale, in ottemperanza agli accordi stabiliti nel primo incontro con l’UIIF del 
luglio 1973, decise di consolidare i rapporti di colaborazione con il gruppo nazio- 
nale italiano e di devolvere nuovi stanziamenti a favore dell’UPT estendendo così 
il campo degli interventi culturali. Il 21 febbraio 1975 ebbe luogo a Trieste un 
nuovo incontro tra una rappresentanza dell’ Unione e la Giunta regionale. In quella 
occasione venne siglato un accordo ed elaborato un programma integrativo di 
interventi e di iniziative rivolte a potenziare l’attività dell’UPT?°, 

L’interessamento espresso dalla Giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia e 
la costante attenzione rivolta alla comunità italiana dalla Nazione Madre contribui- 


36 ACRSR, f. 3886/84 e 4685/84. 


146 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


rono a modificare in parte anche gli atteggiamenti delle autorità politiche croate e 
slovene. 


La “piattaforma ideale” 


Il 15 maggio 1975, un gruppo di lavoro nominato dai Comitati esecutivi della 
Lega dei comunisti della Croazia e della Slovenia, elaborò un documento denomi- 
nato “Schema di piattaforma ideale per l’elaborazione dello Statuto dell’Unione 
degli Italiani dell'Istria, di Fiume e del Litorale sloveno”, con l’intento preciso di 
annullare l’indirizzo programmatico e lo statuto approvati dall’UIIF nel 1971”. 

L’operazione veniva promossa ufficialmente — queste le giustificazioni forma- 
li adotte delle autorità — “per adeguare i documenti fondamentali dell’Unione ai 
nuovi principi costituzionali della Croazia e della Slovenia”. 

Secondo il documento l’UIIF non poteva essere più riconosciuta quale ‘“sog- 
getto autonomo ed autogestito”, in quanto i diritti e i doveri del cittadino e del 
lavoratore si dovevano “realizzare unicamente nell’ambito delle organizzazioni 
socio-politiche e delle strutture del sistema”. Pertanto, compito delle associazioni 
dei gruppi nazionali doveva essere quello di “coltivare e sviluppare la cultura e le 
altre peculiarità nazionali, delegando ogni altro problema all’ Alleanza Socialista e 
al Partito”, \ 

Il documento non si limitava a stabilire dei principi, bensì contemplava anche 
clausole e norme dettagliate sul ruolo e il funzionamento dei vari Organismi 
dell’ Unione. L'Unione avrebbe dovuto — in base alle disposizioni delle autorità — 
“limitarsi ad emanare uno statuto che rispecchiasse fedelmente i contenuti di 
questa piattaforma ideale, ed astenersi dall’approvare altri documenti politici o 
indirizzi programmatici”? 


L’“irredentismo” dell’EDIT 


Lo schema della “Piattaforma ideale” venne posto al vaglio della Commissio- 
ne per le questioni nazionali dell’ ASPL regionale il 20 ottobre 1975‘. 


37 ACRSR, f. 2089/76. 
38 Ibidem. 

39 Poid. 

4 Ibid. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 147 


Veniva offerta per la prima volta l’opportunità di partecipare al dibattito, in 
questo modo, anche ai rappresentanti dell’ UIIF che, sino a quel momento, non 
erano stati interpellati ufficialmente sui contenuti di un documento che riguardava 
direttamente il futuro assetto della loro Organizzazione. 

I rappresentanti dell’ UIIF, intervenendo in questa sede, dopo avere espresso il 
loro rammarico peri metodi seguiti dalle autorità, constatarono che la “Piattaforma 
ideale” non corrispondeva “né alle aspettative, né alle esigenze della comunità 
italiana e delle sue istituzioni”. 

In quell’epoca venne inoltre avviata una durissima campagna di accuse nei 
confronti della casa editrice “Edit”. Il Ministro agli Interni M. Uzelac mosse infatti 
dei pesanti attacchi nei confronti della casa editrice, nella quale, secondo lui, 
stavano “spirando nuovi aliti di irredentismo””!. 

La manovra suscitò viva indignazione in seno al gruppo nazionale e tra i 
dipendenti della casa editrice. I pesanti attacchi all’“Edit” erano evidentemente 
frutto di un disegno teso ad intimidire quegli esponenti delle pubblicazioni e degli 
organi d’informazione del gruppo nazionale che si erano esposti maggiormente 
sostenendo le posizioni e le istanze dell’ Unione degli Italiani. 


Il Convegno di Abbazia 


Concluso il processo di “normalizzazione” dell’ UIIF, le autorità politiche 
cercarono di legittimare l’azione condotta nei confronti della minoranza e di 
stabilire almeno una parvenza di “legalità”. 

A questo scopo venne organizzato ad Abbazia, il 30 ottobre 1975, il primo 
Convegno regionale delle Commissioni assembleari (comunali) per i problemi 
nazionali‘. 

Gli organismi, istituiti in base alla nuova Costituzione croata, si riunirono la 
prima volta allo scopo di effettuare un’accurata analisi delle disposizioni relative 
ai diritti del gruppo nazionale italiano previste dagli statuti comunali. 

Nel corso del convegno venne constatata la notevole discrepanza e diversità, 
per quanto atteneva i livelli di tutela della comunità, esistente tra gli statuti 
comunali delle varie località dell'Istria e del Quarnero. In diverse occasioni le 
norme previste dagli statuti comunali erano persino più restrittive e scarne di quelle 
previste dalla costituzione repubblicana. 


4! ACRSR, f. 4270/84. 
42 ACRSR, f. 2090/76. 


148 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


Uno dei temi dibattuti ad Abbazia riguardava l’attuazione pratica delle norme 
costituzionali e statutarie; attuazione che spesso risultava essere contrassegnata da 
enormi inadempienze, ritardi e lacune. 

Tra le varie conclusioni del Convegno quella secondo cui le disposizioni degli 
Statuti comunali non potevano essere considerate sufficienti a garantire, da sole, 
l’affermazione dei diritti e un’adeguata tutela del gruppo nazionale. Ad esse 
avrebbero dovuto essere affiancate altre e più efficaci misure di carattere politico, 
amministrativo e sociale allo scopo di realizzare compiutamente il dettato costitu- 
zionale. 

La sigla degli Accordi di Osimo (10 novembre 1975) contribuì ad alleviare lo 
stato di profonda tensione, di disagio e di sfiducia nel quale si trovava ad operare 
la comunità italiana ed a migliorare, anche se parzialmente, la posizione della 
minoranza. La firma del Trattato permise infatti di ufficializzare i rapporti tra 
l’ Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume e 1’ Università Popolare di Trieste, e di 
aprire un nuovo capitolo nelle relazioni tra la comunità e la Nazione Madre. 


Statuto e UIIF riformati 


Erano fondate quindi le speranze che i nuovi rapporti tra i due Paesi, oltre che 
incrementare la collaborazione e l'amicizia reciproca, contribuissero a creare pure 
un nuovo clima di convivenza e di tolleranza nella regione, a tutto vantaggio del 
gruppo nazionale e delle sue istituzioni. 

Non tutto però stava procedendo nel senso e la direzione auspicati. Le autorità 
regionali dell’area istro-quarnerina continuarono infatti a procrastinare la convo- 
cazione dell’ Assemblea dell’ UTIF; organismo che si sarebbe potuto riunire — a loro 
avviso — solo a conclusione del processo di “trasformazione” dell’assetto statutario 
dell’Unione. 

Il 15 ottobre del 1976 la Commissione per le questioni nazionali dell’ ASPL 
regionale di Fiume decise di sottoporre al vaglio lo schema di statuto del’ UIIF e di 
discutere le indicazioni e le osservazioni pervenute da parte delle commissioni 
comunali per le nazionalità”. 

I preparativi tesi a “riorganizzare” 1’ Unione degli Italiani procedettero ancora 
per lungo tempo. Solo nel maggio del 1977 le autorità politiche della Croazia e 
della Slovenia decisero di sciogliere ogni riserva e di dare il via libera alla 
convocazione dell’ Assemblea dell’ UIIF. 


43 ACRSR, f. 2089/86. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 149 


La XV Assemblea dell’ Unione degli Italiani ebbe luogo a Pola, il 13 maggio 
1977, a distanza di sei anni dalla precedente storica Assemblea di Parenzo”. 

Si trattò di un’assise formale, nel corso della quale venne presentato il bilancio 
dell’attività degli ultimi anni, sottacendo le ragioni della crisi ed i motivi che 
determinarono la defenestrazione di Borme. Particolare risalto venne dato all’atti- 
vità culturale che stava registrando un notevole incremento grazie allo sviluppo 
costante dei rapporti di collaborazione con l’UPT. 

Si concludeva così un periodotra i più importanti e, insieme, più difficili nella 
storia dell’Organizzazione del gruppo nazionale; un periodo che sarebbe stato 
caratterizzato dall’uscita definitiva di scena anche di alcuni tra i più stretti collabo- 
ratori di Borme e dei componenti la dirigenza dell’ UIIF eletti nella prima metà 
degli anni Sessanta. 

L’ Assemblea, prima di sciogliersi, volle compiere un atto di giustizia morale 
ed esprimere ancora una volta, nonostante le pressioni delle autorità, piena solida- 
rietà nei confronti del presidente destituito: nel corso dell’assise, infatti, la Com- 
missione di controllo rilevò ufficialmente che l’esautorazione di Borme fu “un atto 
illegale, in aperto contrasto con lo Statuto dell’ UIIF”. 

Un mese più tardi, il 17 giugno 1977, si svolse a Capodistria la prima sessione 
costitutiva della I Conferenza dell’ UIIF, un organismo che rifletteva i dettami del 
nuovo Statuto concepito in base alle disposizioni ed ai suggerimenti delle autorità 
politiche della Croazia e della Slovenia. Il nuovo documento, il cui schema 
fondamentale era stato elaborato dall’ ASPL, mise al bando definitivamente i 
principi statutari e programmatici fissati dall’ UIIF nel 1971. 


Il cambio della guardia 


Molti furono i disagi e le incognite alla vigilia della Conferenza. Lo si deduce 
dal verbale della riunione preparatoria, indetta il 4 luglio dai vertici dell’ ASPL, per 
concordare la scelta dei candidati alle massime cariche dell’ Unione”. 

In quest'occasione, dopo avere rilevato che i criteri per la scelta dei quadri 
sarebbero stati “più rigidi rispetto al passato”, i rappresentanti politici presenti si 
opposero decisamente alla candidatura e alla rielezione di quei dirigenti che 
avevano collaborato con Borme. Vennero esclusi inoltre (per quanto atteneva la 
carica di presidente) i candidati provenienti dalla Slovenia dato che “la parte 


4 ACRSR, f. IV/1977. 
45 Verbale della riunione, ACRSR, f. 4010/85. 


150 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


preponderante degli italiani si trovava in territorio croato e non sarebbe stato 
conveniente richiamare alla responsabilità i compagni di un’altra Repubblica”. 

Alcuni dei candidati proposti dalle autorità rinunciarono subito, mentre altri 
accettarono la candidatura per “disciplina di Partito”. Venne formulata una rosa di 
nomi che più tardi fu modificata. Gli ultimi ritocchi si ebbero il giorno stesso della 
Conferenza quando, al posto del candidato proposto dal Partito, venne eletto 
l’allora caporedattore della “Voce del Popolo” Mario Bonita, succeduto a Paolo 
Lettis nella guida del giornale‘. 

A questa Conferenza seguì un periodo di proficua attività culturale animata da 
un rinnovato slancio nella collaborazione con l’UPT e una timida, ma graduale 
ripresa dell’impegno politico. Mario Bonita, in seguito ai primi inevitabili scontri 
con le autorità, non venne più ricandidato alla funzione di presidente (nel 1983) a 
causa della presunta impossibilità — una condizione imposta dai vertici dell’ ASPL— 
di “rinnovare per la seconda volta il suo mandato”. 


Di scena i giovani 


Alla seconda sessione della prima Conferenza dell’UIIF, svoltasi ad Umago 
nel dicembre del 1978, si costituì la Commissione giovanile dell’ Unione con il 
compito di stimolare le giovani generezioni ad inserirsi nella vita e nelle strutture 
del gruppo nazionale e ad acquisire maggiore consapevolezza della propria appar- 
tenenza nazionale. Vennero organizzate ben nove edizioni della “Festa giovanile 
dell’ UIIF” (che comprendeva incontri culturali e sportivi, dibattiti, tavole rotonde, 
spettacoli) in varie località dell’Istria con la partecipazione di migliaia di giovani**. 

Tali iniziative contribuirono a risvegliare forze e potenziali un tempo assopiti 
stimolando indirettamente l’affermazione e la crescita, anche sul piano politico, dei 
primi movimenti d’opinione in seno alla comunità. Nel marzo del 1981, a Buie, 
alla Terza sessione della Prima Conferenza dell’UIIF, nacque inoltre la Commis- 
sione per le attività sportive e ricreative. 

Nell’assise successiva, svoltasi a Pola 1’ 11 giugno del 1982, 1’ UIIF espresse 
notevole preoccupazione per il notevole calo numerico dei connazionali rilevato 
all’ultimo censimento (1981). Fra le cause, denunciate all’assemblea, l’inarresta- 


46 Ibidem. 
4? ACRSR, f.1V/1977. 


48 AA.VV, Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume 1944-1984, Fiume, 1985. 
| 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 151 





Riunione della Presidenza dell’UIIF (Rovigno, 21 febbraio 1986) 


bile processo assimilatorio determinato da un contesto politico e sociale sfavore- 
vole e penalizzante per la minoranza. 

In meno di un ventennio, ad esodo concluso, era stato registrato un calo 
superiore al 60 per cento degli italiani. 

Nell’ambito di quell’assemblea venne affrontato inoltre il problema della 
mancata ricezione di TV Capodistria in vaste zone dell’Istria e di Fiume a causa 
del rifiuto della Croazia di installare un ripetitore sul Monte Maggiore*®. 


Bilinguismo e socializzazione 


Una delle iniziative più significative avviate dalla rinnovata dirigenza 
dell’ UIIF agli inizi degli anni Ottanta, fu quella relativa alla “socializzazione della 
lingua e della cultura italiane” nel territorio di insediamento storico della comunità. 


49 “La IV sessione ordinaria della I Conferenza dell’UIIF e la sessione costitutiva della II Conferenza 
dell’UIIF (Pola, 1982; Fiume, 1982) ”, Documenti, vol. VII (1984), CRSR, Pola. 


152 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


Si trattava di un progetto politico di ampio respiro che si prefiggeva di 
estendere l’uso della lingua e della cultura italiane e di fare sì che queste diventas- 
sero, con l’ausilio di appropriati strumenti politici, giuridici, didattici, informativi 
e per mezzo della graduale introduzione del bilinguismo, un patrimonio e una 
risorsa del territorio. 

Le tesi sulla socializzazione costituivano la naturale continuazione e l’ulterio- 
re approfondimento del concetto di “bilinguismo integrale” elaborato dall’ UIIF 
all’inizio degli anni Settanta. Il progetto era suffragato, tra l’altro, dall’emergere di 
un rinato interesse, in quest'area, per la lingua, la cultura e la civiltà italiane. 

L’importante progetto politico venne coronato, alla Terza sessione della Se- 
conda Conferenza dell’UIIF, svoltasi a Pirano il 22 novembre 1985, dall’ approva- 
zione delle “Dieci tesi sulla socializzazione”. Le tesi dell’UIIF sostenevano l’in- 
troduzione del bilinguismo diffuso, lo sviluppo di nuovi rapporti tra maggioranza 
e minoranza, l’obbligo e la responsabilità della maggioranza di garantire — con 
opportuni strumenti giuridici, politici e sociali — la piena parità della componente 
italiana e l’esigenza di favorire l’avvento di un clima di attiva convivenza. 

Le deliberazioni della Conferenza di Pirano (a completamento di quelle 
approvate l’anno precedente all’assise UIIF di Parenzo) costituivano per molti 
aspetti un’anticipazione dei principi e delle impostazioni progettuali che la nuova 
Unione Italiana ed i regionalisti della dieta Democratica Istriana avrebbero pro- 
mosso a partire nel 1991”. 


Nuove ripercussioni 


I progetti politici e culturali dell’ UIIF in quel periodo stavano evidentemente 
precorrendo i tempi. Erano infatti inaccettabili per le autorità politiche del momen- 
to le istanze relative alla socializzazione e le richieste di bilinguismo avanzate dalla 
comunità. 

Si verificarono ben presto, quindi, come già avvenuto nel passato, dei contrasti 
con le principali strutture di potere (ASPL e Lega dei comunisti). 

Le prime avvisaglie del nuovo clima politico si avvertirono alla fine del 1985 
in occasione della cerimonia di inaugurazione della sede della CI di Rovigno 
(Palazzo Milossa), restaurata, per il tramite dell’UPT, con il contributo del Gover- 
no italiano. L'Unione e la Comunità rovignese, quale segno di riconoscenza nei 


5O “Ia II e III sessione ordinaria della Il Conferenza dell’UlIF (Parenzo, 1984; Pirano, 1985)”, Documenti, 
vol.VIII (1986), CRSR, Pola. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 153 


confronti della Nazione madre, proposero di affiggere all’esterno dell’edificio una 
targa bilingue. La proposta venne respinta dalle autorità jugoslave. L’atteggiamen- 
to provocò un irrigidimento nei rapporti tra i due stati e, per poco non sfociò in un 
vero e proprio incidente diplomatico?'. 

Alcune istituzioni del gruppo nazionale, in particolare il Centro di ricerche 
storiche di Rovigno, vennero sottoposte con vari pretesti ad ispezioni e controlli da 
parte di autorità militari e di polizia. Lo statuto del CRS venne respinto dal 
Tribunale di Fiume e la sua legittimità venne rimessa alla Corte Costituzionale 
della Croazia. 

La Lega dei comunisti del Comune di Fiume diramò un documento “riservato” 
nel quale si rilevavano “il potenziale ruolo di quinta colonna e i pericolosi atteg- 
giamenti irredentistici dell’ UIIF”. 

Si scatenò quindi una vera e propria campagna di stampa contro l’ Unione, 
seguita da un’aspra polemica tra l’“Unità” (ed altre testate italiane), che avevano 
preso le difese della minoranza, e il quotidiano zagabrese “Vjesnik”. Venne 
inscenato persino un processo per spionaggio nei confronti di un connazionale allo 
scopo di influenzare e intimorire le strutture della minoranza. 

Il clima condizionò pesantemente la dirigenza della comunità italiana impe- 
gnata, in quel periodo, a preparare le elezioni per il rinnovo dell’ Assemblea e della 
Presidenza dell’UIIF. Notevoli furono le ingerenze e le pressioni delle autorità 
politiche”. 

I nuovi vertici politici del gruppo nazionale, in un contesto che determinò il 
rimpasto quasi completo della Presidenza dell’ Unione vennero eletti alla Terza 
conferenza dell’ UIIF a Rovigno, il 19 dicembre 1986 (dieci componenti la Presi- 
denza uscente, compreso il segretario, su undici complessivi, a causa delle pressio- 
ni attuate dalle autorità, non furono ricandidati o rinunciarono ai loro incarichi). 

La comunità nel periodo successivo si trovò ad affrontare, oltre al problema 
dei finanziamenti sempre più esigui, anche quello seguito all'approvazione di una 
Legge federale sull’uso delle lingue delle nazionalità creata appositamente per il 
Kosovo ma destinata a limitare fortemente i diritti di tutti i gruppi minoritari. Ad 
accrescere le tensioni contribuirono le proposte di modifica avanzate in Croazia 
alla Legge sulle istituzioni scolastiche che, se accolta, avrebbe compromesso 
definitivamente lo sviluppo delle scuole italiane in Istria e a Fiume”. 


SI Ibid., vedi anche l’”’Intervista ad Ennio Machin, presidente dell'ASPL regionale”, Glas Istre-Novi List, 
16 marzo 1986. 


52 ACRSR, f. 4070/90 e La Voce del Popolo, 27 marzo 1986. 


53 Panorama, n.2 (1988). 


154 E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 127-155 


La reazione e il riscatto del gruppo nazionale, alla luce dei profondi mutamenti 
che, alla fine degli anni Ottanta segnarono la scena politica e sociale jugoslava ed 
europea, risultarono inevitabili. 

Nel 1987 centinaia di cittadini firmarono una Petizione che denunciava il 
profondo malessere del gruppo nazionale italiano. 

Il dibattito che ne scaturì portò alla nascita di alcuni Movimenti d’opinione 
(come Gruppo ’88) che contribuirono in modo significativo alla crescita civile e 
democratica di quest'area, preludendo ai processi di rinnovamento e alle grandi 
trasformazioni che, negli anni successivi, avrebbero interessato il gruppo nazionale 
italiano e la società istriana. 


E. GIURICIN, Gli anni difficili (1971-1987), Quademi, vol. XIV, 2002, p. 127-155 155 


SAZETAK 

U ovom radu autor prikazuje etape jednog od najtezih i najsloZenijih 
razdoblja iz proslosti Talijanske unije za Istru i Rijeku, tj. zbivanja koja 
su se odvijala od 14. sjednice Talijanske Unije za Istru i Rijeku (odrzane 
u Poretu 23. svibnja 1971.) pa do konferencija o socijalizaciji (Poreò, 
14. prosinca 1984., Piran 22. studenog 1985.), te peticije o problemima 
manjina, koju pokreée Grupa ’88 (Kopar, studeni 1987.). To je faza 
koju obiljezava budenje politiéke, kulturne i gradanske svijesti medu 
Clanovima nacionalne manjine, nakon éèega, uslijed nacionalistiékih 
pokreta u Hrvatskoj i represije jugoslavenskog rezima, dolazi do 
smjenjivanja predsjednikta A. Bormea (13. rujna 1974.) te do 
dugogodisnjeg razdoblja stagnacije za talijansku nacionalnu manjinu, koja 
Ce se protegnuti sve do sredine osamdesetih godina. 

Nakon pojave reformatorskih pokreta koje predvode mladi, okupljeni u 
Komisiji za mladez TUIR-a, i Teza o socijalizaciji koje su proiza$le iz druge 
Konferencije ne bez prateéih potreskoda, javlja se nova faza otvaranja i 
obnove nacionalne manjine, koja ée dosegnuti vrhunac pokretanjem 
peticije, polititke tribine i drugih znatajnih inicijativa Grupe ’88. 


POVZETEK 

Besedilo predstavlja glavne faze enega najbolj teZavnih in zapletenih, 
vendar tudi pomembnih obdobij zgodovine Skupnosti istrskih in reSkih 
Italijanov, od XIV, skupStine Italijanske Unije za Istro in Reko (Poreò, 
23. maja 1971) do konferenc IUIR o socializaciji (Poreé, 14. decembra 
1984, Piran, 22. novembra 1985) in do Peticije o problemih manjfine, 
ki jo je spodbudila Skupina ’88 (Koper, december 1987). Gre za 
obdobje, ki ga je oznafevala ena najpomembnejsih faz politièénega, 
civilnega in kulturnega prebujanja narodnostne skupnosti, kateri sta kot 
posledica nacionalistiénih gibanj na Hrvaskem in represije jugoslovan- 
skega rezima sledila odstavitev (13. septembra 1974) predsednika 
Antonia Bormeja in dolgotrajni zasto) italijanske narodnostne skupnosti 
do srede osemdesetih let. Z delovanjem in z reformistiénimi predlogi 
mladih, ki so se zdruzili v Mladinski odbor IUIR-a, in s Tezami o 
socializaciji, ki jih je pripravila druga konferenza organizacije (Poreò, 
1984, Piran, 1985), bo prislo do nove faze odprtosti, sprememb in 
politiîénega zagona, ki bo dosegla svo] visek s peticijo, s politiéno tribuno 
in z drugimi pomembnimi pobudami Skupine ’88. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 157 


ITALIANI IN JUGOSLAVIA E SLOVENI IN ITALIA DI FRONTE 
AL PROCESSO D’INDIPENDENZA DELLA SLOVENIA 
(1990-1992) 


STEFANO LUSA 
Centro di ricerche storiche - Rovigno CDU 323.15(450+497.4/.5)" 1990/1992” 
Fondazione Franca e Diego de Castro — Torino 


Le minoranze nazionali, nell'ex Venezia-Giulia, non furono soggetti passivi nel processo di disgre- 
gazione della Jugoslavia. La loro azione incise, non sempre marginalmente, nei rapporti tra Slovenia 
ed Italia. Ancora una volta però emerse la maggior attenzione che Lubiana aveva (ed ha) per i propri 
connazionali all’estero. La vicenda della mancata firma slovena, del Memorandum trilaterale sulla 
tutela della minoranza italiana in Slovenia e Croazia, fu il primo brutto colpo per quelle “grandi 
speranze” che la comunità italiana riponeva nella Nazione madre dopo la caduta del muro di Berlino. 


In Italia e nell’ex Jugoslavia esiste una diversa sensibilità per la tutela delle 
proprie minoranze all’estero. Negli anni settanta, nel corso della trattativa che 
portò agli Accordi di Osimo, il capitolo relativo alla loro protezione vi entrò, grazie 
alla volontà di Belgrado e, soprattutto, di Lubiana che chiedeva adeguate garanzie 
per i propri connazionali in Italia. 

L’ambasciatore italiano di allora in Jugoslavia, G. Walter Maccotta, ammise 
di non aver condiviso le preoccupazioni sulla posizione delle comunità nazionali 
che considerava “sufficientemente tutelate, dalla democrazia parlamentare in Ita- 
lia, dal federalismo e plutietnismo in Jugoslavia”'. La convinzione rimaneva quella 
che “i pochi italiani rimasti in Dalmazia ed Istria avevano deciso di farlo “per scelta 
ideologica o per interesse materiale”. 

Fu questo uno dei pregiudizi che gravava, e che continuò a pesare, sulla 
comunità italiana. 

Dopo l’esodo si sviluppò, così, una crescente dicotomia nel grado d’ attenzione 


! G.W. MACCOTTA, “Osimo visto da Belgrado”, Rivista di studi politici internazionali, n.1/237, gennaio- 
marzo 1993, p. 66. 


? Idem. 


158 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


dei governi e dell’opinione pubblica nei confronti dei loro connazionali rimasti 
dall’altra parte del confine. 

In pratica “lo stato italiano esprimeva riservo nei confronti della sua minoran- 
za nell’ex Jugoslavia e per molto tempo non volle avere con essa contatti ufficia- 
li”?. A suffragio di ciò basti dire che negli anni ’80 fu l’ambasciatore jugoslavo in 
Italia, Marko Kosin, che intervenne per far ricevere a Roma una delegazione 
dell’ Unione degli italiani dell’ Istria e di Fiume (UIIF). Ad onor del vero va, però, 
ricordato che contatti diretti tra esponenti minoritari e rappresentanti del Governo 
italiano erano del tutto impensabili senza il placet del regime comunista. L’UIIF 
aveva, infatti, sovranità limitata nei rapporti con la nazione d’origine ed in genere 
nella sua azione politica. I primi tentativi di avviare un dialogo diretto risalivano, 
effettivamente, solo ai primi anni 80. Fu l'allora presidente dell’organizzazione, 
Silvano Sau, a provare ad instaurare dei contatti. Chiese, infatti, udienza alla 
Farnesina, “ufficialmente per discutere dei problemi di TV Capodistria”*, di cui era 
direttore. Venne ricevuto dal sottosegretario Mario Fioret. Ne seguì un incontro 
segretissimo ed informale a Tricesimo, tra cinque esponenti di spicco della comu- 
nità nazionale: Silvano Sau, Luciano Monica, Giovanni Radossi, Ezio Giuricin e 
Mario Bonita ed il sottosegretario Fioret accompagnato dal suo collaboratore 
Gianfranco Facco Bonetti. Al colloquio parteciparono anche due esponenti 
dell’ Università popolare di Trieste (UPT), Luciano e Alessandro Rossit. L’istitu- 
zione del capoluogo giuliano aveva iniziato a collaborare con 1’ UIIF già nel 1964 
ed era di fatto l’unico contatto tra l’Italia e la minoranza. La presenza dei due 
dirigenti dell’UPT, probabilmente, serviva a rassicurare Fioret sul fatto che la 
delegazione che si era presentata fosse un rappresentante qualificato della comuni- 
tà dei rimasti. Sau, in effetti, si guardò bene dall’informare delle sue intenzioni la 
presidenza dell’UIIF, di cui probabilmente non si fidava e, si limitò a diramare 
cinque inviti personali, precisando che se uno solo avesse rinunciato, il tutto 
sarebbe saltato. “Nel corso dei colloqui con Fioret per la prima volta venne 
ipotizzato un possibile intervento della nazione madre a favore della sua comunità 
all’estero”. 

AI di là di ciò, in ogni caso, i problemi della minoranza italiana non erano 
certamente un grosso pensiero per la Farnesina, basti pensare che l’ ambasciatore 


3 M. KOSIN, Zatetki slovenske diplomacije z Italijo 1991-1996, Fakulteta za druzbene vede, Ljubljana, 
2000, p. 52. 


4 Testimonianza resa all’autore da Silvano Sau nell’ottobre 2001. 


5 Idem. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 159 


Kosin, fu chiamato, nel corso del suo incarico, soltanto una volta, dal ministero 
degli esteri italiano, per discutere della comunità italiana. L'occasione fu il censi- 
mento del 1981, che aveva visto una notevole diminuzione del numero di italiani 
in Jugoslavia. 


Le aperture della Jugoslavia verso l’economia di mercato 


Con la svolta verso il libero mercato della società jugoslava, che iniziò a 
prendere piede a metà degli anni ‘80, sembravano potersi schiudere nuove possi- 
bilità anche per la piccola comunità italiana. In Italia, attraverso la minoranza 
slovena, o per meglio dire attraverso la sua componente di sinistra, passavano 
molte delle transazioni tra i due paesi, ora c’era chi iniziava a ipotizzare che un 
analogo ruolo potesse venir giocato anche dagli italiani in Jugoslavia ed in questo 
senso vi furono anche dei segnali che parvero incoraggianti. 

Il Memorandum d’Intesa del 1988 tra Italia e Jugoslavia, assegnava a Belgra- 
do 300 milioni di dollari di crediti a tassi agevolati. Nel pacchetto d’interventi 
erano previste anche iniziative concrete a favore della minoranza italiana. Un altro 
passo importante, in questo senso, si registrò nell’autunno del 1989, quando ad 
Umago s’incontrarono i capi di governo d’Italia e di Jugoslavia, Giulio Andreotti 
e Ante Markovié, per stipulare un protocollo economico che ammontava a 1000 
miliardi di lire. “Strade, ferrovie, banche, energia, agroindustria”%, erano i campi 
in cui ci si impegnava a collaborare. 

Tra le iniziative che fecero da corollario al vertice, ci fu anche la firma 
dell’accordo che sanciva la nascita del Business Innovation Center (BIC) di 
Capodistria o per meglio dire dell’ Esten European Innovation Center (EEIC), che 
doveva essere l’incubatrice della base economica della minoranza italiana in Istria 
ed, in generale, uno stimolo per la piccola e media impresa della regione. Il tutto 
venne accompagnato anche dalla promessa che il Governo italiano avrebbe presen- 
tato la Legge di tutela della minoranza slovena in Italia. L'impegno fu concretiz- 
zato nel febbraio del 1990 con il documento stilato del ministro Antonio Maccani- 
co. La tematica delle minoranze, in quel momento, comunque, non sembrò essere 
centrale né per l’Italia che, a dire il vero, non aveva mai accentuato il problema, né 
per la Jugoslavia che pareva più attenta a salvare le malandate casse dello stato. 


65M. SIMONOVICH, “Protocollo economico per mille miliardi”, La Voce del Popolo, 23 dicembre 1989. 


160 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


Della base economica resta solo la prima pietra 


La comunità italiana in Jugoslavia si stava rendendo conto che per soprav- 
vivere, al di là dei governi, avrebbe dovuto costituire una propria base econo- 
mica e lo strumento era stato individuato e si chiamava BIC o EEIC che dir si 
voglia. 

Lo sconvolgimento della realtà jugoslava, però, ora rischiava di mettere a 
soqquadro quel progetto, ma gli esponenti della minoranza tirarono certamente un 
sospiro di sollievo quando, il 6 giugno 1990, Lojze Peterle, nuovo capo del governo 
sloveno, il primo uscito da libere elezioni dopo il 1945, partecipò a Trieste alla 
firma dell’atto costitutivo del BIC di Capodistria. Poi, assieme al presidente del 
Consiglio regionale del Friuli - Venezia Giulia, Adriano Biasutti, presenziò, ad 
Ancarano, alla posa della prima pietra dello stabile che sarebbe dovuto essere 
ultimato in un anno. Non restò che la prima pietra. Esattamente 12 mesi dopo, la 
Commissione per le nazionalità dell'Assemblea repubblicana slovena, oltre a 
lamentare che in generale le sue delibere non trovavano riscontro negli organismi 
esecutivi, sottolineò, che nulla si stava muovendo per la costituzione della struttura. 
Col passare del tempo s’iniziò a percepire che la base economica per la minoranza 
era sempre più una chimera. Anche Unione italiana aveva risollevato il problema 
nel maggio del 1991, quando, nella Piattaforma ed orientamenti programmatici 
per l’incontro con il presidente della presidenza e con il presidente del consiglio 
esecutivo della repubblica di Slovenia, inviata al presidente Kudan e al premier 
Peterle, chiedeva “sostegno alle iniziative di collaborazione economica con la 
vicina Repubblica italiana e le sue Regioni” e voleva che ‘in tal senso il Governo 
della Repubblica di Slovenia si impegni a partecipare finanziariamente alla realiz- 
zazione dell’infrastruttura dell’ E.E.I.C. Capodistria”. 

Tra le iniziative che furono avviate in quel periodo, la Comunità autogestita 
della nazionalità di Isola chiese di poter beneficiare, nel processo di denazionaliz- 
zazione, di parte del patrimonio immobiliare di proprietà sociale. Se ne parlò 
anche al Parlamento, in sede di commissione per le nazionalità, dove gli esponenti 
isolani affermarono che: “I gruppi nazionali hanno il diritto di partecipare alla 
ripartizione di quella proprietà che da bene sociale diventerà statale, per cui va 


? Piattaforma ed orientamenti programmatici per l’incontro con il presidente della presidenza e con il 
presidente del consiglio esecutivo della repubblica di Slovenia, 27 maggio 1991 (per gentile concessione del 
presidente della Giunta esecutiva dell’UI, M. Tremul). 


8 Idem. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 161 


valutata la possibilità che parte di loro diventi proprietà dei gruppi nazionali, 
soprattutto quanto ha attinenza con i valori culturali”. 

La comunità italiana, in questo modo, sarebbe potuta diventare erede di parte 
del patrimonio che la cultura veneta aveva lasciato nei territori d’insediamento 
storico, in qualche modo il legittimo proprietario di parte dei “beni abbandonati” 
passati in mano pubblica. Sull'argomento, però, nella stessa comunità italiana non 


ci fu una piena identità di vedute. 


Il cimento della democrazia e le minoranze 


Nei primi mesi del 1990 la comunità slovena in Italia era in fermento: si stava 
discutendo della proposta di Legge di tutela presentata da Maccanico. Il testo non 
aveva riscosso eccessivo entusiasmo all’interno della minoranza ed anche a Lubia- 
na aveva destato più di qualche perplessità. La Slovenia, intanto, aveva imboccato 
con fermezza la strada della democrazia ed i partiti erano oramai impegnati nella 
corsa al voto per le elezioni in programma nell’aprile del 90. 

I cambiamenti democratici, in Slovenia, offrivano nuove prospettive di dialo- 
go, i circoli della minoranza slovena in Italia, non legati alla sinistra, avevano 
trovato, finalmente, anche nella madrepatria degli interlocutori. Così, 1’ Unione 
Economico Culturale Slovena (UECS), “perse automaticamente la posizione pri- 
vilegiata di cui aveva goduto per decenni nei rapporti con Lubiana, e di conseguen- 
za buona parte della sua autorità a livello locale””!°. All’interno dell’organizzazio- 
ne, si parlava, oramai, apertamente di perestrojka. 

I mutamenti che coinvolsero la società ebbero i loro effetti anche nei rapporti 
tra le comunità nazionali. Sino a quel momento la solidarietà tra le minoranze era 
un dogma ideologico, che però aveva funzionato sempre a senso unico. Ben poche, 
infatti, potevano essere le pretese della comunità italiana nello stato totalitario. Ora 
il dialogo doveva essere reimpostato su altre basi e con la svolta democratica si capì 
che andava ridisegnata la strategia delle minoranze, anche nei contatti reciproci. 
Agli inizi del 1990 si registrarono alcuni incontri tra esponenti della comunità 
nazionale italiana in Jugoslavia e di quella slovena in Italia. 

Alla fine di febbraio, ad esempio, una delegazione dell’UIIF incontrò, a 


? R. APOLLONIO, “La comunità italiana chiede concrete garanzie di sviluppo”, La Voce del Popolo, 28 
febbraio 1991. 


!0 M. KACIN WOHINC, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni in Italia, Venezia, 1998, p.132. 


162 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


Trieste, gli esponenti dell’ Unione slovena (US). L’iniziativa era innovativa, visto 
che i colloqui non avvenivano con l’ala sinistra degli sloveni in Italia, ma con il 
loro partito etnico. Per gli sloveni il tema era sempre lo stesso, oramai da decenni: 
l’approvazione di una soddisfacente Legge di tutela che regolamentasse i loro 
diritti, mentre gli italiani in Jugoslavia si trovavano alle prese con la democratiz- 
zazione e il passaggio all’economia di mercato, sia della società sia della loro etnia. 
Un processo, questo, che avrebbe potuto mettere a rischio i diritti acquisiti nel 
passato regime. Sul piano teorico, infatti, la tutela minoritaria, soprattutto in 
Slovenia, era esemplarmente regolata. 

Nel corso dei colloqui, tra UIIF e US, si concordò “che gli esponenti della 
minoranza italiana si sarebbero adoperati presso il Governo di Roma per l’accogli- 
mento di una Legge di tutela tale che soddisfi gli sloveni in Italia, mentre i 
rappresentanti dell’Unione slovena nei loro contatti con gli esponenti politici 
sloveni avrebbero posto anche la questione della minoranza italiana in Slovenia”!!. 
L’idea sembrava ottima ed avrebbe consentito, alle minoranze, di mantenere un 
ruolo indipendente e slegato dagli stati nazionali e domiciliari evitando il rischio 
di essere strumentalizzate. 

La strategia concordata venne rispettata, almeno per un periodo. 

Quando, nella seconda metà del 1990, in quattro comuni della provincia di 
Trieste si manifestò la volontà di abolire le carte d’identità bilingui, tra coloro che 
fecero sentire la loro voce ci fu anche il presidente dell’ UIIF, Silvano Sau. 

Alcuni mesi dopo i colloqui, invece, gli esponenti di US, nel corso di un 
incontro con la coalizione del Demos, che aveva appena vinto le politiche in 
Slovenia, si “adoperarono per il mantenimento ed il rafforzamento della tutela per 
la minoranza italiana ed ungherese”. Lo stesso partito nel dicembre del 1990, in 
una serie di proposte inerenti la nuova Costituzione, sottolineò, che per quanto 
riguardava la minoranza italiana ed ungherese, il documento “non deve diminuire 
i diritti, ovvero: deve ancora consolidarli”'5. Particolare rilievo venne dato al fatto 
che vi fosse, alla Camera, una rappresentanza delle comunità nazionali. 


!M.R, “Manjtini si bosta pomagali”, Delo, 26 febbraio 1990. 
!? “Delegacija Slovenske skupnosti obiskala Demosa”, Primorski dnevnik, 26 aprile 1990. 


13 “Predlogi SSk o vpraSanju manjsinske problematike v novi slovenski ustavi”, Primorski dnevnik, 20 
dicembre 1990. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 163 


Le paure della comunità italiana 


Se con la possibile indipendenza della Slovenia, anche per la minoranza 
slovena in Italia stava per realizzarsi il “sogno secolare” dello stato nazionale, lo 
sfaldamento della Jugoslavia, per molti italiani residenti in Istria, rischiava di 
mettere a repentaglio l’esistenza stessa della comunità italiana. Così, sin dal 
momento in cui si era fatta strada l’idea della creazione di nuove entità statali, la 
comunità nazionale italiana aveva manifestato qualche preoccupazione. Il proble- 
ma non era, certo, il nuovo assetto democratico, anzi, negli anni ’80, proprio 
esponenti della minoranza italiana avevano promosso dibattiti a livello globale 
sulla necessità di liberalizzare la società; l'esempio più eloquente fu Gruppo 88. Il 
movimento era nato da una petizione firmata, nel dicembre 1987 a Capodistria, da 
centinaia di cittadini. Nel documento veniva posto l’accento sui problemi della 
minoranza italiana ed era nato dalla reazione ad una proposta di legge federale che 
avrebbe limitato i diritti delle minoranze in campo linguistico. Il provvedimento, 
voluto più per il Kosovo che per l’Istria, era servito da pretesto, anche, per porre 
l’accento su questioni di carattere generale. Così, i firmatari della petizione “de- 
nunciavano il disegno di trasformare la Jugoslavia in uno Stato autoritario e 
centralistico, sempre meno sensibile alle esigenze di decentramento e di autono- 
mia, politica e nazionale, delle sue componenti”"*. 

Nel 1990, però, all’interno della comunità ci si rendeva sempre più conto, che 
la questione che si ponevaera che, con il progressivo cammino verso l’indipenden- 
za delle due repubbliche, un confine avrebbe potuto, in tempi brevissimi, dividere 
l’Istria e, con essa, anche la minoranza italiana. 

Il problema, però, era ancora più acuito dal fatto che in Jugoslavia non 
esistevano norme di tutela uniformi. Ci si trovava, infatti, alla presenza di diritti 
alquanto diversi: in Slovenia lo standard era quello più elevato, mentre in Croazia 
esistevano sostanziali differenze tra l’ex Zona B e il resto della penisola istriana e 
Fiume, mentre non era prevista nessuna garanzia per le aree della Dalmazia. 

Nonostante il migliore assetto giuridico e le minori pressioni nazionalistiche, 
però, per assurdo, il gruppo più a rischio era proprio quello in Slovenia. Vista la 
sua esiguità numerica (circa tremila persone), non poteva sperare di sopravvivere 
senza gli altri ventisettemila connazionali residenti in Croazia. Proprio dal resto 
dell’Istria provenivano, infatti, molti insegnanti delle scuole italiane e numerosi 


ME, GIURICIN, ”’La comunità italiana dalla conclusione del secondo conflitto alla rinascita degli anni '80”, 
(a cura di) T. Favaretto, E. Greco, // con fine riscoperto, Milano, 1997, p.104. 


164 S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


impiegati di Radio e Tv Capodistria. Un altro fattore di non secondaria importanza, 
era quello delle istituzioni. La minoranza italiana disponeva di una serie di struttu- 
re: casa editrice, centro di ricerche storiche, teatro, che in caso di divisione 
sarebbero rimaste al di là del confine. 

Per Franco Juri — vignettista, deputato della democrazia liberale nel primo 
parlamento democraticamente eletto, ambasciatore sloveno in Spagna e, poi, se- 
gretario di stato agli esteri — il pericolo era che con la “confederalizzazione della 
Jugoslavia e senza un adeguato assetto regionale dell’Istria, la minoranza italiana 
sia ancora più divisa tra due stati indipendenti, il che probabilmente significherà la 
sua definitiva assimilazione”. 


La vittoria del Demos 


La svolta vera e propria, per le due minoranze venne, comunque, dopo le prime 
elezioni democratiche in Slovenia, con la vittoria della coalizione del Demos, che 
univa i partiti che volevano rompere con il passato regime. 

Già il 6 giugno, poco dopo l’insediamento del nuovo esecutivo, il premier, 
Lojze Peterle, disse che ‘il governo avrà un eguale rapporto con tutte le componen- 
ti della minoranza slovena”. Il cambio di rotta, però, voleva mutare soltanto i 
rapporti di forza all’interno della minoranza e non significava assolutamente un 
disimpegno o una diminuzione del grado d’attenzione delle forze politiche slovene 
per questa realtà. La Slovenia, così, continuò a farsi latrice degli interessi della 
propria comunità in Italia e diede chiaramente ad intendere che nulla sarebbe 
cambiato, anzi, che ora l’attenzione sarebbe stata anche maggiore. Così “gli 
esponenti sloveni in tutti gli incontri con i rappresentanti italiani ponevano l’ accen- 
to sull’insufficiente tutela, sulle difficoltà e sulla cattiva posizione della minoranza 
slovena e richiedevano, che la questione venisse sistemata con urgenza e con 
benevolenza”. Il ministro degli esteri, Dimitrij Rupel, non mancò di promettere 
un più forte interessamento per gli sloveni della provincia di Udine. La Slavia 
veneta era una delle zone più emarginate del mondo minoritario e la Legge di 
tutela, presentata dal ministro Maccanico, non la favoriva. Nel provvedimento, 


15 R. SKRLI, “Strasilo Sudetskih Nemcev blodi po Vzhodni Evropi”, Primorske novice, 12 ottobre 1990. 
16 M. RENKO, B. SULIGOI, “Prednost imajo majhna podjetja”, Delo, 7 giugno 1990. 


!7 M. KOSIN, “Slovenska manjsina v slovensko italijanskih odnosih”, Rasprave in Gradivo, Institut za 
narodnostna vprasanja, Ljubljana, 1998, p. 57. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 165 


infatti, questa realtà non veniva equiparata al resto degli sloveni residenti in Italia, 
ma si parlava di una non ben definita “comunità slavofona”. 

Sino a quel momento, infatti, le autorità jugoslave avevano soprattutto puntato 
sulla tutela degli sloveni della provincia di Trieste e Gorizia, occupandosi meno di 
quelli della provincia di Udine. Del resto, il territorio della Slavia veneta, era 
passato sotto sovranità italiana sin dal 1866, in seguito alla guerra che aveva visto 
Prussia ed Italia contrapposte alla monarchia asburgica. All’epoca “i portavoce dei 
suoi 35.000 abitanti furono chiamati, secondo l’usanza entrata in vigore con 
l’unificazione italiana, ad esprimersi in favore del Regno sabaudo con un plebi- 
scito. Nei giorni 21 e 22 ottobre 1866, tutti gli aventi diritto, con una sola eccezione 
votarono per il ‘sì’’’!5. Ora il nuovo governo sloveno voleva dare chiaramente ad 
intendere che aveva cambiato rotta e che intendeva occuparsi anche di quest'area. 

Il mutamento più incisivo della politica di Lubiana, nei confronti dei propri 
connazionali in Italia, però, ebbe una data ben precisa: il 21 giugno 1990. Quel 
giorno una delegazione, guidata dal presidente dell’ Assemblea repubblicana, Fran- 
ce Buéar e, con al seguito, anche il viceministro degli esteri, Zoran Thaler, fece 
tappa a Trieste. Dopo aver incontrato i vertici regionali, la delegazione slovena, 
ricevette nella sede del consolato jugoslavo, una rappresentanza della minoranza. 
La richiesta di Lubiana fu esplicita: per coordinare i rapporti con noi costituite un 
organismo che sia ‘un qualificato interlocutore per il Governo ed il Parlamento 
sloveno”. Il messaggio era chiarissimo: superate le divisioni perché non ci sarà 
più dialogo privilegiato con nessuno. Si trattava, quindi, di trovare una sintesi nel 
frastagliato mondo della minoranza. Dalla riunione, però, emerse anche un altro 
segnale che ci aiuta a capire qual era l’importanza che il nuovo Parlamento sloveno 
ascriveva alla minoranza. Il neoeletto presidente dell’ Assemblea repubblicana, 
France Buéar, nel corso dell’incontro, propose che alla Camera “in futuro non si 
facesse nessun passo serio nei rapporti con il Friuli-Venezia Giulia, se prima non 
si fossero consultati gli sloveni in Italia”?°, Appariva, quindi, chiaramente quanto 
Lubiana avrebbe tenuto conto della posizione della comunità slovena nei rapporti 
con i vicini e la cosa trovò conferma al momento del riconoscimento internazionale 
della Slovenia. 

Anche se la comunità italiana fu sufficientemente coinvolta nel processo di 
democratizzazione della Slovenia, tuttavia, la sua adesione nei singoli partiti era 


!8 M. KACIN WOHINC, J. PIRJEVEC, op.cit, p. 23. 
!° I GRUDEN, “Pogovor s slovenci”, Dnevnik, 22 giugno 1990. 
20 M. RENKO, “Slovenska delegacija v Trstu”, Delo, 22 giugno 1990. 


166 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


tutt'altro che equamente distribuita. La minoranza poteva contare, nelle tre camere 
dell’ Assemblea repubblicana, su sei esponenti, tre eletti ai seggi specifici, ad essa 
riservati, ed altrettanti entrati in Parlamento attraverso le liste di partito. A fronte 
di una buona presenza, anche di eminenti personalità nelle formazioni legate al 
precedente regime, vi era una quasi totale assenza nei partiti della coalizione 
Demos. Le ragioni parevano essere almeno tre. Innanzitutto vi era il legame di 
molti esponenti di spicco della minoranza con gli ideali della sinistra o, per meglio 
dire, il passato regime era riuscito a coinvolgere gli italiani inserendoli nella 
struttura secondo il principio che “perfino i conflitti nazionali diventano più 
controllabili, fintanto che i rappresentanti politici di ogni minoranza possono 
sfamarsi alla mangiatoia comune”?!. In secondo luogo esisteva la paura di inclu- 
dersi nelle strutture partitiche che avrebbero rischiato di etichettare i singoli 
provocandone, forse, anche, l’esclusione dal mondo della minoranza ed infine si 
doveva tener conto del carattere marcatamente nazionale, di stampo quasi ottocen- 
tesco, della maggioranza delle formazioni politiche che erano sorte ex novo in 
Slovenia. I nuovi “padroni del vapore”, così, non sempre riuscirono a comprendere 
le esigenze e le paure della minoranza. 

Nel vecchio sistema comunista i diritti delle comunità nazionali erano un 
postulato che non poteva venir messo in discussione. Ora tutto il capitolo della 
tutela minoritaria sarebbe dovuto essere riscritto nell’ambito della radicale riforma 
dello stato. Per gli italiani e gli ungheresi si trattava, quindi, di impostare una dura 
battaglia per il “mantenimento dei diritti acquisiti”. Così, ci fu una generale levata 
di scudi quando, al momento della presentazione della prima bozza di Costituzio- 
ne, non si fece accenno alcuno ai diritti particolari delle minoranze autoctone. 


La democratizzazione interna 3 

Era quello il tempo in cui anche nella comunità italiana tirava aria di demo- 
cratizzazione. Si sentiva l’esigenza di superare la dimensione dei “vecchi circoli di 
cultura di stampo staliniano”. Tra il 25 ed il 27 gennaio 1991 si svolsero le prime 
consultazioni democratiche nell’ambito minoritario, che avrebbero dato vita 
all’ Assemblea costituente, che avrebbe dovuto trasformare l’organizzazione degli 
italiani. Così, poco più di un mese dopo, a Pola, 1° Unione degli italiani dell’Istria 
e di Fiume, si trasformò in Unione italiana (UI). Alla guida dell’organizzazione salì 


2 E.J. HOBSBAWM, I! secolo breve, Milano, 2000, p.170. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 157-196 167 


Antonio Borme, il leader defenestrato 17 anni prima per volere del regime. La 
rottura con il passato era netta, anche se all’interno dell’ Assemblea, il Movimento 
per la costituente, che aveva guidato la fronda del rinnovamento, non riuscì ad 
ottenere la maggioranza assoluta. In un clima, nel quale, in Slovenia e in Croazia, 
si voleva giungere alla riconciliazione nazionale, anche la comunità italiana sentiva 
la necessità di fare i conti con il proprio passato e voleva confrontarsi con coloro 
che abbandonarono l’Istria scegliendo la via dell’esodo. I tentativi di avviare il 
dialogo con il mondo degli andati ed il nuovo rapporto che si voleva instaurare con 
la nazione madre destarono qualche preoccupazione tra i politici in Slovenia. Il 
ministro degli esteri, Dimitri} Rupel, non mancò di rilevare, riferendosi agli italiani 
d’Istria, che “occorrerà metterli in guardia sulle implicazioni internazionali per 
quello, che a volte sembra, si dedichino”?? e Franco Juri costatò, in quel periodo, 
che le nuove autorità democratiche in Slovenia e Croazia non erano immuni dal 
preconcetto che legava gli italiani al fascismo ed all’irredentismo. Tali sospetti, del 
resto, non vennero mai del tutto fugati, così, il ministro per gli sloveni nel mondo, 
Janez Dular, nel marzo del 1991, sottolineò “che la minoranza italiana nei suoi 
contatti con alcune organizzazioni ed organismi in Italia era troppo poco seletti- 
va”?3. Nonostante il Demos non nascondesse le proprie simpatie per il mondo della 
diaspora slovena, che in molti casi aveva scelto la via dell’esilio per evitare di 
vivere in un regime comunista, ci fu sempre uno spiccato scetticismo su un 
possibile ritorno degli esuli italiani. Lo stesso Dular precisò che “non tutti i casi 
erano politicamente accettabili, perciò la questione non poteva essere trattata in 
pacchetto”?*. Come dire riconciliazione sì, purché sia solo nazionale. 

Lubiana, comunque, temeva spirali revisionistiche, aveva paura, cioè, che in 
caso di proclamazione dell’indipendenza, potessero venir messi in discussione i 
trattati internazionali stipulati tra Italia e Jugoslavia e con essi le norme che 
regolavano il confine tra i due paesi. In ogni modo, fu lo stesso premier italiano, 
Giulio Andreotti, a mandare a dire agli sloveni, e poi a confermarglielo anche di 
persona, che Roma non avrebbe aperto un contenzioso confinario, ma il timore 
rimase. Pertanto, Lubiana fu alquanto restia a toccare temi che erano stati regolati 
con il diritto d’opzione previsto dal Memorandum di Londra e poi con gli Accordi 
di Osimo ed il Trattato di Roma. 


22 €. MOSCARDA, “La dichiarazione di Rupel”, La Voce del Popolo, 14 giugno 1990. 


23 R. $KRLIJ, “Manjzine spet v vlogi Trojanskega konja in drobiza za barantantanje?”, Primorske novice, 26 
marzo 1991. 


24 Idem. 


168 S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


Interlocutori privilegiati 


Se i contrasti tra le nuove autorità slovene e la comunità italiana si fecero 
sentire, non mancarono nemmeno i problemi con la minoranza slovena. L’apertura 
del consolato italiano a Lubiana, ai primi di dicembre del 1990, fece registrare un 
significativo attrito con la componente di sinistra della comunità slovena in Italia. 
Durante i discorsi ufficiali, sia il presidente sloveno, Milan Kudan, sia il ministro 
degli esteri italiano, Gianni De Michelis, sottolinearono l’importanza delle mino- 
ranze. Il problema, però, fu che alla cerimonia parteciparono soltanto gli esponenti 
di Unione slovena, mentre non furono invitate le altre componenti della minoranza 
in Italia. Quella di scegliersi gli interlocutori era una pratica che piaceva ancora ai 
vertici sloveni e che verrà tentata, senza successo, anche negli anni a venire. 

L’UECS protestò fermamente per l'accaduto, ricordando che, in un’occasione 
così importante, sarebbe stato necessario che gli esponenti sloveni avessero sentito 
il parere della minoranza. Era, infatti, questa una prassi che si stava consolidando. 
Contrariamente a quanto si poteva ipotizzare, la risposta del capo dello stato, Milan 
Kuéan, non fu per nulla evasiva o di circostanza e ammise che “era stato fatto un 
errore”? e volle garantire che analoghi scivoloni, in futuro, non sarebbero più 
accaduti. 

Intanto la Slovenia marciava rapidamente verso il referendum sull’indipen- 
denza. La comunità italiana non sapeva bene a che santo votarsi. Così, se da una 
parte non mancarono gli appelli per il sì, dall’altra si volle assumere un atteggia- 
mento neutrale come se la questione riguardasse esclusivamente il popolo sloveno. 
In realtà l’ostacolo era sempre rappresentato dal confine che sarebbe nato in Istria 
tagliando in due la minoranza. 

Il plebiscito del 23 dicembre 1990 superò anche le più rosee previsioni. I 
residenti in Slovenia votarono compatti per il progetto politico dei vertici sloveni, 
l’ampissimo margine ottenuto fugò anche gli ultimi dubbi su quella che era la 
volontà incontrovertibile nella Repubblica più sviluppata della Federazione. Il 
presidente Kuéan, alla vigilia del voto e immediatamente dopo, fece tappa a Trieste 
e Gorizia, dove incontrò gli esponenti della minoranza slovena, spiegò loro le 
ragioni di quella scelta e confermò, ancora una volta, l’attenzione di Lubiana per 
le sue comunità all’estero. 

A livello regionale erano tempi cupi per gli sloveni in Italia. L'atteggiamento 
assunto dal sindaco di Gorizia, Scarano, alle audizioni sulla Legge di tutela delle 


25 “Milan Kuéan in D. Rupel odgovarjata na pismo SKGZ”, Primorski dnevnik, 19 dicembre 1990. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 169 


minoranze aveva provocato malcontento tra le fila della comunità nazionale. C'era, 
poi, la questione del divieto dell’uso dello sloveno in alcuni consigli comunali, cui 
andava aggiunta quella delle carte d’identità bilingui a Duino Aurisina. Se il 
ministro degli interni, Vincenzo Scotti, da una parte aveva escluso che potessero 
essere cancellate da un provvedimento amministrativo, dall’altra ipotizzava la 
possibilità che i cittadini potessero ottenere il documento anche esclusivamente in 
italiano mediante una norma inserita nella Legge di tutela degli sloveni (sic!). In 
quel periodo si fece sentire la grave crisi al quotidiano della minoranza, il Primor- 
ski dnevnik. Le 7500 copie vendute giornalmente non bastavano a coprire le spese 
e l’azienda operava in forte perdita. Si mossero sia il mondo politico sloveno, che 
però chiedeva la pluralizzazione del giornale, sia i politici locali italiani. Si stava 
frattanto discutendo della Legge sulle aree di confine ed in quest'ambito si era 
ipotizzata anche una parziale soluzione dei problemi finanziari delle minoranze. La 
situazione era tutt'altro che rosea anche per la comunità italiana, dove la crisi 
economica, legata allo sfacelo della Jugoslavia, si faceva pesantemente sentire. 
Così, anche La Voce del Popolo di Fiume, il quotidiano della minoranza italiana, 
stava attraversando una gravissima crisi finanziaria. Su tutto poi pesava il clima di 
grave incertezza dettato dalla situazione contingente. 


La proclamazione dell’indipendenza 


Il 25 giugno 1991 la Slovenia proclamò l’indipendenza. Tra i cinque punti 
della Carta costituzionale fondamentale sull’autonomia e l’indipendenza della 
repubblica di Slovenia trovarono posto anche le minoranze: “Alle Comunità 
italiana e magiara nella Repubblica di Slovenia e ai loro appartenenti sono garantiti 
tutti i diritti stabiliti dalla Costituzione della Repubblica di Slovenia e dalle 
convenzioni internazionali vigenti”. 

Per Lubiana, comunque, erano tempi durissimi. Di lì a poco iniziò, infatti, la 
“guerra dei confini”, cioè, il contrasto tra Armata federale e Difesa territoriale per 
il controllo dei valichi di frontiera. In una situazione estremamente fluida, il 
Ministero per l’informazione, guidato da Jelko Kacin, usò magistralmente i mass- 
media. Un ruolo di non secondaria importanza, nel processo di affermazione 
internazionale della causa slovena, venne giocato, anche, dalla comunità italiana e 
da quelle che sembravano poter diventare sue istituzioni. Radio e TV Capodistria 


26 Costituzione della Repubblica di Slovenia, Ljubljana, Uradni list Republike Slovenije, 1992, p. 7. 


170 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


fecero sentire in Italia, direttamente in italiano la voce di Lubiana. Le due emittenti, 
allora, potevano contare su una capillare rete che irradiava il loro segnale nella 
Penisola. Il trasmettitore in onde medie di Radio Capodistria venne portato alla 
massima potenza, 300 kw, così, dalla Svezia alla Libia, si poteva udire quanto stava 
accadendo, mentre molte delle immagini della guerra in Slovenia e dei carri armati 
Jugoslavi che erano scesi nelle strade, partirono proprio dalla sede di TV Capodi- 
stria. Tanti giornalisti della comunità nazionale italiana si esposero in prima 
persona per raccontare “dal fronte” quello che stava accadendo. 

Anni più tardi “grazie” alle “lungimiranti” decisioni della RTV di Slovenia e 
alla connivenza del Governo, la struttura di ritrasmissione del segnale in Italia di 
radio e TV Capodistria venne smantellata e, successivamente, venne ridotta, di 
dieci volte anche la potenza del trasmettitore in onde medie di Radio Capodistria, 
che fu portata da 100 a 10 kw. Nate per propagandare il socialismo di stampo 
jugoslavo in Italia, notevole fonte di reddito grazie agli introiti pubblicitari, eviden- 
temente non servivano più (sic!). 

Dopo la proclamazione dell’indipendenza la Slovenia aveva bisogno di alleati. 
Partiti, uomini politici e semplici cittadini, cercarono di attivare tutti i loro contatti 
in Italia. Un ruolo importantissimo, in questo senso, fu giocato dalla comunità 
slovena che aveva amicizie, ed anche qualche influente presenza, soprattutto nelle 
forze del centrosinistra, così, “la minoranza slovena durante l’aggressione alla 
Slovenia aiutò molto attivamente la nazione madre. In Italia venne condotta una 
vasta campagna d’informazione a favore della Slovenia. La Banca di credito di 
Trieste e la Banca agricola di Gorizia, con i loro fondi, consentirono indisturbate 
relazioni commerciali della Slovenia con l’estero?”. La comunità slovena, però, 
rese anche un altro servizio a Lubiana, mise a sua disposizione la sua capacità di 
analisi della società italiana. Diventò, così, un vero e proprio osservatorio privile- 
giato. Non era certo un caso se il 4 maggio del 1991 fu proprio uno sloveno di 
Trieste, Bogo Samsa, a rilevare sul Delo, come il sì italiano, al riconoscimento 
della Slovenia, sarebbe potuto arrivare passando attraverso le regioni: convincere 
il Friuli-Venezia Giulia, il Veneto e poi la potente Lombardia, in questo modo si 
sarebbe giunti sino a Roma e non solo. Fu esattamente quello che avvenne. 

Il rapporto, però, non fu a senso unico visto che anche nel pieno del conflitto 
nell’ex Jugoslavia, Lubiana non volle dimenticare la propria minoranza. Alla fine 
di luglio, a Ragusa, andò in scena il vertice dell’Esagonale. Sulla riunione spirava- 
no venti di guerra. Nonostante i problemi, nei colloqui tra i ministri degli esteri di 


27 M. KOSIN, “Slovenska manj5ina... , op.cit, p. 59. 


S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quadérni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 171 


Italia e Slovenia, Gianni De Michelis e Dimitri) Rupel, il Capo della diplomazia 
slovena chiese un intervento a favore della comunità slovena in Italia. La Legge di 
tutela, infatti, aveva nuovamente subito uno stop e si faceva sempre più reale 
l’ipotesi che il provvedimento non sarebbe potuto essere approvato prima della 
scadenza della legislatura. Significativo rilevare come Rupel, in un momento di 
incertezza assoluta per le future sorti del suo paese, abbia voluto porre l’accento 
anche su quel problema. Era un altro segno evidente della particolare attenzione 
che la Slovenia aveva nei confronti delle proprie comunità all’estero ed era anche 
il segno che tra gli interessi vitali dello stato rientrava, certamente, anche la tutela 
delle minoranze. 


Il confine e la strategia italiana 


Il progressivo favore che la causa slovena riscosse nelle regioni di Alpe-Adria 
e la contingente situazione internazionale, legata al crescente appoggio tedesco alle 
istanze di Slovenia e Croazia, fece sì che anche la politica italiana, inizialmente 
contraria al riconoscimento, assunse una linea sempre più favorevole alle richieste 
di Lubiana e Zagabria. Roma, in pratica, si preparava ad un evento che, oramai, 
sembrava ineluttabile. Per dirla con De Michelis: “A quell’epoca (fine 1991) 
perdemmo perché dovevamo pagare il conto di Maastricht. Avevamo appena 
concluso il trattato sull’Unione Europea, che costringeva Bonn alla cessione del 
marco. In cambio i tedeschi pretesero, fra l’altro, il riconoscimento di Slovenia e 
Croazia”?8, 

Si trattava quindi di tracciare altre strategie in funzione della nuova realtà. Il 
programma venne enunciato il 2 settembre 1991, quando Gianni De Michelis parlò 
alla Commissione esteri della Camera sulla situazione in Jugoslavia. Bisognava 
superare i disagi creati alla minoranza italiana dal confine in Istria, rendere 
possibile l’acquisto di immobili in Slovenia e Croazia da parte degli esuli e 
giungere a nuovi accordi di collaborazione economica. Saranno proprio queste le 
linee guida della politica estera italiana nei confronti di Slovenia e Croazia e non 
cambieranno, né con gli avvicendamenti alla Farnesina né con il naufragio del 
“vecchio sistema partitocratrico”. 

La questione della tutela della minoranza italiana in Slovenia e Croazia iniziò 


28G. DE MICHELIS, “La lezione di Belgrado: ripensare 1’ Europa insieme alla Russia”, Limes, n. 5, 2000, 
op.cit., pp. 36-37. 


172 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


così ad assumere sempre maggior rilievo. De Michelis, infatti, affermò: “Innanzi- 
tutto ... vi è il problema della nostra minoranza ... il processo in atto la divide in 
due perché un confine che era solo amministrativo, diventerà statuale o parastatua- 
le, e questo indebolirà una comunità che tiene molto alla sua unità”. 

Era la prima volta che le istanze della comunità italiana in Jugoslavia trovava- 
no tanta rispondenza a livello governativo. Il punto chiave, per il Ministro, però, 
non era “solo di ottenere tutte le tutele possibili, ma anche di ottenere uguali tutele, 
vale a dire che non vi sia una tutela maggiore in Slovenia e una minore in 
Croazia”?0, 

La questione entrò così sul tavolo della trattativa bilaterale, anzi trilaterale. Il 
problema venne sollevato anche dai componenti di una delegazione della Camera 
dei deputati che, nel settembre 1991, giunsero in visita a Lubiana. 

L’Unione italiana, intanto, elaborò la sua strategia. In un promemoria del 5 
settembre 1991, spedito alla Farnesina — “constatando la drammaticità della situa- 
zione in cui si trova coinvolta la Comunità Italiana in Jugoslavia, tenendo conto dei 
mutamenti in atto nella realtà jugoslava che prevedibilmente porteranno alla piena 
affermazione della sovranità statale delle Repubbliche di Croazia e di Slovenia”?' 
— si chiedeva “la stipulazione di un accordo trilaterale di tutela internazionale della 
minoranza tra la Repubblica italiana e le Repubbliche di Croazia e di Slovenia, che 
contempli: 

a) l’unitarietà della Comunità Italiana nel territorio del suo insediamento 
storico, da attuare con lo sviluppo di forme amministrative dell’autonomia locale 
che assicurino l’identità degli strumenti organizzativi della minoranza, la libertà di 
circolazione, di iniziative e di impiego dei connazionali, una politica di sviluppo e 
di pianificazione comune e il riconoscimento dell’Unione Italiana quale unico e 
legittimo rappresentante della Comunità Italiana in Slovenia e Croazia; 

b) l’uniformità di trattamento giuridico-costituzionale al più alto livello nel 
garantire l’autonomia politica, economica e culturale della minoranza; 

c) la facoltà permanente di controllo, da parte dello Stato italiano, del rispetto 
e della realizzazione dei termini dell’accordo”?°. 

Si voleva inoltre che all’ Unione italiana fosse garantito “il diritto di parteci- 


29T. FAVARETTO, E. GRECO, I! confine riscoperto, Milano, 1997, p.182. 
30 Idem. 


3! Promemoria diUnione italiana al Ministero degli esteri, 5 settembre 1991 (per gentile concessione del 
presidente della Giunta esec. dell’UI, M. Tremul). 


32 Promemoria...,cit. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 173 


pare a tutte le fasi di preparazione dell’accordo e di esprimere un parere vincolante 
prima della sua firma”*, nonché “di intervenire alla Conferenza di Pace sulla 
Jugoslavia dell’ Aia, nelle sedi e nelle forme adeguate, per partecipare alla defini- 
zione delle disposizioni che regoleranno la tutela della minoranza”**. 

Il momento, però, era delicatissimo. Per gli sloveni l’obiettivo era l’indipen- 
denza ed ogni ostacolo frapposto su questa via era incomprensibile. Del resto ci si 
rendeva sempre più conto, anche nel litorale sloveno che il confine, oltre che una 
dolorosa scissione, costituiva sempre più la linea di demarcazione tra la pace e la 
guerra, tra l’instabilità e la stabilità, insomma, tra l'Europa ed i Balcani. 

Così, il crescente interesse dell’Italia per la sua minoranza e le richieste della 
comunità italiana vennero accolte con stupore e fastidio in Slovenia. Lubiana, che 
sino a quel momento credeva di poter essere tratta ad esempio in materia di 
concessioni alle minoranze, pareva non accettare che, d’un tratto, Roma iniziasse 
ad occuparsi dei bisogni della sua comunità, come del resto faceva la Slovenia per 
i suoi connazionali in Italia. Scriveva l’accademico Ciril Zlobec, membro della 
presidenza slovena, l'organismo che a quel tempo coadiuvava il Capo dello stato: 
”All’improvviso, come tutto sta a dimostrare, abbiamo anche in Slovenia uno 
scottante problema minoritario: il nuovo confine tra due nuovi stati in Istria”. 

Alla fine del 1991, comunque, si era entrati in una fase dove, la comunità 
italiana di Jugoslavia, aveva “grandi speranze”. Era in qualche modo generalizzata 
la convinzione che l’Italia fosse disposta a recepire le sue istanze. A suffragare 
questa idea venne anche nell’ottobre del 1991 l’incontro a Venezia tra il presidente 
italiano, Francesco Cossiga, e le delegazioni dell’UI e degli esuli, che, in qualche 
modo, avrebbe potuto segnare la riconciliazione tra le due componenti. 

Tra il 1991 ed il 1992 Roma adottò, effettivamente, tutta una serie di provve- 
dimenti che “denotavano la presa di coscienza dell’esigenza di garantire la salva- 
guardia del gruppo etnico italiano”. Si andava dalla Legge sulle aree di confine, 
che incentivava la collaborazione economica e finanziava direttamente alcune 
attività delle minoranze, alle disposizioni, approvate il 23 dicembre del 1991, a 
favore dei cittadini jugoslavi di etnia italiana ‘costretti ad abbandonare le zone di 
guerra”. Da rilevare che, nell’applicazione della normativa, un importante ruolo 


33 Idem. 
34 Idem. 
35 C. ZLOBEC, “Obrobje treh naci]”, Delo, 17 ottobre 1991. 


36 G. DE VERGOTTINI, “La rinegoziazione del Trattato di Osimo”, Rivista di studi politici internazionali, 
n. 1/237, gennaio-marzo 1993, p. 80. 


174 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


venne svolto dalle Comunità degli italiani che furono chiamate a rilasciare un 
certificato necessario per l’ottenimento del Permesso di soggiorno. 


Le due minoranze su fronti contrapposti 


Se l’Italia iniziò a porre la questione della tutela della minoranza italiana, la 
Slovenia non aveva mai smesso di rilevare l’urgenza di giungere ad un migliora- 
mento della posizione della minoranza slovena in Italia. Lo rimarcò, il 16 settembre 
1991, anche il presidente sloveno, Milan Kuéan, nel corso della sua visita in 
Friuli- Venezia Giulia. “Il presidente della regione Biasutti rilevò che le autorità 
regionali si stavano adoperando per una quanto più rapida approvazione della 
Legge di tutela globale. Lui stesso sottolineò la questione della tutela della mino- 
ranza italiana, che adesso era divisa con il confine tra due stati, e l’urgenza di 
regolare le richieste degli esuli”. Era una delle prime volte, se non la prima in 
assoluto, che veniva postoa livello bilaterale il problema degli esuli, mentre quanto 
le autorità regionali si stessero adoperando per risolvere i problemi degli sloveni in 
Italia emerse chiaramente in seguito. 

Intanto, nell’autunno del 1991, in questo clima di estrema incertezza, si 
registrò una progressiva incrinatura nei rapporti tra la minoranza italiana in Slove- 
nia e Croazia e quella slovena in Italia. 

Dopo che alla Conferenza di pace dell’Aia si stabilì che si sarebbe parlato 
anche di minoranze, nel settembre del 1991, 1’ Unione economico culturale slovena 
si adoperò “per un’azione coordinata degli sloveni in Italia e degli italiani in Istria 
e propose colloqui con l’Unione italiana”* per far partecipare direttamente ai 
lavori le comunità nazionali. La minoranza slovena iniziò ad avere paura di essere 
immolata sull’altare del riconoscimento. Sino a quel momento la tutela della 
comunità “jugoslava” in Italia e di quella italiana in Jugoslavia era stato un 
problema che veniva discusso, a livello di rapporti internazionali, congiuntamente. 
Ora, se all’ Aia, di minoranze e di garanzie per esse, si fosse discusso, quella 
slovena in Italia avrebbe rischiato di rimanere fuori. 

I politici della comunità slovena non mancarono di far sentire la loro voce. 
Così il consigliere regionale di Unione slovena, Bojan Brezigar rilevò che “anche 
se la Slovenia era giovane e a livello internazionale ancora inesperta, tuttavia, non 


37 M. KOSIN, “Slovenska manj$ina ..., op.cit., p.59. 


38 “SKGZ za udelezbo manjsin pri delu mirovne konference”, Primorski dnevnik, 12 settembre 1991. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


Milan Kuéan, predseànik predsrd- 
stva RS: po pagoverib s predstavnik 


PoloSaj cheh 
pravna-Jormulnett smislu limbglj iena. 
diti. Nacin uremicevanijà te DAlotitue Bb 
sprico razli&iih razmer v republikali do 
neke mere razlien, venda to re bo 
valo na enako nastopunje obch repu i 
 razmerju do zueznih organo» in do 
drugiN republik; tudi ne (kar se mî zdi, 
duje precej pomembro) giede preizkuSa: 
| nja mo3nosti in interesov drugih repu- 

blik, cu Konéua pride do pravih razgano 
ron 9. motnosti, da no prostoru sedarije 
de uitivije pride de ustanovilte nome 
ki je lohko semo Der 
Bi, et temeljeta na pra; 








SAMOSTOJNA SLOVENTJA 1991 


so Ue mapbofise 


REPUBLIKA SLOVENIJA 


® Po rina: 20.254 kvadratnih kilometrov 
® Doliina meja: suhozemna in re$na 1160 km, morska 46;6 km: 2 Avttrijo 324, 
# Hrvazko 546, 2 Italijo 202, Madzarsko 88 km 
Dolina morake ob le: 37 lim 
Najvoetji kraji: Liublìana 268.681, Maribor 105.431, Celle 42,155. Kcani 37.109, 
Velenje 27.341. Koper 24.606, Novo mesto 22.618, Jeseriice 18.948, Nova Gorica 
14.774, Murska Sobote 13.854 
Najvidji vrbogi: Trigiav 2964 în. Skrlavica 2740 m. Veliki Mangart 2679 m 
Noejdaijia krafke jama: Postyjnska jama, 19.495 in 

flo prebivalstwa: 1.974.838 


Gostota prabiv'alatve: 97 ljudi na kvadrasni kilometer 
Narodnostne struktuza: Siovenci 90.52, Hrvati 2,94, Stbi 2,23, Musiunani 0,71 
Medîan 0,50. Cmogorci 0.17. Makedenci 0,17, Itatijani 0,12. Albanci 0,10. 
Romni 0.08, ostale narodnosti 0,11, opredeljeni Kat Jugoslovani 1,76, ostato 0,59 
odstotiàa 

Atevito obtifi: 62 

Najvebja obtina} Tolmin - 940 kvadratnih kilometrov 

Najgosteje peselfena obéina lizvzeta Ljubljana ia Maribor): Izola - 499 Judi 
na kvadratni kilometer 

Nejredkeje naseljene obtina: Tolmin - 22 }judi na kvadiatni xilometer 
Stevilo stenovenj: 689.389 

Velikost gospodinjstev; povpretno 3,1 fiana 

Stevilo zapostenih: 765.900 

Stevilo brezposelnib: 70.405 


REFERENDUM 23.DECEMBRA 1990 


Vpredanja: Ali naj Republika Slovenija postano samostojna in nuodvisna diZava? 
DA: 1.289.369 cziroma 93,6 udistoliea volilnih uprasitencev 
è 57.800 oziroma 4 odstotke Voliinih upraviténcae, 





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Lage Peterle, predsednik stovenske 
via 


Kaj pridekujete uf sveta po 28. juniju% 


*Pritakuzemo, do do svet pre) alt ale) 
una slovensko drfave. nekatem pre), 
drugi agnese, in du do nat korak'ocenjen 
kot 2uécetek dejanskega razrefevanja ju- 
gastovanzke krize na novih otmomal 
. Naceino gledano, Slevenija ne bi smela 
inti obsojena zaredi uporabe prarice do 
samoodiotbe. (otovo Fs v Sio nasta- 
fanje novih drdav ni vsem pe 

Siero ne Feli biti vel trovo preti 
tega kumcepta. $ svojim iorakom, ki 
io: kot cecetek suverenizocije pia 
slovanskià republik, pa ridimo mofuust, 


175 





nih interesih, Nyeni temeli di bili da 
psem Gilnuri nu enotnem trygu.* 


‘2,412 alt 0; odstotka. da pride v Jugostuvisi do novih porezav, 


na novih asnorali 




















Pagina del giornale “Primorske Novice” (25 giugno 1991) 


era così ingenua da accettare solo un’unilaterale internazionalizzazione della tutela 
della minoranza italiana”. 

Brezigar non mancò, nemmeno, di definire strano il comportamento della 
minoranza italiana, che si stava occupando solo del confine in Istria e dell’interna- 
zionalizzazione della sua tutela come se nulla, attorno ad essa, stesse accadendo. 

La solidarietà tra le minoranze stava finendo; in ogni modo, se per la minoran- 
za slovena nulla cambiava (rimanevano, quindi, i problemi di sempre), per gli 
italiani d’Istria e Dalmazia la situazione stava mutando radicalmente. 

In un incontro, a ottobre, tra gli esponenti della comunità italiana ed il ministro 
Rupel, erano state nuovamente sollevate la questione dell’ uniformità di trattamen- 
to e quella relativa ai problemi causati dal confine in Istria. Nell'occasione era stata 
anche presentata la richiesta di giungere ad un memorandum trilaterale e un’ ana- 
loga proposta era stata consegnata anche al ministro degli esteri croato, Zvonimir 
Separovié e al capo della diplomazia italiana, Gianni De Michelis. 


39 R. SKRLI, “V Haagu samo u paru”, Primorske novice, 11 ottobre 1991. 


40 Memorandum sulle ragioni, cit. 


176 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


Il 24 settembre 1991 a Capodistria era, infatti, stato elaborato dall’UI il 
Memorandum sulle ragioni e le modalità della tutela internazionale della comuni- 
tà nazionale italiana nelle repubbliche di Slovenia e Croazia, da presentare alla 
Conferenza di pace sulla Jugoslavia. Nel testo si precisava che “la tutela interna- 
zionale da attuare con la sigla di un trattato internazionale che impegni la Croazia, 
la Slovenia e l’Italia, è l’unico modo di salvaguardare la continuità di una Comu- 
nità, come quella Italiana, indissolubilmente legata, a prescindere da ogni divisione 
amministrativa o delimitazione confinaria, a comuni radici e tradizioni. È insieme, 
l’unico modo per scongiurare la scomparsa di una cultura nel rispetto dei principi, 
universalmente riconosciuti, di salvaguardia degli equilibri etnici e dei valori 
dell’ambiente umano e sociale, valori che andrebbero irrimediabilmente perduti 
con una divisione territoriale e statale che non dovesse tener conto della specifica 
esigenza di proteggere, attraverso nuove, più elevate forme di collaborazione 
internazionale, l’integrità umana, organizzativa, culturale e civile di una Comuni- 
“MA 

Nel documento venne altresì toccato anche un altro problema, tutt'altro che 
marginale, quello dei processi di privatizzazione e di denazionalizzazione che 
erano in atto nelle due repubbliche ex socialiste. Si voleva che fosse assicurata “la 
possibilità di acquisizione di proprietà immobiliari da parte della Comunità Nazio- 
nale Italiana come soggetto collettivo nonché la gestione autonoma da parte della 
Comunità Nazionale, delle istituzioni pubbliche (scuole, mezzi di informazione, 
ecc.) che ad essa fanno riferimento””'. 

I vertici della minoranza si stavano rendendo conto che, al di là della facciata, 
realmente rischiavano di rimanere esclusi, come soggetto collettivo, dalla riparti- 
zione della proprietà sociale ed in secondo luogo, sapevano che non avevano il 
controllo né delle scuole né dei mezzi di informazione che formalmente esistevano 
per la comunità italiana. L'influenza che potevano esercitare su queste istituzioni 
era quindi marginale ed indiretta. Ci si rendeva conto che nulla si stava gestendo 
(escluso il Centro di ricerche storiche) e che si sarebbe rischiato di continuare a 
gestire nulla. Il problema per i nuovi dirigenti di Unione italiana era quello di dare 
soggettività al gruppo nazionale, così, nello stesso documento non si mancò di 
rilevare che: “attuata la statalizzazione degli enti pubblici ed introdotte le leggi di 
mercato nell’economia e nei rapporti di proprietà, la Comunità Italiana si trovereb- 
be in una situazione di pesante emarginazione sociale ed economica, con tutte le 


4! Ibidem. 


4 Ibid. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 177 


conseguenze che ne deriverebbero per la conservazione e lo sviluppo dell’identità 


nazionale”. 


Roma e Lubiana iniziano a discutere di minoranze 


A metà ottobre 1991, Rupel incontrò nella capitale italiana De Michelis per 
discutere di iniziative economiche e non solo. Il Ministro sloveno non mancò di 
rilevare: “Quando parlammo di minoranze legai subito il riferimento all’accordo 
tripartito (Italia, Croazia e Slovenia) alla regolarizzazione della posizione della 
minoranza slovena in Italia”*. 

Se l’Italia aveva tracciato la sua strategia, anche la Slovenia non aveva dubbi: 
l’accordo si può fare se vi sarà un’analoga intesa sulla tutela degli sloveni. Gli 
stessi esponenti della comunità slovena in Italia insistettero su questo punto e 
Lubiana aveva sempre affermato di voler ascoltare la sua minoranza. 

Intanto, deputati e forze politiche spingevano, sempre più, il Governo italiano 
verso il riconoscimento di Slovenia e Croazia. Tra il 21 e il 22 ottobre si discusse 
della questione alla Camera dei deputati. In aula si approvò una risoluzione in cui 
si chiese il riconoscimento dei due paesi e l’ottenimento delle massime garanzie 
per la comunità italiana. In quei giorni De Michelis non mancò di sottolineare 
l’urgenza dell’accoglimento della Legge di tutela per la minoranza slovena. 

Il 27 ottobre 1991, il Capo della diplomazia italiana ricevette, a Trieste, gli 
esponenti della comunità slovena ed una delegazione di Unione italiana. Il Ministro 
promise il suo impegno per cercare di sveltire l’iter di approvazione della Legge di 
tutela, ma non mancò di criticare alcuni politici regionali, “che a Lubiana si 
presentano come amici degli sloveni e poi a casa propria non fanno nulla per 
loro”. De Michelis rimarcò inoltre che “gli accordi di Osimo erano superati e che 
bisognava nuovamente discutere di essi con i nuovi partner, anche in quella parte 
che riguarda la tutela minoritaria”. Alla Slovenia la cosa non sarebbe certamente 
dispiaciuta, ma in Friuli-Venezia Giulia, più che la tutela della minoranza italiana, 
la preoccupazione di molte forze politiche era rivolta alle possibili ripercussioni sul 
piano regionale di eventuali concessioni fatte alla minoranza slovena. Si sapeva, 
infatti, quanto l’elettorato fosse sensibile a questi argomenti. In molti partiti 


43 D. RUPEL, Skrivnost drzave: spomini na domate in zunanje zadeve 1989-1992, Ljubljana, 1992, p. 206. 
44 L. KANTE, “Bo rimski parlament do maja le sprejel zascitni zakon?”, Delo, 28 ottobre 1991. 


45 Idem. 


178 S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


bruciava ancora lo scotto pagato dopo gli Accordi di Osimo, quando nel capoluogo 
giuliano nacque la Lista per Trieste e raccolse ampi consensi rubando voti ai alle 
forze tradizionali. 

Nel corso dell’incontro con Unione italiana, il Ministro annunciò anche che 
una sua delegazione sarebbe andata alla Conferenza di pace. "I rappresentanti della 
minoranza italiana, all’ Aia, richiesero un trattamento unitario ... e ciò al massimo 
livello raggiunto"“ garantito da un accordo tra Roma, Lubiana e Zagabria. Venne- 
ro, così, proposti tre emendamenti al Piano di pace, ma il 15 novembre 1991, il 
ministro per gli sloveni nel Mondo e le comunità nazionali, Janez Dular, affermò 
che "la minoranza, con la sua visita all’ Aia, aveva provocato una posizione assurda, 
visto che l'accordo Carrington intende richiedere alla Slovenia una tutela minore 
rispetto a quella già in atto”‘”. Nonostante l’irritazione, per quanto stava avvenen- 
do, però, nel corso del dibattito sulla politica estera al parlamento sloveno, Lubiana 
accettò il principio della tutela internazionale delle minoranze. 

La protezione delle comunità nazionali, era così diventato il tema caldo dei 
colloqui bilaterali tra Roma e Lubiana e “molto si parlò anche di tutela delle 
minoranze” a Nuova Gorizia, quando, per la prima volta, un capo di stato 
straniero mise piede sul suolo sloveno dopo la proclamazione dell’indipendenza. 
Il presidente italiano, Francesco Cossiga, infatti, aveva preso a pretesto il suo 
viaggio in Friuli-Venezia Giulia per passare il confine ed incontrare il suo omologo 
Kuéan. Se non era ancora un riconoscimento formale, indubbiamente, però, si 
trattava di una promozione sul campo, anche se furibadito che il sì italiano sarebbe 
giunto assieme a quello degli altri paesi europei. Nel corso dei colloqui Kuèan 
rilevò che la Slovenia “continuerà a garantire alla minoranza italiana un alto grado 
di tutela, superiore agli standard europei” ed auspicò che altrettanto accadesse in 
Italia. Cossiga, dal canto suo, rassicurò il presidente sloveno sulla questione della 
tutela della minoranza in Italia ed aggiunse a proposito degli italiani in Istria che 
“l’Italia si interesserà e tutelerà questa minoranza, senza intromettersi in questioni 
interne”, 

AI vertice dell’Esagonale di Venezia il presidente Kuèan e il ministro degli 
esteri De Michelis, parlarono nuovamente di comunità nazionali e s’ipotizzò che il 
discorso sarebbe potuto essere ripreso nel corso della visita di Kutan e TuOman a 


Bonn. 


46 B. SULIGOJ, “Italijanska manjsina je bila zadovoljna s pogovari v Haag”, Delo, 4 novembre 1991. 


4) IDEM,“Meja v Istri ni evropska”, Delo, 16 novembre 1991. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 179 


Le minoranze tentano il dialogo 


Alla fine di novembre si registrò il primo incontro ufficiale tra la minoranza 
italiana e quella slovena, dopo la nascita di Unione italiana. Lo scenario fu quello 
del Consiglio regionale di Trieste. Dopo anni di solidarietà tra le minoranze, ora, 
trovare una linea d’azione e una strategia comune, sembrava difficile. La minoran- 
za italiana voleva un accordo internazionale sulla sua tutela, quella slovena insiste- 
va che contemporaneamente ci sarebbero dovute essere precise garanzie anche per 
lei. Il minimo comune denominatore, comunque, era la volontà, almeno a parole, 
di rimanere soggetto sia nei confronti della madrepatria sia degli stati domiciliari, 
ma la posta in gioco, per tutti, era troppo alta. 

I politici sloveni, comunque, continuavano a mandare rassicurazioni ai loro 
connazionali all’estero e a precisare che le minoranze in Slovenia erano ben 
tutelate. Così, ad esempio, nel corso di un incontro con la comunità slovena, il 
ministro per l’informazione, Jelko Kacin, rimarcò che lo “stato sloveno ha il dovere 
morale ed il diritto, a tutti i livelli (iniziando dai rapporti bilaterali con Roma) di 
adoperarsi acciocché gli sloveni, che vivono fuori dai confini della nazione madre, 
siano quanto meglio tutelati”, mentre il presidente Kuéan sottolineò, che la 
“Slovenia ha con le proprie minoranze, l’ungherese nel Prekmurje e l’italiana in 
Istria, conti chiari, visto che sono maggiormente tutelate rispetto a quanto richiesto 
dagli standard internazionali”. 

Da rimarcare un fatto, che forse ai più sembrerà insignificante e riguarda più 
la forma che la sostanza. In questa fase, quando si parlava delle “proprie minoran- 
ze”, il riferimento era agli italiani ed agli ungheresi che vivono in Slovenia, mentre, 
successivamente, con lo stesso termine ci si riferirà sempre più spesso alle comu- 
nità slovene all’estero. Sarà anche questo un segno di come le minoranze saranno 
sempre più prese sotto l’ala protettrice della nazione madre. 


48 M. KOSIN, Zacertki.., op.cit., p. 59. 
4 IDEM, “Slovenska manj$ina ..., op.cit., p. 60. 
50 Ibidem. 


5! S. T., “Nova Slovenija si res prizadeva za evropsko zaslito vseh manjsin”, Primorski dnevnik, 21 
novembre 1991. 


52 L. KANTE, “Slovenija bo zavarovala vse pravice manjsin”, Delo, 16 dicembre 1991. 


180 S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


LI 


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SFR JUGOS 


ADITALIA 


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SR SLOVEN 


REPUE LR 
SLOVE 4 





Militari lungo il confine tra Jugoslavia e Italia 


Verso il riconoscimento 


Il 15 dicembre 1991 i paesi dell’Unione europea (UE) decisero, su proposta di 
De Michelis, di posticipare di un mese il riconoscimento di Slovenia e Croazia. Il 
Ministro italiano non voleva che l'UE, in pieno processo integrativo, giungesse 
spaccata su una questione così delicata. Il riconoscimento venne così subordinato 
ad una sorta d’esame di fronte alla Commissione d’arbitrato. Per l’instaurazione di 
relazioni diplomatiche si chiedeva il rispetto dei principi dell’ Atto finale di Helsin- 
ki, della Carta delle Nazioni Unite, e della Carta di Parigi per la nuova Europa, 
particolare accento venne dato soprattutto alla tutela delle minoranze e all’inviola- 
bilità dei confini. 

Sin dall’inizio, comunque, emerse che per la Slovenia non ci sarebbero stati 
problemi. La valutazione trovò conferma anche nei colloqui del 18 dicembre 1991, 
a Graz, tra il presidente sloveno, Milan Kuéan e Lord Carrington che presiedeva la 
Conferenza di pace. In ogni modo, la Germania, che agli inizi di dicembre aveva 
promesso che avrebbe dato luce verde entro Natale alle due entità, mantenne la 
parola data ed il 19 dicembre riconobbe Slovenia e Croazia. Contemporaneamente 
giunse il sì anche di Svezia ed Islanda. De Michelis dichiarò immediatamente che 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 181 


l’Italia, il 15 gennaio 1992, avrebbe riconosciuto “quelle repubbliche jugoslave, che lo 
richiederanno entro il 23 dicembre e che dichiareranno di adoperarsi per il rispetto dei 
criteri fissati. Tra di esse ci saranno, sicuramente, Slovenia e Croazia". 

Il rinvio del riconoscimento, orchestrato da De Michelis, però, lasciò un po” 
d’amaro in bocca a Lubiana, che, alla vigilia del vertice europeo del 15-16 
dicembre 1991, pensava di avercela oramai fatta. Il Ministro italiano giunse, il 21 
dicembre, nella capitale slovena, in sostanza all’indomani della decisione presa a 
Bruxelles per spiegare l'accaduto ai politici sloveni. De Michelis volle subito porre 
l’accento sui pericoli di un mancato sì congiunto e rilevò quanto fosse importante 
trovare anche il favore di Stati Uniti e Russia, una volta ottenuto quello dei paesi 
dell’Unione. Il Capo della diplomazia italiana ribadì che l’Italia avrebbe ricono- 
sciuto la Slovenia il 15 gennaio del 1992, ma pose la questione del Memorandum 
d’intesa tra Croazia, Italia e Slovenia sulla tutela della minoranza italiana. La 
posizione slovena in merito era risaputa sin dai primi colloqui tra Rupel e De 
Michelis. Il premier Peterle affermò “le minoranze sono come una specie di cartina 
al tornasole dei rapporti bilaterali. Una corretta regolamentazione della loro posi- 
zione contribuirà ad ancora migliori rapporti tra i due paesi” e pose l’accento 
“sulla regolamentazione giuridica della posizione della minoranza slovena in 
Italia. De Michelis sottolineò l’impegno del Governo italiano a regolare la tutela 
della minoranza slovena e la disponibilità a firmare un protocollo speciale. Il dottor 
Rupel propose che, prima del 15 gennaio, si incontrassero le delegazioni dei due 
paesi per stilare, anche, il documento sulla tutela della minoranza slovena e De 
Michelis fu daccordo”. 

A livello politico la situazione, quindi, era risolta. La Slovenia accettava il 
trilaterale sulla minoranza italiana e l’Italia un protocollo su quella slovena. Ora si 
trattava “soltanto” di definire i termini dei documenti. 

Si ponevano però subito alcune domande. Quanto era sentita la questione 
minoranze nell’opinione pubblica dei due paesi? Quanto i rispettivi governi sareb- 
bero stati disposti a sacrificare ed anche a rischiare per i loro connazionali all’este- 
ro? La cura degli sloveni rimasti fuori dai confini nazionali era una costante della 
“politica estera” di Lubiana, anche in Jugoslavia. Le preoccupazioni per le sorti 
della esigua comunità italiana rimasta nelle “terre perdute”, invece, non era certo 
un tema che riusciva a riscaldare gli animi in Italia, dove ben pochi sapevano 


53 M. DRCAR-MURKO, “De Michelis: vse po naèrtu”, Delo, 20 dicembre 1992. 
5 M. KOSIN, Zacetki..., op.cit., p. 63. 


55 Ibidem. 


182 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


perfino della sua esistenza. Come abbiamo visto in precedenza, soltanto in questo 
periodo le istanze della comunità nazionale italiana iniziavano a venir recepite a 
livello governativo. Gli italiani d’Istria, però, credevano di aver finalmente trovato 
un alleato nel Governo italiano ed, in fondo, pensavano che l’Italia sarebbe riuscita 
a ottenere adeguate garanzie per il loro futuro, ma in concomitanza con l’avvicinarsi 
del riconoscimento a Trieste si creò un rumoroso fronte che andava “dai missini a 


qualche esponente socialista, allarmatissimo che il Memorandum possa in qualche 


modo influire sulla regolamentazione della minoranza slovena in Italia”. 


Alla fine di dicembre, alla vigilia della trattativa tra i tre paesi, Unione italiana 
accolse un documento sui principi generali che avrebbe dovuto contenere il 
Memorandum d'’intesa tra le repubbliche di Croazia, Slovenia ed Italia per la tutela 
della comunità nazionale italiana. 


La Giunta Esecutiva dell’Unione Italiana, nella sua seduta del 31 dicembre 1991, riunitasi in 
sessione congiunta con i presidenti delle Commissioni assembleari coordinati dal Presidente dell’ As- 
semblea, ha all’unanimità approvato il seguente documento: 

PRINCIPI GENERALI DEL MEMORANDUM D'INTESA 
TRA 
LE REPUBBLICHE DI CROAZIA, SLOVENIA ED ITALIA 
PER 
LA TUTELA DELLA COMUNITÀ NAZIONALE ITALIANA 


AI fine di garantire la completa eguaglianza di diritti, nel quadro delle disposizioni specitiche 
destinate a salvaguardare il carattere etnico e l’avanzamento culturale ed economico quale prospettiva 
di esistenza e sviluppo per la Comunità Nazionale Italiana, componente autoctona sul territorio del 
suo insediamento storico (area istro-quarnerina e dalmata), l’ Unione Italiana formula i seguenti 
principi per la stipula dell’Intesa trilaterale tra le Repubbliche di Croazia, Slovenia e Italia: 

1) La Comunità Nazionale Italiana è parte costituente degli Stati in cui vive. Essa realizza i propri 
diritti specifici e particolari all’interno delle articolazioni democratiche e civili dello Stato di diritto. 

2) Si garantisce l’unità etnica della Comunità Italiana che, prima unitaria, si trova ora divisa in 
due Stati autonomi e sovrani. Si assicura l’unità e l’indivisibilità delle sue strutture (associative, 
politiche, economiche, culturali, scientifiche, di ricerca e altre), nonché la soggettività dell’Unione 
Italiana, quale organizzazione unitaria e rappresentativa della Comunità Italiana stessa. 

3) Si assicura l’uniformità di trattamento giuridico-costituzionale nei territori del suo insediamen- 
to storico, partendo dalle soluzioni più avanzate o favorevoli attualmente in vigore nelle Repubbliche 
di Slovenia e Croazia e ulteriormente perfezionate, ai sensi del presente Memorandum e della 
prossima Intesa trilaterale. 

4) ] diritti sono garantiti, a prescindere dalla consistenza numerica, attraverso strumenti giuridi- 
co-costituzionali, ai singoli individui e alla Comunità, quale soggetto collettivo, per consentire pari 


56 “A Oriente nulla di nuovo”, // Meridiano, 5S novembre 1992, p. 15. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 183 


opportunità nella partecipazione alla gestione dello Stato (delle sue strutture, forme rappresentative 
e legislative, istituzioni ed enti), delle autonomie e dei poteri locali. A tale fine vengono istituite 
qualificate forme di rappresentanze garantite. 

5) Si assicura la soggettività della Comunità Nazionale Italiana, mediante forme rappresentative 
dirette ed attive, nelle sedi ed istanze in cui vengono prese decisioni che influiscono sulla sua 
posizione, nonché altre forme organizzative autonome a cui lo Stato trasferisce determinate funzioni 
di sua competenza, perla realizzazione dei propri interessi. 

6) Leggi, normative ed altri atti generali riferiti alla realizzazione dei diritti e della posizione della 
Comunità Italiana, vengono accolti con il consenso dei suoi legittimi rappresentanti. 

7) Si riconosce, ai cittadini di nazionalità ovvero madrelingua e cultura italiana, il diritto alla 
riacquisizione della cittadinanza italiana, accanto a quella croata e slovena. 

8) Autonomia gestionale, di sviluppo e programmazione degli enti e istituzioni della Comunità 
Italiana, inseriti nel sistema pubblico e sovvenzionati dallo Stato e/o dai Comuni: istituzioni scolasti- 
che, universitarie, culturali, scientifiche e di ricerca, mezzi d'informazione (stampa, radio e TV) e 
case editoriali. Essi, come anche altri enti e istituzioni, non inseriti nel sistema pubblico statale, — 
soggetti economici pubblici e privati, enti bancari e finanziari, e altri — debbono poter fare riferimento 
al potenziale rappresentato dall’intera Comunità Nazionale. Gli Stati forniscono gli strumenti norma- 
tivi e legislativi necessari per rendere tali enti e istituzioni operanti su tutto il territorio in cui è 
storicamente insediata la Comunità Nazionale Italiana, indipendentemente dalla divisione ammini- 
strativa e statuale. 

9) Si riconosce, alla Comunità Nazionale Italiana, il diritto ad un proprio specifico sistema di 
educazione e istruzione unitario. 

10) Introduzione, con disposizioni legislative, della lingua italiana, nell’area d’insediamento 
storico della Comunità Nazionale, quale lingua ufficiale, accanto a quella croata/slovena, come pure 
nella nomenclatura topografica bilingue. Introduzione, nelle scuole di ogni ordine e grado, dell’inse- 
gnamento della lingua italiana - con fondamenti di cultura - come lingua dell’ambiente sociale. 

11) Inserimento della Comunità Nazionale Italiana, quale soggetto collettivo, nella riforma dei 
rapporti di proprietà in atto nelle Repubbliche di Slovenia e Croazia, assicurandone la possibilità di 
acquisizione di proprietà immobiliari e demaniali - in maniera naturale e legale - storicamente riferite 
alla presenza e alla creatività della componente italiana. 

12) Si assicura, da parte degli Stati, la libertà di circolazione ed impiego sul territorio d’insedia- 
mento storico, individuando, con opportuni strumenti, diritti e prerogative identici a quelli ricono- 
sciuti ai propri cittadini. Anche a tale fine viene creata nell’area istro-quarnerina, una zona di libero 
scambio e circolazione per le popolazioni ivi residenti. 

13) Si assicurano particolari forme di tutela alle popolazioni italiane nelle località di Plostine e 
Zara e si avvia un processo che porti alla loro parificazione al livello dell’area istro-quarnerina. 

14) Il diritto della Comunità Nazionale Italiana a partecipare, a pieno titolo, in tutte le fasi della 
elaborazione e stipula dell'Intesa trilaterale e alla concretizzazione dei suoi strumenti applicativi. Il 
testo dell'Intesa deve essere accolto con il consenso dell’Unione Italiana. 





A) Approvare congiuntamente e rendere operanti, entro sei mesi, i principi, i diritti e le clausole 
contemplati dal Memorandum, mediante la stipula di un’Intesa trilaterale di tutela della Comunità 
Nazionale Italiana. 


184 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


B) Estendere, con applicazione immediata, le disposizioni degli accordi internazionali già 
stipulati, su tutto il territorio dell’insediamento storico della Comunità Italiana. 

C) Promulgare delle Leggi quadro o delle Leggi specifiche, per l'applicazione delle disposizioni 
convenute, entro un anno dalla sigla del presente Memorandum. 

D) Definire, entro un anno dall’approvazione del Memorandum, un piano di interventi a sostegno 
della Comunità Italiana. 

E) I governi di Croazia, Slovenia ed Italia, si impegnano a favorire, con adeguati strumenti di 
carattere legislativo, la ricomposizione della componente italiana lacerata dall’esodo. 

F) Istituire forme di controllo internazionale dell’attuazione e del rispetto dei termini del 
Memorandum e del Trattato”. 


Il documento riaffermava tutti quei principi che erano stati posti nei mesi 
precedenti ed in pratica non si discostava molto dalla strategia enunciata alla 
Camera dallo stesso De Michelis. I punti cardine rimanevano unitarietà, uniformità 
di trattamento, libera circolazione nell’area di insediamento storico ed effettiva 
gestione delle istituzioni. Significativa, però, anche la richiesta volta a favorire la 
ricomposizione della componente italiana lacerata dall’esodo. 

Nell’opinione pubblica italiana, oramai, l’idea del riconoscimento riscuoteva 
un ampio consenso e le istanze della comunità dei rimasti erano del tutto marginali 
in: questo contesto. A fugare anche gli ultimi dubbi venne l’abbattimento, da parte 
dei caccia Federali, di un elicottero con quattro osservatori italiani della Comunità 
europea. Roma richiamò per consultazioni l'ambasciatore Vento da Belgrado, 
mentre De Michelis affermò che: ”’L’Italia seguirà le decisioni dell’Unione euro- 
pea ed il 15 gennaio riconoscerà la Slovenia e la Croazia”. 

In una situazione alquanto definita tutto era pronto per i colloqui di Zagabria 
tra Croazia, Italia e Slovenia che avrebbero dovuto portare alla finalizzazione dei 
documenti sulla tutela delle minoranze. L’8 gennaio, alla vigilia dell’incontro, la 
delegazione unitaria della comunità slovena in Italia, richiese che si giungesse ad 
un accordo particolare tra Italia e Slovenia “sulle tutela della minoranza slovena su 
tutto il territorio dove essa vive”. La questione riguardava, ancora una volta, 
l’estensione delle norme alla provincia di Udine. Si voleva inoltre che venissero 
definiti i tempi per l'approvazione del provvedimento. 

I colloqui di Zagabria si svolsero sia a livello trilaterale sia bilaterale. Nella 


5? Principi generali del Memorandum d’intesa trale repubbliche di Croazia, Slovenia ed Italia perla tutela 
della comunità nazionale italiana, 31 dicembre 1991(per gentile concessione del presidente della Giunta esec. 
dell’UI, M. Tremul). 


58 “Ohladitev odnosov med Rimom in Beogradom po sestrelitvi helikopterja z opazovalci”, Primorski 
dnevnik, 9 gennaio 1991. 


59 M. KOSIN, “Slovenska manjtina ... , op.cit., p. 59. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 157-196 185 


prima fase congiunta, le parti “concordarono che sulla posizione e la tutela della 
minoranza italiana avrebbero firmato un particolare memorandum trilaterale”, 
La delegazione italiana “aveva fatto intendere che l’accoglimento di questo 
testo era la condizione per il ... riconoscimento di Slovenia e Croazia”! 
Nel corso dei colloqui si giunse alla finalizzazione del Memorandum d’intesa 

tra Croazia, Italia e Slovenia sulla tutela della minoranza italiana in Croazia e 

Slovenia che si ispirava a quattro principi fondamentali: 

È La conferma del carattere autoctono ed il riconoscimento dell’unicità e delle 
caratteristiche specifiche della minoranza italiana e allo stesso tempo la 
necessità di un suo equo trattamento in entrambi gli Stati. 

2. Il riconoscimento della rappresentatività legale, nell’ambito delle leggi di 
Croazia e Slovenia, della più rappresentativa organizzazione della minoran- 
za italiana, attualmente l’Unione Italiana, come unica organizzazione che 
rappresenta la minoranza italiana in entrambi gli Stati. 

Si Conferma dell’uniformità di trattamento della minoranza italiana, basata sui 
diritti acquisiti esistenti, inclusi quelli che derivano da strumenti internazio- 
nali. Conferma dei nuovi diritti che derivano dagli atti costituzionali e da 
altre leggi della Croazia e della Slovenia con l’impegno a mantenere tale 
uniformità. 

4. Nelle aree di entrambi gli Stati dove vive la minoranza: è garantita la libertà 
di movimento per i cittadini croati e sloveni che appartengono alla minoran- 
za italiana; la libertà di lavoro per i cittadini croati e sloveni, membri di 
questa minoranza, che sono impiegati in attività quali le istituzioni, le 
scuole, i mass-media eccetera; la salvaguardia dalla discriminazione dovuta 
alla cittadinanza con riferimento anche ai cittadini croati e sloveni che già 
lavorano’. 


“La portata pratica del memorandum già si limitava all’affermazione di 
principi che avrebbero dovuto ispirare le future convenzioni sulla parità di condi- 
zione e sull’unità di trattamento della minoranza italiana”, ma la valenza politica 
era notevolissima perché avrebbe, in primo luogo, fatto sentire molto meno, alla 


60 IDEM, Zacetki..., op.cit., p. 66. 
€! Ibidem. 
62 T. FAVARETTO, E. GRECO, op.cit., p.167. 


63 G. CONETTI, “Aspetti giuridici delle relazioni dell’Italia con la Slovenia e la Croazia”, (a cura di T. 
FAVARETTO, E. GRECO, op.cit., p. 54. 


186 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


comunità italiana, gli effetti negativi causati dal nuovo confine che divideva 
l’Istria. 

Le richieste di Unione italiana erano più ampie, ma in sostanza le principali 
istanze vennero recepite. Nel corso della trattativa fu giudicato subito inaccettabile, 
da Slovenia e Croazia, che “le autorità consolari italiane avessero il diritto di 
vigilare sull’applicazione del memorandum”®. Tra le altre proposte rigettate, 
anche quella “che voleva la garanzia agli esuli della possibilità di acquistare 
immobili in Istria”? 

Marko Kosin, che di lì a poco sarebbe diventato ambasciatore sloveno aRoma, 
dopo aver ricoperto un’analoga finzione per la Jugoslavia, rileverà: “Nel testo 
siglato del memorandum a noi non andava bene, che all’Unione italiana fosse 
riconosciuto lo status di rappresentante unico della minoranza italiana, perché ciò 
non era in armonia con la nostra costituzione, ma alla fine accettammo questa 
soluzione per evitare complicazioni politiche’”*. 

Chiuso il capitolo trilaterale toccò agli esponenti di Roma e Lubiana sedersi 
dietro ad un tavolo per giungere ad un’intesa bilaterale sulla tutela della minoranza 
slovena in Italia. Si partì subito da due posizioni contrapposte. L’ Italia propose un 
generico impegno a presentare in Parlamento quanto prima la Legge di tutela 
globale; la Slovenia invece chiese garanzie più precise. Dopo una trattativa che 
durò fino a tarda notte, il documento venne ampliato inserendo nel preambolo 
alcuni riferimenti all’autoctonia della minoranza slovena e agli impegni internazio- 
nali già esistenti sulla tutela della comunità slovena. L’intesa era composta da due 
punti. Nel primo i governi concordavano che l’accordo bilaterale, previsto dal Memo- 
randum trilaterale sulla tutela della minoranza italiana in Slovenia, fosse implementato 
con norme che riguardavano la tutela della minoranza slovena in Italia, ispirate al 
riconoscimento del carattere autoctono della comunità; mentre nel secondo si precisa- 
va che l’Esecutivo italiano, si sarebbe impegnato acciocché il Parlamento approvasse 
in tempi rapidi la Legge di tutela della comunità slovena e che avrebbe tenuto conto, 
con favore, gli emendamenti proposti dalla minoranza slovena. 

Paradossalmente, però, con il passare delle ore, la posizione negoziale della 
Slovenia si faceva sempre più forte. L°11 gennaio, Lubiana tirò un sospiro di 
sollievo. Era arrivato il responso della Commissione d’arbitrato (o Badinter) edera 
una promozione a pieni voti. “A seguito dell’esame della Costituzione slovena ed 


64 M. KOSIN, Zatetki..., op.cit., p. 68. 
65 Ibidem. 


66 Ibid. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 187 


in particolare delle numerose e dettagliate norme ivi contenute sulla condizione 
delle minoranze, la Commissione concludeva nel senso di ritenere sussistessero per 
la Slovenia le condizioni per il riconoscimento”’”. Qualche riserva invece venne 
espressa per la Croazia. 

Il responso giunse all'indomani dei colloqui di Zagabria. La Slovenia, oramai, 
sapeva che il 15 gennaio i paesi dell’Unione europea l’avrebbero riconosciuta e 
poteva essere abbastanza sicura che l’Italia avrebbe fatto lo stesso. In fondo, in 
dicembre, era stato lo stesso Ministro degli esteri italiano ad agire per evitare crepe, 
in sede comunitaria, sull’ex Jugoslavia, ed era stato lui stesso a proporre la formula, 
che poi era stata applicata, del posticipo. C’era, poi, la questione dei quattro 
osservatori morti e quindi l’ampio sostegno dell’opinione pubblica italiana per la 
causa di Slovenia e Croazia. Così, il giorno stesso che la “Commissione Badinter” 
presentò i suoi pareri, il Ministero degli esteri sloveno giudicò insoddisfacente il 
testo dell’accordo bilaterale “soprattutto perché non definiva il territorio dove 
viveva la minoranza slovena autoctona e perché non conteneva norme che certifi- 
cassero che la tutela minoritaria sarebbe stata eguale e garantita in tutte e tre le 
province (Trieste, Gorizia, Udine)”®. 

Ottenere norme di tutela adeguate anche per gli sloveni della Slavia veneta, 
non puntando solo su quelli delle province di Trieste e Gorizia, era stata una delle 
maggiori innovazioni della politica della Slovenia democratica nei confronti della 
sua minoranza. Scriverà, infatti, alcuni mesi più tardi Rupel: “L’Italia, com’è 
risaputo, non riconosce la minoranza slovena nella provincia di Udine, ma prima o 
poi dovrà riconoscerla”99. 

Ad alleggerire ulteriormente la pressione su Lubiana, il 13 gennaio, arrivò il 
sì del Vaticano. La chiesa non aveva, certamente, giocato un ruolo secondario nel 
processo di riconoscimento delle due repubbliche cattoliche dell’ex Jugoslavia. 

In ogni modo la situazione appariva alquanto complicata. In questa fase entrò 
in gioco, in maniera sempre più rilevante, il Parlamento sloveno. Venne così 
convocata la Commissione per i rapporti internazionali. Ricorderà il ministro degli 
esteri, Rupel: “Sentii pareri molto contrastanti. Naturalmente volevano l'accordo 
bilaterale senza che firmassimo quello trilaterale”? 

L’organismo, si allineò al parere del Ministero degli esteri e, giudicò insoddi- 


7 G. CONETTI, opccit., p. 52. 

68 M. KOSIN, Zacetki..., op.cit., p. 68. 

6° D. RUPEL, Srecanja in rashajanja, Ljubljana, 2001, p. 323. 
70 IDEM, Skrivnost... op.cit., p. 240. 


188 S.LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


sfacente l’intesa. Ai lavori parteciparono anche alcuni esponenti della minoranza 
slovena in Italia. Il 14 gennaio si tentò a Gorizia un’ultima mediazione e Rupel si 
recò nel capoluogo isontino, forte del sostegno dei deputati. 

Anche in Italia gli accordi sulla tutela delle minoranze avevano messo in 
subbuglio, a livello regionale, i partiti politici. Alla vigila dell’incontro con Rupel, 
il sottosegretario agli esteri Vitalone ebbe un colloquio con il presidente regionale 
della Democrazia cristiana, Bruno Longo, quest’ultimo più che del “trilaterale” era 
preoccupato dell’accordo “bilaterale”, pertanto chiese “che non venisse accolto 
nessun accordo sulla minoranza slovena, visto che il memorandum bilaterale 
siglato a Zagabria per loro era inaccettabile e alla vigilia delle elezioni politiche, 
nelle zone di confine, avrebbe provocato un terremoto”. A quel punto, l’Italia non 
fu più disponibile a discutere di untesto che, comunque, era insoddisfacente anche 
per la parte slovena. Il capo del governo, Peterle, con alcuni esponenti della 
comunità slovena in Italia, cercò di elaborare un’intesa di minima, ma non si riuscì 
a trovare il bandolo della matassa. 

I contatti tra Gorizia e Lubiana si fecero frenetici. Alla delegazione slovena 
saltò particolarmente agli occhi, la presenza, nel capoluogo isontino, del presidente 
della giunta esecutiva di Unione italiana, Maurizio Tremul. 

“Nel corso della sessione plenaria il sottosegretario Vitalone disse che del 
documento bilaterale, sulla minoranza slovena, non erano soddisfatti né il Parla- 
mento sloveno né i partiti politici italiani e che la delegazione italiana a Zagabria 
aveva superato il suo mandato, siglando l’accordo, quindi, non era possibile 
discuterlo. Propose che il giorno successivo, a Roma, con la firma del Memoran- 
dum trilaterale, i ministri De Michelis e Rupel rendessero una dichiarazione alla 
stampa sulla tutela della minoranza slovena. Questa dichiarazione avrebbe avuto, 
certamente, un grande risalto internazionale, anche se giuridicamente non avrebbe 
impegnato l’Italia e, perciò, non sarebbe stato necessario portarla in Parlamento””?, 

La parte slovena, invece, avrebbe “voluto almeno una dichiarazione congiunta 
o in ultima istanza una dichiarazione unilaterale solenne del Ministro degli este- 
HPA, 

Restava ferma, quindi, la posizione di Lubiana, che non si sarebbe firmato 
l’accordo trilaterale se non si fosse ottenuto qualcosa per la minoranza slovena, 
mentre, seppur in maniera meno convinta, in Italia si continuava a dire che senza 


?l M_ KOSIN, Zacetki..., op.cit, p. 70. 
?2 Ibidem, p. 71. 
73 Ibid., p. 70. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 189 


la firma del Memorandum non ci sarebbe stato il riconoscimento. 

Nella notte tra il 14 ed il 15 gennaio, a Lubiana, ci fu un’altra riunione della 
Commissione per i rapporti internazionali, alla quale parteciparono anche il presi- 
dente del Parlamento, France Buéar, il premier, Lojze Peterle, ed una rappresen- 
tanza degli sloveni in Italia. “Quest’ultimi si dissero contrari a qualsivoglia cedi- 
mento all’Italia. ... Il ministro Rupel, seppur tra le righe, propose la firma dell’ac- 
cordo tripartito, ma la maggioranza dei membri ed anche Peterle e Buèar furono 
nettamente contrari. Il rappresentante della minoranza italiana, Roberto Battelli, 
espresse la sua preoccupazione personale per l’evolversi dei fatti, affermando ... 
che si sarebbe giunti ad un irrigidimento nei rapporti con l’Italia, il che avrebbe 
gravato soprattutto sulle genti di confine e sulla minoranza. Alla fine su proposta 
di Peterle fu accolta la decisione che ... non ci sarebbe stata la firma, ma che la 
Slovenia avrebbe reso una dichiarazione in cui si impegnava, nonostante tutto, a 
rispettare i dettami del memorandum, si esprimeva rammarico per il mancato 
accordo sulla tutela della minoranza slovena in Italia e si proponeva la prosecuzio- 
ne della trattativa”. 

Nel motivare la mancata firma, Peterle spiegò che la dirigenza slovena aveva 
tenuto conto “soprattutto della dichiarazione della rappresentanza unitaria degli 
sloveni in Italia”. 

Nella lettera, che Rupel inviò a De Michelis, venne sottolineato il rammarico 
per il fatto che l’Italia avesse rinunciato al Memorandum d'’intesa tra Slovenia ed 
Italia sulla tutela della minoranza slovena, che era stato siglato. Così, rimarcò il 
Ministro, non si erano realizzate le aspettative slovene che si potesse giungere ad 
un accordo anche sulla tutela della minoranza slovena in Italia. Per tali ragioni, si 
precisò, che la Slovenia non poteva firmare il Memorandum trilaterale. Nella 
missiva Rupel, però, garantì che Lubiana era pronta a “rispettare ed applicare, 
come se lo avesse firmato””° il documento sulla tutela della minoranza italiana. 

Così il 15 gennaio 1992, a Roma, il ministro degli esteri croato, Zvonimir 
Separovi6, firmò un accordo trilaterale monco, che Zagabria, poi, avrebbe faticato 
a rispettare. 


74 “Rupel ne bo odsel v Rim na podpis memoranduma”, Delo, 15 gennaio 1992. 
75 ”Manjsini na obeh straneh meje morata biti delezni enake zascite”, Delo, 15 gennaio 1992. 


76 M. KOSIN, “Slovenska manjSina ..., op.cit., p. 64. 


190 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


Il riconoscimento della Slovenia 


L’Italia fu il XXV paese che riconobbe la Slovenia. La dichiarazione del 
Ministro degli esteri sloveno bastò all’Italia, secondo la prassi internazionale 
questa, infatti, diventava vincolante per la Slovenia. Il Governo italiano prese “con 
soddisfazione” conoscenza della lettera di Rupel, ma De Michelis ribadì che 
l’assoluta parità di trattamento tra minoranza slovena ed italiana non era possibile 
“se non altro per le diverse vicende storiche delle due minoranze””?. Ricordò 
l’esodo ed il fatto che ora la comunità italiana viveva in due stati diversi, mentre, 
nulla cambiava per la minoranza slovena. 

Il presidente del Friuli-Venezia Giulia, Vinicio Turello, non mancò di preci- 
sare che il riconoscimento confermava “l’azione svolta dalla Regione in tutti questi 
mesi””8. A congratularsi direttamene con gli esponenti sloveni andò, a Lubiana, 
una delegazione della DC regionale, guidata dal segretario Longo (sic!). 

Il ministro Rupel, in un documento del 22 aprile 1992, scrisse in merito al 
mancato trilaterale che “il ministro degli esteri, De Michelis, ha, lui stesso, offerto 
buone soluzioni per gli sloveni in Italia, ma i suoi alleati di coalizione non hanno 
voluto aiutarlo; inoltre i problemi sono intricati a causa del locale nazionalismo di 
destra antisloveno””?. La comunità italiana in Slovenia e Croazia, dunque, aveva 
puntato decisamente sul sostegno della madrepatria ed in qualche modo era stata 
tradita. Il trilaterale avrebbe dovuto essere l’indicatore di quanto l’Italia era 
disposta a sostenere le sue istanze e la mancata firma provocò non poco scoramen- 
to. Il presidente della giunta esecutiva di Unione italiana, Maurizio Tremul, non 
mancò di condannare l’atteggiamento dei vertici della minoranza slovena che 
avevano “strumentalizzato a propri fini un problema vitale per la minoranza 
italiana, interrompendo in tal modo il dialogo tra le due comunità”. La leadership 
di Unione Italiana si riunì il 16 gennaio, a Capodistria, per valutare la situazione 
dopo il “no” sloveno alla firma del trilaterale. Alla fine venne emesso un comuni- 
cato di cinque punti in cui l’organizzazione degli italiani prendeva posizione 
sull’accaduto: 

l. L’ Unione Italiana esprime disapprovazione e amarezza per gli atteggiamenti 
e le decisioni assunte dagli organismi statali della Slovenia ai quali si chiede 


77 S. ARCELLA, “Cossiga in ‘missione ”, /! Piccolo, 17 gennaio 1992. 
78 “Amarezza'’ di esuli e Unione”, I! Piccolo, 17 gennaio 1992. 
79 D. RUPEL, Srecanja..., op.cit., p. 323. 


80 «A marezza’ di esuli e Unione”, /! Piccolo, 17 gennaio 1992. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 191 


ora di dare delle precise risposte in merito alle soluzioni che intendono 
adottare per mantenere fede agli impegni formalmente assunti sinora, e 
tutelare adeguatamente, uniformemente e nella sua unicità, la minoranza 
italiana, in uno spirito realmente democratico e europeo. Auspica al contem- 
po che il Memorandum d’Intesa siglato tra Italia e Croazia venga quanto 
prima sottoscritto anche dalla Repubblica di Slovenia. 

2: L’Unione Italiana respinge categoricamente il criterio di reciprocità quale 
base per regolamentare la posizione e i diritti delle minoranze e sviluppare 
rapporti di collaborazione cooperazione interstatali. 

3: L’Unione Italiana condanna fermamente l’atteggiamento assunto dalle 
strutture della minoranza slovena in Italia che hanno strumentalizzato a 
propri fini un problema vitale della minoranza italiana, interrompendo in tal 
modo il dialogo tra le comunità. 

4. L’Unione Italiana sollecita l’urgente e inderogabile approvazione degli 
accordi bilaterali previsti dal Memorandum d’Intesa siglato a Roma, e rileva 
l'esigenza di partecipare attivamente, con specifiche proposte ed istanze, 
alla concretizzazione e all’applicazione di tali accordi. 

S. L’Unione esprime il più vivo apprezzamento per la responsabile azione 
svolta dalle Repubbliche italiana e croata, ai fini della stipulazione del 
Memorandum d'’Intesa a favore della minoranza italiana*'. 


Nonostante tutto, i cinque punti furono meno duri di quanto i ‘falchi’ avreb- 
bero voluto. Alla fine prevalse la linea moderata, quella “diplomatica”, caldeggiata 
da Tremul e Battelli, sfavorevoli ad una totale chiusura. Tuttavia, la posizione 
dell’ Unione italiana incontrò, anche, delle reazioni negative all’interno della stessa 
minoranza italiana. Il demoliberale, Franco Juri, che guardava alla questione da 
un ottica diversa, forse, oramai, più di partito, scrisse che: “La firma di Rupel in 
calce al documento trilaterale avrebbe significato la sua fine politica e forse 
l’inizio di una destabilizzazione dei delicati equilibri che si vanno faticosamente 
creando al centrosinistra. È inutile dire che un simile sviluppo sarebbe stato per 
le minoranze ben più deleterio della mancata firma slovena. Chi conosce un po’ 
di alfabeto politico, sa bene che la leadership di Lubiana, per mantenere un 
minimo di dignità di fronte alla propria opinione pubblica, non aveva altra scelta 
che quella del rifiuto”*. Juri invitava a superare lo scoglio del confine “senza 


8! “Comunicato”, La Voce del Popolo, 17 gennaio 1992. 
82 Fi JURI, “La miopia dell’Unione Italiana”, La Voce del Popolo, 20 gennaio 1992. 


192 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


padrini romani”** e affermava, rivolto all'Unione italiana, che “l’attacco brutale 


alle strutture della minoranza slovena corrisponde esattamente agli interessi (for- 
temente destabilizzanti) di chi, oltre confine, continua a ubriacarvi e consigliarvi 
malissimo. Dividi et impera? Tra le minoranze litiganti hanno in fondo goduto 
sempre i poteri che a queste tendono a concedere il meno possibile”**. Se 1’ Unione 
italiana imputava il naufragio alla Slovenia ed all’egoismo della minoranza slove- 
na, di tono diametralmente opposto era la reazione della comunità slovena in Italia, 
che, invece, vedeva nel Governo di Roma e nei politici regionali le cause del 
fallimento della trattativa. In questo senso mantenne un’esemplare compattezza al 
di là delle profonde differenze ideologiche esistenti tra le singole componenti. Il 
senatore comunista Stojan Spetié chiese chiarimenti in Parlamento sul ritiro 
dell’assenso italiano all’ Accordo bilaterale di tutela della minoranza slovena, che 
aveva originato la mancata firma del trilaterale da parte di Lubiana. Spetid sottoli- 
neò, che il comportamento italiano era da condannare “perché questa volta il 
Governo aveva nuovamente ceduto alle pressioni della destra triestina e non aveva 
sfruttato l’occasione unica di garantire alla propria minoranza in Istria adeguate 
norme di tutela”. Il senatore di etnia slovena non mancò di rilevare che ciò era 
stato fatto perché non si erano voluti prendere impegni nei confronti degli sloveni 
in Italia. 

Intanto gli esponenti della minoranza slovena in Italia chiesero un incontro 
con l’Unione italiana per chiarire l’accaduto. Nella lettera che venne inviata si 
precisò che ciò che stava accadendo “sicuramente non era nell’interesse delle 
minoranze”*°, Gli spazi per il dialogo però non c'erano più; gli sloveni in Italia e 
gli italiani in Slovenia e Croazia dopo i contrasti legati all’accordo trilaterale e 
bilaterale sarebbero stati, oramai, incapaci di sviluppare una politica propria e con 
l’aggravarsi del contenzioso tra i due paesi sarebbero stati sempre in balia dei due 
governi. Così, per gli italiani d’Istria, rappresentati dall’ Unione italiana, il punto di 
riferimento con cui dialogare fu più Roma, che Lubiana o Zagabria, mentre per gli 
sloveni in Italia, la sede dove portare le proprie istanze, diventò sempre più 
Lubiana. Del resto, quella di appoggiarsi sulla nazione madre era una prassi ben 
radicata, almeno nell’ala sinistra della comunità slovena in Italia, che da questa 
collaborazione aveva tratto, pure, non pochi vantaggi economici. Anche per queste 


83 Ibidem. 
84 Ibid. 
85 “Italija priznala Slovenijo”, 17 gennaio 1992. 


86 “Polemike niso v interesu manjsin”, Primorski dnevnik, 18 gennaio 1992. 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 193 


ragioni storiche la differenza parve, sin da subito, evidente: da una parte c’era una 
nazione che seguiva le sorti della sua minoranza con estrema attenzione, dall’altra, 
invece, si faceva ancora difficoltà a distinguere tra cittadinanza e nazionalità. Gli 
italiani d’Istria, poi, non s’erano ancora scrollati di dosso la fama di “titini 
venduti”, mentre, a livello d’opinione pubblica, l’attenzione per la minoranza 
italiana era praticamente inesistente. 


Cossiga e la minoranza 


Subito dopo il riconoscimento della Slovenia fu lo stesso presidente italiano, 
Francesco Cossiga, a prendere in mano le redini del gioco. Così il 16 gennaio 
scrisse al suo omologo sloveno, Kuèan, per comunicargli la decisione del suo 
Governo. Il 17 gennaio 1992 il Capo dello stato italiano fu il primo presidente di 
un paese straniero che venne in visita in Slovenia e Croazia dopo il riconoscimento. 

Nel corso del vertice, tra i due presidenti, non si poté evitare quello che era 
stato il tema caldo delle ultime settimane: le minoranze. Kuéan disse che “la 
Slovenia garantirà, alla minoranza italiana, tutela secondo i più alti standard 
europei e libertà di comunicazione con quella parte del popolo italiano che vive in 
Croazia e con la madrepatria. Nel contempo espresse la speranza che l’Italia si 
comporterà in maniera analoga garantendo un uguale status agli sloveni nel 
Friuli-Venezia Giulia”, 

Cossiga, dal canto suo, affermò che si sarebbe impegnato acciocché tra i due 
paesi si giungesse alla firma di un accordo sulla tutela delle minoranze. Parlando 
della comunità italiana, però, non mancò di affermare “che rappresenta un nucleo 
che dopo la seconda guerra mondiale in gran parte ha lasciato la sua terra natia””*5, 
Forse si poteva leggere in queste parole, un cambio di rotta, una diversa attenzione, 
che dalla tutela della minoranza italiana si sarebbe presto spostata sui diritti degli 
esuli, su cui avevano iniziato a puntare la Democrazia cristiana triestina e, soprat- 
tutto, la Lista per Trieste. 

Il giorno successivo, i due presidenti fecero tappa a Pirano dove, nella sede 
della Comunità degli italiani “Giuseppe Tartini”, era in programma un incontro con 
una delegazione dell’ Unione italiana. Cossiga fu accolto in maniera calorosissima, 
nonostante in passato si fosse lasciato andare a qualche “picconata” anche nei 


87 M. KOSIN, Zacetki..., op.cit., p. 77. 


88 Ibidem. 


194 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 





Pirano e il suo campanile 


S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 195 


confronti della minoranza italiana in Istria. Gli esponenti di Unione italiana 
vollero, ancora una volta, esprimere tutto il loro disappunto per la mancata firma 
slovena del memorandum, mentre Cossiga gettò acqua sul fuoco. “La storia pesa 
nei suoi aspetti validi e meno validi sul problema delle minoranze italiane in 
Slovenia e Croazia, come sulle minoranze slovene e croate in Italia”?*. 

Il Presidente pose l’accento sull’impegno sloveno di rispettare il trilaterale, 
anche se non era stato firmato, invitando la minoranza ad “abbinare due elementi: 
la fedeltà alla sua identità nazionale storica, culturale e linguistica e la lealtà alle 
istituzioni delle due repubbliche di cui fa parte”. Le “grandi speranze” della 
comunità italiana vennero forse così ancora un po’ deluse. 

Il presidente di Unione italiana, Antonio Borme, non riuscì a nascondere il suo 
malumore e al termine dei colloqui di fronte ai giornalisti sbottò: “Si specula sulla 
nostra lealtà — accusa Borme — non vogliamo che venga confusa con servilismo””. 

Il problema delle minoranze, però, nei primi mesi del 1992, stava passando in 
secondo piano. La cosa risultò evidente dall’incontro a Roma tra i due capi di 
governo, Peterle ed Andreotti, del febbraio del 1992, dove si costatò che ci sarebbe 
voluto tempo per trovare una soluzione. Il Premier sloveno ribadì che Lubiana 
intendeva “rispettare il memorandum di tutela della minoranza italiana, anche se 
formalmente non l’aveva firmato””. Il messaggio, comunque, fu chiaro: prima di 
riprendere la questione avrebbero dovuto passare le elezioni politiche in Italia e, 
forse, anche quelle in Slovenia. Da quel momento, nella trattativa bilaterale, tra 
Italia e Slovenia rimase sul piatto principalmente la tutela della minoranza slovena 
in Italia. Dall’ottobre del 1992 per l’Italia il problema preminente sarà quello degli 
esuli. Era, infatti, quella una problematica che riusciva ad appassionare maggior- 
mente le forze politiche e l’opinione pubblica, soprattutto, in Friuli-Venezia Giulia. 


8° M. SIMONOVICH, “Fedeli alla nazione e leali con lo Stato”, La Voce del Popolo, 20 gennaio 1992. 
90 Ibidem. 
9 R. BIANCHINI, L. COEN, “Il Presidente: ‘Ma io parlavo di assistenza”, Repubblica, 20 gennaio 1992. 


92 “Potreben bo éastoda vprasanje manjsin bo reseno”, Primorski dnevnik, 5 febbraio 1992. 


196 S. LUSA, Italiani in Jugoslavia e sloveni in Italia, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 157-196 


SAZETAK 

Nacionalne manjine na nasem podruéju nisu bile pasivni subjekti koji 
su tek promatrali proces raspada Jugoslavije. Prava prekretnica manjine 
uslijedila je nakon prvih demokratskih izbora, pobjedom koalicije Demos, 
koja je okupila stranke Cija je namjera bila raskinuti sa starim, proòlim 
rezimom. Nova slovenska vlada javno je iskazala svoju orijentaciju, kao 
i manjeru da otpoène dijalog sa svim nacionalnim manjinama na 
podruéju drZave. Kanila je takoder povesti brigu o Slovencima u okrugu 
Udina, a ne samo o onima u Trstu. Nova vlast u Ljubljani nije stalno 
i s jJednakim razumijevanjem pratila potrebe i bojazni talijanske manjine 
u Sloveniji. 

Talijanska Unija razradila je niz dokumenata koje je dostavila 
sluzbenoj Ljubljani, Zagrebu i Rimu, u kojima se zahtijeva potpisivanje 
trilateralnog sporazuma o zaîtiti manjinskih prava od strane Republike 
Italije, Republike Hrvatske te Republike Slovenije. Najbitnija natela 
dokumenta ticala su se istovjetnog odnosa prema manjini. Sa svoje 
strane, Slovenija je vezala trilateralni sporazum uz ona) o zaìtiti 
manjinskih prava Slovenaca u Italiji. To je izazvalo nemalu zabrinutost 
politiétkih snaga u pokrajini Friuli-Julijska krajina, koje su izrazile svoju 
bojazan glede reperkusija Sto bi mogle uslijediti nakon toga. Na kraju, 
u pomanjkanju sporazuma koji bi $titio prava slovenske manjine u Italiji, 
Ljubljana nije potpisala trilateralni memorandum, ved je izjavila da Ce 
ga poîtivati kao da je potpisan. SluZbeni Rim je, svejedno, priznao 
Sloveniju 15. sijeîéna 1992., zajedno s ostalim zemljama Europske 
zajednice. Od tog trenutka pitanje zastite talijanske manjine prestaje 
biti u sredistu paZnje priliktom razgovora izmedu dviju drZava. 


POVZETEK 

Narodnostne manjsine bivse Julijske krajine niso bile pasivni subjekti v 
procesu razkrajanja Jugoslavije. Njihovo delovanje je vplivalo — vedkrat 
ni bilo le obrobno —- na odnose med Slovenijo in Italijo. Tudi takrat 
je prillo na dan, da je Ljubljana posvetala (in Se posveta) vetjo 
pozornost svojim sonarodnjakom na tujem. Dejstvo, da slovenka stran 
ni podpisala trilateralnega memoranduma o zaciti italijanske manjSine 
v Sloveniji in na Hrva$kem, je bilo prvi motan udarec za “velike upe”, 
ki jJih je italifanska skupnost imela do matièéne drZave po padcu 
berlinskega zidu. 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 197 


MOSAICO FOIBE: NUOVE TESSERE 


GIACOMO SCOTTI 
Fiume CDU 949.4/.SIstria:323.281”°1943” 


L’autore fornisce nuovi contributi allo studio ed alla comprensione del fenomeno degli infoibamenti 
verificatisi in Istria nella seconda metà del settembre 1943, nel corso dell’insurrezione popolare 
antifascista resa possibile dall’uscita dell’Italia dalla guerra, dallo sfacelo dell’esercito italiano e dal 
crollo quasi totale delle strutture statali italiane nella penisola istriana. 

L’autore situa quei massacri (alcuni compiuti da delinquenti comuni) dei quali furono vittime non 
soltanto italiani ma anche numerosi croati, nella cornice storica e nella situazione peculiare dell’Istria, 
tracciando un rapido excursus delle violente persecuzioni attuate dal regime mussoliniano contro le 
popolazioni slave. Accenna, nel contesto, per la prima volta, a infoibamenti compiuti da quello stesso 
regime proprio nella penisola istriana.Negli altri capitoli viene fornita una cronaca degli eventi 
politici e militari nel periodo settembre-ottobre ’43 in Istria (fino all’accupazione della provincia da 
parte delle truppe naziste ed alle stragi da esse compiute), facendo conoscere i contenuti di alcuni 
documenti del Partito comunista croato e delle forze partigiane croate, evidenziandone le parti in cui 
direttamente o indirettamente si accenna agli infoibamenti, all'eliminazione dei “nemici del popolo” 
ed ai rapporti, quasi sempre tesi fino ai limiti dello scontro, con gli attivisti del Partito comunista 
italiano e i dirigenti italiani dell’antifascismo istriano. 


I venti anni di squadrismo e poi venne la guerra 


Per una giusta comprensione del fenomeno delle foibe istriane — ma compren- 
sione non significa affatto giustificazione di quei crimini — è assolutamente neces- 
sario inserire la questione nel contesto storico in cui si verificò e nel quadro più 
ampio del periodo tra la fine della prima e lo svolgimento della seconda guerra 
mondiale. Un periodo che fu particolarmente tragico per una larga parte della 
popolazione istriana venutasi a trovare inserita nel territorio periferico, di frontiera, 
del Regno d’Italia; di un’Italia per di più privata, quasi subito dopo il primo 
conflitto mondiale, della democrazia parlamentare e delle libertà, asservita al 
regime fascista; di un’Italia programmaticamente e politicamente negata a gover- 
nare con giustizia territori plurietnici, plurilingui e multiculturali in quanto spinta 


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dal suo governo fascista a realizzare un preciso programma di oppressione e 
snazionalizzazione dei propri sudditi cosiddetti a/logeni e alloglotti nei territori 
orientali. 


**R E 


Quando terminò la prima guerra mondiale e nell’Istria ex austro-ungarica 
sbarcarono le truppe italiane, nella regione risiedevano circa duecentomila croati e 
sloveni autoctoni (ne erano stati registrati 225.423 nell’ultimo censimento austria- 
co del 1910) e cioè il 58 per cento della popolazione totale. Era una popolazione, 
quella slava, formata in prevalenza da contadini; la popolazione italiana invece era 
composta per lo più da lavoratori dell’industria, da artigiani, da commercianti e 
proprietari terrieri presenti più o meno compattamente nelle cittadine costiere quali 
Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Orsera, Rovigno, Dignano, 
Pola, Albona e in alcuni centri maggiori dell’interno o poco lontani dalla costa 
quali Buie, Montona, Pinguente e Pisino. Ancor prima della firma del Trattato di 
Rapallo del 1920 che assegnò definitivamente l’Istria all’Italia, quando ancora la 
regione era soggetta al regime di occupazione militare, la popolazione dell’Istria si 
trovò di fronte allo squadrismo italiano in camicia nera, parzialmente importato da 
Trieste, che in quella regione si manifestò con particolare aggressività e ferocia, 
servendosi non soltanto dell’olio di ricino e del manganello. Gli stessi storici 
fascisti, tra i quali spicca l’istriano G.A. Chiurco, vantandosi delle gesta degli 
squadristi e glorificandole nelle loro opere, hanno abbondantemente documentato 
i misfatti compiuti — dagli assassinii di antifascisti italiani quali Pietro Benussi a 
Dignano, Antonio Ive a Rovigno, Francesco Papo a Buie, Luigi Scalier a Pola ed 
altri — alla distruzione delle Camere del lavoro ed all’incendio delle Case del 
popolo, alle sanguinose spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola, ecc. 

Questi misfatti continuarono sotto altra forma dopo la presa del potere a Roma 
da parte di Mussolini, con la creazione del regime fascista. Ancora una volta il 
risultato fu disastroso soprattutto per gli “allogeni” istriani: furono distrutti e/o 
aboliti tutti gli enti e sodalizi culturali, sociali e sportivi della popolazione slovena 


! Cfr: D. SEPIC, “Istra uoti konferencije mira: talijanska okupacija Istre 1918. i istarski Hrvati” (L’Istria 
alla vigilia della Conferenza di pace: l’occupazione italiana dell’Istria nel 1918 e gli istriani croati), Zbornik 
Historijskog arkhiva Jazu, vol. IV, Zagabria, 1961; AA.VV, /stra i Slovensko Primorje (L’Istria e il Litorale 
sloveno), Belgrado, 1952; AA.VV, Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera, Trieste-Istria-Friuli 
1919-1945, Udine, 1974; E. APIH, Dal regime alla resistenza. Venezia Giulia 1922-43, Udine, 1960. 


2 Cfr. G.A. CHIURCO, Storia della rivoluzione fascista, 5 vol., Firenze, 1928. 


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e croata; sparì ogni segno esteriore della presenza dei croati e sloveni, vennero 
abolite le loro scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti 
nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo; con un decreto del 1927 
furono forzosamente italianizzati i cognomi di famiglia (in alcuni casi il cambio 
dei cognomi fu attuato con tale diligenza che due fratelli, o padre e figlio, 
ricevettero due cognomi diversi), furono italianizzati anche molti toponimi; mi- 
gliaia di persone finirono al confino (Tremiti, Ustica, Ponza, Ventotene, S. Stefano, 
Portolongone, Lipari, Favignana, ecc.) o nel migliore dei casi, se dipendenti statali, 
specialmente ferrovieri — furono trasferiti in altre regioni d’Italia; nelle chiese le 
messe poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata e slovena 
dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, queste stesse lingue furono caccia- 
te dai tribunali e dagli altri uffici, bandite dalla vita quotidiana. Gli allogeni o 
alloglotti furono discriminati perfino nel servizio militare, finendo nei cosiddetti 
“Battaglioni speciali” in Sicilia e Sardegna. Alcune centinaia di democratici 
italiani, socialisti, comunisti e cattolici che lottarono per la difesa dei più elemen- 
tari diritti delle minoranze subirono attentati, arresti, processi e lunghi anni di 
carcere inflitti dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato. I principali “covi 
sovversivi” furono Rovigno, Pola e il bacino carbonifero di Albona-Arsia. 

Mi è capitato per le mani un libro sulla storia dell’ Alpina delle Giulie? e sulle 
vicende dei consoci di quella società alpinistica fra i quali l’irredentista, poi 
fascista e, sotto il fascismo, ministro dei Lavori Pubblici, Sua Eccellenza Giuseppe 
Cobolli Gigli. Costui, figlio del maestro elementare sloveno Nikolaus Combol, 
classe 1863, italianizzò spontaneamente il cognome nel 1928 anche perchè sin dal 
1919 si era dato uno pseudonimo patriottico, Giulio Italico. Divenuto poi un 
gerarca del fascismo, prese pure un secondo cognome, Gigli, dandosi un tocco di 
nobiltà. Questo Giuseppe Cobolli Gigli, autore anche di opuscoletti altamente 
patriottici, (tra i quali // fascismo e gli allogeni, da “Gerarchia”, settembre 1927, in 
cui si sosteneva la necessità di eseguire quella che oggi chiamiamo pulizia etnica, 
da realizzare attraverso la sostituzione delle popolazioni “allogene” autoctone con 
coloni italiani provenienti da altre provincie del Regno), volle tramandare ai 
posteri, trascrivendola, una particolare canzoncina in voga fra gli squadristi di 
Pisino. Il paese sorge sul bordo di una voragine che — scrisse il Cobol-Cobolli Gigli 
introducendo le strofe — /a musa istriana ha chiamato Foiba, degno posto di 
sepoltura per chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese, le caratteristiche 
nazionali dell’Istria. Quindi chi, fra i croati, aveva la pretesa, per esempio, di 


3 L.1. SIROVIG, Cime irredente, Torino, 1996. 


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parlare nella lingua materna, correva il pericolo di trovar sepoltura nella Foiba. Ed 
ecco la canzoncina tramandataci da Sua Eccelenza (testo dialettale e traduzione 
italiana a fronte): 


A Pola xe l’Arena, A Pola c’è l’Arena, 

la Foiba xe a Pisin: a Pisino c’è la Foiba: 

che i buta zo in quel fondo in quell’abisso vien gettato 
chi ga certo morbin chi ha certi pruriti. 

E achi con zerte storie E chi con certe storie 

fra i piè ne vegnerà, ci capita tra i piedi, 
disèghe ciaro e tondo: ditegli chiaro e tondo: 
feve più in là, più in là. fatti più in là, più in là. 


Dal che si vede che il brevetto degli infoibamenti spetta ai fascisti e risale agli 
inizi degli anni Venti del XX secolo. 


Dopo 60 anni, una testimonianza 


Pare, inoltre che gli infoibamenti non rimasero allo stato di progetto e di 
canzoncine. Riportiamo qui, riprendendola dal quotidiano triestino “Il Piccolo” del 
5 novembre 2001, la testimonianza di Raffaello Camerini, ebreo, classe 1924, che 
ricorda fatti avvenuti in Istria all’inizio degli anni Quaranta: Nel luglio del 1940, 
ottenuta la licenza scientifica, dopo neanche un mese, sono stato chiamato al 
lavoro “coatto”, in quanto ebreo, e sono stato destinato alle cave di bauxite, la cui 
sede principale era a S.Domenica d’Albona. 

Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 — poi sono stato trasferito 
a Verteneglio — ha dell’incredibile. La crudeltà dei fascisti italiani contro chi 
parlava il croato, invece che l’italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio 
cognome croato o sloveno, con altro italiano, era tale che di notte prendevano di 
forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li 
trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove c'erano delle 
foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro. 

Quando queste cavità erano riempite, ho veduto diversi camion, di giorno e 
di sera, con del calcestruzzo prelevato da un deposito di materiali da costruzione 
sito alla base di Albona, che si dirigevano verso quei siti e dopo poco tempo 
ritornavano vuoti. Allora, io abitavo in una casa sita nella piazza di Santa 
Domenica d’Albona, adiacente alla chiesa, e attraverso le tapparelle della finestra 


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della stanza ho veduto più volte, di notte, quelle scene che non dimenticherò finchè 
vivrò. 

Io ne sono uscito indenne perchè ero sotto il controllo dei carabinieri del 
luogo, ove lavoravo, ove ero obbligato, due volte alla settimana, a firmare il 
registro verde “Presenza ebrei” (...) Mi chiedo sempre, pur dopo 60 anni, come un 
uomo può avere tanta crudeltà nel proprio animo. Che educazione hanno ricevuto 
quelle persone dai propri genitori e che insegnamento hanno ricevuto nella scuola 
italiana fascista, ove insegnavano “libro e moschetto, fascista perfetto” ? 

Sono stati gli italiani, fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far 
sparire i loro avversari. Logicamente, i partigiani di Tito, successivamente, si sono 
vendicati usando lo stesso sistema. 

E che dire dei fascisti italiani che il 26 luglio 1943 hanno fatto dirottare la 
corriera di linea — che da Trieste era diretta a Pisino e Pola — in un burrone con 
tutto il carico di passeggeri, con esito letale per tutti (...) Io ho lavorato fra Santa 
Domenica d’Albona, Cherso, Verteneglio sino all’agosto del 1943 e mai ho veduto 
un litigio, di qualsiasi genere, fra sloveni, croati e italiani (quelli non fascisti). 
L’accordo e l’amicizia era grande e l’aiuto, in quel difficile periodo, era reciproco. 

Un tanto per la verità, che io posso testimoniare. 

Per gli slavi il risultato del ventennio fascista e del triennio bellico 1940-43 fu 
la fuga dall’Istria di circa 60.000 persone, metà delle quali trovò rifugio nelle due 
Americhe e l’altra metà nell’ex Jugoslavia. Sul piano ideologico il risultato fu che 
nella stragrande maggioranza questi esuli istriani slavi si schierarono sui fronti di 
due estremismi: andarono a rafforzare le file comuniste oppure quelle nazionaliste 
degli ustascia e oriunasci, due fronti opposti ma accomunati dall’odio contro 
l’Italia. Il movimento comunista jugoslavo, sia notato per inciso, era di per sè 
alimentato da una forte tendenza nazionalista e questa tendenza fu nutrita anche da 
un profondo sentimento anti-italiano nelle organizzazioni del PC croato e sloveno, 
come dimostra la politica condotta nei riguardi dell’Istria, della Venezia Giulia e 
Dalmazia da alcuni leader di quei due partiti negli anni della Resistenza e in 
particolare dal massimo esponente del comunismo sloveno Edvard Kardelj.?* A 
questa tendenza ed a questa politica nazionalista-espansionista e non all'ideologia 
comunista vanno addebitati alcuni “eccessi” compiuti in Istria immediatamente 
dopo l’armistizio del settembre 1943 e le cosiddette “deviazioni” verificatesi 


3a Atteggiamenti ed atti nazionalistici anti-italiani sono documentati in: G. SCOTTI, Juris, juris! All’attacco 
— La guerra partigiana ai confini orientali d’Italia 1943-1945, Milano, 1984 (si cfr. ampia bibliografia alle pp. 
327-336) e P. SEMA - A. SOLA - M. BIBALO, con la collaborazione di Gino SERGI (Giacomo SCOTTI), 
Battaglione Alma Vivoda, Milano, 1975. 


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sempre in Istria dopo il maggio 1945 con il ritorno anche degli esuli croati di 
tendenza nazionalista. La conseguenza di tutti gli “errori”, “deviazioni” e, in 
genere, di una politica della mano pesante, fu l'esodo di 200-250.000 persone, 
italiani, croati e sloveni insieme, senza distinzione. Uno di questi esuli, il rovignese 
prof. Sergio Borme, attualmente a Pavia, ha scritto: (...) la questione delle foibe. 
Molti commentatori hanno ritenuto di poterla indicare nell’ideologia comunista 
dimenticando che il “confine sul Tagliamento” era stato l’obiettivo del nazionali- 
smo slavo molto prima che il regime jugoslavo nascesse. Facendo proprio 
quell’obiettivo, l'ideologia si metteva al servizio del nazionalismo e non viceversa 
(...) Alla guida della Croazia e della Slovenia troviamo oggi personaggi che erano 
stati le colonne portanti del regime, ma una metamorfosi così repentina e radicale 
sarebbe stata impossibile se l’adesione all’ideologia (dell’internazionalismo co- 
munista) fosse stata reale e convinta*. 

Purtroppo a rafforzare il nazionalismo anti-italiano nelle file del Movimento 
partigiano di liberazione e dei partiti comunisti sloveno, croato e montenegrino fu 
ancora una volta il fascismo mussoliniano che nella seconda guerra mondiale portò 
l’Italia ad aggredire i popoli jugoslavi. Quell’aggressione tra il 6 aprile 1941 e l’inizio 
di settembre 1943 fu caratterizzata, come documenta lo storico triestino Teodoro Sala, 
non soltanto dalle brutali annessioni delle Bocche di Cattaro, di larghe fette della 
Croazia e di una parte della Slovenia, ma anche da una lunga serie di crimini di guerra 
compiuti da speciali reparti di occupazione, fra i quali di distinsero per ferocia le 
Camicie Nere, per ordine dello stesso Mussolini e di alcuni generali: si giunse alle 
scelte più draconiane dei comandi militari italiani. Ne derivarono rapine, uccisio- 


ni, ogni sorta di violenza perpetrata (...) a danno delle popolazioni. 


Il fuoco e il sangue 


Nelle regioni della Croazia annesse all'Italia dopo il 6 aprile ‘41, si ripetè 
quanto avvenuto in Istria dopo la Grande Guerra: si ricorse ad ogni mezzo per la 
snazionalizzazione e l’assimilazione, provocando inevitabilmente l’ostilità delle 
popolazioni, come annotava un rapporto del comandante del XII battaglione moto- 
rizzato dei Regi Carabinieri con sede a Susak (divenuta Sussa) dell’8 agosto 1941: 
Il contegno delle popolazioni nuove annesse, già riservato e indifferente, ha preso 


4 Il Piccolo, 17 settembre 1996. 


5 L'Espresso, 19 settembre 1996. 


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in questi ultimi giorni aspetto di palese e accentuata ostilità nei nostri riguardi°. 

Nella toponomastica, per cominciare da questo aspetto non cruento dell’occu- 
pazione, fu recitata una vera e propria tragicommedia, avendo come regista il 
prefetto della Provincia del Carnaro e dei Territori Aggregati del Fiumano e della 
Kupa, Temistocle Testa. Con suo decreto dell’8 settembre 1941 fu ordinato di 
adottare senza indugio i nomi italiani di tutti quei luoghi (comuni, frazioni, 
località) che erano da secoli italiani e che la ventennale dominazione jugoslava ha 
trasformato in denominazioni straniere. Così località del profondo territorio inter- 
no lungo il fiume Kupa e nel Gorski Kotar divennero: Belica = Riobianco, Bogovié 
= Bogovi, Brusié = Brissi, Buzdohanj = Buso, Crni Lug = Bosconero, Cabar = 
Concanera, Glavani = Testani, Jelenje = Cervi, Kaéjak = Serpaio, Koziji Vrh= 
Montecarpino, Medvedek = Orsano, Orehovica = Nocera Inferiore, Padovo = 
Padova, Peéine = Grottamare e via traducendo o inventando. Trinajstici, presso 
Castua, divenne Sassarino in onore della divisione “Sassari” che vi teneva un 
reparto... 

Ma ben presto, dopo aver battezzato città, comuni, villaggi e frazioni, si passò 
a distruggere col fuoco quelli, fra di essi, che non tolleravano l’italianizzazione né 
l'occupazione. In data 30 maggio 1942 il Prefetto Testa, in virtù dei poteri 
conferitigli dal R.D.Legge del 18.V.1942 — XIX n.452 per i Territori Aggregati alla 
Provincia di Fiume, rese noto con pubblici manifesti di aver fatto eseguire l’inter- 
namento nei campi di concentramento in Italia di un numero indeterminato di 
famiglie di Jelenje (non ancora Cervi) dalle cui abitazioni si erano allontanati 
giovani maggiorenni senza informarne le autorità. Testa era convinto che essi 
avessero raggiunto nei boschi i ribelli arruolandosi nelle file partigiane per com- 
mettere azioni di banditismo, ladronerie e terrorismo. Non potendo sconfiggere e 
catturare i partigiani che combattevano in casa propria e per la propria libertà, Testa 
se la prendeva con le famiglie. Ma non si limitò alla loro deportazione. Il manifesto 
rese noto: sono stase rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 
componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia. Si ammoniva, 
infine, che la rappresaglia sarebbe continuata. Infatti continuò. 

Già il 4 giugno di quell’anno gli uomini del II Battaglione Squadristi di Fiume 
incendiarono le case dei villaggi: Bittigne di Sotto (Spodnje Bitinje), tutte ad 
eccezione di dieci; Bittigne di Sopra (Gornje Bitnje), tutte eccetto la scuola e due 
officine di un ente agricolo italiano; Monte Chilovi (Kilovée), tutte eccetto la 
chiesa, la Casa dei ferrovieri e quattro case private; Rattecevo in Monte (Ratetevo), 


©Cfr. Bollettino, n.1 (1976), Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione del Friuli - Venezia 
Giulia, Trieste. 


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tutte le case, esclusa la chiesa. Lo stesso giorno, nel capoluogo comunale di 
Primano (Prem) fu incendiata una casa. A Kilovée furono fucilate 24 persone ma 
le vittime furono molte di più, come si apprende dal manifesto fatto affiggere dal 
comando del battaglione a scopo intimidatorio, perchè i corpi di molte vittime della 
spedizione punitiva erano disseminati per i campi ed i fascisti, in attesa di rinforzi, 
non si erano arrischiati a contarli. 

Sempre nei dintorni di Fiume, a Cernik-Cavle, furono arrestate 25 persone; a 
Hreljin i fascisti fecero irruzione in 15 case, saccheggiandole, spaccando tutto e 
arrestando chi ci abitava. A Pasac fecero una vera e propria strage di persone 
innocenti: il 25 novembre 1941, era un martedì, ammazzarono una donna incinta, 
suo marito, un uomo anziano e un giovane, ferirono un bambino e numerosi altri 
abitanti, saccheggiarono il paese e caricarono sui camion, deportandoli in prigioni 
italiane, la maggior parte degli abitanti. A Lukezi fu ammazzato un vecchio di 70 
anni... A Krasica penetrarono di nottte nelle case del paese, saccheggiarono tutto 
quel che poterono, spararono alla cieca, arrestarono varie persone. 

Il 21 novembre, siamo ancora al 1941, un reparto di circa 150 camicie nere 
raggiunse il villaggio di Podhum e, di notte, andarono di casa in casa a svegliare 
gli abitanti chiedendo loro se avessero visto dei ribelli comunisti muoversi per i 
boschi. L’indomani mattina, dopo aver bloccato le strade che portavano al paese, 
fermarono tutti i passanti chiedendo di esibire le carte d’identità; a molti fecero 
togliere le scarpe e i vestiti, spingendoli poi nudi nelle loro case. Quella fu soltanto 
un’azione intimidatoria, ma il nome di Podhum diverrà ben presto sinonimo di 
massacro. 

Non c’è villaggio sul territorio di quelli che furono chiamati Territori Aggre- 
gati e/o Annessi a contatto con l’Istria e la regione del Quarnero, occupati fino al 
settembre 1943, che non abbia avuto case bruciate o sia stato interamente raso al 
suolo; non ci fu una sola famiglia che non abbia avuto uno o più membri deportati 
oppure fucilati. 

Queste vittime andarono ad aggiungersi a quelle che avevano subitole atrocità 
del ventennio fascista fra le due guerre mondiali nei territori della Venezia Giulia, 
Istria e Fiume comprese, passate all’Italia dopo il 1919. 

Nel volume Slom Kraljevine Jugoslavije (Il crollo del Regno di Jugoslavia, 
Belgrado 1982) il suo autore Velimir Terzié, all’epoca generale in congedo 
dell’ Armata jugoslava, calcolò che le vittime provocate in Jugoslavia durante la 
seconda guerra mondiale dall’ occupazione italiana furono circa 749.000 (gli ita- 
liani lasciarono dietro di sé il deserto) e precisamente: 437.935 persone uccise, 
64.512 invalidi, 131.250 obbligati ai lavori forzati, 109.437 deportati nei campi di 
concentramento, 7.450 nei campi per prigionieri di guerra. A sua volta lo studioso 


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croato Zerjavié, in polemica con Terzié ed altri autori serbi, nel suo libro Gubici 
stanovni$tva Jugoslavije u drugom svjetskom ratu (Perdite della popolazione della 
Jugoslavia nella seconda guerra mondiale, Zagabria 1989), riduce notevolmente le 
cifre delle perdite civili provocate dagli occupanti italiani, calcolando che nei 
territori della Croazia e Slovenia annessi e/o occupati dall’Italia i civili uccisi 
furono circa 178 mila. Sommando a queste le perdite montenegrine, si arriva a poco 
più di 200.000. Non sono i 438 mila morti indicati dal Terzié, ma siamo pur sempre 
di fronte a un orrendo bilancio di sangue. Restano infine gli invalidi, i deportati. 
Sull'argomento, lo storiografo Carlo Spartaco Capogreco scrive: In Jugosla- 
via il soldato italiano, oltre che quello del combattente ha svolto anche il ruolo 
dell’aguzzino, non di rado facendo ricorso a metodi tipicamente nazisti quali 
l’incendio dei villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le deportazioni in massa dei civili 
e il loro internamento nei campi di concentramento.‘ Più avanti, dopo aver 
denunciato i “tanti silenzi e rimozioni”, i “buchi neri” e la “relativizzazione dei 
crimini fascisti” che avvolgono la storia dell’occupazione italiana dell’ex Jugosla- 
via, Capogreco si sofferma sulle “condizioni disumane” dell’internamento dei 
civili tenute nascoste purtroppo dalla storiografia italiana e perciò oggi “estranee 
al bagaglio culturale degli italiani”. Il Capogreco, in particolare, evidenzia: primo, 
durante il ventennio fascista il numero dei condanati e confinati “slavi” della 
Venezia Giulia e dell’Istria fu particolarmente elevato, e non a caso dal giugno 
1940 al settembre 1943 la maggioranza degli “ospiti” dei campi di concentramento 
italiani era costituita da civili sloveni, croati e montenegrini; secondo, il numero 
totale dei civili internati dall’Italia fascista superò di diverse volte quello comples- 
sivamente raggiunto dai detenuti e confinati politici antifascisti in tutti i 17 anni 
durante i quali rimasero in vigore le “leggi eccezionali”; terzo, più di 800 italiani, 
fra alti gerarchi civili e comandanti militari, furono denunciati per crimini di guerra 
commessi durante la seconda guerra mondiale alla War Crimes Commission 
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. I campi di concentramento nei quali 


6a C.S. CAPOGRECO, “Una storia rimossa dell’Italia fascista. L’intermamento dei civili jugoslavi (1941- 
1943)”, Studi storici, n.1/2001. Sull'argomento si consultino, dello stesso autore, “Per una storia_dell’internamento 
civile nell’Italia fascista (1940-1943)”, Italia 1943-1945. Storia e memoria a cura di A. L. Carlotti, Milano 1996, 
e “L’oblio delle deportazioni fasciste: una “questione nazionale”, Nord e Sud, n. 6/1999. 


6 Sui crimini di guerra commessi nelle regioni occupate dalle truppe italiane nell’ex’Jugoslavia dal 1941 
al 1943 si consultino: E. COLLOTTI, “Sulla politica di repressione italiana nei Balcani”, La memoria del nazismo 
nell'Europa di oggi, a cura di L. Paggi, Firenze, 1997; T. FERENC, La provincia "italiana" di Lubiana, Documenti 
1941-1942, Udine 1994; G. PIEMONTESE, Ventinove mesi di occupazione italiana nella Provincia di Lubiana. 
Conciderazioni e Documenti, Lubiana 1946; M. CUZZI, L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943), 
Roma, 1998; D. SEPIG, “La politique italienne d’occupation en Dalmatie 1941-1943”, Le systémes d'occupation 


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furono rinchiusi più di centomila civili croati, sloveni, montenegrini ed erzegovesi 
erano disseminati dall’ Albania all’Italia meridionale, centrale e settentrionale, 
dall’isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova 
e Monigo nel Veneto. Tra i più malfamati campi di concentramento, oltre a quelli 
sopra ricordati, ci furono pure Renicci nei pressi di Anghiari (Arezzo), Fraschette 
di Alatri (Frosinone), Cairo Montenotte (Savona), Poggio III Armata e Castagne- 
vizza nei pressi di Gorizia, Tavernelle in provincia di Perugia, Pisticci, Ferramonti. 

A questi vanno aggiunti i campi di internamento di Corropoli, Lanciano, 
Pollenza, Sassoferrato, Scipioni, Lipari, Ustica eccetera. Non si contano, poi, i 
campi “di transito” che funzionavano lungo tutta la costa adriatica. Ricorderemo 
subito quelli di Fiume, di Buccari (Bakar) e Portoré (Kraljevica) ad est di Fiume. 
Scrive Capogreco: // campo di Fiume fu uno dei primi ad essere aperto, nell’estate 
del ’41: nonostante il turn-over degli internati, la loro presenza media si mantene- 
va sulle 2.000 unità. Quello di Buccari, uno dei campi di concentramento più 
importanti, fu attivo dal marzo 1942 sino al luglio 1943, mentre quello di Kralje- 
vica fu presto limitato al solo internamento ebraico. In Dalmazia campi di interna- 
mento e di transito furono istituiti a Vodice, O$ljak, Zlarin, Divulje, sulle isole di 
Ugliano (Ugljan) e Melada (Molat). Quest’ ultimo fu definito da monsignor 
Girolamo Mileta, vescovo di Sebenico, “un sepolcro di viventi”. L’elenco è 
largamente incompleto. In quei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel 
solo lager di Arbe ne morirono 4.000 circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per 
denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie. A proposito ecco un documento del 
15 dicembre 1942. In quella data 1° Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, 
Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell’XI Corpo d’Armata il rapporto di un 
medico in visita al campo di Arbe dove gli internati presentavano nell’assoluta 
totalità i segni più gravi dell’inanizione da fame. Sotto quel rapporto il generale 
Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: Logico ed opportuno che campo di 
concentramento non significhi campo d’ingrassamento. Individuo malato = indi- 
viduo che sta tranquillo. Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò 
un fonogramma al Comando dell’XI Corpo in cui si parlava di briganti comunisti 


en Yugoslavie 1941-1945, Belgrade 1963; T. FERENC, “Si ammazza troppo poco". Condannati a morte, ostaggi, 
passati per le armi nella Provincia di Lubiana 1941-1943. Documenti, Ljubljana 1999; P. BRIGNOLI, Santa 
messa per i miei fucilati. Le spietate rappresaglie italiane contro i partigiani in Croazia, dal diario di un 
cappellano,_Milano, 1973. Per il periodo fra le due guerre cfr.: LL CERMELI, Sloveni e croati in Italia fra le due 
guerre, Trieste 1974; E. APIH, /talia, fascismo ed antifascismo nella Venezia Giulia 1918-1943, Bari 1966; M. 
KACIN-WOHINC - J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni in Italia 1866-1998, Venezia 1998; M. KACIN-WOHINC, 
“I programmi fascisti di snazionalizzazione di sloveni e croati nella Venezia Giulia”, Storia contomporanea in 
Friuli, n. 19/1988. 


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passati per le armi e sospetti di favoreggiamento arrestati. In una nota scritta a 
mano il generale Mario Robotti impose: Chiarire bene il trattamento dei sospetti 
(...) Cosa dicono le norme 4c e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo 
poco! L'ultima frase è sottolineata. Il generale Robotti alludeva alle parole d’ordi- 
ne riassuntive del generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in 
Slovenia e Croazia (Supersloda) il quale nel marzo del 1942 aveva diramato una 
Circolare 3C nella quale si legge: // trattamento da fare ai ribelli non deve essere 
sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da quella testa per dente. Una 
frase che ci fa ricordare l’eccidio di Gramozna Jama in Slovenia dalla quale furono 
riesumati nel dopoguerra i resti di un centinaio di civili massacrati durante l’occu- 
pazione per ordine delle autorità militari italiane. 

Furonoalcune migliaia i civili ribelli falciati dai plotoni di esecuzione italiani, 
dalla Slovenia alla “Provincia del Carnaro”, dalla Dalmazia fino alle Bocche di 
Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici 
ordini di generali dell’esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti. 
In una lettera spedita al Comando supremo dal generale Roatta in data 8 settembre 
1942 (N. 08906) fu proposta la deportazione della popolazione slovena. /n questo 
caso -scrisse- si tratterebbe di trasferire masse ragguardevoli di popolazione, di 
insediarle all’interno del regno e di sostituirle in posto con popolazione italiana. 
Il figlio di Nazario Sauro (l’eroe della Prima guerra mondiale), Italo Sauro, in un 
“Appunto per il Duce”, nel quale riferisce un suo colloquio con 1’ SS — Brigade 
fuehrer Guenter lo informava tra l’altro: Per quanto riguarda la lotta contro i 
partigiani, io avevo proposto il trasferimento in Germania di tutta la popolazione 
allogena compresa tra il 15 e i 45 anni con poche eccezioni, ma i tedeschi dissero 
di no”. 

Andremmo troppo lontano se volessimo citare altri documenti, centinaia, che 
ci mostrano il volto feroce dell’Italia monarchica e fascista in Istria e nei territori 


? Per meglio inquadrare la figura dell’autore di questa orribile proposta, ricordiamo subito alcune date: il 1 
ottobre 1943 viene istituito dagli occupatori tedeschi l’ Adriatisches Kiinstenland, il Litorale Adriatico con capitale 
Trieste, comprendente la Venezia Giulia, il Friuli e la Provincia di Lubiana già annessa all'Italia. Questa vastissima 
regione fu così praticamente annessa al Terzo Reich. Gaulaiter (Governatore) viene nominato Friedrich Reiner, 
suo vice Wolsseger. In Istria i tedeschi nominarono prefetto l’italiano Ludovico Artusi e viceprefetto il croato 
Bogdan MogoroviC. Il 7 ottobre il bollettino tedesco fornì un primo bilancio della repressione in Istria, informando: 
Sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi. Altri 4.900 sono stati catturati, fra cui gruppi di ufficiali e soldati 
badogliani, dunque italiani. Il 23 ottobre il bollettino germanico parlò di /3.000 banditi uccisi o fatti prigionieri, 
sempre in Istria. Quei “banditi” erano italiani, oltre che sloveni e croati. L'8 dicembre dello stesso anno si costituì 
in Istria, armato dai tedeschi, sotto il comando tedesco, al servizio dei tedeschi, il Reggimento “Istria” della Milizia 
Difesa Territoriale, suddiviso in tre battaglioni, al comando di Libero Sauro. Un uomo che, tradendo il sublime 
sacrificio del padre, assistè impassibile alla distruzione del monumento a Nazario Sauro a Capodistria. I Tedeschi 
lo demolirono col pretesto che era un punto di riferimento per l'aviazione alleata! 


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Preparativi prima dell’estrazione delle salme 


Jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale. Gli stupri, i saccheggi 
e gli incendi di villaggi si ripetevano in ogni azione di rastrellamento*. Tuttavia, 
trattandosi qui dell’ Istria, vogliamo accennare rapidamente almeno a pochi episodi 
che precedettero di pochi mesi i fatti del settembre 1943. 


Podhum ed altre stragi 


Nell’estrema parte nord-orientale dell’ Istria, alle spalle di Abbazia, le autorità 
militari italiane intrapresero all’inizio di giugno 1942 un’azione prettamente terro- 


8 Una documentazione di questi crimini la si può trovare nel mio libro Bono Taliano (Italiani in Jugoslavia 
1941-43), Milano, 1977; nel volume AA.VV, La dittatura fascista, Milano, 1984, nel quale Teodoro Sala dedica 
un corposo capitolo a “Fascismo e Balcani. L'occupazione della Jugoslavia” e in altre opere. Fra quelle di autori 
croati segnaliamo D. TUMPIG, Nepokorena Istra: sjecanja i dokumenti (L’Istria indomita, ricordi e documenti), 
Zagabria, 1975. 


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ristica contro le famiglie dalle quali risultava assente qualche congiunto, sicchè 
potevano ritenere che avesse raggiunto le file dei “ribelli”’ (partigiani). Un comu- 
nicato del generale Lorenzo Bravarone informò che il 6 giugno erano state arrestate 
e deportate nei campi di internamento in Italia 34 famiglie per un totale di 131 
persone di Kastav/Castua, Maréelji/Marcegli, Rubessi, San Matteo (Vi$kovo) e 
Spincici; i loro beni mobili, compreso il bestiame grosso e minuto, furono confi- 
scati o abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case incendiate, dodici 
persone vennero passate per le armi senza alcun processo. 

Ancora più terribile fu la sorte toccata agli abitanti della zona di Grobnik/Grob- 
nico, a nord di Fiume. I maestri elementari Giovanni e Franca Renzi, mandati dal 
regime a “italianizzare” i bambini croati del villaggio di Podhum annesso alla 
Provincia del Carnaro nel 1941, erano diventati malfamati nella zona per i maltrat- 
tamenti e le punizioni inflitte a quei bambini colpevoli unicamente di non appren- 
dere rapidamente la lingua italiana. Tra l’altro, il maestro, affetto da TBC, soleva 
sputare in bocca ai disgraziati alunni a lui affidati quando sbagliavano un verbo o un 
vocabolo. Finirono ammazzati da non si sa chi il 10 giugno 1942. A un mese di 
distanza, risultati vani i tentativi di individuare gli uccisori dei due insegnanti, e 
insoddisfatto della spedizione punitiva compiuta il 6 giugno, il prefetto di Fiume, 
Temistocle Testa, ordinò una rappresaglia sanguinosa: reparti di camicie nere nei 
quali furono mobilitati per l'occasione anche numerosi giovani fascisti italiani di 
Fiume, insieme a reparti delle truppe regolari, irruppero nel villaggio di Podhum 
all’alba del 12 luglio. Rastrellata l’intera popolazione, questa fu condotta in una cava 
di pietra presso il campo di aviazione di Grobnico, mentre il villaggio veniva 
saccheggiato e poi incendiato. Il fuoco distrusse 370 case di abitazione e 124 altri 
edifici; oltre mille capi di bestiame grosso e 1300 di bestiame minuto furono portati 
via, 889 persone rispettivamente 185 famiglie finirono nei campi di internamento 
italiani: 412 bambini, 269 donne e 208 maschi anziani. Altri 91 maschi furono 
fucilati nella cava: il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13 anni appena. 

Il 64.enne si chiamava Juraj (Giorgio), il tredicenne Filip, ma avevano lo 
stesso cognome: Petrovié. Dal folto gruppo dei fucilati due riuscirono a fuggire, 
nonostante fossero feriti. Uno di essi, Ivan Cuculié, ha lasciato una testimonianza 
che oggi si può leggere in un libro di lettura per le scuole della regione di Fiume. 
Traduciamo: ‘“Scappai dal luogo dell’eccidio i 112 luglio. Era domenica. Al 
mattino mia moglie era scesa a Susak con un carico di legna da ardere sulle spalle, 
per venederla. Alle otto arrivò un camion di soldati ne lcentro del villaggio. Un 
soldato venne da me, mi consegnò un manifesto da affiggere ed io lo affissi. Il 
manifesto, firmato dal prefetto di Fiume, Temistocle Testa, diceva che eravamo 
liberi di muoverci soltanto dalle otto alle dieci pomeridiane, dopo di che si doveva 


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tornare tutti a casa. ‘Chi sarà sorpreso fuori casa dopo quell’ora— diceva l'affisso 
— verrà passato per le armi’. Ma subito dopo arrivò un altro soldato che mi intimò: 
‘Fuori, via!’ costringendomi a uscire di casa e seguirlo. Camminando davanti a 
lui, vidi che fuori del paese erano stati già condotti una decina di compaesani. 
Intorno al villaggio, dentro il villaggio e sulle alture intorno ad esso ogni passag- 
gio era bloccato da isoldati italiani. 

Ci condussero in direzione dell’aeroporto di Grobnico e della piana di 
Grobnicko Polje. A un centinaio di metri di distanza dalle ultime case de lpaese 
ci fecero fermare. Sul posto trovammo già raccolti un centinaio di uomini, una 
donna e alcuni ragazzi minorenni. Vedemmo pure, ai margini del villaggio, alcuni 
camion con a bordo quattro lanciafiamme. 

Il nostro gruppo, intanto, fu circondato da un fitto cordone di soldati. Furono 
anche piazzate alcune mitragliatrici pesanti con le canne puntate verso di noi. Ci 
fecero sedere per terra. In motocicletta arrivò poi un brigadiere de icarabinieri 
che conoscevo: era in servizio a Jelenje, si chiamava Menaldo Luigi. Si avvicinò 
a un maggiore dell’esercito e subito dopo, leggendo un foglio ad alta voce, 
cominciò a fare nomi e cognomi degli uomini risultati nel rastrellamento del paese. 
Da tempo avevano raggiunto nel bosco i partigiani. Ad ogni nome e cognome 
seguiva il numero della casa. Cinque di costoro, però, erano lì presenti, risposero 
all’appello, non erano andati a fare i partigiani. Li separarono subito dal gruppo; 
poi misero in disparte i vecchi e i ragazzi. Ciò fatto, condussero i primi cinque ai 
piedi di un’altura, circa 200 metri distante. Sentiamo alcune raffiche di mitraglia, 
seguite da colpi di pistola, i colpi di grazia. 

I soldati del plotone di esecuzione tornarono da noi, presero altri quindici 
uomini e spinsero anche quelli verso il luogo della fucilazione. Poi, per la terza 
volta il brigadiere, il maggiore e alcuni altri ufficiali scelsero un gruppo di uomini 
da ammazzare. Fra questi c’ero anch’io. Arrivati ai piedi della collinetta, scorsi 
dapprima due carri armati e poi il mucchio di cadaveri. A terra, fra i carri, erano 
piantate le mitragliatrici servite dai soldati. 

Dal villaggio si levavano già le fiamme e colonne di fumo dalle case bruciate. 
Ci misero con la faccia rivolta alla collina, poi le mitragliatrici presero a sparare. 
Una pallottola mi prese alla gamba destra, un’altra alla scapola. Nonostante il 
dolore lancinante, continuai a fuggire verso la collina. Poi caddi sfinito, ma riuscii 
a trascinarmi verso un folto cespuglio sulla pietraia e mi nascosi. Vidi correre 
nella mia direzione anche un altro paesano, Josip Reljac di 17 anni; era ferito 
anche lui. Avendo perso di vista me, i soldati concentrarono il fuoco su di lui, 
inseguendolo. Così rimasi nascosto nel cespuglio e mi salvai. Fortunatamente, 
come seppi dopo, riuscì a salvarsi anche l’altro giovane che era scappato. Lasciai 


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il mio rifugio appena verso sera, quando i soldati se ne erano già andati dopo aver 
distrutto completamente il paese portandosi via tutto il bestiame e la popolazione. 
Col buio mi avviai verso il bosco. Il nostro villaggio continuava a bruciare... ”. (Da 
IVOB i socijalistiéka revolucija — citanka iz zavicajne povijesti Rijeke i rijeckog 
podrucja / La LPL e la rivoluzione socialista — Libro di lettura di storia locale di 
Fiume e del territorio fiumano, a cura di Antun Giron e Petar Stréié, Zagabria 1975) 

Con un telegramma spedito il 13 luglio a Guido Buffarini Guidi, sottosegreta- 
rio al Ministero degli Interni, Testa lo informò: /erisera tutto l’abitato di Pothum 
nessuna casa esclusa est raso al suolo et conniventi et partecipi bande ribelli nel 
numero 108 sono stati passati per le armi et con cinismo si sono presentati davanti 
ai reparti militari dell’armata operanti nella zona, reparti che solo ultimi dieci 
giorni avevano avuto sedici soldati uccisi dai ribelli di Pothum stop Il resto della 
popolazione e le donne e bambini sono stati internati stop. 

Il generale di brigata Umberto Fabbri, comandante del V Gruppo Guardie alla 
Frontiera (GAF) aveva comunicato in quello stesso periodo che un suo reparto, in 
collaborazione con la Milizia di frontiera di Zamet (oggi sobborgo di Fiume) aveva 
incendiato diverse case di famiglie sospettate di mantenere legami con i ribelli nel 
bosco. La rappresaglia fu eseguita per ordine dell’Eccellenza il Prefetto di Fiume. 

Secondo un documento della Commissione peri crimini di guerra, stilato il 20 
settembre 1945, nel solo Comune di Castua subirono spedizioni punitive diciasset- 
te villaggi; soltanto in cinque non ci furono fucilati, nei rimanenti furono passate 
per le armi 59 persone, altre 231 1 furono deportate e precisamente 842 uomini, 904 
donne e 565 bambini; furono incendiate 503 case e 237 stalle. 

Sempre nella zona di Fiume, il 3 maggio 1943, per ordine del solito Testa, reparti 
di Camicie Nere e di fanteria rastrellarono il villaggio di Kukuljani e alcune sue 
frazioni, portarono via tutto il bestiame, saccheggiarono le case, deportarono la 
popolazione e quindi appiccarono il fuoco alle abitazioni, alle stalle e agli altri edifici 
covi di ribelli, distruggendo completamente 80 case a Kukuljani e 54 a Zoretici. Nei 
campi di internamento finirono 273 abitanti di Kukuljani e 200 di Zoretici. 

Queste sanguinose persecuzioni indiscriminate contro la popolazione civile 
slava furono denunciate anche da eminenti personalità politiche italiane di Trieste, 
tra cui i firmatari di un Promemoria presentato il 2 settembre 1943 da un “Fronte 
nazionale antifascista” al Prefetto Giuseppe Cocuzza. Siamo a un mese e mezzo 
circa di distanza dalla caduta del regime fascista e a meno di una settimana dalla 
capitolazione militare dell’Italia. Nel documento, riportato in sunto da Roberto 
Spazzali nel volume Foibe: un dibattito ancora aperto si fa una denuncia in alcuni 
punti drammaticamente circostanziata, soprattutto sul tema delle vessazioni, degli 
arresti, delle devastazioni e delle esecuzioni sommarie operate con grande discre- 


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zionalità da bande di squadristi che avevano goduto per troppo tempo della mano 
libera e della compiacenza di certe autorità. Nell’iniziativa era evidente, oltretutto, 
un diffuso senso di paura per una vendetta che avrebbe potuto abbattersi indiscri- 
minatamente sugli Italiani dell’ Istria come reazione alla tracotanza del Regime e dei 
suoi uomini più violenti che in Istria e nella Venezia Giulia avevano usato strumenti 
e atteggiamenti fortemente coercitivi nei riguardi delle popolazioni slave. 

Alla luce di questi fatti, dunque, vanno visti gli avvenimenti del settembre 
1943 in Istria. 


Il L’armistizio, l’insurrezione 


Alla notizia della capitolazione militare italiana, diffusasi anche in Istria nel 
tardo pomeriggio dell’8 settembre, in quella penisola ci fu una generale, pressochè 
spontanea rivolta popolare che coinvolse in egual misura le popolazioni italiane nei 
centri costieri e quelle croate e slovene nell’interno. Nell’uno e nell’altro caso (e 
fatte le solite eccezioni) gli insorti mostrarono simpatia e solidarietà con le truppe 
in grigio-verde che altrettanto spontaneamente avevano estrinsecato la propria 
gioia per la “fine della guerra”, mentre la punta offensiva della lancia fu rivolta in 
alcuni casi contro i Carabinieri, la Polizia di Stato e soprattutto contro i gerarchi 
fascisti. Sporadicamente, nell’interno, si fece di tutta l’erba un fascio edi vocaboli 
“fascista” e “italiano” ebbero un unico significato. Le strutture militari dello Stato 
non opposero alcuna resistenza (fece eccezione Pola dove contro i manifestanti fu 
aperto il fuoco per ordine del Comando di guarnigione e si ebbero tre morti fra i 
civili), sicchè nel giro di pochi giorni — entro 1’ 11 settembre — le armi dell’esercito 
e dei carabinieri passarono agli insorti. Senza colpo ferire cedettero le armi i 
presidi, piccoli e grandi, di Antignana, Lanischie, Pisino, Cerreto, Castel Lupoglia- 
no, Rozzo, Pinguente, Canfanaro, Rovigno, Carnizza, Altura, Arsia, Parenzo e via 
via di altri centri presidiati da reparti di Alpini, di Fanteria costiera, di Carabinieri 
e Guardia di Finanza. 

A dirla alla maniera di una fonte nazional-comunista croata, dovremmo 
scrivere così: in quell’ondata insurrezionale furono disarmati circa 8.000 soldati 
italiani, quasi tutte le stazioni dei carabinieri, delle guardie di finanza e della 
milizia fascista che, simili a una ragnatela, si estendevano in tutta l’Istria per 
mantere il popolo sottomesso. Nel tipico linguaggio da agit-prop degli anni Cin- 
quanta del secolo appena tramontato, la medesima fonte aggiungeva, però: Di 
particolare importanza è il fatto che a questa insurrezione popolare, che portò alla 
distruzione del potere italo-fascista, accanto ai Croati dell’Istria presero parte in 


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massa gli antifascisti italiani dell'Istria, nella comune lotta per la libertà 
dell’Istria. A comprova della partecipazione degli italiani all’insurrezione la fonte 
croata ricorda i fatti di sangue del 9 settembre a Pola, da noi appena accennati poco 
prima: A Pola, quel giorno, ci fu una strage. Le autorità italiane, alle quali i 
lavoratori (?) avevano chiesto le armi per battersi contro i tedeschi fortificatisi a 
“Scoglio Olivi” (si trattava di un piccolo reparto preesistente all’armistizio, ndr), 
fecero aprire il fuoco sulla folla affluita ai Giardini, oggi Piazza dell’Unità e 
Fratellanza; gli allievi della Scuola sottufficiali della Marina da guerra, guidati 
dal capitano dei carabinieri Cassini (recte: Casini), uccisero tre operai — Cicogna- 
ni Luciano (recte: Giuliano), Zachtila Giuseppe e Zuppini Carlo — ferendo un gran 
numero di altri. Le forze dell’Esercito, della Marina militare e delle altre armi 
presenti nella Piazzaforte di Pola — oltre ventimila uomini — sarebbero state 
sufficienti non solo ad aver ragione delle poche centinaia di tedeschi presenti in 
città dalla fine di luglio, ma anche di unità ben maggiori, se i comandi del XXIII 
Corpo d° Armata e dell’ Ammiragliato (ammiraglio Gustavo Stazzieri, comandante 
della base navale da circa tre mesi) avessero rispettato le clausole dell’armistizio e 
lo stesso proclama di Badoglio. Invece ci si affrettò a trattare con i tedeschi in loco 
e ad essi furono poi ceduti i pieni poteri civili e militari. Ci si ricordò della dignità 
nazionale unicamente ordinando la partenza delle navi da guerra e degli aeroplani 
efficienti alla volta di Malta. Così, lo stesso 9 settembre, mentre da una parte si 
sparava sulla folla ai Giardini, i velivoli in grado di volare lasciarono l’aeropoto di 
Altura e si misero in navigazione le unità navali con in testa la corazzata “Giulio 
Cesare” /e cui artiglierie avrebbero potuto battere le truppe germaniche qualora 
fossero penetrate in città, come giustamente annota lo storico Guido Rumici.®® 
Non va dimenticato, però che numerosi soldati, soprattutto all’interno dell’Istria, 
si unirono agli insorti e, più tardi, ai reparti partigiani. 

La penisola istriana era, quasi interamente, nelle mani degli insorti. Sembrava 
un trionfo, ma non era così. 

Il 12 settembre il Comando italiano di Pola, quello stesso che il giorno 9 aveva 
ordinato che si soffocasse nel sangue il tentativo dei patrioti locali di opporsi ai 
tedeschi, consegnò a un loro reparto di soli 300 uomini l’intera Piazzaforte. Quattro 
unità marittime in riparazione all’ Arsenale, circa 15.000 uomini in uniforme e 400 
prigionieri politici e detenuti comuni che si trovavano nel carcere cittadino finirono 
nelle mani del nemico. Alcune migliaia di ufficiali e marinai italiani, avendo 


8a G. RUMICI, Infoibati (1943-19450. I nomi, i luoghi, i documenti, Milano, 2002. Si legga, in particolare, 
il capitolo secondo: Settembre 1943. L’armistizio italiano. 


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rifiutato l’offerta di servire l’invasore, furono caricati su carri merci ferroviari per 
essere deportati in Germania ai lavori forzati. Soltanto una minoranza di militari, 
con in testa le Camicie Nere —come scriverà il triestino Boris Gombaè (“Istria, 
Trieste e Gorizia nel settembre-ottobre ’ 43”, Panorama, Fiume, 15 dicembre 2001) 
— passò al servizio dei germanici. Fra i loro collaboratori ci furono moltissimi 
carabinieri che svolgevano il ruolo di sorveglianza dei prigionieri italiani e non 
esitarono a sparare sui fuggiaschi, come peraltro testimonierà uno di loro sul 
quotidiano L'Unità del 4 settembre 1983. Parte dei militari italiani destinati dai 
tedeschi ai lager, e precisamente duemila, furono ammucchiati nelle puzzolenti 
stive della petroliera “Reggina” da 10.000 tonnellate e avviate a Venezia, da dove 
saranno anch’essi caricati su un lunghissimo treno di carri bestiame diretto in 
Germania. In mano italiana, a Pola, restava unicamente l’ amministrazione civile, 
ma anche questa sarà ben presto sottomessa ai poteri militari dello straniero. 

La svolta in Istria si ebbe il 13 settembre.Quel giorno si capì definitivamente 
che su tutto incombeva la grave minaccia tedesca. Così in piena autonomia, 
spontaneamente, gli improvvisati capi del movimento insurrezionale di Parenzo, 
Rovigno ed Albona, tutti italiani, decisero di opporsi con le armi all’avanzata dei 
Tedeschi. Una decisione presa anche sull’onda di una terribile notizia giunta da 
Pola. Quel 13 settembre nel capoluogo istriano, con l’aiuto dei loro carcerieri, i 
detenuti politici e comuni rinchiusi nel carcere di Via dei Martiri riuscirono ad 
evadere. Inseguiti da pattuglie tedesche con il supporto di manipoli di fascisti, 
furono in gran parte abbattuti con le armi; gli altri, catturati, finirono impiccati agli 
alberi di via Medolino o fucilati in località Montegrande, alla periferia della città. 
Alcune fonti indicano in 25 il numero dei trucidati. Fu questo il primo grande 
eccidio di civili nella serie di massacri compiuti dall’esercito tedesco in Istria nel 
settembre/ottobre del °43 (Gombaè, op. cit.). Furono anche questi sanguinosi 
episodi, frutto del connubio infame e infamante dei fascisti italiani con i nazisti 
tedeschi a versare benzina sul fuoco dell’insurrezione popolare istriana e a dare 
forza alla resistenza armata. Una resistenza che, contrariamente a quanto vorreb- 
bero far credere gli “storici” simpatizzanti per quei fascisti che consegnarono 
migliaia di connazionali ai carnefici tedeschi, non fu alimentata dall’odio verso gli 
italiani. Lo dimostra il fatto, documentato anche dal patriota istriano Diego de 
Castro che furono proprio sloveni e croati delle regioni interne dell’ Istria ad aiutare 
i soldati italiani sbandati a salvarsi dopo l’8 settembre." Il vescovo di Trieste 


85 D, de CASTRO, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1945, 2 
voll., Trieste 1981. 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 215 


dell’epoca, Mons. Antonio Santin, di origine istriana (rovignese) testimoniò all’ 
epoca, e precisamente il 18 settembre sul settimanale della Diocesi Vita Nuova (e 
poi in Trieste 1943-1945, Udine 1963): Migliaia e migliaia di questi carissimi 
fratelli (i militari italiani, ndr) furono vestiti, nutriti, accolti, difesi; essi trovarono 
l’amore e il calore di una famiglia che si estendeva a tutte le case e a tutti i 
casolari. A loro volta nel loro libro Fratelli nel sangue (Fiume, 1964) Aldo Bressan 
e Luciano Giuricin, quest’ultimo istriano, citano testimoni diretti di quei fatti, 
scrivendo: Va sottolineato ancora una volta che la popolazione (...) porse ogni 
aiuto possibile alle migliaia e migliaia di soldati italiani demoralizzati (...) che 
cercavano di raggiungere l’opposta sponda dell’ Adriatico. 

Sull’aiuto fraterno porto dalla popolazione istriana — croati, sloveni e italiani 
senza distinzione - ai militari italiani sbandati nei giorni immediatamente succes- 
sivi all’armistizio, concordano tutte le fonti obietive. A quelle citate ne aggiungia- 
mo ancora una. Descrivendo la situazione in Istria e nella Regione Giulia, Guido 
Rumici scrive: In tutta la regione si assistette alla fuga precipitosa di decine di 
migliaia di soldati e di marinai che in tutta fretta abbandonaro caserme e instal- 
lazioni militari, sbarazzandosi di armi, divise e munizioni e cercando di intrapren- 
dere, singolarmente o a gruppi, la strada del ritorno verso le proprie famiglie. 
Quasi tutti, insieme ai militari italiani affluiti in Istria da Fiume e dalla vicina 
Slovenia, cercarono di raggiungere Trieste. Ne/ loro peregrinare, spesso a piedi, 
per boschi e campagne, ricevettero appoggio e solidarietà dalla popolazione 
locale che si prodigò spesso rischiando anche in prima persona, per portar loro 
soccorso e sostegno, ospitandoli, nascondendoli, sfamandoli e aiutandoli a rag- 
giungere la meta. Con ciò non si vuole negare che ci furono anche sporadici 
episodi di “caccia al fascista”, in realtà agli italiani, provocati da atteggiamenti di 
odio nutrito verso costoro da singoli “capi” cosiddetti partigiani, come avremo 
modo di documentare. 

I primi conflitti a fuoco nella penisola istriana avvennero il 12 settembre, 
domenica, contro due colonne tedesche: una scendeva da Trieste verso Parenzo e 
Rovigno lungo la costa occidentale con l’intento di raggiungere Pola (dove riuscì 
infatti ad arrivare); un’altra, partita da Pola, cercava di salire lungo la costa 
orientale. I primi caduti fra gli insorti, purtroppo numerosi, furono italiani e croati, 
massacrati nei pressi di Tizzano, a nord di Parenzo, poi presso il Canale di Leme a 
nord di Rovigno e infine sulla strada che da Dignano porta a Pola. Gli scontri con 
la seconda colonna, che invece fu respinta, si ebbero sulla strada tra Arsia e 


8 G. RUMICI, op.cit. 


216 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 


Piedalbona ed a Berdo presso Vines sempre nell’ Albonese. Si trattava di distacca- 
menti della 71a Divisione germanica, circa 300 uomini. 

Questi rapidi accenni agli avvenimenti del 9-13 settembre (sui quali avremo 
modo di tornare, dando più ampie informazioni) servono per introdurre un primo 
documento inedito, di fonte croata, dal quale apprendiamo quale fu la linea seguita 
in Istria dagli esponenti della Resistenza e del Partito comunista della Croazia, quali 
furono secondo loro gli errori commessi nella regione e quale atmosfera vi regnava. 


Un documento dell’ottobre 1943 


Nel 1983, a Pisino, a cura degli Archivi storici di Pisino e Fiume, fu pubblicato 
un fascicolo (XXVI) contenente un saggio dello storico fiumano croato Antun 
Giron nel quale l’autore inserì integralmente la Relazione di Zvonko Babié-Zulja 
sulla situazione in Istria verso la fine di ottobre 1943. Il documento’ fu inviato alla 
Sezione politico-informativa del Comando supremo dell'Esercito popolare di 
liberazione e dei Distaccamenti partigiani della Croazia. L’autore, Zvonko Babié, 
era responsabile dell’ Ufficio Agitazione e Propaganda del Comando della V Zona 
operativa della Croazia (nel dopoguerra sarà ministro dell’industria). Scritta a 
macchina su sei pagine, datata 6 novembre, la relazione descrive il viaggio 
compiuto dal suo autore nella seconda metà di ottobre, fornendo informazioni ed 
osservazioni raccolte nell’Istria occidentale e centrale. 

Per quanto riguarda l'insurrezione popolare nella penisola del 9-12 settembre, 
vi si legge: La presa del potere e del materiale (bellico) si è svolta per lo più in 
maniera improvvisata da parte di Comandi di Posto arbitrariamente autodefinitisi 
tali e costituiti in tutta fretta in singole località; non sempre questi cosiddetti 
Comandi erano all’altezza del compito e tanto meno degni di fiducia. La popola- 
zione è insorta spontaneamente, ha preso in mano le armi, ma non si può parlare 
in alcun modo di reparti militarmente organizzati e di una dirigenza militare. I 
quadri dirigenti sono arrivati dalla Jugoslavia più tardi, con notevole ritardo. 
Inoltre ho sentito critiche sull’inadeguatezza e incapacità di molti componenti di 
rango inferiore di questa struttura dirigente. Per l’intero territorio dell’Istria 
venne costituito un unico Comando di regione, e per comandante fu scelto il 
compagno Ivan Motika, il quale, d’intesa con la dirigenza istriana, da parte nostra 
(cioè da parte del Comando della V zona della Croazia, ndr) è stato incaricato di 


? Titolo originale /zvjeStaj Zvonka Babica-Zulje 0 prilikama u Istri krajem listopada 1943. godine. 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 217 


assumere anche la direzione del ROC Istria (ROC=Rajonski Obavjestajni Centar, 
ovvero Centro Rionale di Controspionaggio, ndr). Questa nomina (di Motika) è 
stata interpretata dalla popolazione dell’Istria come nomina a comandante gene- 
rale militare dell’Istria, rispettivamente a commissario militare generale nel senso 
dato a questo titolo dai Commissari italiani nei territori annessi. 

I compiti del ROC, va precisato, erano i medesimi dell’Ozna, i servizi di 
polizia segreta dell’esercito partigiano jugoslavo che in seguito diventeranno 
Udba. All’epoca in cui visitò l’Istria, Zvonko Babié era responsabile di quei servizi 
per il Litorale croato, che estese la propria giurisdizione in Istria. La relazione del 
Babié è l’unico documento in cui Ivan Motika, all’epoca laureato in giurispruden- 
za, viene indicato come massimo esponente militare e politico delle forze insurre- 
zionali/partigiane in Istria, mentre tutti gli altri documenti lo danno come coman- 
dante militare partigiano di Pisino e, più tardi, presidente del tribunale popolare 
istituito dal Comando militare partigiano nel settembre 1943 per giudicare i 
cosiddetti “nemici del popolo”. In realtà Motika fu nominato vicecomandante del 
Comando istriano croato-sloveno costituitosi il 16 settembre (sostituito il 24 
settembre dal Comando Operativo dell’Istria), aggiungendo alla carica militare 
l’incarico peculiare di massimo responsabile del servizio di polizia politica (ROC). 
Cometale egli ebbe sicuramente un ruolo non certo secondario negli arresti, nelle 
carcerazioni e negli interrogatori dei prigionieri, come pure negli eccidi delle 
foibe avvenuti principalmente durante la caotica ritirata delle forze partigiane 
incalzate dall’offensiva tedesca di ottobre, che portò all’occupazione dell’intera 
Istria, come scrive Luciano Giuricin nel saggio “Il settembre ’43 in Istria e a 
Fiume” (Quaderni del CRS, Rovigno, vol.XI/1997, p.106). I cosiddetti tribunali 
del popolo funzionarono nelle peggiori condizioni possibili, alla mercè di “giudici” 
che talvolta erano persone che avevano avuto a che fare con la legge come 
pregiudicati e criminali comuni: contrabbandieri, ladri e peggio che ora si serviva- 
no di quei “tribunali” per sfogare bassi istinti di vendetta. Sull’attività di questi 
tribunali nulla si dice nel rapporto di Zvonko Babié-Zulja, e tuttavia vi si trova un 
non fugace accenno ad arresti e liquidazioni, un’operazione qui definita “epurazio- 
ne” ovvero “lotta contro i nemici del popolo”. Ecco il brano: Nel periodo in cui 
abbiamo esercitato il potere in Istria, i Comitati popolari di liberazione hanno 
trovato scarsa espressione, la popolazione non ha d’altra parte compreso le 
funzioni di questi CPL. Il popolo insorto riteneva definitiva ormai la liberazione 
dell’Istria e non era preparato né politicamente né moralmente a condurre un’ul- 
teriore lotta ... La lotta contro i nemici del popolo è stata condotta in maniera 
disuguale, sicchè in alcune località è stata del tutto insufficiente mentre in altre è 
stata radicale. 


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Qui si vuol dire che in alcune zone i fascisti vennero lasciati in pace, soltanto 
qualche grosso gerarca locale fu chiamato a rendere conto del proprio operato; in 
altre, invece si fece di tutta l’erba un fascio. 

Sintomatico, a tale riguardo, è il fatto che in molte località gli Istriani si sono 
rifiutati di attuare le esecuzioni, al punto che certi Comandi di Posto riferivano nei 
loro rapporti di aver liquidato i condannati a morte, nonostante la cosa non fosse 
vera. Si è manifestata pure l’ignoranza, la mancata conoscenza dei veri nemici del 
popolo e l’assenza di informazioni sui loro crimini, circostanza questa che adesso, 
con ritardo, si ritorce contro di noi. 

È un’ammissione del fatto che furono catturate e liquidate anche delle persone 
- fascisti e no — ritenute sì colpevoli di crimini, ma senza che questi “crimini” 
fossero stati accertati, documentati. Il rapporto continua: 

Il territorio più radicalmente ripulito (dei “nemici del popolo”, ndr) è quello 
di Gimino, paese natale di Motika, e quello del Parentino. Un altro errore: nessuno 
ha mai pensato a costituire campi di concentramento, sicchè i nemici del popolo 
sono stati puniti unicamente con la morte. Fra le altre persone arrestate c’era pure 
un prete, che dietro intervento del vescovo di Pola e Parenzo è stato rimesso in 
libertà. 

Questo rapporto, a parte alcuni dettagli, combacia nei suoi giudizi generali con 
quelli che ritroviamo in altre relazioni scritte per i vertici della Resistenza in 
Croazia da altri emissari inviati in Istria: Jakov Blazevié quale delegato del CC del 
PCC e del Parlamento partigiano (ZA VNOH), Marko Belinié, Milutin Baltié, Oleg 
Mandié e Mate Krsul giunti in Istria tra l’ottobre 1943 e i primi mesi del 1944. Per 
inciso va detto che Zvonko Babi6, del quale qui è stata citata una piccola parte del 
rapporto, venne in Istria con lo specifico compito di organizzare la rete di spionag- 
gio partigiano, ed in questo lavoro venne affiancato da Ivan Motika. Il suo rapporto 
è particolarmente dettagliato sugli eventi seguiti all’invasione tedesca della regio- 
ne e sulla collaborazione dei fascisti istriani con i tedeschi. 


Scontri con tedeschi e fascisti 


L’esposizione aiuta a capire meglio anche gli eccessi, manifestatisi con gli 
infoibamenti, di quelli che furono gli inizi della lotta partigiana sul territorio 
dell’ex Provincia di Pola nei primi giorni successivi all’8 settembre 1943. La 
direzione della lotta fu assunta dal Comitato Popolare di Liberazione dell’Istria, 
con sede a Pisino, la cui “giurisdizione” non superava la linea del fiume Dragogna, 
oltre il quale operavano i Comitati sloveni. Durante tutto il periodo del nostro 


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potere in Istria — si legge nel rapporto — ci sono stati scontri armati a carattere 
locale con tedeschi e fascisti, con sporadici ma importanti successi e momenti di 
eroismo (da parte delle forze insurrezionali, ndr). 

Come già accennato, i primi combattimenti si ebbero al Bivio di Tizzano, sul 
Canale di Leme e nei pressi di Albona, ma il primo sangue fu versato a Pola, senza 
combattere. (Abbiamo già riassunto telegraficamente l’episodio del 9 settembre 
nel capoluogo istriano e non ci ripeteremo). 

A Rovigno, invece, esponenti di vari partiti antifascisti costituirono un prov- 
visorio “Comitato di Salute Pubblica” (10 settembre) che sei giorni dopo, il 16 
settembre, sarà sostituito da un “Comitato rivoluzionario” sostenuto da una forma- 
zione armata di comunisti del PCI che avevano creato nel frattempo un “Fronte 
nazionale partigiano” sotto la guida militare di Giusto Massarotto e Mario Cherin. 
Del Comitato facevano parte, per citare solo i personaggi di maggiore spicco, 
Giuseppe-Pino Budicin e Aldo Rismondo. Tra il 9 e il 10 settembre, intanto, anche 
Albona, Buie, Parenzo ed altri centri costieri furono teatro di azioni insurrezionali 
e in tutta la penisola, eccetto Pola, il potere passò nelle mani di Comitati popolari 
di liberazione. Nell’Istria interna, più o meno compattamente abitata da croati, ci 
fu un’insurrezione massiccia di contadini. 

A Pisino si costituì il Comando militare partigiano di cui fece parte anche 
l’italiano Giorgio Sestan. Sotto il suo comando e quello di Ivan Motika, nella notte 
fra il 12 e 13 settembre una formazione partigiana locale bloccò alla stazione 
ferroviaria un treno carico di marinaretti italiani che i tedeschi stavano deportando 
in Germania: il lungo convoglio, con a bordo tremila e più ragazzi, venne circonda- 
to, i marinai furono liberati (altri due treni erano stati fermati già prima di arrivare 
a Pisino) e poterono avviarsi con mezzi di fortuna, aiutati dalla popolazione, in 
direzione di Trieste e dell’Italia. Una cinquantina di essi si unirono alle formazioni 
antifasciste istriane. Nello scontro due tedeschi furono uccisi ed altri quattordici 
catturati e successivamente rinchiusi nel Castello dei Montecuccoli, dove saranno 
trovati dai loro camerati all’inizio di ottobre. Altri militari tedeschi che scortavano 
i tre convogli con i prigionieri italiani sfuggirono per il momento alla cattura, ma 
ventidue di loro saranno presi dagli insorti istriani l'indomani e il 14 settembre. 
Non furono risparmiati, ma passati per le armi nelle vicinanze di Gallignana, come 
scrive il sacerdote don Ivan Grah nell’almanacco cattolico per il 1999 /starska 
Danica in un articolo intitolato “Istarske jazovke” e cioè “Le foibe istriane”. 

Mentre un poco ovunque in Istria i soldati delle varie specialità, dopo aver 
abbandonato caserme ed armi, aiutati dalla popolazione, si dirigevano verso Trie- 
ste per tornare alle loro case, entro il 12 settembre si costituirono nella regione 
alcune decine di battaglioni partigiani con circa 10.000 uomini, croati e italiani. 


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Intanto 1’ 11 settembre, guidata da collaborazionisti, fascisti istriani, scese da 
Trieste lungo la costa occidentale una forte colonna tedesca che venne affrontata 
al Bivio di Tizzano, là dove dalla camionabile Trieste-Pola si dirama il tratto 
Parenzo-Caròiba. Mentre era in corso la consegna delle armi agli insorti istriani da 
parte di una piccola colonna di soldati italiani avviatisi verso la città di San Giusto, 
gli uni e gli altri furono attaccati dalle truppe germaniche. Soldati italiani e insorti 
(questi formavano il “Battaglione Parentino”) risposero uniti agli attaccanti, impe- 
gnando una sanguinosa battaglia. Il bilancio delle perdite fu pesantissimo: uccisi 
66 tedeschi e 84 fra soldati italiani e partigiani istriani. Pochi furono, tra i partigia- 
ni, i caduti in battaglia; tutti gli altri vennero fucilati dopo la cattura da parte dei 
tedeschi. Fra i massacrati ci furono sette soldati “regnicoli”, tutti gli altri erano 
giovani croati e italiani del Parentino. 

Tutti italiani, invece, furono i sedici caduti rovignesi che tentarono di fermare 
la stessa colonna tedesca il 12 settembre sul Canale di Leme. La “Compagnia 
Rovignese” era composta da 40 giovani, nessuno dei quali cadde in combattimento. 
I sedici furono catturati, trasferiti a Pola e fucilati l’indomani presso Dignano. 
Questi i nomi dei Caduti: Giovanni Sincich, Giorgio Borme, Giuseppe Sbisà, Ino 
Marcanti, Tommaso Caenazzo, Giuseppe Cherin, Giuseppe Tanconi, Sergio Curto, 
Bruno Zorzetti, Tullio Biondi, Nicolò Marangon e altri quattro dei quali non si 
conoscono le generalità. 

In gran parte italiani, infine, furono i 48 caduti nelle file degli insorti che, al 
comando di Aldo Negri, affrontarono la colonna tedesca presso Arsia, nella zona 
di Albona'°. Dopo aver raggiunto Pola, i tedeschi avevano ripreso la marcia lungo 
la costa orientale dell’Istria il 13 settembre, nelle prime ore dell’alba. La battaglia 
impegnata dai partigiani si protrasse fino a tarda sera. I caduti più numerosi fra gli 
uomini di Negri si ebbero quando un reparto albonese fu preso alle spalle per una 
spiata. Anche qui, a guidare i tedeschi furono fascisti istriani. 


Comincia la “caccia al fascista” 


Nonostante queste perdite, l’Istria intera — ad eccezione di Pola, Dignano, 
Fasana e isole di Brioni occupate dai tedeschi 1’ 11 settembre grazie al cedimento 
dei comandi militari italiani- cadde sotto il controllo degli insorti che entro il 14 
settembre costituirono ovunque i Comitati popolari di liberazione (CPL), quali 


10 G. SCOTTI - L. GIURICIN, Rossa una stella (Storia del battaglione italiano “Pino Budicin” e degli 
italiani dell’Istria e di Fiume nell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia), Rovigno, 1975. 


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organi amministrativi della Resistenza in sostituzione dei Podestà e dei Commis- 
sari governativi italiani. 

In concomitanza con l’insurrezione, ma soprattutto dopo gli scontri del 13 
settembre, cominciarono gli arresti dei gerarchi fascisti, di podestà e di altri 
funzionari ma anche di semplici iscritti al fascio da parte degli insorti sia per 
iniziativa di singoli che per ordine dei vari CPL. In questa operazione furono 
impegnati sia italiani che croati. Per quanto riguarda i militanti del PC italiano, essi 
poterono orientarsi seguendo le direttive di un manifesto diffuso dopo il 25 luglio 
1943 in tutta la Regione Giulia — come documenta nel già citato saggio Luciano 
Giuricin - a firma dei comitati regionali dei partiti d'azione, comunista, liberale e 
socialista, nonchè dei movimenti cristiano sociale e di unità proletaria. In esso si 
chiedeva l'armistizio immediato, la cacciata dei tedeschi e la punizione dei respon- 
sabili di vent'anni di crimini, di ruberie e del tradimento della nazione. Ancora più 
esigenti erano su questo punto gli istriani di etnìa croata e slovena che più degli 
italiani avevano sofferto l’oppressione del regime fascista. All’atto pratico, come 
rivelano i risultati di vari incontri (ed aspri scontri) avuti con i massimi esponenti 
degli insorti croati dagli esponenti istriani del PCI Pino Budicin, Aldo Rismondo, 
Aldo Negri, Alfredo Stiglich ed altri, fu difficile conciliare i criteri perla punizione 
dei fascisti; e nei fatti, prevalse l'anarchia. Prevalse la violenza di certi personaggi 
autoproclamatisi, armi alla mano, capi partigiani (Giuricin). 

Non va dimenticato, in proposito, che le liquidazioni dei fascisti e “fascisti” 
ebbero inizio solo quando in Istria arrivarono, inviati dal Comando partigiano e dal 
Comitato centrale del PC della Croazia, o di propria iniziativa, alcuni esponenti 
politici di origine istriana vissuti per lunghi anni in Croazia come emigrati politici 
e alcuni capi partigiani della Lika, elementi irresponsabili (...) che avevano perso 
ogni contatto con la realtà locale (Gombac) e che, alla fine, durante la controffen- 
siva tedesca di ottobre, si daranno alla fuga, lasciando gli ingenui abitanti locali ai 
nefasti destini. 

Fra gli arrestati — e gli arresti avvennero anche su denuncia di persone 
convertitesi all’ultima ora alla causa del Movimento di Liberazione — vi furono 
persone indicate come responsabili di collaborazionismo con l’occupatore tedesco 
per aver guidato, o in altro modo aiutato, le due colonne germaniche nella loro 
marcia e nel corso degli scontri. 

I primi e più massicci arresti avvennero nelle zone di Rovigno e di Albona 
dove il comando del movimento insurrezionale e partigiano fu assunto da comuni- 
sti affiliati al PC italiano, a Parenzo e dintorni, a Gimino e nel Pisinese. Tuttavia, 
mentre nelle prime due località ci furono dei filtri e si cercò di evitare ingiustizie 
per quanto possibile — tanto è vero che ad Albona diverse persone arrestate come 


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fasciste furono liberate per intervento di Aldo Negri, ma poi nuovamente arrestate 
da personaggi estranei al locale Comando partigiano invece nel Parentino, nel 
Pisinese e in quel di Gimino gli arresti oltre ad essere massicci furono pure 
indiscriminati. La maggioranza degli arrestati era formata da quei gerarchi fascisti 
locali che si erano meritati l’odio delle popolazioni vittime delle loro persecuzioni 
e vessazioni pluriennali, ma nel mucchio capitarono anche ‘fascisti’ che oltre alla 
tessera del PNF non avevano colpe da espiare o con i quali i delatori avevano 
antichi conti personali da regolare. I vendicatori, ovviamente, si servirono prete- 
stuosamente degli slogan e dei simboli della Resistenza e del comunismo. La 
caccia al fascista cominciò verso la metà del mese. 

Il 15 settembre si costituì a Pisino il “Comando generale dei distaccamenti 
partigiani dell’Istria” con al vertice esponenti del movimento di liberazione croati, 
sloveni e italiani (il capitano Mario Cherin) che, oltre a prendere in mano il 
coordinamento e il riordino delle formazioni partigiane nella regione, istituì il 24 
settembre un tribunale del popolo per giudicare e condannare i gerarchi fascisti e i 
collaboratori dei tedeschi i cui nominativi venivano segnalati dai vari comitati di 
liberazione costituitisi in oltre cento fra villaggi, borgate, cittadine e città, pressap- 
poco la terza parte della penisola. A presidente del Tribunale venne nominato Ivan 
Motika, l’unico membro del Comando generale che avesse una laurea in giurispru- 
denza. I tribunali del popolo presero a funzionare alla meno peggio a Pisino, ad 
Albona e Pinguente, località nelle quali esistevano i centri di raccolta (prigioni) 
degli arrestati. Nella maggior parte i prigionieri - fra cui molti supposti ‘“spioni”’ 
che avevano fatto da guida ai tedeschi — furono inviati a Pisino e rinchiusi nel 
castello dei Montecuccoli, da dove o venivano rispediti a casa, se ritenuti innocenti, 
oppure condannati a morte e condotti sui luoghi di esecuzione, per lo più foibe 
carsiche o cave di bauxite. Quando arriveranno i tedeschi, troveranno a Pisino 
ancora un centinaio di prigionieri in attesa di processo. A Pinguente furono assolte 
e liberate dagli stessi partigiani oltre 100 persone. 

A proposito di questi tribunali ed a commento del documento di Zvonko 
Babié, lo storico Antun Giron ricorda che la loro istituzione e il loro funzionamento 
furono regolati da un Decreto del “Dipartimento per l’amministrazione e la magi- 
stratura” dello ZAVNOH, il governo partigiano della Croazia ovvero Consiglio 
Territoriale Antifascista di Liberazione Nazionale, decreto emanato il 2 agosto 
1943!!. Il suo testo evidentemente non arrivò in Istria, né furono rispettate le sue 
norme dai tribunali del popolo istriani frettolosamente costituiti. 


!! Vedi Zbornik dokumenata 1943. (Raccolta di documenti del 1943), Zagabria, 1964, pp. 302-309. 


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Va anche detto che l’attività delle commissioni o tribunali fu marginale nel 
contesto dell’attività politica e militare sviluppata tra il 13 e il 30 settembre 1943, 
soprattutto a Pisino dove si formarono ed operarono le massime istituzioni del 
MPL; e comunque fu ben presto interrotta dall’occupazione totale dell’Istria da 
parte dei tedeschi, operazione sviluppatasi fra l’inizio di ottobre e il 9 di quel mese. 
Tra le istituzioni costituitesi a Pisino un importante ruolo politico fu esercitato dal 
Privremeni pokrajinski izvr$ni narodnooslobodilacki odbor za Istru, ossia il “Co- 
mitato esecutivo provvisorio regionale del Movimento popolare di liberazione per 
l’ Istria” nominato il 25/26 settembre da un’assemblea di “rappresentanti del 
popolo” che, nell’occasione, lanciò un Proclama al popolo dell’Istria per dar conto 
della composizione del Comitato stesso e delle sue decisioni, la prima delle quali 
decretava “1° annessione dell’Istria alla Croazia”. 

Ma torniamo agli arresti dei “nemici del popolo” (eseguiti con classici sistemi 
rivoluzionari sin dalla fine della seconda settimana di settembre), cominciando da 
Rovigno. Qui il mattimo del 16, eseguendo un piano tracciato dal Comitato 
rivoluzionario che in giornata assunse i pieni poteri, entrarono in città cento e più 
partigiani italiani e croati che, insisme ai dirigenti antifascisti locali disarmarono 
le superstiti formazioni militari italiane di stanza sul posto. L’indomani, con l’aiuto 
di comunisti locali, arrestarono un centinaio di persone indicate come i più incalliti 
fascisti macchiatisi di crimini, colpevoli di avere per alcuni decenni terrorizzato 
la popolazione della città. A giudicarli furono comunisti italiani loro concittadini, 
che alla fine, quello stesso 17 settembre, trattennero soltanto 14 fascisti (tutti 
italiani, ex squadristi e confidenti dell’Ovra) che spedirono a Pisino, a disposizione 
del Tribunale militare!?. 

Più o meno le cose andarono così anche nelle altre località, dell’ Istria. Non in 
tutte, però, gli uomini incaricati di dare la caccia al fascista erano di fede comunista 
e tanto meno antifascisti e combattenti della Resistenza convinti. Scrive in propo- 
sito il già citato Boris Gombac: Tra questi resistenti dell’ ultima ora c’erano — in 
non pochi casi — quelli che avevano indossato la camicia nera solo qualche 
settimana indietro o la divisa di carabiniere sino all’8 settembre. Questi voltagab- 
bana furono — a causa del loro passato — male ricevuti dalla gente locale, ma 
diventarono fedeli servitori dei comunisti jugoslavi. Viene messo in rilievo, 
inoltre, a proposito di certe tesi secondo cui gli infoibati furono tutti italiani, che 
non pochi fascisti locali erano spesso italianissimi croati e cioè croati i cui cognomi 
erano stati italianizzati e comunque elementi compromessi con il fascismo e 


! FE. MOLINARI, Istria contesa. La guerra, le foibe, l'esodo, Milano 1996, p.27. 


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proprietari terrieri, questi ultimi probabilmente vittime di coloni e mezzadri. Fra 
gli arrestati e poi condannati ci furono infine, insieme ad ex squadristi e confidendi 
dell’Ovra, esattori delle imposte, guardie comunali e campestri, e in genere perso- 
ne in qualche modo incaricate di applicare leggi o norme statali. A tutto questo 
metterà fine l'occupazione tedesca che però coprì la penisola di migliaia di morti 
trucidati e mettendo decine di paesi a ferro e fuoco con il concorso dei soliti fascisti 
italiani. 


L’occupazione tedesca dell’Istria 


Sull’operazione tedesca di occupazione dell’Istria si sofferma a lungo il 
rapporto di Zvonko Babié che, avendo visitato dal 23 al 27 ottobre la parte orientale 
della penisola fino a Gimino, per la sua relazione utilizzò anche le informazioni 
fornitegli da un non meglio identificato “compagno Gaspar” indicato come “invia- 
to con compiti speciali”. Il rapporto non conosce enfasi, ed è piuttosto severo nei 
riguardi dei partigiani “dispersi e in fuga”: 

Il 27 settembre i tedeschi hanno bombardato Rozzo e Pisino; il bombardamen- 
to aereo su Pisino si è ripetuto il 2 ottobre, giorno in cui è stato bombardato anche 
Gimino. Questi bombardamenti hanno causato gravissimi danni e fatto vittime fra 
la popolazione, seminando il panico. Il 2 ottobre con rilevanti forze motorizzate, 
una divisione, provenienti dalle parti di Trieste e di Bistrica (Villa del Nevoso, 
ndr), i tedeschi hanno occupato Pinguente e il 4 ottobre Pisino. Hanno poi eseguito 
un rastrellamento protrattosi per otto giorni, ripulendo l’Istria dai reparti parti- 
giani dispersi e in fuga. È stato un rastrellamento radicale, sistematico; i tedeschi 
sono penetrati nel territorio da tutte le strade e sentieri, nei boschi e nel restante 
territorio, adottando la tattica della sorpresa, della rapidità e del terrore. Là dove 
hanno incontrato resistenze hanno incendiato i villaggi, massacrando uomini e 
donne, giovani ed anziani senza alcuna distinzione, senza risparmiare neppure i 
fascisti. 

In un secondo tempo, tuttavia, le autorità militari tedesche accettarono la 
collaborazione “ufficiale” dei fascisti locali, i quali fecero risultare i loro camerati 
uccisi nel corso dei rastrellamenti come vittime dei partigiani, giustificando in tal 
modo i saccheggi ai quali anch’essi si abbandonarono. Ma sul ruolo dei fascisti 
italiani in Istria ci sarebbe da scrivere un volume. Non è questo il momento. 
Riprendiamo la lettura del rapporto sul rastrellamento tedesco del 4-12 ottobre: 

Contemporaneamente hanno saccheggiato tutto ciò che gli è capitato sotto 


x 


mano. Nelle loro mani è caduto anche molto materiale bellico: tutte le armi 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 225 


pesanti, la gran parte degli automezzi che ancora in questi giorni vanno scoprendo 
e raccogliendo in collaborazione con i fascisti, nonchè viveri ed altri materiali. 
Con ciò il nostro potere in Istria è stato abbattuto. 


I fascisti si scatenano 


A conclusione dei rastrellamenti, il grosso delle truppe tedesche si ritirò 
dall’Istria. Rimasero forze di presidio numericamente variabili nelle località site 
lungo la camionabile Trieste-Fiume e nella città di Pola la cui guarnigione contava 
all’incirca 400 soldati. Erano tedesche, infine, anche le pattuglie dislocate nelle 
stazioni ferroviarie della linea Trieste-Pola. La penisola, infine, veniva continua- 
mente attraversata da pattuglie motorizzate. A questo proposito l’autore del rap- 
porto scrisse che, per quanto riguardava la presenza di truppe in pianta stabile, 
l’Istria può essere considerata oggi priva di forze militari tedesche. Aggiunse, 
però: Nelle maggiori località istriane - Pola, Parenzo, Pisino, Rovigno, Albona, 
Pinguente — è stato nuovamente instaurato il regime fascista composto: in primo 
luogo dai superstiti fascisti locali, sfuggiti allo sterminio (nel breve periodo del 
potere popolare istituito dagli insorti, ndr); in secondo luogo da fascisti fatti 
affluire da Trieste; infine da militari del disciolto esercito italiano già catturati dai 
tedeschi mentre attraversavano l’Istria diretti verso l’Italia e poi costretti con la 
forza ad arruolarsi. In alcune località dell’Istria, infine, sono state ripristinate le 
stazioni dei carabinieri. Le nuove amministrazioni fasciste non si possono consi- 
derare ancora stabili né per la loro forza né per i poteri loro concessi dall’occu- 
patore, e comunque dipendono dal Gauleiter germanico di Trieste. 

Il Gauleiter dell’epoca era Friedrich Rainer, nominato da Hitler governatore 
della Carinzia. Essendo l’Istria passata sotto il diretto controllo militare e civile del 
III Reich quale parte dell’ Adriatisches Kiinstenland, Reiner svolgeva anche le 
funzioni di Alto Commissario della Zona Operativa del Litorale Adriatico. Sulla 
presenza dei carabinieri va detto che essi, rimasti agli ordini del Capitano Filippo 
Casini, comandante della Legione dei CC.RR. dell’Istria (lo stesso che nel pome- 
riggio del 9 settembre impartì l’ordine di sparare sulla folla radunata in piazza dei 
Giardini a Pola), non si macchiarono di sangue istriano, spesso proteggendo la 
popolazione dai soprusi dei fascisti e dei tedeschi, evitando al massimo di uscire 
fuori dalle proprie stazioni e di partecipare ad operazioni repressive. Il loro stesso 
comandante finì col tempo per collaborare con i partigiani ed all’inizio di luglio 
del 1944 passerà apertamente dalla loro parte insieme con tutta la sua famiglia, 
seguito da un centinaio di carabinieri ai quali successivamente si aggiunsero altri 


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alla spicciolata. Questo gesto, purtroppo, non gli salvò la vita: sul finire del ’44 in 
circostanze tuttora oscure, il Cap. Casini fu processato per i fatti del settembre ’43, 
condannato a morte e fucilato. 

Tornando al rapporto di Zvonko Babic, in esso leggiamo ancora: Si era detto 
che a Pisino sarebbero arrivati 600-700 fascisti, ma fino al 30 ottobre io non li ho 
visti. Le attuali formazioni fasciste nelle località sopra elencate non superano in 
ciascuna i 30-40 militi, in qualche parte sono anche di meno. Sul rimanente 
territorio dell’Istria regna l’anarchia, ma anche là i fascisti stanno cercando di 
ripristinare il vecchio regime. 

L’anarchia nel territorio interno della penisola si protrasse fino a novembre; le 
bande fasciste ne approfittarono per dare la caccia ai banditi slavocomunisti (così 
venivano chiamati i pochi partigiani datisi alla macchia nei luoghi meno accessi- 
bili) seminando il terrore nella popolazione inerme; ma anche nelle file delle 
camicie nere qualcuno pagò con la vita quel regime di terrore e di caos venutosi a 
creare. In proposito il rapporto fornisce alcune informazioni: Nei primi giorni 
(seguiti ai rastrellamenti tedeschi, ndr) i fascisti hanno usato qualche riguardo 
verso la popolazione nelle loro sortite, ma ora si sono scatenati, instaurando il 
terrore con arresti in massa e la mobilitazione forzata, per ora soltanto nelle 
località sotto il loro controllo e nelle immediate vicinanze. Hanno commesso anche 
degli assassinii. Nella zona di Antignana, poi, hanno rastrellato 15 ragazze per 
soddisfare i piaceri dei tedeschi ed altre 30 nel Parentino. Tuttavia in alcune zone 
si nota una differenza nel comportamento dei fascisti locali, i quali non credono 
nella continuità e durata del loro attuale potere e degli attuali rapporti di forza, 
per cui cercano di allacciare contatti con noi. Importanti sono le dichiarazioni 
fatte dai fascisti di Pinguente (quelli sfuggiti agli infoibamenti, essendo stati 
liberati dagli stessi partigiani alla vigilia dell'arrivo dei tedeschi, ndr). Ci mandano 
a dire: ma che aspettate a venire per prendervi le armi e instaurare il potere? 
Oppure quelle di alcuni fascisti nell’Istria centrale, i quali dichiarano che non 
intendono minimamente ricorrere al terrore contro la nostra popolazione, e ci 
chiedono soltanto di prendere in considerazione questo loro atteggiamento garan- 
tendo loro salva la vita un domani. Ci sono stati anche casi in cui i fascisti si sono 
rifiutati di eseguire gli ordini dei loro capi o delle autorità tedesche, e precisamen- 
te gli ordini di ficilare alcuni nostri simpatizzanti, sostenitori della LPL (Lotta 
popolare di liberazione, ndr). Allo stesso modo si comportano anche certi carabi- 
nieri. 

In alcune località vennero a crearsi anche delle situazioni apparentemente 
assurde. A Canfanaro, per esempio, nell’amministrazione comunale, rimasero le 
stesse persone che hanno fatto parte del nostro Comando Posto e cioè del comando 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 207 


insurrezionale di settembre, insieme ad altri nostri simpatizzanti. La cosa però non 
cambiava eccessivamente un panorama tragico: Tuttavia le prigioni sono piene di 
gente nostra, mentre le indagini e le inquisizioni per accertare la partecipazione 
della gente alla LPL e alle azioni compiute dalla nostra gente nel periodo del 
nostro potere si vanno allargando sempre di più. Il terrore ha raggiunto il punto 
più alto a Pisino, nell’Albonese (Vines) e nel territorio di Pola. 

A questo punto l’autore del rapporto fece un passo indietro, accennando 
rapidamente ai fatti dell’ 8-9 settembre 1943: All’atto della capitolazione dell’Ita- 
lia, in Istria non esisteva alcun reparto partigiano. Tutti gli istriani mobilitati nelle 
file partigiane prima di quell’epoca erano stati spediti nell’EPL in Croazia. Per 
questa ragione, al momento dell’insurrezione, il popolo rimase senza alcuna 
dirigenza militare. Per cui il movimento insurrezionale assunse tutte le caratteri- 
stiche (anche negative) dei movimenti rivoluzionari spontanei e disorganizzati. / 
dirigenti spediti successivamente (in Istria, ndr) arrivarono troppo tardi per poter 
accogliere, organizzare e dare un’istruzione militare al gran numero di nuovi 
mobilitati. Nelle file stesse degli istriani neomobilitati non c'erano quadri dirigen- 
ti, perchè nell’esercito italiano la nostra gente non arrivava a coprire posti di 
comando. La mancanza di un’organizzazione militare, la scarsa preparazione 
politica e il terreno inadatto alla guerra partigiana sono state le cause del 
cedimento relativamente rapido della nostra Resistenza militare in Istria (...) Si 
calcola che, tra morti sotto i bombardamenti aerei tedeschi e nei rastrellamenti e 
vittime del terrore, in Istria siano caduti almeno duemila nostri uomini. 

Nessun accenno, come si vede, agli infoibamenti, nonostante questo fosse un 
rapporto interno al partito comunista croato e al movimento partigiano. Evidente- 
mente per il relatore era sufficiente quanto scritto all’inizio sulle “esecuzioni” 
ovvero sull’eliminazione dei cosiddetti nemici del popolo. Si trattava, evidente- 
mente, all’epoca, di un fatto marginale e, pare, di non ampie dimensioni. D'altra 
parte fra gli stessi istriani le voci sugli infoibamenti cominciarono a circolare solo 
più tardi, anche sull’onda di una serie di articoli apparsi sugli organi del Partito 
fascista repubblicano di Trieste e di Pola. 

Nel suo rapporto Zvonko Babié non tacque certe ostilità da lui notate fra la 
popolazione istriana verso il movimento partigiano che proprio in quei giorni di 
fine ottobre 1943 cominciava a organizzarsi di nuovo, molto lentamente. La 
disfatta militare aveva portato alla distruzione anche di quelle organizzazioni del 
Movimento popolare di liberazione che erano esistite prima, ovvero aveva tolto 
loro qualsiasi autorità nella popolazione sicchè il popolo, a giustificazione del 
proprio atteggiamento, critica tutti i lati negativi della composizione e dell’opera- 
to di quelle organizzazioni e istituzioni che esistevano al tempo del nostro potere 


228 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 


in Istria. Le critiche erano dirette forse ai “tribunali del popolo” ed al modo in cui 
era stata gestita la “giustizia”? Stando a questa fonte, il breve periodo di ammini- 
strazione rivoluzionaria era stato caratterizzato dai seguenti aspetti negativi: ap- 
propriazione abusiva di riserve di materiale e di generi alimentari da parte di 
singoli membri delle organizzazioni; l’aver permesso l’usurpazione arbitraria del 
potere da parte di singoli, per esempio di un nobile; un atteggiamento fiacco di 
fronte ai nemici del popolo e collaborazione con gli elementi italiani in Istria; 
completo abbandono del popolo a se stesso da parte della dirigenza politica 
eccetera. Non si fa il nome, nè possiamo sapere chi fosse quel “nobile” istriano al 
quale fu permesso di usurpare il potere, ma ci pare emblematica la critica al 
“fiacco” atteggiamento degli insorti verso i “nemici del popolo”: l’uomo venuto da 
oltre confine riteneva forse che erano stati troppo pochi i fascisti infoibati? Era pure 
grave colpa l’aver collaborato con “gli elementi italiani in Istria”? Per Zvonko 
Babié pare proprio di sì. Cionostante, subito dopo annotava: Generalmente parlan- 
do, la popolazione è spaventata al massimo. Ritiene cosa propria la lotta partigia- 
na, ma in questo momento ha perso la fiducia nella sua vittoria e perciò non 
intende esporsi a sacrifici. Il popolo stima i partigiani ma al tempo stesso ne ha 
paura; darà loro da mangiare, ma non è disposto ad accoglierli in casa e neppure 
nel villaggio, soprattutto se portano l’uniforme e sono armati. La gente preferiva 
prendere contatti con quelli che non hanno aderito alla LPL in Istria. 

Seguivano alcune osservazioni negative sul carattere e la mentalità degli 
istriani, criticati anche per la loro totale ignoranza della lotta partigiana in Croazia 
e per la loro propensione alla bandiera rossa piuttosto che al patriottismo croato. 
Soprattutto il Babié rimproverava ai croati dell’Istria il fatto che troppo spesso 
vanno a lamentarsi della situazione con i fascisti, ma i fascisti locali non reagisco- 
no dappertutto alla stessa maniera. Avviandosi alla conclusione del rapporto, 
Zvonko Babié citò — allegandoli — alcuni materiali della propaganda nemica e 
precisamente: un volantino tedesco in italiano e croato, un messaggio ai fedeli del 
vescovo Antonio Santin della diocesi di Trieste e Capodistria datato 25 settembre 
1943, alcuni documenti ritrovati dai partigiani addosso al pilota di un aereo tedesco 
precipitato in Istria, un rapporto di “Gaspar”, un esemplare del giornale sloveno 
“Ljudska pravica” e tre esemplari del quotidiano “Il Piccolo” di Trieste del 28, 29 
e 31 ottobre. Il relatore spiegava che i medesimi articoli de “Il Piccolo” si potevano 
leggere anche sul giornale fascista di Pola “Il Corriere Istriano” che nel suo 
editoriale del 29 ottobre chiamò gli italiani dell’Istria a imbracciare le armi e 
combattere per la propria libertà impedendo che l’Istria cadesse nelle mani degli 
slavo-comunisti di Tito e dei Russi ma anche delle forze badogliane, perchè 
comunque Badoglio non avrebbe fatto altro che legalizzare la cessione della 


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La voragine della foiba di Villa Surani 


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penisola ai suddetti slavo-comunisti. Lo stesso giornale denunciava quegli istriani 
che in occasione dell’anniversario della Marcia su Roma hanno spalancato le 
finestre per vedere se arrivassero gli inglesi e applaudirii. 

Cosa pensasse l’inviato del comitato centrale del PC croato in Istria sulla 
direzione da imprimere alle future iniziative del movimento partigiano nella 
penisola lo dice la parte conclusiva del suo rapporto nel quale comunicava alle alte 
sfere di aver creato in Istria l'’OS ovvero Servizio d’informazioni (spionaggio), 
nominando a suo capo “il compagno Jaki”, alias Ivan Matika, del quale fornì queste 
informazioni: Nato nel 1907 a Gimino, croato, ha terminato la Facoltà di giuri- 
sprudenza; nelle file partigiane dal 27 aprile 1942, ha portato a termine la Scuola 
per ufficiali di complemento dell’Esercito regio jugoslavo, ha il grado di tenente 
dal 1935, nello Stato Indipendente Croato sottotenente. È membro del Partito 
comunista della Croazia dal giugno 1943. Quale suo vice alla testa dell’OS ha 
posto un compagno della zona di Pola, del quale vi farò conoscere il nome in 
seguito; è capocantiere presso le miniere Bauxiti Istriane. Ivan Matika è l’uomo 
che avrebbe dovuto essere processato a Roma per gli infoibamenti in Istria nelle 
ultime due decadi di settembre del ’43. 


III La parola a un informatore ustascia 


Dei circa diecimila, secondo altri dodicimila uomini affluiti o mobilitati nei 
reparti degli insorti istriani nei primi giorni seguiti alla capitolazione italiana, pochi 
in realtà potevano definirsi veri partigiani, e pochissimi erano comunisti; si trattava 
di semplici contadini ed operai guidati da pochi comunisti italiani reduci dalle 
prigioni del regime e, nel campo croato, dai “Narodnjaci”, esponenti del vecchio 
partito nazional-clericale istriano sopravvissuto nella clandestinità. Dietro istruzio- 
ni di alcuni comunisti croati di origine istriana, tornati nella regione natale dalla 
Jugoslavia a cominciare dall’agosto 1941, appositamente inviati dai partiti comu- 
nisti croato e sloveno, i “Narodnjaci” avevano creato una vasta rete clandestina di 
un movimento nazionale di liberazione'3 che aveva poche parentele ideologiche 
con il comunismo, ma molti legami con il nazionalismo. Non a caso, avendo 
preteso di rappresentare il PC croato, rispettivamente sloveno, in Istria, questi 


!3 Sull'argomento si legga il documentatissimo libro di memorie di LJ. DRNDIC, Le armi e la libertà 
dell’Istria (traduzione e prefazione di Giacomo Scotti), Fiume, 1981. L’edizione croata uscì a Zagabria nel 1978 
col titolo Orwje i sloboda Istre 1941-1943. 


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nazionalisti croati provocarono un aspro conflitto con l’organizzazione clandestina 
del PC italiano che li contrastò duramente, soprattutto a Pola, a Rovigno ed Albona. 
La centrale di coordinamento dei comitati clandestini del Movimento nazionale di 
liberazione croato, poggiante quasi esclusivamente sui “Narodnjaci” istriani, si 
trovava fuori dell’Istria, a Castua (Kastav) e nel Litorale croato!*; l’obiettivo 
principale del Movimento era l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Di socialismo 
e comunismo si parlava poco, e solo con gli italiani. Nella prima riunione del 
Comitato circondariale del MPL dell’Istria, formato da comunisti e “narodnjaci”, 
riunione tenutasi a Pisino il 13 settembre, la prima decisione presa fu quella di 
proclamare unilateralmente e formalmente l’ unione dell’Istria alla Croazia, decisio- 
ne che sarà fatta propria il 20 settembre dallo ZA VNOH, il Governo partigiano della 
Croazia riunito a Topusko nella Lika, e ribadita da una più ampia “assemblea del 
popolo istriano” svoltasi ancora una volta a Pisino il 25 e 26 dello stesso mese. 
Quella decisione rifiutava di fatto un eventuale successivo atto di autodeterminazio- 
ne dell’intera popolazione, anche italiana, come aveva sempre chiesto il PC italiano. 

L’assemblea di Pisino, perla cronaca, dichiarò decaduti tutti i poteri e le leggi 
dello Stato italiano, costituì un “Comitato regionale di liberazione nazionale” quale 
organo di potere e decretò, fra l’altro, che dall’Istria avrebbero dovuto essere 
espulsi i coloni assegnatari di terreni bonificati, i funzionari statali ed altri cittadini 
italiani stabilitisi nella regione dopo la Prima guerra mondiale. Sarebbe stato il 
primo atto di una pulizia etnica dopo la sperata vittoria. In altre parole, si persegui- 
vano obiettivi prettamente nazionalistici e per certi aspetti neofascisti sotto i 
simboli resistenziali e comunisti. 

Gli arresti, preludio degli efferati anche se non progettati infoibamenti, avven- 
nero quasi tutti fra il 15 e il 25 settembre. A questo proposito per la prima volta in 
versione italiana, presenterò qui un documento di provenienza croato-ustascia, 
uscito cioè dagli archivi dell’ex cosiddetto Stato indipendente di Croazia, creato 
dal “Poglavnik” ovvero Duce fascista croato Ante Pavelié con l’aiuto di Mussolini 
e Hitler e durato dal 10 aprile 1941 all’8 maggio 1945". 


!4 Cfr. V. ANTIC, “Razvoj komunisti&kog pokreta u Hrvatskom primorju, Gorskom Kotaru i Istri 1941- 
1943” (Evoluzione del movimento comunista nel Litorale croato, Gorski Kotar e Istria dal 1941 al 1943) e 
“Ukljudenje Istre” (Annessione dell’Istria) nel volume di AA.VV, Prikljucenje Istre Federalnoj Drzavi Hrvatskoj 
i Demokratskoj Federativnoj Jugoslaviji 1943-1968 (Annessione dell’Istria allo Stato Federale di Croazia ed alla 
Federazione Democratica di Jugoslavia 1943-1968), Fiume, 1968; L. PERIC, Poceci narodnooslobodilatkog 
pokreta u Primorju i Istri (Gli inizi del movimento di liberazione nazionale nel Litorale sloveno e in Istria), 
Belgrado, 1964. 


15 Da G. SCOTTI, “Istria 1943: come e perchè vennero giustiziati fascisti e innocenti, alcune centinaia, nel 
settembre dell’insurrezione popolare”, Fòibe e fobìe, numero speciale de 7! Ponte, Milano, febbraio-marzo 1997. 


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Informazioni per il “Duce” croato 


Il documento è stato rintracciato dallo storico Antun Giron di Fiume, per oltre 
tre decenni impegnato presso il Zavod za povjesne i dru$tvene znanosti, Istituto di 
scienze storiche e sociali, dell’ Accademia croata di arti e scienze. Lo studioso ha 
pubblicato il documento sulle pagine della rivista “Vjesnik DAR” — n. 37/1995. Si 
tratta di un rapporto segreto relativo ai fatti accaduti in Istria nel settembre-ottobre 
1943, scritto il 28 gennaio 1944 dal prof. Nikola Zic, un pubblicista croato nato a 
Villa di Ponte (Punat) sull’isola di Veglia nel 1882. In quel periodo lo Zic lavorava 
per i servizi di informazione del Ministero degli Esteri dello “Stato Indipendente 
Croato”. L’Istria era stata oggetto delle sue ricerche sin dal 1911, anno in cui 
pubblicò il suo primo libro su argomenti relativi appunto a quella regione. Era stato 
poi consigliere della delegazione jugoslava che nel 1919 si battè alla Conferenza 
di pace a Parigi per negare l’Istria all’Italia. Fra le due guerre mondiali continuò ad 
occuparsi dell’Istria, riattizzando spesso il fuoco del rancore anti-italiano, cosa 
questa che gli meritò la benevolenza anche delle autorità comuniste titine: dopo la 
seconda guerra mondiale fu nominato vicepresidente dell’ Accademia vetero-slava 
di Veglia, dove si è spento nel 1960. AI rapporto scritto dallo Zic nel 1943 sotto il 
titolo Relazione sulla più recente tragedia dell’Istria'° era allegato un messaggio 
inviato il 28 aprile 1944 dal Ministero degli Esteri dello Stato ustascia alla 
Rappresentanza commerciale generale di quel Governo a Zurigo. Il medesimo 
rapporto viene citato integralmente, inoltre, in una esposizione sulla situazione 
politica fatta al Governo di Pavelié dal suo Ministro dott. Vladimir Zidovec il 21 
settembre 1944!, 


* ** 


16 Nell’originale /zvjeste 0 najnovijoj tragediji Istre. 


!? L'esposizione presentata da ZIDOVEC al Consiglio dei ministri croato era intitolata La situazione 
politica e i suoi sviluppi in Istria, a Susak, a Fiume e nei territori circostanti dalla Dichiarazione del Poglavnik 
sull’annessione dei territori distaccati fino ad oggi. La “Dichiarazione del Poglavnik”, risalente al 10 settembre 
1943, fu un atto puramente simbolico con il quale il “duce” croato Ante Pavelic si riappropriava dei territori ceduti 
all’Italia nel 1941, aggiungendovi l’Istria. Una dichiarazione che rimase sulla carta: i tedeschi trasformarono quei 
territori in Zona d’operazione del Litorale Adriatico, amministrata da un governatore del III Reich. Cfr. in 
proposito M. LUCIC, Narodnooslobodilacki rat u Istri, Hrvatskom primorju i Gorskom Kotaru u ljeto i jesen 1943. 
godine (La guerra di liberazione nazionale in Istria, nel Litorale croato e Gorski Kotar nell’estate, autunno 1943), 
Fiume, 1983, pp. 70-71;F. JULIC-BUTIC, Ustafe i Nezavisna Dréava Hrvatska 1941-1945 (Gli Ustascia e lo Stato 
indipendente Croato 1941-1945), Zagabria, 1977; A. GIRON -P. STRCTC (a cura di), Poglavnikom vojnom uredu, 
Treci Reich, NDH, Susak-Rijeka i izvje$tce dr. Oskara Turine 1943. (All'Ufficio militare del Poglavnik. Terzo 
Reich, Stato Indipendente Croato, Sus ak-Fiume e un rapporto del dott. Oskar Turina del 1943), Fiume, 1993. 


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Nella prima parte della sua relazione l’informatore del Governo ustascia 
sintetizza a modo suo la storia dell’Istria dopo la fine della prima guerra mondiale, 
ponendo l’accento sul calvario ultraventennale dei Croati, e conclude col dire che 
le persecuzioni da essi subite ad opera delle autorità italiane fecero sì che /a 
propaganda partigiana, nel corso di questa guerra mondiale, ha trovato in Istria 
un terreno relativamente fertile. I contadini croati nelle file partigiane non consi- 
derano i partigiani come dei comunisti bensì unicamente come nemici dei fascisti 
e liberatori nazionali. Dopo la caduta del fascismo, quando Badoglio ha firmato 
l’armistizio provocando lo sfacelo dell’esercito italiano, è stato sufficiente l’ap- 
pello lanciato da pochi partigiani al popolo croato dell’Istria perchè questo 
insorgesse dopo 25 anni di oppressione. 

La relazione di Nikola Zic così proseguiva: Nel periodo dal 9 al 15 settembre 
sull’intero territorio dell’Istria sono stati disarmati tutti i carabinieri e soldati. Il 
popolo è prevalso in tutti iComuni e città dell’Istria, impossessandosi delle armi 
dei carabinieri e dei soldati italiani disarmati che in disordine si sono avviati verso 
le loro case. Alla testa di questa insurrezione popolare si sono posti una trentina 
di partigiani (cosiddetti “lavoratori politici”) arrivati in Istria in precedenza. 

Il numero dei “lavoratori politici”, ovvero partigiani è esatto, se si riferisce ai 
dirigenti dell’insurrezione; gli attivisti partigiani, invece, erano molto più numero- 
si. Prosegue l’informatore ustascia: Essi hanno chiamato alle armi molte persone, 
ma solo più tardi sono venuti in loro aiuto quattro battaglioni di partigiani dalla 
Croazia, in gran parte della Lika. 

Qui l’informatore scrive una inesattezza. Con il compito di trasformare quelle 
bande di insorti disorganizzate e indisciplinate in reparti regolari e disciplinati, in 
Istria arrivò un solo battaglione partigiano croato, distaccato dalla XIII Divisione 
“Primorsko Goranska” con una forza di 300 uomini'*. L’arrivo di quel reparto 
avvenne esattamente il 19 settembre. 

Secondo la relazione Zic, furono i reparti arrivati dalla Croazia a dare un’or- 
ganizzazione all’insurrezione popolare partigiana croata nell’Istria intera, ma 
successivamente i partigiani sloveni assunsero la guida a nord del fiumicello 
Dragogna. Ci si riferisce al Comando del Distaccamento misto sloveno-croato che 
operò in Istria dal 15 al 23 settembre, giorno in cui a Pisino fu costituito il 
cosiddetto “Comando operativo per l’Istria” sotto il comando del colonnello 
partigiano Sava Vukelié, serbo della Lika, commissario Joza Skodilié, croato, 


VA 


18 Cfr. D. DIMINIC, Istra u partizanskom notesu 1943-1945 (L’Istria nel taccuino partigiano 1943-1945), 
Pola, 1984, p.12. Nel successivo capitolo di questo testo parleremo più diffusamente delle memorie del Diminié. 


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ambedue inviati dal Comando generale dell’EPL della Croazia. Resteranno in 
Istria fino al 29 agosto 1944. 

Grazie alla loro presenza fu possibile mettere un argine agli abusi e vendette 
di singoli e a dare una disciplina militare ai reparti degli insorti, i quali furono 
inquadrati in due brigate, un Distaccamento e diversi battaglioni autonomi per un 
totale di 2.000 uomini, quasi tutti alle prime armi. 

Tra i comandanti locali degli insorti i più impegnati sul piano politico e 
militare nella seconda e terza decade di settembre furono gli italiani Giuseppe 
Budicin, Aldo Rismondo, Giusto Massarotto e Mario Cherin di Rovigno, Matteo 
Bernobich di Parenzo, Paolo Sfecci e Aldo Negri di Albona, Giorgio Sestan di 
Pisino, Alfredo Stiglich e Giulio Revelante di Pola ed i croati Ljubo Drndié, Anton 
Raspor (già combattente di Spagna), Berto Petrc-Plovanié, Anton Cerovac-Toni, 
Joakim Rakovac, Ciro Rener, Vitomir Sirola-Pajo, Josip Matas detto Andrich, 
Dusan Diminié, Viktor Dobrila, Mate Sarson, Dinko Lukarié, Berto Slokovi6, 
Vlado Juriéié, Silvio Milenié-Lovro, Ivan Matika (già tenente del regio esercito 
Jugoslavo, divenne vicecomandante del Distaccamento misto sloveno-croato, suc- 
cessivamente comandante di Pisino e presidente-giudice del Tribunale del popolo), 
Nini Ferenèit-Valentin, Josip Matas, l’ex combattente di Spagna Anton Licul- 
Grasié, Bozo Kaléié, Joze Suran, Mirko Jurcan ed altri dei quali Zic dice: Poichè 
fra di loro c’erano pochi ad avere un’istruzione superiore, non seppero orga- 
nizzare (bene) il governo (della regione) ma non ebbero nemmeno il tempo 
necessario per farlo. Nel corso di questa insurrezione popolare ci furono solo 
sporadiche sparatorie contro i soldati tedeschi, lungo le camionabili Trieste- 
Pola e Pola-Fiume. A Pisino, il giorno 12 settembre 1943 furono fermati, poi 
costretti a tornare indietro oppure dispersi quei soldati tedeschi che stavano 
scortando i soldati italiani (in maggioranza marinai) caricati a Pola su tre 
treni e avviati verso i campi di concentramento della Germania. L’attacco è 
stato sferrato dagli insorti non perchè spinti dal desiderio di lottare contro i 
tedeschi, ma dal desiderio di liberare i marinai italiani, alcuni dei quali si sono 
poi uniti ai partigiani provvisoriamente. 

Lo scontro, al quale abbiamo già fatto un accenno, avvenne presso la stazione 
ferroviaria di Pisino; a guidare gli insorti furono il giovane comunista istriano di 
nazionalità italiana Giorgio Sestan e il ten. Colonnello dell’esercito italiano Mon- 
teverde che già da alcuni giorni collaborava con gli insorti, insieme ad alcuni 
comandanti partigiani croati istriani. Nello scontro due tedeschi furono uccisi ed 
altri 14 catturati. Torniamo alla relazione Zic: Dappertutto sono state esposte le 
bandiere croate. Su molte di esse i partigiani hanno cucito la stella rossa, ma la 
popolazione non dà importanza a questo fatto. Verso il 20 settembre, in una 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 235 


solenne assemblea svoltasi a Pisino, è stata proclamata l’annessione dell’Istria 
alla Croazia. 

L’assemblea si tenne in realtà il 25-26 settembre, come già detto. Nell’occa- 
sione furono anche costituiti il Comitato provvisorio regionale di liberazione 
nazionale dell’Istria al quale si è pure accennato, e un “Ufficio italiano”, voluto dal 
Partito comunista croato con il compito di mobilitare gli italiani della regione nelle 
file partigiane. 

Secondo Zic, il popolo considerava la rivolta popolare solamente dal punto 
di vista nazionale croato. La sua relazione continua riandando ai primissimi giorni 
dell’insurrezione istriana: All’inizio a nessun Italiano è stato fatto nulla di male. 1 
partigiani avevano diramato l’ordine che non doveva essere fatto del male a 
nessuno. Ma qualche giorno dopo lo scoppio della rivolta popolare (e cioè il 13 
settembre, ndr) a/cuni corrieri a bordo di motociclette-sidecar hanno portato la 
notizia che i fascisti di Albona avevano chiamato e fatto venire da Pola i tedeschi 
in loro aiuto e questi avevano aperto il fuoco contro i partigiani. Poco dopo si è 
saputo che i tedeschi erano stati chiamati in aiuto anche dai fascisti di Canfanaro, 
Sanvincenti e Parenzo, fornendogli informazioni sui partigiani. Rispondendo alla 
chiamata è subito arrivata a Sanvincenti una colonna tedesca. Tutte queste voci 
hanno creato una grande avversione verso i fascisti. Essi ci tradiranno! — si sentiva 
dire dappertutto. Pertanto partigiani e contadini hanno cominciato ad arrestare e 
imprigionare i fascisti, ma senza alcuna intenzione di ucciderli. I partigiani 
decisero di fucilarne soltanto alcuni, i peggiori, ma anche molti fra questi sono 
stati salvati grazie all’intervento dei contadini croati e ancor più dei sacerdoti. 

A questa affermazione del relatore ustascia va aggiunta una precisazione: per 
la liberazione delle persone arrestate fu decisivo l’ intervento presso i capi partigia- 
ni del vescovo di Parenzo e Pola, Mons. Raffaele Radossi. 

La relazione Zic prosegue informandoci della sorte di coloro che rimasero in 
carcere — le prigioni principali gestite dai partigiani istriani erano quelle di Albona, 
Pinguente e Pisino — sottoposti a interrogatori e giudizi dei “tribunali del popolo”. 

Purtroppo quando, alcuni giorni più tardi, cominciarono ad avanzare i 
reparti germanici, i partigiani vennero a trovarsi nell’impaccio, non sapendo 
dove trasferire i prigionieri fascisti per non farli cadere nelle mani dei tedeschi. 
In questo imbarazzo hanno deciso di ammazzarli. Ne hanno uccisi circa 200 
gettandone i corpi nelle foibe. Tuttavia molti altri fascisti sono riusciti a 
scappare raggiungendo Pola e Trieste, rivolgendosi ai Tedeschi per aiuto. 
Stando a quanto si è saputo in seguito, i fascisti istriani avrebbero informato i 
tedeschi che nella sola Pisino si trovavano 100 mila partigiani; in verità ce 
n’erano forse in tutto un paio di centinaia. A questo punto il Comando germa- 


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nico ha deciso di rastrellare l’Istria inviando nella regione alcune divisioni SS 
corazzate". 

Il rapporto prosegue enumerando i massacri compiuti dai tedeschi fino alla 
metà di novembre da un capo all’altro dell’Istria, ma noi per ora ci fermiamo qui. 
Avremo occasione di tornare al documento in seguito. 


kE 


La cifra degli infoibati riferita dallo Zic è largamente incompleta. Stando a una 
dichiarazione rilasciata alla fine di gennaio 1944 dal segretario del Partito fascista 
repubblicano e pubblicata dalla stampa della RSI dell’epoca, in Istria finirono 
infoibate dagli insorti 349 persone, in gran parte fascisti. Ora è vero che l’alto 
gerarca ci teneva ad arricchire il martirologio dei “combattenti per la causa” del 
fascio littorio, ma gli va pur riconosciuto il merito di non aver esagerato come 
fanno invece certi “storici” odierni simpatizzanti di quel regime: quella era la cifra 
che all’epoca si dava per accettabile. Oggi siamo addirittura propensi a considerar- 
la inferiore alla realtà. E comunque non è nostra intenzione, almeno in questa sede, 
fare la conta degli infoibati, ovvero delle vittime dell’insurrezione istriana, calco- 
late comunque dagli studiosi più attenti fra le 400 e le 500 persone. Sull'argomento 
sarà utile la lettura delle pagine 103-113 del già citato saggio di Luciano Giuricin, 
Il settembre ’43 in Istria e a Fiume del 1997 e la mia ricostruzione di quelle 
tragiche vicende nel saggio Fòibe e fobìe dello stesso anno. 

Un'altra considerazione da fare a proposito della relazione Zic riguarda gli 
arresti dei fascisti. Essi cominciarono il 14 o 15 settembre come si può dedurre da 
quel documento (e cioè dopo gli scontri di Tizzano, Leme, Albona e Vines), ma le 
prime esecuzioni sommarie, ebbero luogo appena il 18 dello stesso mese. 


Dal diario di un antifascista italiano di Rovigno 


Ben diversamente sono descritti e ricordati i giorni dell’insurrezione istriana 
da alcuni dei capi dell’antifascismo italiano della penisola. Il centro del movimento 
italiano divenne Rovigno, il massimo leader Giuseppe-Pino Budicin uscito in 
agosto dalla prigione di Castelfranco Emilia. Nell’articolo “Un anno di successo” 


1? A. GIRON, “Informacije prof. Nikole Zica gelnistvu NDH o prilikama u Istri nakon sloma Italije” 
(Informazioni del prof. Nikola Zic al governo dello Stato Indipendente Croato sugli avvenimenti in Istria dopo la 
capitolazione dell’Italia), Vjesnik DAR, n. 37 (1995), pp. 127-143. 


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apparso sulla prima pagina del foglio partigiano ciclostilato “Il Nostro Giornale”, 
che dedica il suo numero 18 del 9 settembre 1944 al primo anniversario dell’insur- 
rezione istriana, leggiamo: 

In quei giorni gli istriani sentirono in sé una forza eroica, prepotente, che li 
spinse a insorgere, ad armarsi e lottare per la loro libertà e il loro avvenire. E 
veramente il 9 settembre fu giorno di libertà. In tutta l’Istria bandiere italo-croate, 
affratellate dalla stella tossa sventolarono al vento (...) Incominciò la lotta mera- 
vigliosa degli istriani. 

Difficilmente si può trovare in questi fogli partigiani italiani un sia pur minimo 
accenno ai dissidi con i dirigenti del PC croato — e furono tanti — e ancor meno 
qualche allusione alle foibe. Eppure sono documenti anche questi fogli, anche 
questi articoletti, come quello firmato “Elio” (Giorgio Privileggio) sullo stesso 
numero nel quale leggiamo: Uscendo dal municipio di Rovigno la sera dell’8 
settembre, notammo capannelli di gente che discuteva. Cos'è successo? Ci rispon- 
dono che è stato firmato l’armistizio. Non ci sembrava vero. La stessa sera ci 
furono dimostrazioni. Subito dopo l’annuncio dato dalla radio, il primo a muoversi 
fu Pino Budicin che arringò la folla riunitasi sulla piazza dell’orologio. Fu seguito 
da altri comunisti reduci come lui dalle prigioni fasciste: Domenico Segalla, 
Giorgio Privileggio, Giovanni Naddi, Romano Malusà e Francesco Poretti. Pino 
sventolava una bandiera italiana presa poco prima al caffè “Risorgimento” e subito 
arringò la folla, invitando tutti a prepararsi alla lotta armata, a organizzare la 
resistenza, affrontando un nuovo pericolo incombente: l'invasione da parte dei 
nazisti. Era giunto il momento, aggiunse, di iniziare la lotta partigiana. Un “Comi- 
tato di salute pubblica” assunse l’ amministrazione della città. Dopo qualche giorno 
si trasformò in “Comitato del Fronte nazionale partigiano di Rovigno d'’ Istria” 
come risulta dai primi documenti stampati in città e come abbiamo già annotato in 
questa esposizione. In un diario di Giorgio Privileggio, custodito dai familiari dopo 
la morte di questo comunista fra i più noti nelle file degli italiani d’Istria durante 
la guerra e dopo (perseguitato e incarcerato dal regime fascista, fu uno dei dirigenti 
politici della Resistenza), leggiamo che il “Comitato di salute pubblica”, frutto di 
un compromesso con la precedente amministrazione podestarile, funzionò solo 
due-tre giorni. Pino Budicin e gli altri suoi compagni e collaboratori più stretti 
furono costretti a ritirarsi dalla città per entrarvi da partigiani il 16 settembre, 
instaurando il “potere rosso”. 


238 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 


I primi tredici arrestati a Rovigno 


Nel documento, apparso sotto il titolo “Memorie dell’antifascismo e della 
Resistenza” (nel volume III dei Quaderni del CRS di Rovigno, 1973) si legge: 

Il 15 settembre (1943) i compagni Budicin e Rismondo in accordo con il 
comando partigiano di Canfanaro stabilirono di entrare a Rovigno per instaurare 
il potere popolare. Il mattino seguente, 16 settembre, circa un centinaio di parti- 
giani italiani e croati armati con armi leggere, assieme ai nostri dirigenti politici, 
entrarono in città e la presero in consegna dopo aver disarmato i carabinieri e le 
guardie di finanza. Si costituì il Comitato rivoluzionario partigiano (...) Sul 
municipio venne inalberata la bandiera tricolore italiana con la stella rossa, 
simbolo dei partigiani italiani dell’Istria e di Fiume. 

In quei giorni vi fu un episodio significativo e nello stesso tempo estremistico. 
Alcuni elementi volevano esporre la bandiera rossa dei lavoratori sul palo del 
monumento alla vittoria in piazza dell’orologio. Pino Budicin dovette sudare le 
proverbiali sette camicie per persuaderli che non era opportuno in quel momento 
un tale gesto (...) e per spiegare loro la linea politica della lotta antifascista. 

Molti appuntarono sulla giacca un nastrino rosso per festeggiare il momento 
rivoluzionario. 

Nel pomeriggio, quando i partigiani andarono ad arrestare lo squadrista e 
fiduciario dell’OVRA Giuseppe Silvino, videro che portava all’occhiello il nastri- 
no rosso. Un camuffamento puerile e vile. Il Comitato rivoluzionario compilò un 
elenco di fascisti pericolosi per il nuovo ordinamento sociale, i quali vennero 
immediatamente arrestati e portati al comando partigiano che allora si trovava 
nell’ex casa del fascio (...) Ecco i nominativi: Romolo Rocco, squadrista, capoma- 
nipolo; Giuseppe Silvini, squadrista, regnicolo, fiduciario dell’OVRA; Giorgio 
Abbà, squadrista, guardia municipale; Domenico Paliaga, squadrista; Gregorio 
Dapiran, squadrista; Giovanni Miculian, squadrista (regnicolo); Antonio Rocco; 
Ettore Stolfa; Domenico Bruni; Martino Mazza, commerciante (verrà poi rilascia- 
to a Pisino); Leonardo Quarantotto, guardia campestre; Andrea Maressi, guardia 
notturna; Cristoforo De Angelis, operaio (gli ultimi tre fascisti e confidenti della 
polizia). Dopo essere stati interrogati, furono associati alle carceri locali e dopo 
alcuni giorni inviati a Pisino dove, assieme ad altri fascisti italiani e croati di tutta 
l’Istria, furono condannati dal tribunale popolare e giustiziati poco prima dell’ar- 
rivo dei nazisti (...) 

Nel prosieguo del diario, Privileggio descrive l’irruzione a Rovigno di un 
reparto tedesco avvenuta il 22 settembre e le prime stragi compiute dai nazisti, 
quindi il ritorno dei partigiani in città il 23 settembre, scrivendo: 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 239 


È in questa seconda fase che vennero operati arbitrariamente, da parte di 
alcuni elementi estremisti irresponsabili sia di città che di fuori — la cosiddetta 
Ghepeù Volante — circa una decina di arresti. Tre degli arrestati, e precisamente 
Vittorio Demartini (Tojo el dalmato), l’ottantenne Angelo Rocco (“Piso sico” 
primo podestà di Rovigno) e Tommaso dott. Bembo (proprietario terriero, antifa- 
scista) perirono a Gimino sotto il bombardamento aereo tedesco ai primi di 
ottobre. 

Questo brano del diario del Privilegio merita una precisazione. È stato appu- 
rato che le salme di Angelo Rocco e Tommaso Bembo, raccolte dopo il bombar- 
damento, finirono effettivamente nella foiba di Pucicchi di Gimino come luogo di 
sepoltura. Insieme a quella di un tale Basilisco, furono le uniche identificate delle 
circa trenta di vittime rovignesi estratte dalle varie fosse carsiche istriane. In quelle 
foibe finirono pure i cadaveri di alcuni tedeschi e di soldati italiani “badogliani” 
uccisi dai tedeschi nei primi scontri dell’inizio di ottobre. Il che non ha impedito a 
certi “storiografi”’ di inserire i loro nomi negli elenchi degli infoibati. 

Da questo documento, e da molti altri, fra cui vanno inclusi gli annunci 
mortuari apparsi nel corso di ottobre 1943 sui quotidiani fascisti di Pola e di Trieste 
dopo la scoperta delle foibe, risulta che l’ottanta-novanta per cento delle persone 
arrestate e poi giustiziate dagli insorti istriani erano compromesse con il regime 
fascista: accanto a molti nomi appare la qualifica “sciarpa littorio”, “squadrista”, 
“combattente della guerra di Spagna”, “legionario fiumano” eccetera. Altri furono 
vittime di vendette personali compiute da “elementi estremisti irresponsabili”, 
come li definisce Privileggio. Comunque non ci fu un piano prestabilito di massacri 
e tanto meno rivolto esclusivamente contro gli italiani, anche se non si può negare 
che — dopo venti e più anni di oppressione fascista italiana in Istria — c’era 
nell’animo degli insorti slavi anche una carica di rivincita nazionalistica. Uno degli 
esodati istriani, l’intellettuale Dr. Erio Franchi, trasferitosi negli anni Cinquanta 
del secolo appena trascorso dall’Istria a Varese, in un’intervista concessa alla 
rivista “Fiume” del cosiddetto Libero Comune di Fiume in esilio, ha lasciato questa 
testimonianza: 

Quella fiammata insurrezionale del settembre 1943 in Istria e gli eccessi che 
ne sono conseguiti, a mio personale modo di vedere, più che l’esecuzione di una 
direttiva politica del partito comunista croato, dei comandi partigiani di Tito, era 
stata una reazione scomposta di elementi locali che nella loro brutalità hanno 
voluto vendicarsi dei torti subiti nel ventennio, della lunga pressione snazionaliz- 
zatrice che avevano sofferto, delle angherie subite (...) Faccio un esempio che mi 
tocca da vicino. Io ho sposato una ragazza istriana, la cui casa in quel di San 
Martino di Pinguente, è stata messa a fuoco nel 1919 da una squadra di fascisti 


240 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 


pisinesi (...) Il padre, mutilato di guerra, con entrambe le gambe mozzate, era 
costretto su una sedia a rotelle, fu portato fuori dalla casa che andava a fuoco con 
tutto il bestiame e salvato per miracolo. Episodi di questo genere non sono stati 
purtroppo isolati. Seguiti poi da pressioni violente sull’etnìa slava, hanno provo- 
cato in una popolazione, da un lato insufficientemente colta e dall’altro infiamma- 
tada questi imput che provenivano dalla Jugoslavia, dei rigurgiti che sono andati 
ben al di là del normale. 

Ha scritto Franco Femia su “Il Piccolo” di Trieste del 14 febbraio 1998: Oggi 
certi episodi fanno rabbrividire, vengono giudicati barbarie; ma bisogna rianda- 
re a quel periodo, a quegli anni, ad una guerra madre di tutte le barbarie, dove 
non vi era solo un nemico, ma c'erano più nemici. Una guerra civile resa ancora 
più tragica in queste terre dove si scontravano due mondi diversi e ideologie 
diverse. 


IV Diario di un comunista croato 


Nel 1986, nel pieno della crisi politica jugoslava che di lì a quattro anni 
sarebbe sfociata nella secessione di Slovenia e Croazia dalla federazione creata da 
Tito e poi nella sanguinosa guerra intestina, uscì a Pola un libro che nel frastuono 
degli eventi dell’epoca passò pressocchè inosservato ed ebbe scarsa diffusione, 
autore Dusan Diminié, scomparso due anni dopo: /stra u partizanskom notesu 
(1943-1945). Il titolo, tradotto, è “L’ Istria nel notes partigiano, 1943-1945”. L’au- 
tore, istriano dell’ Albonese, fu uno dei massimi esponenti del Partito comunista 
croato e, in seno al comitato centrale di quel partito, incaricato di promuovere e 
seguire lo sviluppo del Movimento popolare di liberazione in Istria. Nel 1941, 
accusato di deviazione dalla linea politica del Partito comunista croato e jugoslavo, 
fu espulso dalle sue file. All’epoca era dirigente della Federazione del PC di Su$ak. 
Pertanto, quando si recò in Istria, nel settembre del 1943, egli non era più membro 
del partito; e tuttavia, proprio grazie alla sua attività in Istria, fu poi riammesso 
nelle file comuniste e risalì rapidamente le scale della gerarchia politica, fino al 
vertice del Comitato centrale. Per un certo periodo diresse il giornale del partito 
comunista croato “Naprijed”, poi fu spazzato via dalla scena politica nel 1949 e 
duramente perseguitato come “cominformista”. Il suo “esilio interno” ebbe fine 
appena agli inizi degli anni Ottanta ed appena allora egli potè pensare alla pubbli- 
cazione degli appunti e ricordi relativi al periodo della seconda guerra mondiale, e 
precisamente dall’epoca in cui rimise piede in Istria, immediatamente dopo la 
capitolazione dell’esercito italiano nel settembre 1943, fino alla fine del conflitto. 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 241 


Quando il libro di memorie del Diminié vide la luce, molti tabù erano crollati, 
e tuttavia in Croazia e Slovenia ne erano rimasti alcuni — come quelli relativi alle 
foibe istriane ed ai confini tra Slovenia e Croazia in Istria — sicchè anche i pochi 
recensori di quel libro passarono sotto silenzio i brani delle memorie di Diminié 
che riconducono ai due scottanti problemi oggetto da qualche anno di accesi 
dibattiti e polemiche anche sul piano internazionale. 

Sulla questione del confine croato-sloveno in Istria leggiamo alle pagine 40-41 
(siamo verso la metà di settembre 1943): 

In quei giorni giunse in visita al Comando Operativo (dell’Istria, ndr) il 
comandante del Quartier Generale (dell’Esercito popolare di liberazione) della 
Slovenia, Franc Roîman-Stane con i suoi compagni. Essi si interessarono alla 
questione della delimitazione dei confini fra i territori sloveno e croato dell’Istria, 
proponendo che il confine fosse il fiume Quieto. Noi (croati), naturalmente, 
ritenevamo che sarebbe stato più giusto tracciare il confine lungo il tratto fiume 
Dragogna — Lobor — Topolovac — Podgorje — Rupa — Klana, e cioè secondo 
l’ubicazione delle scuole elementari (in lingua slovena o croata, ndr) al tempo 
dell’Austria: quei villaggi nei quali funzionavano scuole croate dovevano appar- 
tenere alla Croazia, e quelli in cui funzionavano scuole slovene, alla Slovenia. 

Ma, almeno in quell’incontro, l'argomento non fu approfondito. A noi interes- 
savano di più le informazioni di cui disponevano i compagni sloveni sulle truppe 
tedesche e sui loro movimenti nell’Italia settentrionale o sulle possibilità di 
un'offensiva tedesca diretta contro di noi (...) 

La questione che qui ci interessa maggiormente è quella delle foibe o meglio: 
sapere quale fosse l’atmosfera dominante nel periodo in cui si verificarono gli 
infoibamenti. Dagli appunti di Dimini}, che fino a quel momento era stato presso 
il Comando della XIII Divisione partigiana operante alle spalle di Susak — Fiume, 
si può capire infatti quale fu l'atteggiamento dei comandi partigiani e del PC croato 
verso gli italiani istriani e se i fatti di sangue che videro fra le vittime anche gli 
italiani furono o meno la conseguenza di un piano, di un orientamento politico 
oppure no. 

Dusan Diminié passò in Istria il 14 settembre insieme a Ljubo Drndié che, già 
operante in Istria, era venuto a SuSak per stampare dei grandi manifesti nei quali 
si annunciava la liberazione dell’Istria e la sua unione alla Croazia ed alla 
Jugoslavia. Fecero il viaggio in automobile. Passando per Klana, arrivarono a 
Gumanac, dove il dirigente partigiano annotò: La situazione in Istria in questo 
momento, qui nessuno la conosce veramente. A Gumanac c’è ancora il presidio 
militare italiano che ignora quale sarà il suo destino. I soldati vorrebbero andar- 
sene a casa, ma non sanno come, temono di essere catturati dai tedeschi. Parliamo 


242 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 


col loro comandante, non ricordo quale grado avesse, e stabiliamo un termine 
entro il quale deve evacuare Gumanac consegnando a noi tutti i magazzini di armi. 
Egli promette di farlo. Torniamo indietro. C’imbattiamo in un ufficiale italiano che 
è passato dalla nostra parte e si è già distinto nella lotta contro i tedeschi. Un suo 
compagno è caduto proprio qualche giorno addietro in uno scontro ed oggi si 
fanno i suoi funerali. 


La “prima” fucilazione 


In serata, sempre a Gumanac, dove era stata costituita una base partigiana, 
vennero portate due persone in stato di arresto. Erano ambedue italiani. Uno fu 
subito riconosciuto da Diminid: si tratta di un soldato che due mesi addietro ha 
abbandonato le posizioni nei pressi di Brinje e si è unito a noi; è stato arrestato 
per sbaglio. L’altro è un civile, che i partigiani hanno arrestato sulla strada che 
da Trieste porta a Fiume; viene accusato di aver trasportato armi ai fascisti 
fiumani. Mentre il primo venne rilasciato libero, il secondo fu trascinato di fronte 
a un improvvisato tribunale popolare: // tribunale è composto dalla compagna 
Dina (Zlatié), da un ufficiale italiano, dal compagno Martin Car, nostro ufficiale 
informatore, e da me. Il reato commesso dall’italiano viene provato e noi lo 
condanniamo a morte. La sentenza non fu resa pubblica per non provocare una 
brutta impressione fra i soldati italiani e fu eseguita in segreto. Alle sentinelle fu 
ordinato di eseguirla nei dintorni del paese. 

Nel prosieguo del brano (pp. 8-9) Diminié dice di aver chiesto ai partigiani del 
posto se era stata già eseguita qualche condanna in quel luogo prima di questa; 
gli risposero negativamente, perchè la situazione non lo aveva permesso, e perchè 
la cosa non sarebbe stata gradita dalla popolazione. Commento del Diminié: 
Dubito che abbiano detto la verità! 

Intanto un corriere arrivato dall’interno dell'Istria comunicò che Pisino, Pin- 
guente, Bogliuno, Lupogliano ed altre località erano in mano ai partigiani, sulla 
strada Buie-Pola era stata disarmata una colonna di artiglieri e carristi ... Diminié 
e Drndid ripresero il viaggio, entusiasti, passando per villaggi addobbati di tricolori 
croati e striscioni rossi. Saranno seguiti da un battaglione partigiano. Tutto il 
popolo è in piedi. 

Per un bel tratto l’auto corre sulla camionabile Fiume-Trieste, si vedono tracce 
del passaggio di carri armati tedeschi. Presso Obrovo, Diminié, Drndié e il corriere 
s’inoltrano per le campagne, distribuendo ovunque i volantini dell’ “annessione” 
dell’Istria alla Croazia. 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 


“ERE E Ren. 
CITTADINI DI PARENZO ! 


Dopo un mese di tragiche vicende e di 
ansie angosciose, sono state ricupergate - in una 
foiba abissale di Albona - le salme di parecchi 
nostri fratelli barbaramente trucidati da criminali 
senza scrupoli. 


La gravità dell'ora che attraversiamo non 
consente recriminazioni, né propositi di vendetta, 
ma impone la più assoluta disciplina e la con- 
cordia di tutti gli spiriti interessati al bene del 
paese e della Patria. 

Piangiamo pertanto i nostri caduti, ono- 
riamoli degnamente, custodendone nel cuore la 
memoria e la fede ed attendiamo fiduciosi che la 
Divina Provvidenza compia il suo disegno. 

Il sacrificio dei nostri martiri, rei soltanto 
di essere italiani, aggiunge un titolo di nobiltà 
alle tradizioni del nostro paese e consacra defini» 
tivamente l'italianità di questa terra, invano con- 
tesa. dal secolare nemico! 


Parenzo, 28 ottobre 1943 


Il Gomitato di Salute Pubblica 


, 


" 


Manifesto del Comitato di Salute Pubblica di Parenzo del 26 ottobre 1943 


243 


244 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 


Incontriamo anche gruppi di soldati italiani che tornano in Italia prendendo 
strade secondarie per paura dei tedeschi. Hanno un aspetto miserevole. Ufficiali 
e soldati camminano senza alcun ordine (...) Ci infiliamo e corriamo fra le file 
italiane. Alcuni reparti italiani sono riusciti a conservare una parte delle armi, ma 
ora la gente li disarma, ed essi consegnano le armi senza opporre resistenza. 

Dopo una breve sosta a Lupogliano, dove funzionava un Comando partigiano 
raccogliticcio, i tre raggiunsero Pisino dove aveva sede il Comando generale 
partigiano dell'Istria. Ovunque, strada facendo, il quadro è sempre quello: entu- 
siasmo, addobbi, molti uomini armati, riscaldati dal vino. A Pisino, sulla sede del 
comando partigiano, sventolava la bandiera croata. Il 15 settembre si riunirono i 
componenti di un provvisorio Comitato regionale del Partito comunista croato per 
l’Istria, formato da istriani croati per molti anni vissuti fuori dell’Istria: Silvio 
Milenié, Ljubo Drndié, Dusan Diminié, Vlado Juritié, Ivan Motika. Il comando 
militare, invece, era formato da Viktor Dobrila, sloveno, comandante; Ivan Motika, 
vicecomandante; Silvo Milenié, commissario politico; Franjo Segulin, sloveno, 
vicecommissario; ufficiali operativi Josip Matas, Franjo Jurisevié e Vlado JuridiC. 
Furono decise misure per la mobilitazione di partigiani e alcune azioni militari da 
intraprendere. Fu stampato un volantino nel quale c’è un solo accenno alla presenza 
degli Italiani in Istria: Si garantiscono i diritti nazionali degli Italiani. Vennero 
infine proposti 21 nominativi per formare il comitato regionale del Fronte popolare 
di liberazione per l’Istria, con alla testa Ivan Motika. Ne facevano parte anche due 
preti, ma nessun italiano. 


Retate di fascisti 


Tra varie altre cose, Diminié apprese, e annotò nel diario, di diversi scontri 
avvenuti fra gruppi di partigiani e tedeschi in Istria: presso Gimino catturati 13 
soldati germanici, altri tre uccisi e due feriti in combattimento; tre tedeschi caduti 
in uno scontro presso Levade nella Valle del Quieto, catturato un loro automezzo 
pesante; 23 civili massacrati presso Canfanaro e alcuni altri impiccati dai tedeschi 
uniti alla milizia fascista, incendiate tre case. A queste note Diminié aggiunse: Nel 
carcere di Pisino sono stati rinchiusi fascisti provenienti da varie località. Il 19 
settembre è arrivato dalla Jugoslavia il promesso battaglione (partigiano, ndr) 
comandato da Niko Tatalovit, commissario Stjenka. 

A Lupogliano il reparto divenne brigata con quattro battaglioni in seguito 
all’immissione di combattenti istriani. Il secondo battaglione era composto da 200 
combattenti di Albona, quasi tutti italiani. Anche da Trieste sono arrivati nuovi 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 245 


combattenti, Sloveni e Italiani. Il comandante del battaglione triestino è Zoll 
Giovanni Franzoni, friulano. 

Torniamo alla frase dei fascisti portati a Pisino da varie località dell’Istria e 
rinchiusi nel carcere del Castello dei Montecuccoli. In una rivoluzione antifascista, 
che al tempo stesso era guerra di liberazione, era logico che i combattenti antifa- 
scisti cercassero di mettere i fascisti fuori combattimento. E in Istria, purtroppo, i 
caporioni fascisti — sui quali si riversò la rabbia dei contadini insorti — erano in 
maggioranza italiani. Insieme a loro finirono in carcere alcune persone che di 
fascista avevano soltanto la tessera del PNF. Quello dei fascisti, però, non fu 
l’unico problema di fronte al quale vennero a trovarsi i capi degli insorti e, ancor 
più, gli emissari del Partito comunista jugoslavo scelti in maggioranza fra gli 
istriani emigrati in Jugoslavia a cominciare dagli anni Venti per sfuggire alle 
persecuzioni fasciste. Tornavano ora in Istria anche con il loro carico di rancori 
personali e con una scarsa conoscenza della situazione. Per troppi anni erano 
vissuti al di là dei confini. C'era poi il non facile rapporto con i comunisti istriani 
aderenti al PC d’Italia, i quali — decisissimi a battersi contro gli occupatori tedeschi 
e contro i fascisti, come dimostrarono in quegli stessi giorni — erano però restii a 
cedere alla pretesa degli emissari croati e sloveni di sciogliere le organizzazioni del 
PCI in Istria, di entrare a far parte del PCJ ed accettare senza discussioni la 
decisione dei comunisti slavi di annettere l’Istria alla Jugoslavia. Scrive Diminic: 
Sin dai primi giorni venne fuori la questione dei rapporti con gli Italiani. Apparve 
evidente che non tutti i compagni italiani capivano la nostra lotta di liberazione. 
Il primo col quale venni a contatto fu l’italiano albonese Aldo Negri, all’epoca 
comandante (partigiano, ndr) di Albona. Il nostro movimento non gli era chiaro 
per niente, lo considerava panslavismo. Voleva perciò lasciare il suo servizio, 
portarsi in Italia e là combattere, come disse, per il comunismo. Gli spiegai i nostri 
obiettivi e gradualmente cominciò a capire. La stessa cosa avvenne con i compagni 
italiani di Rovigno. Una cosa però era evidente: per tutti loro era difficile accet- 
tare che l’Istria non fosse più italiana, ma fosse annessa alla Jugoslavia; non 
potevano accettare che ora essi fossero soltanto una minoranza in Istria. Il loro 
partito comunista non aveva condotto una chiara politica nazionale in Istria. Essi 
non erano stati educati in tal senso, sicchè ora gli era difficile cambiare orienta- 
mento tutto d’un tratto. Da parte nostra eravamo decisissimi sostenitori dell'unio- 
ne dell’Istria alla Jugoslavia e ponemmo tale questione come condizione fonda- 
mentale per la collaborazione. Gradualmente riuscimmo a superare questo osta- 
colo e ponemmo la collaborazione su buone basi. 

Questa collaborazione non fu sempre sincera da parte croata e slovena, come 
dimostra, tra numerosi altri, il “caso” di Albona. Disponiamo, in proposito, della 


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testimonianza del dott. Mauro Sfecci, che fu stretto collaboratore di Aldo Negri”. 
Accennando all’arrivo in Istria dalla Jugoslavia di alcuni esponenti del PC croato 
che cercavano di imporre ai comunisti italiani della penisola la loro linea annessio- 
nistica e nazionalistica, Sfecci definisce “difficile” la situazione venuta a crearsi 
nel territorio. Decidemmo di salvare il salvabile per non far soccombere la 
popolazione italiana. Quindi, ricordando che fin dai primi giorni dell’insurrezione 
si erano verificati incresciosi incidenti a causa di non pochi avventurieri (...) che 
cercavano di imporsi dappertutto, Negri, Sfecci e Caserio Crevatin decisero di 
recarsi a Pisino dove si trovavano tutti gli organismi principali dell’insurrezione. 
Volevano chiarire la situazione che stava sfuggendo dalle mani del movimento. 
Ci incontrammo con Dusan Diminit, mio cugino per parte materna, giunto 
proprio allora dalla Croazia. Cercammo di appianare i contrasti e denunciammo 
il comportamento di certi personaggi che nell’ Albonese, armi alla mano, facevano 
il bello e brutto tempo. Uno di questi personaggi, il più facinoroso, era Matteo 
Stemberga, nativo di Arsia, noto contrabbandiere, il quale — vantando torti subiti 
sotto il fascismo — andava in giro ad arrestare arbitrariamente fascisti e “fascisti”, 
arrogandosi il diritto di fare giustizia sommaria. Si era autoproclamato capo della 
polizia. Fra le sue numerose bravate ci fu quella di imporre al prof. Caputo di 
inneggiare a Stalin, minacciandolo con la pistola. Un'altra volta proprio io — 
racconta il dott. Sfecci — riuscii a fermarlo mentre tentava di fustigare un certo 
Eugenio Schira, che a suo dire si sarebbe appropriato delle sue mucche quando fu 
costretto a fuggire in bosco. Invece lo Schira era riuscito a salvare le bestie rimaste 
abbandonate. Più tardi, aiutato anche da altri individui del suo stesso stampo, 
compì efferati delitti. Nell’incontro con Diminié fu pertanto deciso di nominare 
Aldo Negri comandante del Presidio partigiano di Albona ai cui ordini tutti 
avrebbero dovuto sottostare. Fu un bene, perchè Negri — continua la dichiarazione 
del dott. Sfecci — riuscì a liberare dal carcere di Albona numerosi italiani della 
città e dintorni che erano stati abusivamente incarcerati. Ricordo che ad Albona 
era stato istituito una specie di tribunale composto dai principali dirigenti antifa- 
scisti dall’Albonese, nel tentativo di mettere ordine nel caos generale e di frenare 
i più facinorosi che erano intenzionati, invece, a compiere delle vere stragi. So che 
nel carcere erano rinchiuse un centinaio di persone, per lo più innocenti. Da parte 
del tribunale ne furono condannate non più di sedici, tra cui diversi fascisti di 
Arsia. Ma Stemberga e i suoi seguaci, che avevano costituito un gruppo di armati 


20 Da una raccolta inedita, di prossima pubblicazione, di testimonianze raccolte per il Centro di Ricerche 
Storiche di Rovigno da Luciano Giuricin. Quella di Sfecci è stata messa a mia disposizione dallo stesso Giuricin 
che già ne ha pubblicato una sintesi nei Quaderni, vol. XI (1997), pp. 103-104. 


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albonesi sotto il suo comando, appena vennero a sapere della cosa si precipitarono ad 
Albona, catturarono nuovamente tutte le persone che in precedenza avevano arrestato 
e che il tribunale aveva rilasciato, scontrandosi con lo stesso Aldo Negri che fu 
minacciato di essere fatto fuori con le armi se avesse continuato ad opporsi a quei 
facinorosi armati. So che poi molti di quelle persone arrestate da Stemberga furono 
gettate nelle foibe di Vines e di altre località, altri fucilati a Santa Marina di 
Albona e poi gettati in fondo al mare. Da quanto potemmo appurare, furono 
liquidate 94 persone, fra cui l’ing. Bruno Bidoli, segretario del PNF di Albona. Il 
segretario della sezione albonese del PCI Lelio Zustovich e qualche altro che condan- 
narono duramente quelle barbarie, subiranno le conseguenze di questo atteggiamento. 
E questo dimostra quanto falsa fosse la “volontà di collaborazione” con gli antifascisti 
italiani degli esponenti del PC croato in Istria e sulla questione istriana. 

Dalla sponda opposta, in segno di riconoscenza per gli sforzi compiuti da 
Negri, Sfecci ed altri dirigenti partigiani italiani albonesi per salvare il maggior 
numero possibile di conterranei e concittadini, fascisti sì ma non criminali, dall’or- 
ribile fine delle foibe, la stampa repubblichina fascista li premiò denunciando 
all’opinione pubblica come responsabili delle stragi l'avvocato Dante Vorano, 
comandante civile, il dottor Aldo Negri, comandante militare e il dottor veterinario 
Antonio (Mauro) Sfecci, aiutante del Negri. L’opuscolo nel quale fu lanciata 
questa denuncia era intitolato Ecco il conto e fu diffuso in tutta la Venezia Giulia 
nell’autunno 1943, fornendo materiale ai vari “storici” vetero e neofascisti italiani, 
alla Luigi Papo, per rilanciare a decenni di distanza i medesimi contenuti di 
quell’opuscolo e di altri scritti del nazifascismo di guerra contro “l’opera degli 
aguzzini rossi” Negri e compagni. Contemporaneamente, per circa mezzo secolo, 
la “storiografia” jugoslava ha calunniato quei generosi comunisti istriani che si 
batterono contro i nazifascisti ma anche contro quei compagni croati che, imbevuti 
di odio nazionalistico, resero dura la loro vita e addirittura gliela tolsero già nel 
corso della lotta di liberazione. Tanto è vero che nel corso del 1944, quando era 
ormai certa la sconfitta del nazifascismo e tornò a galla la questione dei futuri 
confini fra Italia e Jugoslavia, la polemica fra i comunisti italiani e slavi nella 
Venezia Giulia si riaccese e, uno dopo l’altro, furono uccisi “in agguati fascisti” o 
in “scontri con i tedeschi”, i massimi esponenti del PCI e del movimento partigiano 
di nazionalità italiana in Istria e nella Venezia Giulia: Pino Budicin, Augusto Ferri, 
Aldo Negri, Aldo Rismondo, Lelio Zustovich, Gigante, Frausin ed altri; fu impe- 
dita la costituzione di una brigata partigiana italiana; fu eliminato dall’Istria 
nord-occidentale il battaglione italiano “Alma Vivoda”, gran parte dei partigiani 
italiani istriani furono disseminati in unità croate lontanissime dall’Istria: dal 
Gorski Kotar alla regione di Karlovac e altrove. 


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Punto sesto: cacciare gli immigrati 


Il 24 settembre arrivarono in Istria il comandante e il commissario del neoco- 
stituito “Comando operativo per l’Istria” che assunse la direzione militare dell’in- 
surrezione popolare. All’epoca le brigate partigiane istriane erano già due, più 
distaccamenti sparsi. Fra i compiti della prima brigata, stando al Dimini6, c’era 
quello di organizzare l’amministrazione militare di Rovigno, a causa dei dissidi 
scoppiati con i compagni italiani in città. Ai dirigenti del PC croato non piaceva il 
“Comitato di salute pubblica” costituitosi a Rovigno all’indomani dell’ 8 settembre. 
Il Comando operativo per l’Istria, inoltre, si sforzò subito di organizzare commis- 
sioni d’inchiesta con il compito di accertare con procedimenti d’urgenza le colpe 
dei fascisti arrestati, che successivamente furono consegnati al Tribunale militare. 
Purtroppo, l’operato di quelle commissioni fu scadente. Diminié non spiega in che 
senso, ma pare rammaricarsi dello scarso numero di arrestati. 

Il 26 settembre, a Pisino, nella riunione del Comitato regionale di liberazione 
per l’Istria, fu convalidato l’”’atto di annessione dell’Istria alla Jugoslavia” del 13 
settembre e fu diffuso un proclama nel quale, tra l’altro, si leggeva: 

Gli Italiani in Istria godranno di tutti i diritti nazionali (punto 5) e Gli Italiani 
che si sono insediati in Istria dopo il 1918 allo scopo di snazionalizzare il nostro 
popolo dovranno andarsene dall’Istria (punto 6). 

Anche da questo Comitato, costituito con funzioni di governo civile, con un 
presidente, un vicepresidente, un segretario e sei assessori (istruzione, sanità, 
propaganda amministrazione e magistratura, economia, affari religiosi) gli italiani 
furono tenuti fuori. Ma su questo particolare presto torneremo. 

Nel suo notes, Dusan Diminié annotò in quell’epoca: Sono ancora numerosi 
gli ufficiali e soldati italiani che si aggirano per l’Istria e rappresentano un 
pericolo di spionaggio. La (nostra) direzione ha perciò deciso che tutti gli ufficiali 
e soldati italiani verranno spediti in Italia attraverso il (nostro) Comando di Tappa 
di Lupogliano. 

Accennò poi al fatto che in alcune località, varie persone non identificate, 
spesso anche fascisti, si sono autonominate comandanti di posto, distribuendo 
armi a fascisti, sabotando gli ordini (partigiani). A questo stato di cose bisogna 
metter subito fine, ma è molto difficile. E più avanti: A Buie, stando alle notizie, il 
Comando Città è stato assunto dal comandante dei fascisti e dal suo sostituto, 
mentre a Umago dal comunista italiano (Vittorio) Poccecai (...) Pertanto è stato 
deciso che il comando di Umago venga affidato ad Ante Babié, più fidato in quanto 
croato, mentre non si fece nulla per rimuovere da Buie i comandanti definiti 
“fascisti”! 


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Davano fastidio anche i comunisti italiani di Rovigno: La questione di Rovi- 
gno è ancor sempre all’ordine del giorno. La cosa è particolarmente importante 
essendo questa la maggiore città da noi amministrata nella quale vivono gli 
Italiani. Nella riunione con i compagni italiani è stato costituito il “Comando 
militare di Rovigno”: comandante Giusto Massarotto, operaio, aiutante Anton 
Bujovac, operaio, Armando Valente, impiegato e Silvano Rocco, studente. Con ciò 
ha cessato di esistere la nostra amministrazione militare provvisoria a Rovigno. 
Nella nuova c’era un croato, perciò andava meglio. 

Fornendo spiegazioni sulle cose annotate nel diario nel settembre-ottobre 
1943, nel suo libro del 1986 Diminié commenta a suo modo la situazione istriana 
nel periodo successivo al 1919, affermando che /a resistenza cosciente all’italia- 
nizzazione in Istria fu opposta da rari individui, per lo più nelle file dei contadini 
ricchi e mediamente benestanti ai quali si aggiungevano singoli operai, artigiani e 
intellettuali, maestri elementari ed altri che operarono nei limiti del possibile 
contro la snazionalizzazione. La coscienza nazionale croata fu sostenuta pure da 
molti preti croati che erano quasi gli unici intellettuali rimasti col loro popolo. 

Per quanto riguarda i comunisti, i compagni che trovai a Pisino, gli organiz- 
zatori del movimento (partigiano) erano istriani ex emigranti vissuti in Croazia. 
Tutto sommato, il Partito comunista croato e il Movimento di liberazione croato in 
Istria facevano leva soprattutto sul sentimento nazionale. Nella loro opera furono 
facilitati dallo sfacelo totale delle strutture statali e militari italiane nella regione 
dopo 1’8 settembre 1943: 

I presidi italiani nella maggiorparte delle località istriane si sono sfasciati da 
soli, è bastata solo una piccola pressione, anche da parte della popolazione non 
organizzata. I soldati italiani in quei presidi sentivano di stare in un paese 
straniero, sommersi da una popolazione di lingua straniera che li considera 
indesiderabili. Volevano tornare a casa, nelle loro regioni, nel loro Paese. Scom- 
parse queste guarnigioni, hanno cessato di operare anche il potere, l’amministra- 
zione e la magistratura italiane, perchè corpi estranei (...) 


Scontri con i comunisti italiani 


Pur adoperando terminologie e stereotipi comunisti, e rilevando che i pochis- 
simi comunisti croati in Istria operavano in direzione dell’attuazione della fratel- 
lanza con la popolazione italiana in Istria, Diminié esprime a questo punto quello 
che fu sempre l’obiettivo del PC croato: l’unione (degli istriani) con il popolo 
croato in Croazia e in Jugoslavia. 


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Ma qui si scontrava con le posizioni diametralmente opposte dei comunisti 
istriani di nazionalità italiana. 

Questi “compagni” non erano “pochissimi” come i croati, le organizzazioni 
del Partito comunista d’Italia operavano in varie zone, ad esempio a Rovigno, 
Pola, Albona. Molti dei loro dirigenti erano finiti in prigione, è vero, e tuttavia a 
Rovigno ed Albona quelle organizzazioni erano riuscite a mettere in movimento il 
popolo ed organizzare il potere popolare. Ciononostante l’ esponente del PC croato 
criticò duramente il fatto che essi fossero sostenuti esclusivamente dalle aspirazio- 
ni classiste e non gli erano chiari gli obiettivi del movimento di liberazione 
nazionale della Jugoslavia. In realtà gli italiani si rendevano benissimo conto di 
quali fossero gli obiettivi dei compagni slavi, e li respingevano, supponendo che si 
trattasse di un movimento nazionalista che non aveva molto in comune con il 
comunismo. Diminié non risparmiò neppure quei comunisti croati istriani, rimasti 
sulla loro terra anche sotto il fascismo, legati alla linea internazionalista dal 
movimento operaio, come, ad esempio, i minatori del bacino carbonifero di 
Arsia-Albona che operavano nelle file del PC d’Italia. 

Diminié prende concretamente di mira, nelle sue memorie, Silvo Milenit-Lo- 
vro, castuano, primo delegato in Istria del Comitato centrale del PC croato, 
accusandolo di deviazionismo per il suo atteggiamento antinazionalista! 

Riprendendo a sfogliare il notes dei tempi di guerra Diminié ricorda che nella 
seconda metà di settembre 1943 visitò la zona di Albona, sua terra di origine, 
prendendo contatti con gli esponenti del PC italiano della zona Antonio Goglia, 
Lelio Zustovich e Nino Bassani-Bassanich di Vines. L’Albonese in quei giorni era 
tutto in piedi, dapperttutto uno sventolio di bandiere rosse, e tutti erano allineati 
con il Partito comunista italiano, cosa che mandò in bestia il Diminié. Anzi, ad 
irritarlo non furono tanto le bandiere rosse quanto il fatto che non sventolavano 
bandiere croate e che a guidare il movimento antifascista era Lelio Zustovich, 
italiano, capo dei comunisti di Albona e che non vi fosse nella stessa zona 
un’organizzazione croata, sicchè i comunisti croati del bacino carbonifero subiva- 
no l’influenza proprio del segretario dell’organizzazione comunista di Albona 
Lelio Zustovich e del Partito comunista italiano. 


Saldati i conti in sospeso. Come? 
Richiama il nostro particolare interesse un’annotazione a pag.25 del diario di 


Diminié, là dove scrive: Ad Albona abitavano una mia zia, sorella di mia madre, 
e suo marito, un commerciante italiano del posto, per cui andai a fargli visita nella 


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casa in cui sono nato (...) Ad Albona non potei fare a meno di interessarmi alla 
sorte toccata a due fascisti che in tempi passati si distinsero in un’aggressione 
fisica contro mio padre. Portavo dentro di me i loro nomi da quando li avevo 
sentito nominare in casa mia. Seppi che si trovavano in carcere, perchè anche altre 
persone avevano dei grossi conti in sospeso con loro. 

E più avanti, nella stessa pagina: la capitolazione italiana e lo sfacelo 
dell’esercito e della polizia furono così improvvisi che molti caporioni fascisti, 
distintisi nel perseguitare il popolo durante l’intero periodo del governo italiano, 
non riuscirono a nascondersi e sfuggire alla rabbia e alla vendetta popolare, 
sicchè furono arrestati e quasi tutti trasferiti nel carcere di Pisino. Ovviamente, 
erano fascisti italiani, ma con loro c'erano anche croati italianizzati. Per me erano 
degli sconosciuti, ma la gente del posto li conosceva molto bene. E furono proprio 
gli abitanti del luogo a decidere chi bisognava arrestare. Una parte degli arrestati 
vennero fucilati. In alcune località ci furono anche maltrattamenti e inutili vendet- 
te compiute da uomini che avevano sofferto le persecuzioni e vessazioni dei 
fascisti. 

Nel torturare i fascisti si distinse un compagno il cui fratello ed alcuni altri 
membri della famiglia erano stati uccisi dai fascisti. Mi raccontano che costui 
soleva spesso comparire sulla piazza armato di uno scudiscio per terrorizzare i 
signori fascisti italiani. Ormai si era avviato sulla strada della deformazione 
psichica, stava per trasformarsi in un sadista, al punto che i suoi stessi compagni 
furono costretti a condannarlo a morte, ed avrebbero eseguito la sentenza se non 
fosse stato ucciso immediatamente dopo l'offensiva tedesca in Istria. Ebbi l’occa- 
sione di incontrare quest'uomo a Pisino e potei rendermi conto ancora una volta, 
sul suo esempio, in che misura la guerra e i suoi orrori possono trasformare le 
persone, farne dei mostri; stimolare in essi il senso della solidarietà umana, il 
coraggio, lo spirito di sacrificio, ma anche tutte quelle passioni negative e bassi 
istinti che dormono nell’uomo. Anche in altre zone (dell’Istria) ci furono singoli 
individui che ritennero fosse arrivato il momento di saldare i conti con i fascisti. 

L’uomo, anzi il “compagno” che “stava per trasformarsi in un sadista” è fuori 
ogni dubbio Matteo Stemberga che il quotidiano “Il Piccolo” di Trieste, nella sua 
edizione del 6 novembre 1943 definì “uno dei più feroci massacratori”, fornendo 
la notizia della sua fortuita uccisione avvenuta durante un’operazione di rastrella- 
mento, in località Carbune, condotta da un reparto di Camicie Nere al comando del 
tenente Corrado Casella e in seguito a una spiata di tale Francesco Mizzan. Indicato 
come uno dei maggiori responsabili delle deportazioni, dell’assassinio dei fratelli 
Giovanni e Umberto Gasparini, nonché di minacce di morte alla loro madre, infine 
degli infoibamenti di Vines, lo Stemberga fu scoperto nella canna fumaria di una 


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casa e ucciso da una raffica sparata dal caposquadra camicia nera Dante Gasparini, 
fratello dei due trucidati. Giunse alla scoperta dello Stemberga dopo aver minac- 
ciato di fucilare la fidanzata di quel “partigiano”. 

Naturalmente anche questi casi di efferate vendette personali vennero già 
all’epoca attribuite dai giornali fascisti al bestiale odio balcanico contro tutto ciò 
che sa di italiano, senza spiegare come fosse possibile distinguere dai nomi e 
cognomi il carnefice slavo dalla vittima italiana, perchè erano italianissimi Arnaldo 
Harzarich, maresciallo dei Vigili del Fuoco che comandava la squadra di recupero 
delle salme degli infoibati o il confidente fascista Mizzan (italianizzazione di 
Mican) e slavo-comunista Matteo Stemberga, che tra gli altri aveva fatto fuori la 
propria croatissima cognata. 

Quanto successo ad Albona su scala piuttosto estesa si ripetè a Rovigno e 
dintorni, a Pisino, nel Parentino e nella Bassa Istria. Ne furono esclusi, invece, oltre 
alla città di Pola, le cittadine e borgate di Dignano, Sissano, Gallesano e Valle, tutte 
esclusivamente abitate allora da italiani, e parzialmente Buie, Umago, Cittanova e 
loro dintorni, Pirano, Isola d'Istria, Capodistria e dintorni. 

Nell’area parentina, dove il comando delle forze insurrezionali fu egemoniz- 
zato da Bozo Kaléié, croato, membro dell’ Esecutivo regionale del PCC dell'Istria, 
costui si vanterà molti anni dopo la fine della guerra di aver fatto arrestare e 
liquidare ottantadue fascisti, controbilanciando le prime 83 vittime dell’insurrezio- 
ne cadute al bivio di Tizzano. Gli arrestati furono inviati a Pisino e lì finirono nella 
foiba. Del gruppo faceva parte il comandante del presidio militare di Parenzo, 
colonnello Baraia”'. 

Tutti i fascisti ed altri ritenuti tali, arrestati dagli insorti fra il 9 e il 22 settembre 
nel Capodistriano (Capodistria, Decani, Maresego), italiani e sloveni, fra cui il 
comandante della MVSN, il segretario dei sindacati fascisti, il segretario comunale 
ed altri, furono rinchiusi nel carcere di Pinguente. Qui vennero a trovarsi comples- 
sivamente un centinaio di persone, contando anche ventinove fascisti dell’area di 
Buie, fra i quali il segretario del PNF Stefano Stefani, il podestà, un maestro 
elementare, diversi impiegati, molti commercianti e possidenti terrieri, ma anche 
semplici lavoratori. Nel Buiese i responsabili degli arresti furono Anton Klun che 
nel dopoguerra fu il capo locale dell’ Udba, e Antonio Gorian. Tutti i prigionieri 
rinchiusi a Pinguente furono poi liberati. Così come vennero liberati a Canfanaro 
una decina di persone del posto (prese il 14 furono rilasciate il 16 settembre) che 
erano state arrestate per ordine del locale comitato partigiano formato da Silvio 


2! B. KALCIC, Zbornik Pazinski Memorijal, vol.12 (1983), p.211; cfr. L. GIURICIN, “Il settembre °43 in 
Istria e a Fiume”, Quaderni, vol. XI (1997), p.107. 


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Rossanda, Ernesto Poldrugo (già Poldrugovac) e Pietro Ruggero, quest’ultimo 
sergente dell’esercito italiano passato con gli insorti. Tornarono così liberi, fra gli 
altri, l’ex segretario del fascio, il podestà, il segretario comunale, l’ufficiale della 
Posta e un commerciante”, 

Successe pure che venissero arrestati alcuni insorti/partigiani sorpresi ad 
arrestare e depredare persone innocenti. Ecco una testimonianza, riferita da Lucia- 
no Giuricin, rilasciata da Vinko Justinéié che nel settembre 1943 era il comandante 
partigiano della zona di Montona: il 25 settembre venne avvisato da persone della 
località di Levade che quattro uomini armati, non del luogo, avevano fatto irruzio- 
ne nel negozio del commerciante Gustinelli, arrestandolo con tutta la sua famiglia 
e rapinandolo. Giunto sul posto con un gruppo di partigiani armati, Justinéié arrestò 
i quattro che, interrogati, si dichiararono: uno, vicecomandante del presidio parti- 
giano di Parenzo, un altro partigiano di Visinada, un terzo partigiano di Parenzo, 
un quarto autista personale del “comandante partigiano dell’Istria” Ivan Motika, ed 
era vero. Tutti e quattro dichiararono di aver avuto l’ordine di ammazzare il 
Gustinelli e i suoi familiari, sequestrandone i beni, perchè fascista, possidente e 
capitalista. Justinéié liberò il “fascista”, arrestò i quattro che avevano cercato di 
ammazzarlo e ritenendoli dei rapinatori li affidò al carcere di Montona. Alcuni 
giorni dopo arrivò Bozo Kaltié e fece liberare i quattro “bravi compagni”. 

Il fenomeno delle liquidazioni sommarie fu totalmente sconosciuto infine sul 
lembo della costa orientale che si specchia nel Golfo di Fiume, da Laurana ad 
Abbazia e Volosca dove prima dell’arrivo dei tedeschi il potere fu esercitato da 
esponenti partigiani in collaborazione con ufficiali dell’esercito italiano. 

In un Promemoria del 4 ottobre 1943 inviato al Ministero degli Esteri del 
cosiddetto “Stato Indipendente di Croazia” dal dott. Oskar Turina, nominato dal 
“duce” ustascia croato Capo della Direzione Civile di Susak-Fiume subito dopo 
l'occupazione tedesca della ex Provincia del Carnaro, si legge una cronologia dei 
fatti avvenuti dall’8 al 29 settembre 1943 nella zona di Susak, Fiume, Istria e 
Litorale croato. Il Turina, giunto a Fiume il 12 settembre, fu testimone diretto di 
molti degli eventi successivi a quella data. Il 13 settembre, scrive, gruppi di giovani 
istriani locali di Ica, Abbazia, Laurana, venuti in possesso delle armi italiane, si 
sono armati e con coccarde rosse sul petto, hanno cominciato a mantenere l’ordine 
in quelle località, allo scopo di impedire atti di saccheggi da parte dei soldati 
italiani che, disarmati, transitavano in gran numero per quelle località ritirandosi 


22 L. GIURICIN, “Il settembre...”, Op. cit. 


23 V. JURINCIG, Zbornik Pazinski Memorijal, op. cit., pp. 251-252. Cfr. L. GIURICIN, “Il settembre...”, 
op.cit., p.107. 


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(verso l’Italia), ed allo scopo altresì di liberare l’Istria dall’occupazione fascista 
italiana. Mi sono messo subito in contatto con alcune eminenti ed anziane persone 
di quei paesi, in particolare con l’avvocato Mandic, cercando di convincerli della 
necessità di imprimere all’intero movimento di quei giovani l’impronta nazionale 
croata. Mi hanno ascoltato ed hanno preso in mano la guida di questi “partigiani” 
locali precedendo i veri partigiani. Successivamente il Comando tedesco della 
Provincia inviò anche ad Abbazia, Laurana eccetera reparti di camicie nere italia- 
ne, e ciò d’intesa col generale Gambara postosi ai loro ordini a Fiume, destando le 
proteste dell’alto funzionario del governo ustascia di Zagabria. Il quale, al momen- 
to di andarsene da Fiume e Su$ak all’inizio di ottobre, scrisse nel Promemoria: / 
fascisti italiani, negli ultimi giorni, hanno cominciato a rispondere alla reazione 
popolare incendiando case e uccidendo la gente nei villaggi intorno ad Abbazia e 
Castua. Dal che si vede che, comunisti o ustascia che fossero, i croati erano uniti 
nello spirito nazionalista, mentre i fascisti italiani tornavano ad applicare i soliti 
metodi del terrore. 


Le commissioni d’inchiesta 


Tornando alla testimonianza di Diminié, leggiamo (pag.26) che in varie 
località dell’Istria furono costituite commissioni d’inchiesta incaricate di indagare 
sull’operato dei fascisti arrestati. Queste commissioni proponevano la condanna a 
morte mediante fucilazione per i crimini più gravi, ma quante furono le sentenze 
capitali eseguite fino all’offensiva tedesca in Istria, è difficile dirlo. Perchè imme- 
diatamente prima dell’arrivo dei tedeschi, le sentenze furono eseguite con proce- 
dimenti sommari. Non esistono verbali delle fucilazioni. Diminié spiega il perchè: 
Si poneva il quesito: che cosa succederà se molti fascisti, liberati dal carcere 
(partigiano) passeranno al servizio dei tedeschi? Sarebbe tornata l’epoca del 
terrore squadristico, sarebbero cadute le teste di molte persone. In una riunione 
dei dirigenti (del Movimento di liberazione) svoltasi ad Albona alla vigilia dell’ar- 
rivo dei tedeschi, ci sforzammo di giungere a una decisione su questo problema. Il 
Comandante della città, Aldo Negri, era titubante; propose che i fascisti fossero 
liberati, ritenendo che essi si sarebbero passivizzati. Invece prevalse l’opinione 
opposta: fucilare i caporioni fascisti maggiormente distintisi nelle persecuzioni, 
altrimenti essi sarebbero passati al servizio dei tedeschi, vendicandosi e provocan- 
do altre, numerose vittime. La medesima decisione fu presa anche a Pisino alla 
vigilia dell’arrivo dei tedeschi (inizio di ottobre, G.S.). In qualche (altro) luogo i 
fascisti furono rimessi in libertà e proprio in quelle zone, dopo l’offensiva tedesca, 


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fu più difficile che altrove operare. Perchè i fascisti al servizio dei tedeschi si 
abbandonarono alle vendette, terrorizzarono la popolazione, uccisero i nostri 
uomini, guidarono i reparti germanici fin nei villaggi più lontani, incendiando le 
case e sterminando la popolazione. 

Ma erano proprio tutti fascisti gli uomini processati sommariamente e fucilati, 
o in altri modi liquidati dai partigiani in Istria in quella seconda metà di settembre 
1943? E furono liquidati soltanto coloro i quali erano stati processati e condannati 
dalle commissioni? Diminié fornisce una risposta generica, ma non evasiva: 

Naturalmente noi stessi avevamo subito e visto troppe cose brutte per essere 
immuni al sentimento di rivalsa. Del resto non è facile tracciare una chiara linea 
di demarcazione fra ciò che in guerra è indispensabile e ciò che va al di là di queste 
necessità. Precisando che in quei giorni da Su$ak presso Fiume e dal territorio del 
Litorale croato caduto in mano ai partigiani erano fuggiti parecchi collaborazionisti 
croati che, essendosi compromessi precedentemente al servizio delle forze di 
occupazione, pensavano di potersi nascondere in Istria, sfuggendo alla meritata 
punizione. Purtroppo per loro, in questa regione (Istria) venivano ogni tanto a 
trovarsi faccia a faccia con partigiani originari proprio dal Litorale e, in tal modo, 
finirono nelle nostre prigioni. Da esse uscirono per finire nelle foibe. Uno di 
costoro, tale Kalanj, fu riconosciuto dallo stesso Diminié mentre, insieme ad alcuni 
ex agenti della polizia ustascia di Su$ak, veniva condotto dai partigiani verso il 
luogo della fucilazione. Era divenuto malfamato per le torture che infliggeva ai 
comunisti nelle celle della Questura di SuSak. C° erano però anche persone fuggite 
in Istria senza aver fatto nulla di male, per la sola paura dei partigiani. Non avevano 
pensato di trovarli anche in Istria. Queste persone furono prese nelle nostre file e 
assegnate a vari servizi. Quasi tutti restarono con noi anche in seguito. 

Diminié si rallegra pure del fatto che a un ingegnere croato arrivato da Susak 
fosse stata affidata l’intera organizzazione del cosiddetto Autoparco del Comando 
operativo. Tramite lui, Diminié riuscì ad aggiungere un po’ di “colore” nazionale 
al movimento: A Pisino arrivavano i camion, tutti senza eccezione, addobbati con 
bandiere rosse che gli autisti custodivano gelosamente. In armonia con le finalità 
del movimento nazionale di liberazione, ordinammo che ogni camion inalberasse 
anche la bandiera croata con la stella rossa. Di bandiere italiane, sia pure con la 
stella rossa, nemmeno l’ombra, a Diminié e compagni croati non erano gradite. 
Anzi, si fece di tutto per epurare dal movimento quegli antifascisti e comunisti 
italiani le cui posizioni non concordavano con quelle annessionistiche dei croati. 

Emblematica è la sorte toccata a uno dei più noti e amati comunisti istriani, il 
leggendario Lelio Zustovich. Lasciamola raccontare allo stesso Diminié, secondo 
il quale l'italiano Lelio Zustovich, segretario dell’organizzazione comunista 


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nell’Albonese, oppose resistenza fin dall’inizio al MPL promosso dal PCC, fino al 
punto di opporsi alla diffusione di volantini in lingua croata e ad altre manifesta- 
zioni di carattere croato (...). In tale situazione Lelio Zustovich non potè non 
scontrarsi con la politica del MPL, e per questa sua opposizione fu deciso di 
deportarlo, insieme con altri due compagni che lo sostenevano, nel Gorski Kotar 
dove fu condannato a una specie di domicilio coatto. Questa fu la decisione del 
Comitato circondariale. Di quale specie di “domicilio coatto” si trattasse, lo si può 
immaginare dalla successiva annotazione del Diminié: Immediatamente dopo la 
liberazione, Lelio Zustovich non fece ritorno ad Albona, per cui sua sorella mi 
pregò di indagare per sapere che fine avesse fatto. lo cercai di sapere, ma 
nonostante le ricerche non riuscii ad appurare nulla sulla sua sorte. Alla sorella 
poi dissero che era rimasto ucciso “durante un’offensiva tedesca”. 

Il tema dei difficili rapporti fra comunisti istriani aderenti al PCI, e cioè 
italiani, e quelli aderenti al PC croato ricorre praticamente in tutte le circa duecento 
pagine del libro di Dimini6. Quando io giunsi in Istria, i dibattiti con i comunisti 
italiani erano già in corso ... Con i comunisti italiani membri del PCI non era facile 
né semplice discutere. Essi accettavano la piattaforma antifascista del nostro 
movimento, ma (...) il nostro obiettivo in Istria era l’annessione dell’Istria alla 
Croazia e alla Jugoslavia, cioè il distacco dall’Italia, e su questo punto non 
accettavamo compromessi. I comunisti italiani, invece, nella loro maggioranza 
proponevano che non si discutesse e non si ponesse per ora il problema dell’an- 
nessione dell’Istria alla Jugoslavia, rinviando il problema alla fine della guerra 
nell’interesse dell’espansione del fronte antifascista fra la popolazione italiana, 
fino alla sconfitta del fascismo. Dicevano che la popolazione italiana non si 
sarebbe inserita in un movimento che si proponeva il distacco dall’Istria dall’Ita- 
lia e la sua annessione alla Jugoslavia (...) Purtroppo, quasi tutti i comunisti 
italiani più in vista, in Istria, finiranno per pagare con la vita la loro posizione 
politica. Immancabilmente saranno vittime di scontri con i tedeschi, cadranno in 
agguati tedeschi, e la stessa sorte toccherà a qualche alto esponente croato colpe- 
vole di avere preso le difese degli italiani. 

Del Comando operativo delle forze partigiane istriane, costituitosi a Pisino il 
23 settembre, entrò a far parte, qualche giorno dopo, anche Dusan Diminié che, 
insieme a Ivan Motika, nella sua nuova veste fece alcune puntate a Rovigno, 
Gimino, Parenzo ed Antignana. Fra l’altro si interessarono al lavoro dei cosiddetti 
tribunali del popolo ed alla sorte dei fascisti catturati. Veniamo così a sapere che a 
Parenzo il tribunale era composto dall'avvocato dott. Pietro Burich, da Mate Vlasié 
e Matteo Bernobich; a Gimino da Matteo Peteh e da un non meglio identificato 
Jurié; a Carnizza da Slavko Bursié, Drago Bursié e Vjeko-Gigi Skabié. Diminié 


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fornisce pure i nominativi dei comandanti militari partigiani di Rovigno (Giusto 
Massarotto), Buie (Sergio Vascotto), Umago (Vittorio Poccecai), Parenzo, Anti- 
gnana, Gimino, Canfanaro, San Pietro in Selve, Barbana, Carnizza, Valle, Sanvin- 
centi, Pinguente, Montona e Pedena, tutti croati ad eccezione dei primi tre, ma non 
quelli dei componenti dei tribunali in queste medesime località. Il che può signifi- 
care che i Comandi militari partigiani svolsero anche le funzioni di tribunali. Tra i 
nomi dei comandanti troviamo quello di Ivan Kolié di Barbana, da chi scrive 
conosciuto a Pola nel dopoguerra. Era chiamato ‘el gobeto” per la sua accentuata 
gobba su un corpo piccolo e deforme. Era noto anche per aver infoibato almeno 
una decina di suoi compagni e connazionali. 

In quei giorni, stando a notizie riferite da Franc RoZman-Stane, comandante 
del Q.G. dell’EPL della Slovenia giunto a Pisino per stabilire con i croati il futuro 
confine istriano fra Croazia e Slovenia, c'erano stati piccoli scontri con i tedeschi 
che a più riprese, in piccole forze, avevano tentato di penetrare da Trieste in Istria. 
Soldati germanici della forza di una compagnia, quasi tutti giovanissimi caporali, 
sbarcati nel porto di Umago, furono catturati dai partigiani locali e portati nel 
carcere di Pisino (Castello di Montecuccoli). A Pisino comparve in quei giorni 
anche un piccolo gruppo di soldati e marinai russi fuggiti dalla prigione tedesca. 
Un giovane capitano sovietico prese subito quegli uomini sotto il proprio comando 
e quello fu probabilmente il reparto più disciplinato che avevamo nelle nostre file, 
annota Diminié, senza però dirci da dove erano capitati quei russi e che fine poi 
fecero. Probabilmente erano fuggiti da Trieste e, da Pisino, furono mandati succes- 
sivamente in Croazia. 

Sempre in quei giorni arrivarono dalla Croazia, e precisamente dalla Lika, una 
trentina di partigiani della prima ora che furono subito nominati comandanti di 
compagnie, di battaglioni e di brigate assumendo la guida dei reparti istriani. 
Ignoravano che presto sulla penisola si sarebbe abbattuta la bufera tedesca che 
avrebbe spazzato in pochi giorni quelle unità prive di esperienza militare. A Pisino, 
la “capitale partigiana” dell’ Istria, i dirigenti croati erano indaffarati nella politica. 
Il 25 e 26 settembre si riunì in assemblea il Comitato Popolare di Liberazione 
regionale composto da circa cento delegati, secondo alcune fonti, da appena una 
ventina secondo altre, eleggendo a presidente il croato Joakim Rakovac (già 
Gioacchino Racozzi). L’assemblea deliberò l’abolizione di tutte le leggi fasciste 
italiane, il ripristino dei cognomi croati italianizzati dal regime fascista, l’abolizio- 
ne della toponomastica “italianizzata” la riapertura delle scuole croate ed altro. 
Furono garantiti i diritti degli italiani in Istria e scelti otto deputati al parlamento 
croato (Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Croazia) fra i quali un 
italiano, Pino Budicin. 


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Il 26 settembre, sempre a Pisino, fu costituito un comitato promotore guidato 
dai polesi Alfredo Stiglich e prof. De Simone, per la creazione dell’ “Unione degli 
Italiani”. 


Italiani emarginati 


In una rievocazione pubblicata su La Voce del Popolo del 26 settembre 1994 
sotto il titolo “I precursori dell’UIIF emarginati nel ’43 Pisino”, il pubblicista 
Bruno Flego scrisse in proposito: 

Nel settembre del 1943 a Pisino venne fondata la prima istitutizione antifasci- 
sta italiana, in sostanza l’embrione di quella che più tardi sarebbe diventata 
l'Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume. Si trattava di un’organizzazione alla 
cui testa vennero posti gli antifascisti di nazionalità italiana Pino Budicin, Alfredo 
Stiglich, Giacomo Urbinz, Nicola De Simone, Aldo Rismondo, Aldo Negri, Mario 
Cherin e Giusto Massarotto. 

Di essi, però, soltanto Stiglich fu presente a Pisino, dove arrivò verso il 24 o 
25 settembre, rimanendovi fino al 4 ottobre quando fu gravemente ferito durante il 
bombardamento aereo tedesco sulla città. Tutti i succitati antifascisti italiani erano 
stati in precedenza emarginati, volutamente tenuti in disparte e all’oscuro delle 
decisioni prese dagli esponenti croati dell’insurrezione. Infatti, alla riunione del 
Comitato Popolare di Liberazione dell’Istria svoltasi a Pisino il 13 settembre in 
quella che era stata la sede del Comando dei Carabinieri, furono assenti, perchè 
non invitati, i membri più qualificati del Comitato federale del P.C.I. dell’Istria — 
citiamo ancora il Flego — e precisamente: Alfredo Stiglich, Bruno Cossi-Kos, 
Giulio Revelante e Nicola De Simone, i quali erano rientrati a Pola nella terza 
decade del mese di agosto uscendo dalle patrie galere dove scontavano insieme il 
confino e le condanne del Tribunale Speciale fascista, 63 anni di carcere in tutto. 
Uno dei massimi esponenti dell’antifascismo di Pola, Giacomo Urbinz, ha lasciato 
scritto nelle sue “memorie” — pure citate dal Flego — che 1° 11 settembre 1943 ebbe 
un colloquio in via Giovia con i compagni di Rovigno Pino Budicin e Aldo 
Rismondo venuti a Pola per informarsi sugli ultimi avvenimenti e consultarsi con 
lui. Questo significa che a Rovigno e a Pola erano all’oscuro di ciò che stava 
avvenendo a Pisino. Come se non bastasse, i massimi esponenti dell’antifascismo 
italiano in Istria furono assenti anche ai lavori della Dieta Istriana del 25 settem- 
bre, durante i quali si concesse l’autonomia culturale agli italiani in Istria, 
autonomia poi contestata. Flego continua: 

Praticamente l’ostracismo nei confronti dell’antifascismo italiano era deter- 


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minato da una ragione politica. Si sapeva che nell’aprile del 1934 i partiti 
comunisti d’Italia, Austria e di Jugoslavia avevano affermato che l’esercizio 
democratico del diritto di autodecisione doveva valere, senza riserva, non solo per 
gli sloveni e croati, ma anche per gli italiani. (...) Pertanto a Pisino la direzione 
del PCC e il Comitato di liberazione nazionale violarono gli accordi e quindi la 
decisione democratica basata sul principio dell’Autodeterminazione senza riserve 
nei confronti degli italiani. 

Per inciso, e sempre su questo argomento, va ricordato che il 1 giugno 1943 
era stato diffuso nella regione un appello “Agli Italiani dell’Istria!” del seguente 
tenore: 

Italiani dell’Istria! 

Unitevi decisi ascoltando l’appello del vostro Partito Comunista e degli altri 
partiti antifascisti che a lui uniti combattoro il fascismo, e così uniti e decisi, 
unitevi agli antifascisti slavi dell’Istria. Essi vi accoglieranno fraternamente e voi 
assieme a loro potrete conseguire al più presto i nostri comuni ideali: la Pace, la 
Giustizia e la Libertà per tutti. 

Istriani! 

Uniamoci tutti! Uniti decideremo della nostra amata Istria. Formiamo gruppi 
partigiani che decisi e risoluti con le arma apporteranno all’abbattimento del 
fascismo. 

W la fratellanza dei po poli nella lotta contro il fascismo! 

W l’unità di tutti gli istriani nella lotta per la libertà! 

W i combattenti antifascisti istriani! 

Morte al fascismo — libertà ai popoli! 

I. giugno 1943. Fronte di Liberazione Nazionale per l’Istria. 

Questo volantino fu stilato dal Partito comunista croato (jugoslavo) il quale 
veicolava regolarmente i suoi appelli attraverso il Fronte di Liberazione. Meno di 
quattro mesi dopo, i destinatari di quell’ appello furono considerati da quello stesso 
partito una trascurabile minoranza e semplicemente discriminati. Con la creazione 
dell’ Ufficio italiano (in seguito Unione degli Italiani) venne dato sì un contentino 
agli antifascisti italiani, ma al tempo stesso essi vennero tenuti lontano dalle leve 
decisionali e la loro organizzazione, asservita al Partito comunista croato, divenne 
uno strumento per l’attuazione più o meno passiva delle decisioni del PCC e per il 
raggiungimento degli obiettivi politici del PCC ovvero del PCI. 

La “sorte” volle che quasi tutti i fondatori e primi dirigenti dell’Unione degli 
Italiani non videro la fine della seconda guerra mondiale: Alfredo Stiglich, “una 
delle più fulgide figure dell’antifascismo istriano ed eminente combattente per la 
libertà e la giustizia sociale” come lo definisce Bruno Flego, finirà i suoi giorni il 


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13 dicembre 1944 nel lager di Hartheim in Germania. Gravemente ferito durante 
il bombardamento aereo tedesco su Pisino il 4 ottobre 1943, venne trasportato nel 
villaggio di Moncalvo e ricoverato in un’infermieria di fortuna, passando in seguito 
all'Ospedale di Pola dove fu arrestato alla fine di maggio 1944 dagli agenti di 
Pubblica Sicurezza italiana al servizio dei tedesschi ed a questi consegnato. Giulio 
Revelante, polese come Stiglich, fu visto l’ultima volta a Valle da suo cugino 
Arrigo Sticovich-Sticco mentre, su un camion pieno di partigiani, era diretto a 
Canfanaro. Scontratosi con una grossa formazione tedesca — era l’ottobre 1943 — 
perse la vita nell’impari combattimento insieme agli altri partigiani. Nello stesso 
mese, mentre si ritirava verso il Monte Maggiore, cadde sulle sue pendici il 
comandante Mario Cherin. Nei corso del 1944 persero la vita in scontri con i 
tedeschi o in agguati — in seguito a spiate di fascisti italiani — Aldo Negri, Pino 
Budicin (in febbraio) e, nel settembre, Aldo Rismondo. Nel frattempo, il 13 
gennaio, sempre nel 1944, era stato arrestato a Pola dai fascisti repubblichini al 
servizio dei nazisti, il de Simone. Condotto dapprima al Coroneo insieme ad altri 
285 istriani, fu consegnato ai tedeschi e deportato in Germania. Ebbe la fortuna di 
tornare a Pola nel 1945, divenne direttore de “Il nostro giornale”, organo filojugo- 
slavo all’epoca dell’amministrazione angloamericana della città, fu relatore alla I 
Conferenza dell’ Unione degli Italiani del 3 giugno 1945, ma poi, insieme alla quasi 
totalità della popolazione del capoluogo istriano, partì per l'esilio nel 1947. 

Le annotazioni sull’emarginazione degli italiani antifascisti e comunisti non 
sono state inserite casualmente in questo discorso. Esse servono a definere meglio 
la complessa situazione, l'atmosfera e gli eventi istriani di quel periodo burrascoso. 

A proposito dell’assemblea di Pisino, lo stesso Dimini6, peraltro poco incline 
agli italiani, annotò nel suo diario alcune osservazioni critiche: nella composizione 
del CPL regionale, i comunisti erano in minoranza; furono praticamente assenti gli 
italiani; furono privilegiati i nazionalisti, eminenti combattenti per i diritti della 
popolazione croata. Il nome dell’unico italiano entrato a far parte del Comitato (e 
del parlamento croato), Giuseppe Budicin-Pino fu inserito a conclusione dei lavori 
dell’assemblea e senza il benestare dell’interessato. Del Comitato entrarono a far 
parte Joakim Rakovac all’italiana Gioacchino Racozzi (presidente), proprietario 
terriero di Monpaderno, Vjekoslav Gigi Stranié, commerciante di Bogliuno, ed 
Ante Cerovac di Pinguente, membri della presidenza. Membri del Comitato: dott. 
Pietro Burich, avvocato di Parenzo; Josip Stifanié (don Giuseppe Stifanich), 
parroco di Sovignacco; Ivo Cervar, operaio di Antignana; Maria Kopitar, maestra 
di scuola elementare di San Pietro in Selve; Josip Cetina (Giuseppe Cettina), 
operaio di Castua; Drago-Carlo Ivancich, contadino di Bergudi, Giuseppe-Pino 
Budicin, operaio di Rovigno; Josip-Giuseppe Daus, meccanico di Buratto, Ante 


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Masa, contadino dei dintorni di Pola; Michele Milanovich, falegname di Galligna- 
na, partigiano. I suddetti nominativi si leggono in calce al Proclama. Nel documen- 
to vengono inoltre indicati, come partecipanti all'assemblea: Ivan BreteviC, conta- 
dino di Antignana; Zvonko Brumnié-Brumini, parroco di Antignana; Ivan Barba- 
lié, segretario del Comitato circondariale del CPL per il Litorale; Nicola Cernecca, 
contadino di Marcenigla; Dusan Diminié, candidato d’avvocatura da Albona e 
membro del Comando operativo dell’Istria; Francesco Dodcich, contadino di 
Pisino; Ljubo Drndié, ingegnere; Giovanni Jelovaz, contadino di Corridico; Ivan 
Kolié, contadino di Barbana; Ivan Motika, giudice da Gimino, membro del Coman- 
do operativo dell’Istria; Silvio Lovro Mileni6, falegname da Castua; don Giuseppe 
Pavlisich, parroco di Gollogoriza; Giuseppe Pajca, contadino di Antignana; Josip 
Pausié; Nada Raner, impiegata di Pisino e suo fratello Ciro Raner comandante del 
presidio partigiano di Pisino. Commentando questo elenco di nomi, lo stesso Dusan 
Diminié nota che essi erano quasi esclusivamente rappresentanti della zona di 
Pisino, mentre furono scarsamente o per nulla rappresentate l’Istria orientale, 
l’Albonese, il Polese e l’Istria nord-occidentale, vale a dire le regioni più fittamen- 
te popolate da italiani. Fu notata anche l’assenza dei rappresentanti italiani. Non 
ricordo che Giuseppe Budicin-Pino sia stato presente all’assise, né mi è noto che 
abbia firmato l’Appello al popolo istriano lanciato dall’assise. Ricordo soltanto 
che attendemmo a lungo l’arrivo dei delegati degli italiani di Rovigno e di Pola. 
Le ragioni della loro assenza stanno nella scarsa fiducia nutrita all’epoca dai 
comunisti e antifascisti italiani nei nostri confronti, e nella loro incerta posizione 
sul nostro obiettivo: l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Diminié, comunque, 
non manifesta eccessivo rammarico, anzi sottolinea come una grossa vittoria 
ottenuta dal popolo croato dell’Istria in quella assemblea il fatto che essa deliberò 
l’espulsione dalla penisola di quegli italiani che si erano stabiliti in Istria dopo il 
1918, di coloro che avevano operato per la snazionalizzazione e lo sfruttamento 
del nostro popolo. Tutti costoro dovevano essere rispediti in Italia. Purtroppo, 
questa delibera non è stata poi adeguatamente applicata. Gli italiani animati da 
ostilità (verso i croati) e soprattutto coloro che fecero del male alla nostra gente 
con le loro azioni se ne sono andati in Italia di propria volontà. Ed è noto che nel 
dopoguerra la gran parte degli Italiani ha optato per l’Italia trasferendosi in quel 
paese. Purtroppo, anche molti croati, insieme ad essi, hanno optato per l’Italia 
abbandonando l’ Istria. Ecco come la pensava durante la guerra e molti anni ancora 
dopo la guerra un comunista croato di alto rango! 


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Alcuni eccidi 


Tornando ancora per un attimo all’assemblea di Pisino del 25/26 settembre, ci 
sembra doveroso ricordare che ad essa, quale rappresentante del Consiglio antifa- 
scista di liberazione nazionale della Croazia (ZAVNOH), ossia del Governo 
centrale partigiano, presenziò e ne suggerì le conclusioni l’avvocato Jakov 
Blazevié, un personaggio che nel dopoguerra, in Croazia, sarà più volte ministro e 
premier, dopo essere stato dal 1945 al 1948 a capo della Pubblica Accusa della 
Republica Popolare in tutti i processi politici celebratisi in quegli anni. La sua 
presenza a Pisino ebbe effetti funesti, egli incoraggiò quelli che Privileggio defini- 
va “elementi estremisti” (responsabili e irresponsabili), consigliando per la peni- 
sola una linea di antifascismo nazionalistico, che non era sua soltanto, ma anche di 
altri esponenti del PCC venuti da fuori. 

Annotiamo pure che le prime condanne a morte in Istria non furono emesse 
dal Tribunale militare istituito a Pisino alla vigilia dell’ assemblea, ma da improv- 
visati capi locali fra cui Giorgio Sestan (dirigente della Gioventù antifascista, figlio 
di un esponente del Fascio pisinese), Ciro e Maria Raner ed altri, italiani e croati. 
Quelle condanne, inoltre, furono emesse in seguito a circostanze per lo meno 
insolite. Infatti, i primi “infoibati” facevano parte di un gruppo di undici pisinotti, 
frai quali i fascisti Lino Gherbetti, Dario Leona, Riccardo Zappetti e Marco Neffat, 
arrestati non dagli insorti ma dalle autorità militari italiane di Pisino, all’epoca 
presidiata da oltre un migliaio di soldati del 52° Reggimento di Fanteria agli ordini 
prima del Ten. Colonnello Monteverde e, dal 9 settembre, quando Monteverde 
passò con i partigiani, dall’ufficiale pari grado Angelo Scrufari. I fascisti furono 
messi agli arresti nella sede del Comando di presidio per aver chiesto armi e 
sostegno militare contro i “ribelli slavocomunisti” e il proseguimento dell’alleanza 
con i tedeschi. Due giorni dopo, l’ 11 settembre, quei fascisti furono consegnati alle 
autorità partigiane alle quali quel giorno furono ceduti anche il controllo sulla 
cittadina e il magazzino delle armi. Pochi giorni dopo i prigionieri furono giusti- 
ziati e le loro salme vennero successivamente ritrovate nella cava di bauxite a 
ovest di Gallignana, a poca distanza da Pisino (Rumici). Le prime condanne 
“ufficialmente” decretate dal Tribunale militare partigiano, presieduto da Motika, 
precedettero di una settimana l’ “assemblea del popolo istriano” e furono eseguite 
mediante fucilazione il 19 settembre in altre due cave di bauxite nel pressi di 
Lindaro, sempre nella zona di Pisino. Poichè in quella occasione uno dei condan- 
nati riuscì a scappare dal luogo dell’esecuzione, salvandosi, fu deciso che in futuro 
le fucilazioni sarebbero avvenute presso le cavità carsiche (foibe). E così, per dirla 
con il già citato Gombac, fu portata avanti l’esecuzione di circa 450 persone (tra 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 263 


loro alcune donne, però non minorenni) fino all’inizio di ottobre, quando iniziò 
l’offensiva dei tedeschi. Questi ultimi riuscirono tra l’altro a catturare uno dei 
‘giudici’ di Pisino e lo passarono per le armi insieme alla figlia. Aggiungiamo che, 
oltre alle fucilazioni ed esecuzioni di altro genere, ci furono per lo meno due 
linciaggi dei fascisti: uno a Marzana e l’altro a Gimino stando allo storico 
anticomunista Marco Pirina (‘“Genocidio...”, Pordenone, Adria Storia 4, 1995). 

La discesa del grosso delle truppe tedesche in Istria sul finire di settembre e 
nei primi giorni di ottobre e il prevalere nei vertici croati dell’insurrezione istriana 
della “linea Blazevié”, tutt'altro che “popolare”, impresse un’accelerazione alla 
macchina della “giustizia rivoluzionaria”. Scrive il Gombac: Ad un certo momento 
si pose la questione di cosa fare con tanti prigionieri fascisti e ‘fascisti’ (...). Tra i 
‘giudici’ prevalsero coloro che erano per l’eliminazione dei fascisti’. L’unico 
diritto che rimase all’accusato era di confermare la propria identità. In moltissimi 
casi non si arrivò nemmeno a questo ed i ’fascisti’ furono portati direttamente sui 
luoghi dell’esecuzione. L’anziano sacerdote Ivan Grah a sua volta commenta in 
“Istarska Danica”, (1999): Personalmente non potevo credere che l’uomo istriano, 
tanto partigiano che partigiana, potesse cadere così in basso, perdere la dignità 
umana e sfogarsi nelle torture e nel massacro di gente innmocente, donne e 
bambini, di notte portarli verso destinazioni ignote, giudicarli ’in nome del popo- 
lo’ e precipitarli nelle foibe. Tuttavia questo avvenne in tutta l’Istria e così fu 
scritta una delle pagine più buie della sua storia. Commentando questo brano, nel 
quale notiamo una pesante inesattezza (le donne infoibate in Istria furono pochis- 
sime, e non ci fu alcun bambino), il Gombac scrive che, tranne qualche rarissima 
eccezione, gli istriani non caddero ma “furono spinti” così in basso dapprima dai 
fascisti e in seguito dai comunisti. L’istriano era il mero esecutore — e anche quello 
non sempre — degli ordini che venivano da lontano. Dietro questi ’processi ai 
fascisti” c'erano anche elementi di lotta di classe in un’Istria che fu, in parte, 
sommersa nei conflitti tra i coloni (molto spesso croati) e i proprietari terrieri 
(spesso italiani o italianizzati) come è il caso di Pisino. Viene qui accolta in parte 
la tesi dello storico triestino Galliano Fogar che nella sua opera Sotto l’occupazione 
nazista nelle provincie orientali (Udine, 1961) ha scritto: Gli eccidi hanno il 
carattere di una rappresaglia brutale, aizzata da alcuni croati autoctoni che 
vogliono indirizzare l’insurrezione partigiana sul binario di una rivincita nazio- 
nale e sociale contro l’Italia e la sua odiata classe dirigente “borghese”, terriera, 
burocratica, alimentando nei contadini slavi la speranza di un totale e rapido 
capovolgimento di posizioni da cui il dominatore tradizionale deve uscire battuto 
per sempre. E’ la lotta di classe identificata con quella nazionale per cui naziona- 
lismo e socialismo diventano sinonimi nella guerra al nemico italiano. 


264 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 


Non sempre però la distruzione del nemico fascista o supposto tale fu motivata 
dalla lotta di classe e, ancor meno, dall’odio contro il ventennale regime italiano e 
gli italiani in genere. Lo dimostrano alcuni sanguinosi episodi che ebbero per teatro 
l’isola di Lussino, all’epoca parte integrante dell’Istria ovvero della Provincia di 
Pola e popolata in maggioranza da italiani. Nelle notte tra il 21 e il 22 settembre le 
forze partigiane sbarcarono sull’isola che, dopo aspri combattimenti con reparti di 
cetnici (monarchici collaborazionisti serbi) rifugiatisi a Lussino dopo la capitola- 
zione dell’Italia, fu completamente liberata il 23 settembre. Nel corso dei combat- 
timenti numerosi cetnici rimasero uccisi. I superstiti, una sessantina, si asserraglia- 
rono su un sottile promontorio dove furono facilmente decimati dalle raffiche delle 
mitragliatrici partigiane. Altri cento-centocinquanta uomini scampati al massacro 
furono caricati su trabaccoli, portati in mare aperto e... non tornarono più indietro. A 
liquidarli non furono gli istriani né gli isolani, ma combattenti di Titto venuti dal 
Litorale croato. Tra i cetnici massacrati, per lo più serbi, c'erano anche croati cattolici 
arrivati insieme ad essi dall’isola di Veglia, avendo aderito ai reparti monarchichi 
anticomunisti jugoslavi. Due mesi dopo questi fatti, quando l’isola di Lussino sarà 
occupata dai tedeschi (23 novembre), i nazisti si portarono dietro alcuni reparti di 
cetnici, i quali si vendicarono dei partigiani e dei loro simpatizzanti con gli stessi 
sistemi, e il mare di Lussino si chiuse su altre decine di vittime, come ha scritto 
Molinari. Oggi la contabilità degli ‘storici’ neofascisti mette nel novero degli italiani 
dell’Istria infoibati anche i cetnici serbi e croati massacrati a Lussino. 


L'offensiva tedesca di ottobre 


All’epoca in cui furono prese, poche delle decisioni del CPL istriano poterono 
essere attuate. Furono molto limitate anche le operazioni militari dei neocostituiti 
reparti partigiani che alla data del 25 settembre contavano duemila combattenti, 
una piccola parte delle forze insurrezionali. Almeno ottomila uomini erano tornati 
alle loro case, riprendendo le quotidiane attività nei campi e nelle officine. La 
Prima brigata operò nella Bassa Istria, in direzione di Pola; la sede del Comando 
era a Gimino. Il settore operativo della Seconda, la “Gortan”, fu quello di Buie e 
Pinguente con puntate verso Capodistria. Il Distaccamento “Utka” si spostava tra 
il Carso della Ciciaria, il Monte Maggiore e il Planik. La Prima brigata sostenne 
duri scontri presso Dignano, respingendo frequenti irruzioni dei tedeschi da Pola; 
la Seconda entrò a Umago, a Isola ed a Capodistria, dove liberò dal carcere circa 
200 detenuti politici. Poi fu la tempesta: l’Istria venne invasa dalle truppe germa- 
niche, ebbe inizio la cosiddetta Offensiva Rommel. Le forze del Reich mossero 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 265 


contemporaneamente da Trieste, da Fiume e da Pola, dilagando nelle penisola ed 
occupandola interamente nel giro di sette giorni. Scomparvero i tribunali del popolo, 
cessarono arresti e infoibamenti di fascisti e “fascisti”, ma il sangue scorse a fiumi. Le 
sparse forze partigiane furono sbaragliate, la regione fu messa a ferro e fuoco. 

L’offensiva germanica ebbe inizio il 2 ottobre, vi fu impegnata una divisione 
rafforzata. Il 4 ottobre fu conquistata Pisino, la “capitale partigiana”. Nei capitoli 
precedenti, attraverso le relazioni degli inviati dell’ Esercito di liberazione croato e 
dell’informatore dello “Stato Indipendente Croato” ustascia, abbiamo già dato 
un’informazione su quell’offensiva. Qui aggiungeremo soltanto quelle notizie 
attinte dal diario di Diminié, che abbiano attinenza con l’argomento foibe e 
dintorni. Ha scritto Diminié: La bonaccia non durò a lungo. Nel momento in cui 
Motika, Skocilié ed io stavamo interrogando i soldati tedeschi catturati, arrivaro- 
no alcuni aerei che cominciarono a bombardare Pisino. Alcune bombe esplosero 
nelle immediate vicinanze del carcere, tutti i vetri nei corridoi andarono in 
frantumi, la porta della cella fu scardinata (...) Quando gli aerei finirono di 
sbarazzarsi del carico, si allontanarono, lasciandosi alle spalle una Pisino semi- 
distrutta. | soldati tedeschi approfittarono della confusione per fuggire, noi tre da 
soli non saremmo stati in grado di fermarli. Non vollero però rischiare troppo, 
rimasero nel carcere. Ignoro quante vittime fece il bombardamento (...) Quello 
stesso giorno fu bombardato Gimino molto pesantemente e con gravi conseguenze 
per la popolazione e i nostri reparti che vi erano concentrati. 

Dopo il bombardamento, il Comando partigiano si spostò a Novacco di Pisino 
da dove assistette a un secondo bombardamento sul capoluogo, poi da Trieste 
mossero i reparti corazzati e di fanteria tedeschi. Pur prevedibile, nessuno nei 
comandi partigiani aveva mosso un dito per far fronte all'operazione nemica. Fu 
un fuggi-fuggi generale. I combattenti istriani erano inesperti, molte compagnie e 
battaglioni erano stati improvvisati, le strutture di comando erano tali solo sulla 
carta. L’evacuazione delle armi, del materiale e dei viveri dai magazzini cominciò 
nella massima confusione, i vari organismi del potere popolare non si dimostrarono 
all’altezza del grave movimento. L’euforia dei quindici-venti giorni “rossi” (per 
Rovigno, caduta in mano tedesca il 9 ottobre, durò un mese) fu pagata a caro 
prezzo. In quel caos i responsabili delle carceri di Pisino, Pinguente e Albona, dove 
si trovavano in attesa di processo circa 300 persone, fascisti e “fascisti”, i carcerieri 
agirono secondo l’ispirazione del momento: a Pisino parecchi furono lasciati liberi, 
a Pinguente tutti. Gli altri furono trascinati ai margini delle foibe sparse nei luoghi 
più prossimi e lì fucilati. I corpi furono precipitati nelle voragini carsiche. Questi 
infoibati dei primissimi giorni di ottobre si aggiunsero a un centinaio già fucilati 
“normalmente” nei giorni precedenti. 


266 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 


Quando i partigiani torneranno in Istria, dal febbraio 1944 in poi, non si 
ripeterà più alcun caso di infoibamento, né ci saranno nelle giornate della cacciata 
definitiva dei tedeschi e delle camicie nere repubblichine dalla penisola, sul finire 
di aprile - primi di maggio 1945. In quell’epoca saranno invece gli sloveni a 
sfrenarsi, a Trieste, Gorizia e dintorni: nei quarantacinque giorni dell’occupazione 
di quei territori da parte delle truppe di Tito. 

Nella loro avanzata da Trieste verso Pisino i tedeschi non incontrarono 
ostacoli. La sera del 3 ottobre dal villaggio di Novacco di Pisino, dove si era 
rifugiato con gli altri dirigenti, Diminié tornò a Pisino. La città era deserta. Nel 
Castello trovai soltanto il vecchio Grabar che, in qualità di membro della commis- 
sione d’inchiesta, stava interrogando i fascisti detenuti ancora rimasti. Quella 
notte partii per Albona. Di lì proseguì per Lupogliano, Chersano ... Alla fine passò 
il confine. 

L’episodio del “vecchio Grabar” che in una Pisino deserta continuava a 
interrogare i prigionieri (che saranno liberati l’indomani 4 ottobre all’arrivo dei 
tedeschi) apre un quadro surreale in una situazione tragica. I tedeschi penetrarono 
dappertutto con la loro motorizzazione, seminando il panico sul loro cammino, i 
nostri reparti andavano in sfacelo, i neonominati comandanti abbandonarono i 
combattenti formando un proprio gruppo per salvare se stessi, pensando a rag- 
giungere le loro precedenti formazioni partigiane nella Lika, nel Gorski Kotar e 
nel Litorale croato. Dimostrando, diciamo noi, quanto considerassero l’Istria una 
terra croata. Invece i combattenti istriani tornarono alle loro case. Molti di loro 
erravano per strade e sentieri portando pacchetti di pesci in conserva e pacchi 
ancora più grandi di sigarette, tutta roba presa nei giorni precedenti nei conservi- 
fici di Isola d’Istria e Rovigno e nella manifattura tabacchi rovignese. Lungo uno 
di quei sentieri Diminié si imbattè in quel capitano russo e nei suoi dieci e più 
soldati; vide anche passare una quindicina di fascisti arrestati, che marciavano 


sotto scorta. Che fine fecero? 
* * * 


In alcuni documenti del PC croato risalenti all’autunno 1943 viene fornito il 
resoconto di una riunione della “Direzione istriana del PCC” (26 e 27 ottobre di 
quell’anno) che diede una valutazione sulle vicende istriane’*. Dopo aver definito 
disastroso l’operato del PCC nel periodo insurrezionale, il documento dà un 


24 D. VLAHOV, “Tri izvjestaja iz Istre — Jesen 1943” (Tre rapporti dall’Istria - Autunno 1943), Vjesnik 
historijskog arhiva u Rijeci i Pazinu, vol. XX (1975-1976), Fiume, pp. 29-57. Cfr. pure L. GIURICIN, “La difficile 
ripresa della resistenza”, Quaderni, vol. XII (1999), pp. 16-18. 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 267 


giudizio severissimo anche dei comandanti del battaglione partigiano arrivato in 
Istria dalla Croazia e precisamente dalla Lika. Quei capi militari e l’intero reparto 
si erano letteralmente dati alla fuga davanti ai tedeschi, determinando la paralisi di 
tutti i collegamenti, seminando lo sgomento fra i combattenti istriani e la popola- 
zione, lasciandoli alla mercè della ferocia tedesca. Fu denunciato pure il fatto che, 
prima di ritirarsi dall’Istria, i comandanti e combattenti del battaglione likano 
spogliarono i partigiani istriani d’ogni avere: vestiario, denaro, orologi da polso, le 
armi ... 

La nostra attenzione è richiamata in particolare da un accenno alla (mancata) 
liquidazione di tutti i fascisti, e dalla critica rivolta ai capi dell’insurrezione per non 
aver fatto piazza pulita: non venne preso alcun provvedimento adeguato relativo 
ai prigionieri politici arrestati nelle varie località dell’Istria. Dopo aver costituito 
un’apposita Commissione militare incaricata della questione della punizione dei 
fascisti, il Comando operativo dell’Istria non aveva fatto nulla, sicchè per la 
defezione di detto Comando, i dirigenti politici furono costretti a prendere la 
faccenda nelle proprie mani e ciò all’ultimo momento, mentre era già iniziata 
l’offensiva tedesca, e mettendo a repentaglio la propria vita. Sempre secondo la 
“Direzione istriana” del PC croato”, diversi criminali fascisti furono posti in 
libertà ed oggi uccidono la nosta gente e saccheggiano i nostri villaggi. 


Scrive “L'Italia libera” 


Nei giorni in cui si tenne la riunione dei comunisti istriani croati, in Istria si 
stavano esplorando le foibe per estrarne le salme delle vittime, mentre sui giornali 
della Repubblica Sociale e in particolare sulla stampa fascista di Pola e Trieste, 
veniva dato il massimo risalto alle violenze e persecuzioni subite dagli istriani 
durante il breve governo degli organismi insurrezionali. Fu immediatamente indi- 
cato l’indirizzo interpretativo: accusare gli slavi di aver voluto sterminare non i 
fascisti ma la popolazione italiana come tale. Salvo poi a tirarsi la zappa sui piedi 
quando, pubblicando un elenco conclusivo di 419 vittime, i giornali della RSI e 
quelli al servizio dei tedeschi in Istria e a Trieste le indicarono e qualificarono, nella 


25 Con la ricostituzione di formazioni partigiane in Istria, nel novembre 1943, presero a funzionare il 
Comitato distrettuale del Partito comunista croato, che soppiantò definitivamente le organizzazione del PC 
italiano, il Comitato distrettuale della Gioventù comunista jugoslava (Skoj) e il Comitato Popolare di Liberazione 
distrettuale quale organo di amministrazione civile, che suddivise la penisola in questi "Comuni": Carso, 
Pinguente, Cepich, Albona, Pisino, Buie, Umago, Montona, Antignana, Parenzo, Rovigno, Gimino, Prodol 
(Prostimo), Abbazia, Laurana, Pola città e Pola Circondario, Umago e Buie. 


268 G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 


maggior parte, come “squadristi”, “fascisti”, “commissario” e “agente di P.S.”, 
riconoscendo implicitamente che gli “infoibati” avevano in maggioranza una 
precisa matrice di regime. 

Già allora, però, ci fu chi reagì polemicamente alla strumentalizzazione degli 
avvenimenti fatta dalla stampa fascista, cercando di ristabilire un equilibrio, sicchè 
pochi mesi dopo le sanguinose vicende istriane, il 10 maggio 1944, l’organo del 
Partito d'Azione “L’Italia libera” diffuso nell’Italia liberata, pubblicò un articolo 
intitolato Le foibe istriane. Narrando particolari e fatti personali, l’autore — eviden- 
temente un azionista giuliano ben addentro alle cose — non negò che fra le vittime 
ci fossero stati anche degli innocenti il cui reato era quello di essere stato “solo 
italiani”, vittime della situazione caotica in cui l’Istria era precipitata nel settembre 
’43. Pertanto, a nome degli antifascisti, il giornale espresse pietà per quelle vittime: 
noi italiani, che abbiamo diviso con i patrioti slavi il peso e l’onore della lotta 
antifascista nella Giulia, siamo noi che possiamo inchinarci davanti a questi morti 
senza colpa. Si prometteva perfino che quegli innocenti sarebbero stati vendicati: 
ma li vendicheremo su chi, disonorando il nostro buon nome in queste terre di 
confine, vi ha seminato fra le minoranze slave questo odio feroce, che solo tale 
giustizia potrà forse un giorno placare. Si risaliva così alle cause. Quelle che 
l’autore dell’articolo aveva indicato sin dall’inizio del testo, sia pure limitandosi al 
periodo bellico e lasciando fuori il precedente ventennio. Fu ricordato il periodo 
fra l’aggressione militare alla Jugoslavia e la dissoluzione del suo esercito e, nel 
contesto, la nascita del movimento partigiano jugoslavo: un periodo nel quale, ad 
ogni minimo sospetto di collaborazione delle popolazioni rurali slovene e croate 
con i partigiani locali, venivano organizzate sanguinose spedizioni punitive contro 
la popolazione: Previo accordo tra la Prefettura, il Fascio e la Questura, partivano 
da Trieste gli “autocarri gloriosi” carichi di squadristi, comandati da noti crimi- 
nali, i due fratelli Forti ed il Delle Grazie, mentre carabinieri, agenti e, purtroppo 
anche reparti del nostro esercito si accodavano per proteggere la spedizione, con 
l'immancabile seguito di rappresaglie, rastrellamenti, arresti, deportazioni e, per 
molti degli arrestati, le torture nella famigerata “Villa Triste” di via Bellosguardo 
8 a Trieste, che fu la sede dell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza diretto 
dal tristemente famoso Giuseppe Collotti. Questi fatti, ricordava “L’Italia libera”, 
erano iniziati nel 1941 continuando anche nel periodo badogliano, dopo il 25 luglio 
743 come poteva essere documentato seguendo l’operato dei funzionari di polizia 
triestini Gueli, Miano, Sigillò e Maddalena fino alla seconda metà dell’agosto 
1943, sicchè non c’era da stupirsi — diceva l’articolo — se dopo la capitolazione 
italiana dell’ 8 settembre accaddero fatti di particolare gravità nell’Istria plurietni- 
ca. Invece di allontanare dai loro posti i responsabili degli eccessi compiuti ai danni 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 269 


degli slavi anche nel periodo badogliano, si fece credere agli slavi che tutta l’Italia 
fosse complice di questi delitti e solidale con gli assassini delle popolazioni slave”. 


26 Cfr. R. SPAZZALI, Foibe,un dibattito ancora aperto, Trieste, 1990, pp. 158-160. 


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SAZETAK 

U ovom radu autor daje svoj doprinos i dodatno tumaci i rasvjetljava 
pitanja masovnih grobnica u Istri, osobito u drugoj polovici rujna 1943., 
tijekom narodnog antifaSistitkog ustanka, koji je uslifedio nakon 
povlatenja Italije iz rata, raspustanja talifanske  vojske i skoro 
posvema$njeg raspada talijanske drZavne vlasti na Istarskom poluotoku. 
U prvom poglavlju autor identificira mjesta na kojima su se dogadali 
pokolji (neka od njih izvr$ili su obièni ZloCinci), a Zrtve su bili ne samo 
Talijani, vet i brojni Hrvati. Tadasnje stanje u Istri bilo je veoma 
nestabilno, pa je autor priloga dao i saZet izvjesta] o nasilju i progonima 
koje je Mussolinij]ev reZim provodio nad slavenskim stanovnistvom. U 
tom kontekstu on po prvi put spominje masovne egzekucije koje je taj 
reZim izr$io upravo na podruGju Istre. 

U drugim poglavijima rij]eè je o izvijestu Sefa tajne  slu2be 
partizanskog stozera za hrvatsko obalno podruèje iz 1943., i o jednom 
drugom izvjesèu sastavljenom za hrvatsku usta$ku vladu, koje je podnio 
izvjesni douSnik tog kvislinskog rezima, sto se infiltrirao u Istru tijekom 
spomenutog razboblja, dok na kraju autor donosi dnevnik jednog 
istaknutog komunista podrijettom iz Istre. Ovi dokumenti omogucavaju 
nam sagledavanje povijesti Istre u novom svjetlu, a posebice jedne od 
najnemirnijih etapa koja je uslijedila 1943. nakon kapitulacije Italije, a 
bila je obiljezena korjenitim promjenama politiéko-vojne i povijesne 
naravi. 


POVZETEK 

Avtor predstavlja nov prispevek k Studiju in razumevanju pojava ljudi 
v fojbe, do katerega je prislo v Istri v drugi polovici septembra 1943 
med protifasistiéno ljudsko vstajo, ki so jo omogodili izstop Italije iz 
vojne, razsulo italijanske vojske in skoraj popolni razpad italijanskih 
drzavnih struktur na istrskem polotoku. 

Avtor umesta pokole (nekatere so zakrivili navadni hudodelci), 
katerih Zrtev so bili poleg Italijanov tudi Stevilni Hrvati, v zgodovinski 
okvir in v posebni poloZaj Istre, tako da naglo predstavi tudi preganjanja 
fasistiénega rezZima proti slovanskim narodom. V tem okviru prviè 
omenja dejstvo, da je isti reZim metal ljudi v fojbe na istrskem polotoku. 
V drugih poglavijh nam avtor posreduje kroniko politiénega in vojaskega 
dogajanja v Istri septembra in oktobra 1943. leta (do okupacije pokrajine 


G. SCOTTI, Mosaico foibe: nuove tessere, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 197-271 271 


s strani nacistiénih éet in do pokolov, ki so jih te izvedle), tako da 
predstavlja vsebine nekaterih dokumentov hrvaske komunistièéne stranke 
in hrvaskih partizanskih sil, s tem da izpostavija dele, v katerem se 
posredno ali neposredno omenjajo fojbe, likvidacija “sovraznikov naroda” 
in odnosi, skoraj vedno zelo napeti, z aktivisti italijanske komunistiéne 
stranke in italijanskimi voditelji istrskega protifaSistiîénega gibanja. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 273 


LA CARTA DEL CARNARO: 
UNA COSTITUZIONE PER LO STATO LIBERO DI FIUME (1920) 


WILLIAM KLINGER 

Istituto Universitario Europeo CDU 329:342.4(497 .5Fiume)(094)” 1920” 
Dipartimento di storia e civiltà 

Firenze 


L'autore si prefigge di ricostruire i fondamenti ideologici della Carta del Carnaro, costituzione della 
dannunziana Reggenza del Carnaro. In questo senso appare fondamentale l’apporto del pensiero 
politico dei sindacalisti rivoluzionari, movimento a cui apparteneva anche uno degli autori del 
documento, Alcide de Ambris. La presentazione in forma sintetica delle dottrine politiche del 
sindacalismo rivoluzionario, suggerisce che la Carta del Carnaro può in effetti essere considerata il 
documento che fornisce a questa corrente di pensiero una sua compiuta espressione politica e statuale. 
In secondo luogo, viene ricostruita la dialettica che si instaurò sia tra i due costituenti — D'Annunzio 
e de Ambris — che trai due corpi politici che a Fiume si arrogavano l’attribuzione di poteri statuali e 
cioè il Comando dannunziano e il Consiglio Nazionale. I rapporti spesso conflittuali tra le due 
istituzioni e le divergenze ideologiche influenzarono sia la struttura che il tenore ideologico della 
Carta e contribuiscono a spiegare anche alcuni passi contradditori. 


Introduzione 


Recentemente c’è stata una ripresa di interesse verso i problemi teorici del 
costituzionalismo. Il fatto risulta di per sé comprensibile: il costituzionalismo 
viene considerato uno dei principali strumenti di limitazione dei poteri dello Stato. 
La sua rilevanza per la democratizzazione dei sistemi di governo non può che 
giustificare l’abbondanza di studi storici e di scienza politica recenti ad esso 


! I] presente articolo è tratto dalla tesi di specializzazione (Master of Arts) discussa presso il Dipartimento 
di Scienza politica della Central European University di Budapest, sotto la supervisione dei prof. Nenad 
Dimitrijevié e Andras Bragyova, ai quali vanno i miei più calorosi ringraziamenti. Colgo l’occasione per 
ringraziare l'Archivio Museo fiumano di Roma e i dott. Marino Micich e Amleto Ballarini, il prof. Augusto 
Sinagra, nonché i prof. Miomir Matulovié e Nenad Misgevié per le preziose indicazioni fornitemi. 


274 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


dedicati?. La maggioranza dei lavori di ricostruzione storica o riflessione teorica si 
concentra su costituzioni “che hanno fatto la storia”, quelle che in altre parole 
ebbero successo come quella americana o francese che vengono prese come 
modello di comparazione teorica?. Altri si sono concentrati sul caso più eclatante 
di fallimento costituzionale: la Costituzione di Weimar'. La sproporzione tra 
l’abbondanza di studi concentrati su una manciata di casi famosi è totale: i materiali 
pubblicati su casi meno noti sono quasi inesistenti e la scarsità di attenzione rivolta 
a costituzioni “minori” fa sì che esse siano sconosciute anche agli specialisti. Non 
esistono giustificazioni per questo fatto, anzi: molti teorici del costituzionalismo 
insistono sull’importanza di una maggiore disponibilità di materiale empirico da 
usare come banco di prova per la valutazione di varie teorie costituzionali. 

In questa sede ci accingeremo a presentare la Carta del Carnaro, Costituzione 
della Reggenza italiana del Carnaro. D’ Annunzio e i suoi collaboratori elaborarono 
tale testo costituzionale per il territorio della città di Fiume e sobborghi da essi 
occupato e- amministrato. Determinati a creare una nuovo assetto istituzionale e 
convinti che Fiume potesse e dovesse divenire un modello per il mondo che 
emergeva dalle rovine della Grande guerra, in quei giorni iniziarono altri due 
ambiziosi progetti: il primo, la Carta della Lega di Fiume o Lega dei Popoli 
Oppressi venne pensata in opposizione alla Lega delle Nazioni governata dalle 
“plutocrazie” del mondo, scritta da D'Annunzio in collaborazione col barone 
Kochnitzky. Il secondo era un progetto di una radicale riforma in senso democra- 
tico dell’esercito previsto per i legionari di Fiume “L’Ordinamento del Nuovo 
Esercito Liberatore”. Tutte queste iniziative erano parte di un ambizioso progetto 
rivoluzionario la cui portata s’estendeva ben oltre i confini della città nelle inten- 
zioni del Comandante. Secondo Renzo de Felice, lo storico che più di ogni altro si 


2 Si veda, ad esempio: S. HUNTIGTON, La terza ondata. ] procesi di democratizzazione alla fine del XX 
secolo, Bologna, 1995; O. DONNELL, P. SCHMITTER, L. WHITEHEAD, Transitions from Authoritarian Rule, 
Baltimore - London, 1986. Per il caso italiano si veda il volume curato da L. MORLINO, Costruire la democrazia. 
Gruppi e partiti in Italia, Bologna, 1991. 


3 Si vedano, per esempio J. ELSTER, "Constitutional Bootstrapping i n Philadelphia and Paris", Constitu- 
tionalism, Identity, Difference and Legitimacy, Durham and London, 1994, pp. 57-83; P.PETTIT, Republicanism, 
Oxford, 1997; U.K. PREUSS, "Constitutional Powermaking of the New Polity: Some Deliberations on the 
Relations Between Constituent Power and Constitution", Constitutionalism, Identity, Difference and Legitimacy, 
Durham and London, 1994, pp. 143-165; J RAWLS, A Theory of Justice, Oxford, 1980. 


4 Da rilevare alcuni studi recenti: P CALDWELL, Popular Sovereignty and the Crisis of German Constitu- 
tional Law. The Theory and Practice of Weimar Constitutionalism, Durham and London, 1997; D. DYZENHAUS, 
Legality and Legitimacy. Carl Schmitt, Hans Kelsen, and Hermann Heller in Weimar, Oxford, 1997; J. MC 
CORMICK, Against Politics as Technology: Carl Schmitt s Critique of Liberalism, New York, 1997. E l'eccellente 
e ormai classico W. MOMMSEN, Max Weber and the German Politics 1890-1920, Chicago, 1984. 


W. KLINGER, La carta del Camaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 DIS 


è occupato delle travagliate vicende fiumane del primo dopoguerra, piuttosto che 
adattarsi alla realtà del piccolo stato fiumano, questi progetti volevano prospettare 
agli “uomini nuovi” usciti dalla guerra una soluzione “organica non meramente 
tecnica ma anche emotivamente suggestiva in grado di rispondere alle loro attese 
di rinnovamento politico e sociale”. 

La Carta del Carnaro sarà studiata qui come un documento organico volto a 
fondare una ben determinata comunità politica, non un semplice atto di propagan- 
da. La proclamazione di una costituzione è un atto fondante di una comunità 
politica le cui conseguenze si estendono potenzialmente al di là dell’orizzonte 
politico dei soggetti che partecipano alla sua stesura. È sintomatico infatti per tutti 
i costituenti voler fissare nella costituzione le loro ambizioni, programmi e paure 
dettate dalle circostanze del momento. In tal modo, risposte a problemi “tattici”, 
che si situano in archi temporali brevi, rischiano di venire immortalati in un testo 
costituzionale con conseguenze “strategiche” per il destino della comunità politica. 

La costituzione venne abbozzata dal Capo di Gabinetto dannunziano Alceste 
de Ambris nel marzo 1920 e promulgata con modifiche, di carattere soprattutto 
stilistico, apportate da D° Annunzio nel settembre 1920. La Carta del Carnaro fu 
letta in pubblico da D’ Annunzio in uno dei più famosi teatri di Fiume — il “Teatro 
Fenice” — il 20 agosto 1920 dove venne promulgata per acclamazione popolare in 
modo plebiscitario, al culmine di un periodo turbolento per la città. La folla la 
accettò con entusiasmo ma è questione aperta se la maggioranza dei presenti quella 
sera del 20 agosto ne comprendesse i contenuti e il significato. Per i due autori le 
motivazioni primarie erano diverse: D’ Annunzio considerava la Carta più uno 
strumento tattico dai fini politici immediati, mentre gli obiettivi di de Ambris erano 
più ambiziosi situandosi su un orizzonte temporale più ampio. Tutti e due gli autori 
si rendevano conto che l’estensione del suffragio e la comparsa della democrazia 
di massa avrebbe cambiato il modo di fare politica nell’ Europa uscita dal travaglio 
della Grande guerra. D’ Annunzio svilupperà una concezione dello stato volontari- 
stica che incidentalmente, fornirà anche una potente giustificazione alla dittatura. 
L’importanza politica della ideologia come unico strumento in grado di controllare 
e guidare le masse in un’epoca di democrazia plebiscitaria sarà pienamente com- 
presa solamente da D’Annunzio. In de Ambris, la paura di disordini sociali 
influenzati dalla estensione del suffragio, spingerà ad adottare un rivoluzionario 
sistema di rappresentanza politica con una camera legislativa composta da rappre- 


5 R. DE FELICE, La Carta del Carnaro nei testi di Alceste De Ambris e Gabriele D'Annunzio, Bologna, 
1973, pp. 10-11. 


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sentanti delle corporazioni che rappresenterà le categorie funzionali di produzione 
economica al posto dei tradizionali partiti politici. 

Anche se la Carta del Carnaro rimase in vigore per pochi mesi, formalmente 
dal settembre 1920 al gennaio 1921, la sua genesi, storia e forma indirizzano 
importanti questioni e problemi per il costituzionalismo contemporaneo. Si potrà 
obiettare che giuridicamente e di fatto la Carta del Carnaro non durò abbastanza 
per farne un documento significativo dal punto di vista politico. Ciononostante, gli 
autori costituenti non potevano prevedere il corso degli eventi futuri ed effettiva- 
mente hanno dovuto prendere in seria considerazione la possibilità che il loro 
progetto avrebbe potuto avere una durata più lunga. In questo senso emerge il suo 
significato per la scienza politica. Il tortuoso processo di elaborazione fatto da due 
personaggi tanto diversi per carattere e obiettivi quali furono D'Annunzio e de 
Ambris sarà ricostruito utilizzando le premesse metodologiche della teoria della 
scelta razionale e della scelta pubblica seguendo l’approccio che Jon Elster utilizza 
per varie assemblee costituenti’. In particolare, si cercherà di mostrare come 
decisioni politiche di carattere tattico prese nel passato influenzarono e limitarono 
le possibilità di scelta dei costituenti fiumani con potenziali conseguenze a lungo 
termine se la loro costituzione fosse effettivamente sopravvissuta per un tempo 
sufficientemente lungo. 

In questo lavoro, ci proponiamo altresì di rispondere a svariati problemi che 
toccano il cuore della filosofia politica e costituzionale attuali. Quale era l'origine 
del potere costituente e chi ne era fautore: tutto il popolo o un’avanguardia? Quale 
era l’obiettivo dei costituenti: dare un’identità politica alla comunità o conferire a 
se stessi legittimità politica? La democrazia della carta doveva essere sostanziale 
o procedurale? Come si concepirono la divisione dei poteri, la rappresentanza 
politica, i partiti politici e la revisione di costituzionalità delle leggi? L'obiettivo 
che ci si prefiggeva dalla costituzione era di evitare la tirannide e il monopolio dei 
poteri o piuttosto di promuovere la realizzazione personale degli individui? Si 
intendeva estendere la democrazia sui posti di lavoro? | soggetti costitutivi dello 
stato erano gli individui o gruppi organizzati in classi 0 corporazioni? 

L’articolo si struttura in quattro parti. I primi due hanno natura storica volta a 
ricostruire lo sfondo e i prodromi ideologici e la pratica del regime dannunziano a 
Fiume e i suoi rapporti con il Consiglio Nazionale. Il terzo, analizza il processo di 
argomentazione e contrattazione tra gli autori e le forze politiche in campo nelle 


6 J. ELSTER, Ulysses Unbound, Cambridge, 2001; IDEM, "Constitutional Bootstrapping ..., op.cit., pp. 
57-83; IDEM, Ulysses and the Syrens, Cambridge, 1974. 


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stesura della costituzione utilizzando il metodo della ricostruzione delle scelte 
razionali dei costituenti. Il quarto delinea i fondamenti dello stato dannunziano 
traendo alcune conclusioni sulla natura di tale stato e la dittatura. Infine, in allegato, 
alcuni verbali del Consiglio Nazionale Italiano (CNI) inediti illustrano bene le 
idee, le opinioni e soprattutto le paure che i membri del principale organo politico 
locale nutrivano nei confronti del progetto costituzionale e, in generale, sull’ope- 
rato del Comando dannunziano a Fiume. 


I. L’ideologia: il sindacalismo rivoluzionario 
Genesi di una nuova forza politica 


Le vicende della spedizione militare di Ronchi del 1919 e della conseguente 
occupazione dannunziana di Fiume saranno probabilmente fin troppo note ai lettori 
per venire ripercorse in questa sede in maniera dettagliata. Quello che occorre 
notare è che l’ Impresa dannunziana non fu un risultato di una decisione individuale 
isolata, ma fu supportata da parti del sistema politico e militare italiano. La stessa 
ideologia politica che Gabriele D° Annunzio usò per legittimare il suo operato e il 
suo governo a Fiume fu sviluppata prima. Scienziati sociali italiani di fama 
mondiale come Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto erano ormai da tempo leader 
riconosciuti delle nuove teorie elitiste ed antiparlamentari. I leader delle avanguar- 
die letterarie fiorentine Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, assieme a Enrico 
Corradini e lo stesso Gabriele D° Annunzio erano i principali portavoce di queste 
nuove tendenze in campo letterario e culturale. Il modernismo fiorentino esprime- 
va l’esigenza di un rinnovamento spirituale e culturale della nazione italiana, e 
proclamava la necessità di una nuova religione secolare imperniata sul culto della 
nazione. 

Una prima ricaduta di questi nuovi modi di concepire la società nel panorama 
politico italiano, la si ebbe con la nascita dell’ Associazione Nazionalista Italiana 
(ANI), che fu il primo partito politico dichiaratamente nazionalista”. Esso fu 
fondato nel 1910, evidentemente preparato dalle agitazioni del decennio preceden- 
te. Il suo ideologo principale E. Corradini sviluppò una base dottrinaria per il 
movimento attingendo soprattutto dai temi della sinistra rivoluzionaria. Coniò il 
termine di “nazione proletaria”, sistematicamente sfruttata dalla divisione del 
lavoro internazionale e dalla sua iniqua struttura di potere. Da questa prospettiva 


7F PERFETTI, /l movimento nazionalista in Italia (1903-1914), Roma, 1984. 


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egli concluse che il problema non era lo sfruttamento degli operai industriali o 
agricoli in Italia, ma lo status proletario dell’intera società italiana a livello 
internazionale. Di conseguenza la rivoluzione nazionale doveva avere la priorità 
su quella sociale, dato che ne avrebbe beneficiato la società nel suo intero e non 
solo certe classi sociali. All’inizio l’ANI era un coacervo di diversi gruppi nazio- 
nalisti — democratici moderati e autoritari — ma verso il 1914 1’ Associazione 
raggiunse una certa unità e omogeneità, accettando la dottrina dello stato corpora- 
tivo sviluppata dal giurista Alfredo Rocco. Rocco sviluppò la prima teoria dello 
stato delle corporazioni che avrebbe dovuto rimpiazzare la divisione della politica 
dei partiti. Un’assemblea delle corporazioni volta a rappresentare i gruppi di 
interesse economici avrebbe dovuto prendere il posto del parlamento*. 

È da notare che il nucleo, che più tardi fondò il fascismo e il “fiumanesimo”, 
non giunse dall’elitismo o dal nazionalismo di destra, ma da un movimento di 
sinistra rivoluzionaria, noto come anarco-sindacalismo o sindacalismo rivoluzio- 
nario. Il movimento ha origine nel 1890 in Francia per reazione alla moderazione 
dei socialisti e del movimento sindacale, ma in Francia esso perse di impeto 
rapidamente dopo il 1906. L’obiettivo era la rivoluzione ottenuta con azione 
diretta, possibilmente un grande sciopero generale che avrebbe permesso di ristrut- 
turare l’intera società attorno ai sindacati. Come in altre parti d’ Europa, all’inizio 
del XX secolo il movimento socialista era spaccato tra riformisti e rivoluzionari. I 
riformisti appoggiavano la contrattazione con le parti sociali tra grandi e ben 
strutturate organizzazioni sindacali. L’influenza moderatrice del pensiero social- 
democratico riformista tedesco, così importante fino agli anni Novanta, iniziò così 
il suo lento declino in Italia. I leader dell’ anarco-sindacalismo come Georges Sorel, 
presero il suo posto. In Italia il loro leader Arturo Labriola caldeggiava il ricorso 
ad azioni spontanee di masse disorganizzate che dovevano culminare in scioperi 
generali mediante una mobilitazione continua delle masse del proletariato. La 
crescita del sindacalismo rivoluzionario fu lenta ma progressiva, basandosi sulle 
camere del lavoro — un'istituzione italiana a carattere regionale e diffusione 
capillare, designata a rimediare la debolezza numerica dei sindacati regolari. 
Anche Arturo Labriola elaborò una visione di “nazione proletaria”, osservando 
(mentre lavorava in emigrazione) l'emarginazione degli lavoratori italiani all’este- 
ro. Anche secondo lui, erano gli italiani in quanto nazione ad essere discriminati. 
Di conseguenza, la trasformazione sociale doveva riguardare tutta la nazione e non 
limitarsi soltanto a una classe a spese delle altre. Il movimento rivoluzionario 


8 5. PAYNE, A History of Fascism 1914-1945, Madison, 1995. 


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poteva avere successo solo con un movimento trasversale alla divisione in classi, 
comprendendo gli agricoltori e le classi medie. Il “nazionalismo proletario” di 
Labriola quindi legittimava la guerra nazionale e l’espansione coloniale e il 
processo secondo il quale i sindacalisti rivoluzionari stavano diventando naziona- 
listi era ormai in pieno svolgimento. 

Le teorie della Rivista critica del socialismo di Francesco Saverio Merlino e 
dell’Avanguardia di Arturo Labriola minarono l’egemonia dei riformisti all’inter- 
no del PSI. Nel 1903 Filippo Turati, leader dei riformisti, perse il controllo della 
sua federazione milanese dei sindacati. Anche se i sindacalisti rivoluzionari si 
definivano marxisti, le loro dottrine e tattiche apparivano sempre meno ortodosse, 
tanto da abbandonare definitivamente il Partito Socialista Italiano nel 1907. L’on- 
data di scioperi che seguì alla formazione di FEDERTERRA sembrava confermare 
la credenza dei sindacalisti che il corso della rivoluzione stava andando nella 
direzione da essi profetizzata. Durante i grandi scioperi del 1907-1908, la loro 
maggioranza abbandonò la Confederazione Socialista del Lavoro — la CGL. Nono- 
stante ci fu un certo revival riformista negli anni 1908-1912, la Grande Guerra 
cambiò drasticamente gli equilibri e il contesto entro il quale le fazioni del PSI 
operavano. | sindacalisti rivoluzionari, il maggior numero dei quali erano già 
intervenzionisti nel 1914, abbandonarono la sinistra e si allinearono ormai piena- 
mente con i nazionalisti. La simbiosi tra questo movimento di sinistra radicale e il 
patriottismo nazionalista era così stata raggiunta. 


La parabola di Alceste de Ambris 


La biografia dell’ autore della costituzione fiumana, Alceste de Ambris, illu- 
stra bene il percorso politico che ebbero molti appartenenti del movimento sinda- 
calista. Egli iniziò la carriera politica come agitatore sindacale a Parma nel 1900, 
dopo un periodo di emigrazione in America Latina dove apprese la pratica dell’agi- 
tazione e l’organizzazione sindacale e politica presso le comunità di lavoratori 
italiani in Argentina. De Ambris organizzò il primo grande sciopero generale dei 
braccianti agricoli nel parmense nel 1908. A causa delle persecuzioni cui fu 
sottoposto, riparò in Svizzera. L’esperienza politica svizzera si rivelerà fondamen- 
tale per de Ambris, come del resto per Pannunzio, Olivetti, e lo stesso Mussolini, 
e la Carta del Carnaro s’ispirerà dichiaratamente alla Costituzione svizzera. 
Nell'agosto 1914 de Ambris annunciò pubblicamente il suo supporto all’ interven- 
tismo e iniziò a sviluppare la sua dottrina del corporativismo, rinunciando a un 
ingrediente del sindacalismo rivoluzionario delle origini: la lotta di classe. Rimase 


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un rivoluzionario, ma accettò i presupposti economici del capitalismo che ora 
doveva essere riformato in maniera radicale democratica e corporativa. De Ambris 
divenne segretario generale dell’ UIL nel marzo 1919, il sindacato che si distingue- 
rà per il suo precoce appoggio ai Fasci di combattimento di Mussolini. De Ambris 
voleva fare la rivoluzione con il supporto dell’esercito e vedendo in D’ Annunzio e 
nell’ Impresa fiumana un’opportunità unica per diffondere la idee rivoluzione in 
Italia, e in ottobre abbandona la UIL per raggiungere D’ Annunzio a Fiume. Anche 
se le possibilità che una rivoluzione nazionale potesse partire da Fiume erano 
minime, essa diede a de Ambris una base su cui sperimentare, applicare e diffon- 
dere le sue idee corporativistiche e di democrazia radicale in maniera piuttosto 
efficace. La promulgazione delle Carta del Carnaro, alla quale egli diede una forma 
compiuta e che costituisce una summa del suo credo politico, fu in effetti il suo 
successo più spettacolare anche sul piano pratico. 

Dopo la fine dell'Impresa di D'Annunzio e la sua cacciata da Fiume, de 
Ambris continuò a credere o a sperare che una rivoluzione nazionale sotto la guida 
del Poeta fosse ancora possibile. Dopo il collasso del regime dannunziano De 
Ambris ritornò a Parma dove continuò la sua attività politica fino all'avvento del 
Fascismo. Come documentato da R. De Felice e F. Perfetti”, la sua disillusione 
sulla volontà di D’ Annunzio di promuovere la rivoluzione in Italia fu graduale ma 
progressiva. De Ambris vide progressivamente che il supporto da parte di D’An- 
nunzio non sarebbe arrivato e che come politico egli era troppo inaffidabile. De 
Ambris stimò con molto realismo che senza D'Annunzio i suoi progetti erano 
senza speranza di successo e andò in esilio per l’ultima volta in Francia. Nel 1926 
il regime gli tolse la cittadinanza ed egli rimase in Francia fino alla morte, avvenuta 
nel 1934, come pubblicista di trattati antifascisti. 


La dottrina politica: la società e l’individuo 


I sindacalisti attaccarono i socialisti riformisti su diversi fronti sia ideologici 
che organizzativi. Rifacendosi a sentimenti che valsero a Bakunin molti seguaci, 
Arturo Labriola, uno dei primi esponenti di questo movimento in Italia, propose un 
programma politico con l’intento di legare gli operai industriali del Nord ai 


9 R. DEFELICE, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris — D’Annunzio(1919 
— 1922), Padova, 1966; IDEM, La Carta del Carnaro..., op.cit.; F PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e 
fascismo, Roma,1988. 


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braccianti agricoli del Sud. Il Partito Socialista avrebbe dovuto abbandonare 
qualsiasi tentativo di accordo o di riforma con la classe dominate, dato che nessun 
aiuto della borghesia era necessario per fare la rivoluzione. Solo le organizzazioni 
proletarie per definizione, come i sindacati, potevano costituire l’ossatura istituzio- 
nale attorno alla quale avrebbe dovuto organizzarsi la società. Il sindacalista 
Merlino, con un passato da anarchico, vide nei sindacati una possibilità di decen- 
tralizzare sia lo stato che l'economia. 

Già verso il 1910, Arturo Labriola ed Enrico Leone iniziarono a sviluppare 
nuove dottrine economiche che non rinunciavano a fondare una società di produt- 
tori, ma senza ignorare nel contempo i postulati del marginalismo e il carattere 
edonistico della psicologia del consumatore. Solo in un sistema di libero mercato, 
si sarebbe riusciti a trovare un sistema atto a liberare il plusvalore e raggiungere 
uno sviluppo moderno, una base necessaria per giungere ad una vera rivoluzione 
collettivista. La via più sicura al socialismo passava quindi attraverso uno stato 
limitato dai sindacati e dalle corporazioni, che rispettasse le leggi dell'economia di 
mercato. 

Angelo Oliviero Olivetti è l’autore cui maggiormente si ispirò de Ambris. Nei 
suoi scritti giunse gradualmente ad una critica del marxismo e del liberalismo, 
contestandone soprattutto il loro individualismo!°. Egli si premurò a fornire un 
base pseudoscientifica alle sue teorie. Secondo lui, già Darwin, Haeckel e Hegel 
provarono che alla base di tutti i sistemi complessi si trovava la materia che si 
organizza secondo un principio immanente. È un fatto che gli uomini vivono in 
gruppi e la società è una caratteristica umana per definizione, di conseguenza 
l’individualismo estremo, che trova in Rousseau il suo esponente principale, è 
sbagliato in quanto contro natura. L’idea di individui liberi e atomizzati che 
scelgono un parlamento che fa le leggi e prende decisioni, caratteristica del 
Liberalismo, risultava quindi sbagliata. Il marxismo invece, non era niente più che 
l’incarnazione teorica del militarismo prussiano e il suo stato ed era solo la classe 
dominante che doveva essere cambiata. La soluzione pratica al problema politico 
della rappresentanza era da trovarsi nelle organizzazioni spontanee dei produttori, 
come i sindacati. Il sindacalismo era superiore a tutte le altre dottrine politiche 
perché rispettava le basiche leggi dell’associazione umana, che per Olivetti assu- 
mevano il rigore delle leggi di natura. Nell’interpretazione della storia di Olivetti, 
l'opposizione al sindacalismo vantava una lunga tradizione in quanto ebbe la 


!0 Cfr. A. O. OLIVETTI, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, a cura di Francesco Perfetti, 
Roma, 1984. 


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meglio già durante la Rivoluzione francese che era ostile a qualunque forma di 
organizzazione di produttori. Invece delle gerarchie e corporazioni medievali, essa 
ci diede “La Dichiarazione dei diritti del cittadino”. Fu Rousseau a reintrodurre il 
concetto di cittadino nella teoria politica moderna. Esso esistette nel passato 
remoto di greci e romani, dove si identificava con i membri improduttivi delle 
aristocrazie ma, sempre secondo Olivetti, si trattava di una specie estinta da molto 
tempo. Fu compito e merito del sindacalismo a riscoprire il produttore ed introdur- 
lo nel dibattito sulla comunità politica, dandogli il posto che gli doveva competere. 
La nuova rappresentanza politica non si sarebbe più basata sulle “finzioni della 
sovranità popolare, rappresentanza politica e mandato politico” (e dunque non 
imperativo) ma “sulla realtà della produzione”. 

Sergio Pannunzio, giurista e probabilmente il più prestigioso ed autorevole 
pensatore del sindacalismo, sottolineava il valore sociale della produzione, fonda- 
mentale in quanto la sola a produrre ricchezza, mentre l’imposizione fiscale “lungi 
dal fare produrre ricchezza nuova o dall’aumentare la vecchia, non serve che a 
distruggere quella esistente redistribuendola”!'. Il sindacalismo era individualisti- 
co perché anti-collettivista ed anticomunista. Invece del concetto astratto di citta- 
dino o del sindacalismo socialista proletario, il sindacalismo introdusse il termine 
di produttore. Questa era la vera particella della vera collettività politica, non 
astratta ed ideologica - ma fondata sulla realtà della produzione e dell’economia. 
Spariva la necessità di una rivoluzione, dato che ogni progresso nella consapevo- 
lezza degli interessi dei produttori era un passo avanti nella sindacalizzazione della 
società. Era questo il vero significato politico del sindacalismo: non un gioco 
amorale sulle contingenze ma, come per Aristotele, la realizzazione di un'etica 
superiore. 


La dottrina dello Stato 


Per Olivetti lo sviluppo politico doveva rispettare e riflettere l’organizzazione 
degli individui già naturalmente separati in categorie d’interesse. Tali gruppi di 
produttori avrebbero regolato le loro relazioni in maniera pacifica e costruttiva. 
L'esistenza della nazione non veniva negata come dai marxisti, ma concepita come 
il più grande dei sindacati, l’associazione libera delle forze produttive di un paese 
entro i limiti imposti dalla sua natura, storia, lingua e codice etico. Il lavoro 


!! S. PANNUNZIO, “Stato e sindacato”, Rivista internazionale di filosofia del diritto, 3/1, 1923. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 273-343 283 


produttivo definiva anche i limiti dell’ appartenenza nazionale: esclusi ne erano gli 
elementi improduttivi ed i parassiti che quindi non meritavano di possedere il 
diritto di cittadinanza. Ogni tentativo di cambiamento politico era da impedire se 
minacciava l’esistenza stessa delle nazione, “comunità suprema di liberi produtto- 
ri” il cui interesse doveva essere al di sopra di ogni considerazione di classe”. 

Sempre secondo Olivetti, i precursori del sindacalismo erano i comuni tardo 
medievali italiani. Di conseguenza, il sindacalismo doveva considerarsi italiano, 
così come il socialismo era un fenomeno teutonico di uno stato militarizzato che 
sopprime la vita dell’individuo con la forza bruta delle masse. L'estrema evoluzio- 
ne democratica del comune italiano condusse ad un ordinamento genuinamente 
sindacalista. Lo stato-comune non era governato da un’assemblea eletta mediante 
un illusorio suffragio universale, ma dai rappresentanti delle gilde. Le corporazioni 
quindi ebbero la loro suprema funzione politica che spettava loro. 

Uno dei pensatori del sindacalismo più sofisticati era Sergio Pannunzio. Il 
sindacalismo era essenzialmente differente dall’ anarchismo perché il primo nega- 
va lo Stato, ma non l’esistenza di altre forme di organizzazione autoritaria della 
società. Come in Marx, per Pannunzio il diritto era espressione degli interessi 
materiali egoistici del ceto che domina in quel preciso momento storico. Il sinda- 
calismo non voleva sostituire gli interessi di un ceto al potere con un altro, come 
volevano i comunisti, ma riconosceva pragmaticamente che essi erano legittimi ed 
è in questo modo che si potevano risolvere i problemi della società. Dunque, per 
Pannunzio non si poteva pretendere da un sistema politico di essere in grado di 
cambiare le preferenze individuali ma, in compenso, queste potevano soltanto 
essere semplificate ed articolate in ordine di trovare situazioni accettabili per tutti. 

Quali erano i fondamenti del diritto? Pannunzio rifiutava i postulati del 
positivismo giuridico, negando che fossero principi astratti dello stato a fornire la 
base dei sistemi giuridici, ma che essi erano la risultante dei rapporti tra individuo 
e gruppo e dei gruppi tra loro. Il diritto era quindi da considerarsi un fenomeno 
essenzialmente sociale che non derivava dall’attività dello Stato, ma risultava dal 
corso dell’evoluzione sociale. Per quanto riguardava l’organizzazione della socie- 
tà, Pannunzio era convinto che l’autorità dello Stato stava svanendo, venendo 
progressivamente distrutta dai conflitti sociali. Bisognava quindi trovare le forme 
di organizzazione sociale che si sarebbero formate spontaneamente ed avrebbero 
retto alla dissoluzione ormai inevitabile dello Stato. I gruppi che corrispondevano 
a questi requisiti erano i sindacati, la famiglia e le corporazioni. La corporazione — 


!? A.O. OLIVETTI, // Sindicalismo come filosofia e come politica. Lineamenti di sintesi universale, 1924. 


284 W. KLINGER, La carta del Camaro, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


il termine fu preso in prestito da Durkheim — e la famiglia erano le sole unità 
naturali capaci di produrre le loro norme e regole sociali che ogni politica realista 
avrebbe semplicemente dovuto riconoscere. ‘“ La famiglia e la corporazione erano 
le due sole unità sociali naturali ed organiche di fronte all’ammasso artificiale 
caotico eterogeneo disorganico che è la società e lo Stato”!?. Seguendo Sorel i 
sindacati avevano un primato etico sulle corporazioni perché la loro formazione 
era spontanea ed era all’interno di essi che la libertà veniva organizzata. 

Quale doveva essere la posizione giuridica e la funzione politica degli indivi- 
dui nel sistema pensato da Pannunzio? L’individuo in senso giuridico non era da 
intendersi solo a individui fisici, persone, ma adogni componente della società che 
si poneva nei confronti di altri nelle relazioni logiche di parità, competizione, 
contrasto, uguaglianza e libertà. Di conseguenza oltre che gli individui singoli 
antropologici, bisognava riconoscere legalmente l’esistenza di individui collettivi 
o sociali già invocati da alcuni pensatori costituzionali. Il problema era sempre lo 
Stato fondato sull’individualismo emerso dalla Rivoluzione francese. Pannunzio 
citava Durkheim!* che, cercando di trovare l’organismo che potesse arrestare la 
disorganizzazione sociale, nella sua opera fondamentale “Il suicidio”, aveva trova- 
to che la corporazione, essendo composta da individui che si dedicano allo stesso 
lavoro, ed i cui interessi sono solidali o comuni, è il terreno più propizio alla 
formazione di idee e di sentimenti morali. Durkheim constatava che “Disperdendo 
le organizzazioni che possono stringere le volontà individuali, noi abbiamo spez- 
zato lo strumento destinato alla nostra riorganizzazione morale”. Invece di risolve- 
re il problema delle relazioni tra lo Stato e le associazioni, esso eluse il problema 
ignorando le associazioni dei produttori e cercando di costruire lo Stato partendo 
“dalla sabbia dei meri individui fisici”. 

“L’individualismo, o atomismo contrattualistico moderno, ruppe e disgregò i 
complessi sociali corporativi, lasciati in eredità alla società moderna dal Medio 
evo; spezzò le relazioni e i vincoli organici fra individuo e corporazione; isolò 
l’individuo e contrappose violentemente (...), riducendo la società in un polverio 
di atomi singoli, l’individuo allo Stato (...)??!°. 

Per Pannunzio lo Stato non doveva ignorare la complessità esistente della 
società, ma tale complessità doveva essere rispettata e riflettersi nell’ assetto costi- 
tuzionale della società politica. Egli era convinto che lo stato nuovo dei sindacati 


Bs, PANNUNZIO, La persistenza del diritto, Pescara, 1909, p. 238. 
!4 IDEM, p. 241. 
!5 IDEM, Una forza, p. 272. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 273-343 285 


coni loro interessi sarebbe succeduto allo stato degli individui, che avrebbe dovuto 
conferire lo status di persone giuridiche alle associazioni di produttori. In tal modo 
le loro relazioni e conflitti non si sarebbero svolti al di fuori del sistema legale, ma 
al suo interno essendo incorporate e pienamente riconosciute dal nuovo Stato. 
Come per Olivetti, i precursori del sindacalismo erano i comuni altomedievali 
italiani. 


La rappresentanza politica 


Per Olivetti il “sindacalismo come filosofia e come politica” era contrario ai 
partiti politici perché essi si limitavano ai problemi del presente quando era chiaro 
che “i più grandi moti dello spirito, come il cristianesimo o il buddismo non erano 
partiti”. Il sindacalismo era al di sopra di ideologie che restringevano lo spazio 
d’azione, dato che fomentavano la polarizzazione sociale. Esso necessitava del 
supporto di tutte le masse produttive che solo possono promuovere e creare lo 
sviluppo sociale. Il diritto e il costituzionalismo erano rigidi e dogmatici, mentre 
la regolazione contrattuale era flessibile e facile da cambiare. La società sindaca- 
lista avrebbe permesso ad ogni individuo di cambiare posizione di classe cambian- 
do la sua posizione contrattuale nella società, dato che il diritto deve codificare 
quanto già esiste e non può pretendere di cambiare alcunché. Olivetti era pure ostile 
alle elezioni politiche, dato che il voto sia proporzionale che maggioritario non era 
altro che “un’espressione di violenza civica della moltitudine contro la minoran- 
za”!°. Avrà da dire Pannunzio: 


“(...) ma un giorno deve pur venire e speriamo non lontano, in cui la 
questione politica italiana non sarà quella della estensione meccanica e 
numerica del suffragio, del voto alla donna, del collegio uninominale, dello 
scrutinio di lista e della proporzionale (noiosissimi e triti motivi che ritornano 
a farsi sentire nella musica politico-parlamentare paesana), ma sarà quella 
della nuova base giuridica della rappresentanza nazionale, la quale deve 
spostarsi dai partiti e dai collegi elettorali alle classi e ai sindacati, ossia ai 
corpi concreti e organici.”’!7 


!6 A. O. OLIVETTI, /l Sindicalismo..., op.cit. 
17 8. PANNUNZIO, Una forza..., op.cit.., p. 270. 


286 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


Dopo l’abbandono del mandato imperativo, lo stesso concetto di rappresen- 
tanza politica era problematico dal punto di vista giuridico: gli eletti non rappre- 
sentano chi li elegge ma solo sé stessi ossia le loro coscienze. Il sistema elettorale 
doveva essere una procedura di selezione dei migliori, dei più capaci, con l’obiet- 
tivo di produrre un’aristocrazia che doveva guidare la nazione. Questo poteva 
essere per Pannunzio l’unico obbiettivo della democrazia che legittimava il bica- 
meralismo. Quindi, anche per Pannunzio la democrazia non poteva cambiare le 
preferenze dei cittadini producendo cittadini migliori, ma soltanto organizzare e 
raggruppare i corpi sociali e selezionare da essi gli individui più capaci. 

Tutte le premesse teoretiche e morali per un autogoverno corporativo erano 
quindi realizzate. Il problema principale era l’evitare di insorgere di conflitti intrattabili 
tra i gruppi organizzati ed è per questo che serviva un nuovo modello di rappresentanza 
politica. Ottimisticamente, Pannunzio credeva che le esperienze di conflitti continui 
tra i comuni o città stato erano cosa del passato, giacché le nuove “sovranità sindacali 
vivono d’accordo, stringono delle libere intese, si uniscono tra di loro per mezzo di 
legami liberamente voluti ed accettati che conducevano “all’unità federale” che 
rappresentava “la meta ideale di evoluzione politica dei popoli”'8. 

Pannunzio sottolineava le differenze tra sindacati e parlamenti. Lo scopo e 
funzione del sindacato era di ottenere diritti per “i proletari in quanto proletari”. I 
diritti che i lavoratori godono in quanto cittadini non erano di nessun interesse. 
Estendere il suffragio era insensato se non esistevano le condizioni educative e 
sociali per sfruttarlo. Obiettivo del sindacalismo era la sindacalizzazione di tutti gli 
operai, e l’effetto sarà di dare i diritti politici di un tipo completamente diverso, 
dopo il collasso del vecchio stato parlamentare. Bisognava educare le masse in 
modo da “mantenere alta la temperatura rivoluzionaria del proletariato”. Gli 
strumenti principali erano lo sciopero generale e l’azione diretta contro la proprietà 
privata. 


“Il tratto più essenziale del classico sindacalismo di derivazione proudhoniana 
(...) era l'emancipazione totale, e lo svincolo, della organizzazione dei gruppi 
sociali dal territorio, e la costituzione dei gruppi sulla base volontaristica, 
astratta e personalistica degli interessi omogenei; donde il diritto economico, 
sostituito al classico e potremmo dire aristotelico diritto politico (...) come 
sintesi di popolazione e territorio. (...) in altri termini gli interessi associano e 
uniscono, il territorio divide e produce contrasti fra gli uomini (...).”?!9 


!8 IDEM, La persistenza ..., Op.cit., p. 244. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 287 


Fu la guerra a provare che la dottrina del “sindacalismo assoluto” era invalida 
e inconsistente, mostrando che c’era più solidarietà fra le classi di una nazione che 
non fra membri della stessa classe, ma di nazionalità diverse: 


“Il sindacalismo, se vuole farsi storia, doveva quindi farsi geografico, terri- 
toriale, nazionale essendosi gli interessi nazionali dimostrati indiscutibil- 
mente superiori a quelli particolari di ceti e categorie.”?0 “Concludendo: La 
Nazione deve circoscriversi, determinarsi, articolarsi, vivere nelle classi, e 
nelle Corporazioni distinte, e risultare “organicamente” dalle concrete orga- 
nizzazioni sociali, e non dal polverio individuale.””2! 


Esistevano quindi corpi politici dotati di maggiore legittimità dello Stato, del 
governo, del parlamento e dei partiti. Tali gruppi erano la nazione, le corporazioni 
e la famiglia. Come andava organizzata e strutturata la rappresentanza politica 
secondo i principi sindacalisti? Nel saggio Rappresentanza di classe scritto 
nell’agosto 1919 (quindi un anno prima della stesura della Carta del Carnaro), 
Pannunzio propose un progetto dettagliato per giustificare un nuovo tipo di rappre- 
sentanza economica e funzionale al posto della rappresentanza politica territoriale 
del vecchio parlamentarismo. Il testo risulta estremamente illuminante per com- 
prendere le idee che giustificavano il modello rappresentativo scelto da de Ambris 
e D'Annunzio per la costituzione fiumana. Ciò che emerge, è un nuovo assetto 
costituzionale per lo Stato. Esso doveva basarsi su due camere: una di natura 
economica, funzionale, composta da sindacati e corporazioni, dedicata alla solu- 
zione di specifici problemi di produzione industriale ed economica, di regolamen- 
tazione e distribuzione. L'altra — il senato doveva essere il vero rappresentante 
politico della nazione. Le questioni tradizionali della politica competevano quindi 
al senato che incarnava la rappresentanza politica territoriale. La necessità di un 
parlamento politico che bilanciasse, disciplinasse e modificasse le preferenze e gli 
interessi particolari, in altre parole che rappresentasse gli interessi della nazione, 
non veniva negata. Questo corpo, il senato, doveva essere nazionale, centrale, 
universale “di principi”, capace di fissare le tendenze ed imporle sopra gli interessi 
particolari. Per i “parlamenti tecnici” era favorevole ad una dispersione territoriale 
e ad una loro specializzazione tecnica e professionale??. 


!9 IDEM, Una forza..., op.cit., pp. 274-275. 
20 Ibidem, pp. 278-279. 
2! Ibid., pp. 280-281. 


22 Pannunzio si ispirò ai “consigli tecnici” della Baviera introdotti da Kurt Eisner nel 1919. 


288 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


L’idea non era nuova: seguendo altri autori come Agostino Lanzillo, Pannun- 
zio adottò una divisione bicamerale del legislativo: un parlamento sindacale che 
rappresentava i veri interessi delle forze produttive ed un senato, il vero corpo 
politico del domani. Per Lanzillo i membri del senato sarebbero stati eletti dalle 
corporazioni con una procedura di elezione di secondo grado, ma per Pannunzio 
un numero ancora maggiore dei suoi componenti avrebbe dovuto essere reclutato 
dall’élite della nazione: scienziati ed intellettuali, accademici e membri dell’alta 
cultura in generale. L'organizzazione dello stato corporativo avrebbe compreso 
tutte le forze sociali, tutte le categorie economiche in modo tale che tutti i gruppi 
di interesse avrebbero avuto la possibilità di essere rappresentati nella camera alta. 
Compito del senato era anche di risolvere e decidere in merito a conflitti tra i 
parlamenti inferiori. Il sistema della doppia rappresentazione era essenziale per 
Pannunzio perché avrebbe accelerato i processi deliberativi e decisionali in tutti i 
settori della produzione economica. Compito del parlamento tecnico era di fare le 
leggi, specificare i loro contenuti, accumulare ed elaborare dati o suggerimenti, 
opinioni, bisogni o preferenze delle forze produttive, che poi il parlamento politico 
o senato doveva votare. Di fatto secondo Pannunzio si trattava di istituzionalizzare 
ciò che esisteva già e lasciar fare a quelli che erano veramente interessati e 
sapevano fare. 

Pannunzio era convinto che anche una separazione artificiosa dell’elettorato 
lungo criteri di classe, condotta con metodo burocratico avrebbe fatto emergere 
spontaneamente le classi e le corporazioni. Il nuovo assetto costituzionale necessi- 
tava di una precisa definizione della società in classi o corporazioni, se queste 
dovevano prendere un posto preciso nella nuova mappa dei poteri. Il programma 
d’azione prevedeva di: computare le statistiche delle classi e professioni, distribui- 
re in classi organiche la popolazione, trasformare le classi in corporazioni, infine 
creare con i rappresentanti delle corporazioni nuovi parlamenti tecnici ed econo- 
mici. Il fatto politico dell’inserimento nelle liste professionali avrebbe influenzato 
lo status economico dei singoli rendendoli consapevoli dei loro interessi. Questo 
avrebbe agito da catalizzatore ed avrebbe portato ad una accelerata formazione e 
consolidazione delle corporazioni?!. 


23 Qui si pensava che l’ingegneria costituzionale potesse cambiare le preferenze degli elettori. Stranamente, 
peri sindacalisti questo principio non poteva funzionare per i partiti politici; per loro tutte le divisioni ideologiche 
erano artificiose, mentre quelle economiche avevano una salda base reale. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 289 


Conclusione 


Si può quindi affermare con sicurezza che verso il 1919 i sindacalisti rivolu- 
zionari avevano operato una profonda revisione del pensiero marxiano, tanto da 
renderlo ormai praticamente irriconoscibile: enfatizzavano l’etica, le idee ed i 
simboli, piuttosto che la realtà materiale dei rapporti di produzione; l’attenzione si 
spostava verso la psicologia sociale e al comportamento delle masse; essi enfatiz- 
zavano l’importanza del volontarismo piuttosto che del determinismo economico; 
ilruolo chiave delle élite anche come avanguardia rivoluzionaria; la mobilitazione 
trasversale rispetto alle differenze di classe; lo sviluppo economico piuttosto che 
la ridistribuzione di ricchezza. Il nemico non era più il sistema capitalistico di 
produzione economica, ma la classe politica corrotta ed inetta; il concetto di 
proletario veniva esteso a tutta la nazione e faceva da sorgente di legittimazione 
perla guerra e la rivoluzione nazionale; il tutto doveva essere accompagnato da una 
celebrazione della violenza che soddisfava il bisogno di azioni eroiche e spettaco- 
lari. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, la maggioranza dei leader sindacalisti 
appoggiarono l’intervento, considerando la guerra “vera contrazione della storia in 
pochi istanti tragici e decisivi che valgono secoli” come avrà a dire Pannunzio”*. 
La marcia di Fiume di D’ Annunzio del 1919 fornirà al movimento il momento 
eroico e rivoluzionario allo stesso tempo, tale da soddisfare le esigenze delle masse 
di un rinnovamento sociale e indicare un nuovo modo di fare politica, improntato 
sul rito e sulla manifestazione pubblica. Il volontarismo politico e giuridico, ed il 
rifiuto del positivismo e del formalismo giuridico dei pensatori sindacalisti, ben si 
sposeranno con il pensiero e l’operato di D° Annunzio, ma questi a Fiume si 
spingerà ben oltre, spianando la strada ad una soluzione apertamente dittatoriale. 


II. La scena politica: D'Annunzio e il Consiglio Nazionale 
Il “primo Duce” 


Nel settembre 1919, a seguito di gravi incidenti tra soldati italiani, cittadini 
fiumani e soldati francesi, gli alleati imposero lo scioglimento del Consiglio Nazionale 
e la sua sostituzione con un governo sotto il controllo di una commissione militare 
interalleata. Fu a questo punto che il CNI si decise ad organizzare un colpo di mano. 
Esso avrebbe dovuto essere condotto per mezzo di volontari italiani guidati da un 


24 5. PANNUNZIO, Lo Stato di diritto, Bologna, 1922, p. 262. 


290 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


condottiero di una certa fama. Saggiamente, I membri del Consiglio inizialmente 
pensavano di invitare delle figure molto meno carismatiche (e quindi più controllabili) 
ad eseguire l’impresa. Il poeta Sem Benelli, favorito dalla maggioranza del Consiglio, 
doveva arrivare in testa ad un gruppo di mercenari. I fondi per tale impresa erano già 
stati accantonati, ma Benelli rifiutò. D’ Annunzio, che invece fu contattato da Nino 
Host Venturi, quasi all'insaputa degli altri membri del Consiglio, accettò. 

Il 12 Settembre 1919 D’ Annunzio entrò in Fiume, città che egli governerà per 
i 20 mesi successivi. L’entrata spettacolare del 12 settembre era dovuta a una 
potente combinazione di forze nel mondo politico italiano e all’interno del CNI. 
Esse erano eterogenee dall'inizio: dai nazionalisti che si limitavano a chiedere 
l’annessione di Fiume all’Italia, a quelli che propugnavano la sostituzione della 
monarchia costituzionale con un regime autoritario, ad altri ancora che volevano 
una rivoluzione comunista o anarchica. Lo stile di governo da egli attuato e 
sperimentato fece da modello per tutti i successivi movimenti di massa del XX 
secolo e questo basta per farne un fatto di prima importanza storica. D° Annunzio, 
grazie alla sua esperienza di scenografo a teatro, conosceva la natura delle masse 
e si rese conto che l’introduzione del suffragio universale e la comparsa della 
democrazia di massa avrebbe fatto sembrare la politica molto più vicina allo 
spettacolo che ad un pacato susseguirsi di conversazioni e deliberazioni di genti- 
luomini facenti parte di una ristretta élite di notabili. 

Le tecniche di manipolazione delle masse furono introdotte e sperimentate in 
maniera estensiva a Fiume. La principale fonte di ispirazione per il completamento 
di questo nuovo tipo di politica carismatica fu trovata da D’ Annunzio nel passato 
glorioso della nazione. Se è possibile definire il termine “fascismo” in termini di 
un nucleo mitico comune, allora esso fu certamente improntato da D’ Annunzio a 
Fiume. La retorica successivamente impiegata da Mussolini, come il motivo della 
“Vittoria mutilata”, della rigenerazione nazionale purificata dalla guerra furono 
introdotti come prassi politica dapprima da D’ Annunzio a Fiume. Egli introdusse 
pure la pratica del discorso dal balcone, il saluto romano il motto “eja eja alalà”, 
l’appellativo di “Duce”, le camicie nere per la sua milizia armata, “gli arditi” prese 
dalle omonime truppe d’assalto notturno della Prima Guerra mondiale. 

Il 13 settembre D’ Annunzio assumeva il comando militare della città. Il primo 
Capo di gabinetto di D’ Annunzio, il Maggiore Giurati, appena arrivato a Fiume 
consigliò il Comandante di non assumere i pieni poteri in città per non dare 
l'impressione di voler esautorare la rappresentanza cittadina’. Sarà lo stesso 


25. SALOTTI, "I rapporti fra il CN fiumano e Gabriele D'Annunzio”, Fiume, Roma, 1972, pp. 56-57. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 291 


Consiglio Nazionale per bocca del Presidente Grossich ad offrire pieni poteri al 
Comandante con una delibera che, anche se senza valore giuridico, lascerà indefi- 
nita l’attribuzione di poteri fra i due organismi soprattutto su questioni di ammini- 
strazione e di giustizia. D’ Annunzio, con una sua ordinanza riconfermò i poteri 
statali del Consiglio Nazionale e confermò in carica tutti i delegati del Consiglio 
Nazionale alle varie amministrazioni, stabilendo però che “tutti gli atti e le delibe- 
razioni del Consiglio Nazionale, che comunque potessero riguardare l’ordine 
pubblico e conseguire un effetto politico, dovevano essere sottoposti all’approva- 
zione del comando e non potevano essere eseguiti se non il giorno successivo a 
quello dell’ approvazione”. In tal modo afferma il Peteani “il Comandante assume- 
va in un certo senso la posizione di capo dello stato. Così dunque furono regolati 
le competenze ed i rapporti tra il CNI e il Comando dannunziano e su questa base 
lo stato fu retto fino al settembre 1920”. 


Legittimità politica 


Quando D° Annunzio entrò a Fiume, il CNI gli conferì pieni poteri, ma egli li 
rifiutò. Perché rifiutò i poteri dittatoriali che gli venivano offerti? E perché il CNI 
era pronto a sacrificare tutti i suoi poteri e li conferiva ad una persona di cui si 
fidava poco? Una possibilità (suggerita dalla teoria della scelta razionale) è che 
così facendo ambo le parti segnalavano reciprocamente una buona volontà di 
cooperazione. Effettivamente, D° Annunzio rispettò sempre l’autorità del CNI e 
mai minacciò i suoi membri. Nel novembre 1919 la legittimità del CNI fu confer- 
mata da un plebiscito a cui D’ Annunzio non si oppose. 

D'altra parte, D’ Annunzio sembrò dimostrare poca volontà di ottenere legitti- 
mità per il suo comando o le sue azioni. Anche per la costituzione, si preferì 
l’acclamazione pubblica rispetto al referendum. Una spiegazione sta nel suo stile 
di governo e nello scetticismo nei confronti del processo elettorale, ma anche più 
palesemente paura di venire sconfitto nel processo elettorale. Ad una attenta analisi 
come quella del Peteani?’, non sfugge che la vera autorità era nelle mani del 
Consiglio Nazionale, il cui potere d’imperio ‘era indipendente, originario in 
quanto basto su leggi date dal potere stesso”. Esso, inoltre, fu organo legislativo e 
fu capace di attuare le funzioni essenziali dello Stato in quanto controllava tutta 


26 L, PETEANI, La posizione internazionale di Fiume, dall’armistizio all’annessione e il suo assetto 
costituzionale durante questo periodo, Firenze, 1942, p. 27. 


292 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


l’amministrazione sia statale che comunale. Il potere esecutivo era affidato al 
Comitato Direttivo del Consiglio Nazionale. Era composto da 21 delegati e presie- 
duto dal Presidente del Consiglio Nazionale. Dieci di questi delegati erano preposti 
al vari rami dell’amministrazione, dietro elezione del Comitato Direttivo stesso. In 
tutti i casi non previsti dalla legge, perla procedura si sarebbe aderito al vecchio 
statuto civico o in mancanza di regolamenti specifici ci si richiamava alle consue- 
tudini parlamentari. 

È possibile considerare i rapporti tra il CNI e il Comando dannunziano come 
una classica situazione di contrattazione fra due corpi politici per la spartizione dei 
poteri e il controllo delle risorse. È in questa luce che va analizzata anche la genesi 
della Costituzione fiumana. L'assetto costituzionale provvisorio e rudimentale di 
Fiume mutò del tutto con l’ istituzione della Reggenza Italiana del Carnaro. Come 
vedremo, per D° Annunzio la Costituzione doveva rispondere soprattutto a scopi 
tattici per estendere e preservare il potere nella città, mentre era per de Ambris che 
essa svolgeva una funzione strategica, una vera rivoluzione sociale a Fiume da 
estendersi poi possibilmente a tutta l’Italia. 

I rapporti fra il Comandante e il Consiglio fiumano non sono mai stati privi di 
attrito. Il Consiglio Nazionale stimava con molto realismo le opportunità e i rischi 
cui andava incontro nell’eventualità di un’avventura militare. I suoi membri, 
rappresentativi della borghesia commerciale della città, volevano prevenire qual- 
siasi forma di rivolgimento politico o sociale volendo preservare lo status quo entro 
i limiti della città. La scelta di procedere all’annessione all’Italia della città di 
Fiume da ottenersi in aperta sfida con le potenze alleate, deve comunque essere 
considerata mossa da motivazioni nazionalistiche piuttosto che da un freddo 
calcolo economico perché la creazione dello stato di Fiume sarebbe stata molto più 
facile essendo appoggiata dagli alleati e avrebbe comunque permesso la preserva- 
zione della struttura di potere preesistente. D’ Annunzio era considerato una perso- 
na perlomeno problematica dal punto di vista morale a dotata soprattutto di un 
enorme carisma che avrebbe presto messo in ombra il Consiglio Nazionale con 
esiti imprevedibili e, forse, rivoluzionari. La reputazione stessa del CNI era in fase 
discendente, dato che la situazione nella città era resa difficile dalla costante 
penuria di beni e dai costanti sospetti che alcuni dei suoi membri si stavano 
arricchendo con attività illecite. 

I timori dei membri del CNI si rivelarono fondati: 1’8 settembre 1920, al 
culmine di un processo di distacco fra i due organi, fu proclamata unilateralmente 
da parte di D° Annunzio la Reggenza italiana del Carnaro, e lo stesso giorno il 
Consiglio Nazionale, dimissionario, deferì i poteri al Comitato Direttivo. 
Anch'esso rassegnò le dimissioni il 21, e in sua vece si costituì, per opera di 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 293 


D’ Annunzio, il primo Governo provvisorio della Reggenza, formato da 7 Rettori 
e dal Comandante che godeva di una “posizione speciale” ed era in pari tempo 
Rettore agli Affari esteri: “figura eccezionale di governo assoluto, determinato 
dalla particolare delicatezza del momento” secondo il Peteani, il quale avrebbe 
dovuto indire le elezioni dei corpi legislativi contemplati dallo statuto della Reg- 
genza. Il CNI fu declassato, con questo atto, ad esercitare l’ufficio di Rappresen- 
tanza municipale??. 


Supporto politico a 

D’ Annunzio controllava una moltitudine di truppe, in testa alle quali arrivò a 
Fiume. Molti indecisi lo raggiunsero dopo il successo iniziale dell’ Impresa. I 
militari erano lo strumento principale che D’ Annunzio usò nei confronti del CNI. 
D'altra parte, il CNI aveva la sua legittimità democratica, confermata anche da un 
plebiscito che D° Annunzio sembrò rispettare. Lo strumento più potente del CNI 
era il controllo degli affari amministrativi della città. Grazie al controllo sulla 
polizia municipale, rifiutò la cittadinanza o pertinenza fiumana a molti elementi 
dannunziani e addirittura ne espulse alcuni. Sussisteva quindi un sostanziale 
conflitto di interessi nell’espletamento dell’autorità politica tra i due corpi. 

I dilemmi del sistema legale da usare nel disbrigo della giustizia, sono rappre- 
sentativi della situazione paradossale fiumana. Il codice tradizionale era quello 
della defunta monarchia austro-ungarica: se da una parte era logico abolire le leggi 
ungheresi, non era chiaro con che cosa esse potessero essere sostituite. Più di una 
volta “LamVedetta d’Italia” invocò l’applicazione e l’introduzione del codice 
italiano, ma mancavano le basi per un atto di questo genere. Alla fine, 11 Comando 
sceglieva a seconda dei casi: i precedenti ungheresi o quelli italiani per giudicare. 
Secondo una definizione di Giurati, il Comando stava agendo come una sorta di 
fiduciario della Corona italiana e la giustizia veniva amministrata in nome del Re. 
Il Peteani nutre dei dubbi sulla validità legale di questo ragionamento, dato che il 
Regno d’Italia non aveva né poteva avere nessuna autorità giuridica sul territorio 
di Fiume, fino ad annessione avvenuta nel 1924. Il riferimento al Re d’Italia era 
fatto più per motivi propagandistici e quindi politici, che in riferimento ad uno stato 
di cose realmente esistente. 

A Fiume, un nuovo quotidiano “La Vedetta d’Italia” presto divenne l’organo 


27 Ibidem, pp. 37-38. 


294 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


ufficiale del Comando dannunziano. La storia della fondazione di questo giornale 
è tuttora oscura. Quello che è certo, è che ufficiali dell’ Ufficio Propaganda 
dell’Esercito italiano vi presero parte, presenti già come agitatori con le forze 
italiane presenti nella città fin dal 1918. Il primo numero uscì pochi giorni prima 
dell’entrata di D’ Annunzio e significativamente recava un lungo articolo di D’ An- 
nunzio. Molti giornalisti e in particolare il “Popolo d’Italia” di Mussolini si 
schierarono apertamente a favore dell’Impresa. D'Annunzio riceverà supporto 
dall’Italia anche da esponenti del mondo industriale nonché da associazioni politi- 
che e culturali?*, 

Con il perpetuarsi dell’occupazione, il supporto che D’Annunzio riceverà 
dall’Italia inizierà a declinare. Il Consiglio si rivelerà un partner più affidabile nelle 
trattative, visto che accetterà le proposte di modus vivendi iniziate dal Governo 
italiano perconsentire a Fiume di evitare l’annessione alla Jugoslavia costituendosi 
in stato cuscinetto indipendente. Il primo scontro serio tra il comando dannunziano 
e il Consiglio Nazionale lo si ebbe già il 18 dicembre 1919, in seguito all’annulla- 
mento dei risultati del plebiscito atto ad accettare la proposte del governo italiano 
circa il modus vivendi. In seguito a ciò, il primo capo di gabinetto Giovanni Giurati 
si allontanò dal comandante e diede le dimissioni. 

In sostituzione a Giurati, D° Annunzio chiamò Alceste de Ambris come capo 
gabinetto, probabilmente sperando di creare difficoltà al governo Nitti, al Consi- 
glio fiumano e al fine di ottenere consensi presso alcuni settori della sinistra 
italiana. Le voci diffuse intorno alla proclamazione di una Repubblica Fiumana, 
avrebbero portato ad uno sviluppo anti statale e anti monarchico dell’ impresa. 

Dopo l’intervento del 25 dicembre, il Consiglio Nazionale riprenderà i pieni 
poteri, nominando un comitato che organizzò le elezioni per la nomina dell’ assem- 
blea costituente nella primavera del 1921, ma questi eventi esulano dai fini del 
presente articolo. 


Obiettivi politici 


L’arrivo di D’ Annunzio suscitò molto entusiasmo tra vari quadri militari che 
accorsero a Fiume. Uno di essi, il maggiore veneziano Giovanni Giurati, divenne 
Capo del primo gabinetto dannunziano. Giurati si rivelò da subito un buon orga- 


28 Per far alcuni nomi Oscar Sinigaglia, Iginio Brocchi e il gruppo Ansaldo, si veda: P. DORSI, “Fiume 


l’annessione all’Italia (1924-1928)”, Fiume nel secolo dei grandi mutamenti, Fiume, 2001. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 295 


nizzatore e provvide alla sistemazione organizzativa delle truppe. D'altra parte 
ebbe successo nel procurare supporto per l'Impresa in Italia. Inizialmente, gli 
obiettivi del CNI e di D’ Annunzio erano gli stessi: giungere ad una rapida annes- 
sione di Fiume all’Italia. Tale convergenza era ovvia, visto che D’ Annunzio era 
arrivato a Fiume su esplicita chiamata da pare del CNI, agendo quindi come agente 
o mercenario per conto del CNI di Fiume. Quando questa opzione sembrò sfumare, 
il Consiglio Nazionale accettò le proposte del governo Nitti, secondo il quale 
Fiume sarebbe divenuto uno stato cuscinetto tra Italia e Iugoslavia. D’ Annunzio si 
rivelò fin da subito molto meno pronto al compromesso col governo italiano ed i 
mezzi ed i fini dell'Impresa dovevano cambiare ai suoi occhi. Pensando ad 
un’aperta opposizione, egli nominò il più famoso leader del sindacalismo rivolu- 
zionario italiano, Alceste de Ambris come nuovo capo del gabinetto. Con questo 
atto, divenne chiaro che si era davanti a una vera e propria svolta. D’ Annunzio 
risultava essere sempre più scomodo agli occhi ed agli interessi del CNI, mentre 
tra gli obiettivi della politica del comando figurava ora, pure la realizzazione di una 
rivoluzione sociale di stampo sindacalista. Fiume doveva servire come laboratorio 
e banco di prova da estendersi poi all’intera nazione. Il conflitto del Comando con 
il Governo italiano ed il CNI fiumano fu da quel momento permanente ed è in 
queste circostanze che la Costituzione fiumana venne stilata. 

Il distacco fra D’ Annunzio, il CNI e la popolazione locale sfocerà in aperto 
contrasto dopo l’ unilaterale proclamazione della Reggenza Italiana del Carnaro nel 
settembre 1920, causato dall’incomprensione che il Comando ebbe nei confronti 
delle tradizioni locali, ma anche delle necessità materiali del momento. Tale 
scontro sarà segnato nell’ultima fase anche dagli attacchi contro i rappresentanti 
degli autonomisti di Zanella”?. L’impossibilità di raggiungere un qualunque accor- 
do durevole e proficuo fra il Comando e gli organi rappresentativi di Fiume, viene 
confermato dalla stessa Costituzione fiumana: essa prevedeva infatti la completa 
esautorazione del CNI con la sua riduzione a livello di semplice autorità comunale 
e la perdita delle prerogative di organo legislativo di uno stato che ne conseguiva. 
Se l’annessione all’Italia doveva rivelarsi impossibile, per D’ Annunzio Fiume 
poteva diventare sì uno stato indipendente, ma uno stato in rivoluzione permanente 
che per sopravvivere e guadagnare appoggi doveva diffondere la rivoluzione di 
tipo sociale per de Ambris e nazionalista per D’ Annunzio. 

Si può quindi affermare che gli obiettivi del CNI rimasero gli stessi durante 
tutto il periodo dannunziano e non subirono mutamenti significativi neanche dopo 


29 G. SALOTTI, “I rapporti...”, op.cit., p. 65. 


296 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


il 1921: giungere ad una rapida annessione della città all’Italia o perlomeno 
salvaguardare la sua autonomia e carattere istituzionale e sociale prevenendo il suo 
accorpamento alla Jugoslavia. Ad essi premeva salvaguardare e conservare la 
preesistente struttura sociale e culturale di Fiume entro i limiti del corpus separa- 
tum. Gli obiettivi del Comando dannunziano erano molto più ambiziosi e durante 
il decorso dell’ Impresa subirono significativi mutamenti. 


III Argomenti e contrattazioni 
Il processo costituente 


In questo capitolo si cercherà di ricostruire lo stile del dibattito e la natura degli 
argomenti che usato dai due autori della Costituzione della Reggenza dannunziana. 
Nel fare ciò, ci serviremo dello schema che Jon Elster ha usato per l’analisi delle 
Convenzioni di Philadelphia e Parigi?°. Essenzialmente, il processo di creazione di 
una costituzione scritta è secondo Elster un problema di scelta collettiva, che 
dunque si presta ad essere analizzato con la teoria della scelta razionale. 

Per Elster le circostanze che conducono all'elaborazione di nuove costituzioni 
sono in contrasto con la pianificazione disinteressata a lungo termine che le 
costituzioni tipicamente richiedono. Gli attori politici convengono a mettere da 
parte i vari motivi di contenzioso e interessi di parte e rifondare su nuove basi il 
sistema politico, tipicamente in situazioni di crisi o rivoluzione drammatica, che 
non lasciano molto spazio a dibattiti sereni, disinteressati e lungimiranti. 

Quasi per definizione, il vecchio regime o assetto costituzionale è parte del 
problema che la costituzione nuova è chiamata a risolvere. Non serve una costitu- 
zione nuova o la formazione di un’assemblea costituente se il regime o assetto 
precedente non si considerano superati o sbagliati. Ma perché allora rispettarne le 
regole? D° Annunzio, da parte sua, risolse il problema con una decisione che ruppe 
tutti i legami con il passato e la tradizione precedente: il documento fu presentato 
in pubblico e accolto con pubblica acclamazione. Si tratta di un caso paradigmatico 
in cui le regole del processo di ratificazione furono imposte dall’autorità e dal 
carisma di D’ Annunzio e del suo gabinetto. 

Anche a prima vista, a Fiume le condizioni erano estremamente poco favore- 
voli alla stesura di un testo costituzionale. Come sappiamo, la situazione di Fiume 
nel 1920 non presentava le condizioni necessarie di calma e pace anche se, 


30 J. ELSTER, "Constitutional..., op.cit., pp. 57-83, e Ulysses Unbound..., op.cit. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 297 





Il tricolore italiano a Fiume 


tipicamente, la volontà pubblica di procedere a grosse modifiche costituzionali, si 
presenta raramente in assenza della pressione di una crisi. A Fiume nel periodo 
1919-1921 furono iniziati ben tre processi costituenti: nel 1919 il Consiglio 
Nazionale elaborò uno Statuto, di fatto una legge fondamentale per lo Stato 
provvisorio; nel 1920 fu la volta di D’ Annunzio; e nel 1921 Zanella, in qualità di 
Presidente fiumano, commissionò al celebre giurista austriaco Hans Kelsen la 
stesura di una bozza costituzionale che avrebbe dovuto essere approvata dall’ As- 
semblea Costituente fiumana?'. La situazione critica riguardo al futuro assetto 
internazionale della città e le sue difficoltà interne, presumibilmente bastano a 
spiegare questo insolito fervore costituente. 

Elster sostiene che il corpo politico che ha un ruolo nella stesura della 
costituzione, tipicamente cercherà di mantenerlo anche nella nuova mappa di 
potere. Questa ipotesi viene confermata pienamente nel caso di Fiume: nella Carta 
del Carnaro il potere è concentrato nell’esecutivo e, dunque, l’interesse a conser- 
vare la posizione istituzionale è chiaramente presente. Tutti e due godevano di 
potere esecutivo: D’ Annunzio era capo dell’esecutivo in quanto comandante della 
città che governava con poteri e stile dittatoriale, mentre de Ambris era capo del 


3 Cfr. A. BALLARINI, L’antidannunzio a Fiume - Riccardo Zanella, Trieste, 1995. 


298 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


gabinetto. Non solo: il conflitto istituzionale principale a Fiume si giocò principal- 
mente tra il Consiglio Nazionale e il Comando dannunziano. Nella costituzione, 
alla stesura della quale nessun membro del Consiglio fu chiamato, è palese il 
declassamento politico che subisce il Consiglio Nazionale: esso viene ridotto adun 
organo di amministrazione comunale, senza prerogative di stato che, a partire dal 
quel momento, di fatto furono concentrate nelle mani del Comando e nella figura 
di D’ Annunzio. Egli preservò la figura del Comandante e nominò tutti i sette rettori 
(capi dell’esecutivo). 

Per quanto concerne l’aggregazione, la trasformazione e l’incomprensione 
delle preferenze, secondo Elster, è di cruciale importanza se il processo costituente 
è tenuto segreto o invece è pubblico. I motivi sono facili da intuire: è molto più 
facile arrivare ad una discussione sincera e serena se si sa che non si è sottoposti 
alla valutazione della pubblica opinione. In questo modo si possono chiarire gli 
equivoci, ed il consenso e i compromessi che si raggiungono sono di stabilità 
maggiore che non quelli che avvengono in dibattiti pubblici, come nel caso della 
convenzione di Parigi. Dai verbali del Consiglio Nazionale sappiamo che, a parte 
alcune pubbliche dichiarazioni di D° Annunzio, nessuna informazione trafugò sulla 
natura, sulla forma e sugli obiettivi del progetto costituzionale, e che, quindi, si 
svolse in condizioni ideali di assoluta segretezza. La segretezza produce un altro 
effetto importante per Elster: essa aiuta a trasferire il baricentro del discorso dalla 
discussione imparziale ad una contrattazione interessata. La qualità della discus- 
sione ne risulta migliorata, perché è facile cambiare opinione se si è convinti della 
validità delle posizioni degli oppositori e non si deve difendere la propria reputa- 
zione dinanzi al pubblico. Sappiamo che ambedue i processi a Fiume e la Carta 
presenta notevoli qualità di compromesso tra due personaggi così diversi per 
carattere e credo politico, come de Ambris e D’ Annunzio. 

Dove viene convocata un’assemblea costituente, i desideri, le preferenze e le 
credenze personali dei partecipanti sono tipicamente un fattore marginale; l’inte- 
resse di gruppo assume qui invece un’importanza maggiore, anche se i gruppi che 
agiscono per promuovere i loro interessi specifici, lo fanno in nome di principi 
generali e di valori imparziali. A Fiume non fu convocata nessuna assemblea 
costituente, I due autori agirono in segreto: perciò ci si può attendere di trovare qui 
un’incidenza molto maggiore degli interessi personali. 

Ma il processo costituente presenta molti lati opachi. La segretezza si spiega 
con il fatto che D'Annunzio cercò fin dall’inizio di escludere tutte le forze 
potenzialmente ostili. La maggior parte delle forze politiche cittadine, ma anche 
alcuni tra i collaboratori più stretti e affidabili di D’ Annunzio erano contrari al 
progetto e lo furono ancora di più quando furono resi noti il suo contenuto e gli 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 299 


obiettivi rivoluzionari. Tutto il processo si svolse in condizioni di estrema preca- 
rietà ed insicurezza sotto la costante minaccia di una ribellione militare nonché 
intervento militare diretto. Ci sono tutte le premesse per supporre che la paura, la 
rabbia, la frustrazione e l’entusiasmo ebbero la meglio sui due, rendendo così le 
prospettive di un sereno dibattito a mente fredda estremamente improbabili. Il 
processo costituente a Fiume aveva in breve più “l’opacità della battaglia che la 
prevedibilità delle deliberazioni parlamentari”. In conclusione, i principali para- 
dossi del costituzionalismo di Elster appaiono confermati nel caso di Fiume. 

Gli eventi fiumani lasciarono poco spazio alla contrattazione. De Ambris non 
ebbe di fatto alcun potere materiale e la posizione di D’ Annunzio all’interno della 
città stava diventando sempre più precaria. L'obiettivo della loro costituzione era 
quello di sostituire il vecchio regime a Fiume. Di conseguenza gli esiti possibili del 
processo costituente a Fiume lasciarono ancora meno spazio per compromessi, 
vista la natura radicale dei cambiamenti prospettati. Il proclama della costituzione 
fu posposto da marzo a settembre con la speranza di trovare nuovi alleati politici 
all’interno e al di fuori della città, ma a causa dell’assenza di dibattito pubblico, 
che avrebbe forse potuto portare a qualche soluzione di compromesso, il successo 
fu nullo. Nonostante l’insuccesso di trovare alleati politici, la Carta fu proclamata 
ed entrò in forza 1’8 settembre 1920. 

Possiamo considerare come due estremi i tipi ideali della contrattazione 
interessata con Obiettivi a breve termine e la discussione imparziale sul bene 
comune”. In pratica la differenza si traduce nella distinzione tra gli effetti di 
transizione e di equilibrio di una nuova costituzione. Nel caso di una discussione 
razionale sussiste la tentazione di creare la costituzione migliore sub specie aeter- 
nitatis tale con le migliori caratteristiche di equilibrio*'. De Ambris sembrava 
rendersi conto del problema: 

“il nostro Disegno di Costituzione tiene conto di questo; ma tien conto altresì 


32 J. ELSTER, “Constitutional ...”, op.cit., e Ulysses..., op.cit. 


33 Seguendo Elsterconsideriamo: argomentare (10 argue) significa ingaggiare un processo di comunicazione 
con l'obiettivo di persuadere l'oppositore. In tali discussioni l'unica cosa che conta è il "potere dell’argomento 
migliore" per cui condizione della validità normativa è rappresentata esclusivamente dall'imparzialità. 

Contrattare (to bargain) significa ingaggiare una comunicazione con l'obiettivo di costringere l'opponente 
ad accettare la propria posizione. Per raggiungere lo scopo i contraenti usano minacce e promesse che devono 
essere realizzate ed eseguite al di fuori dell'assemblea. Il potere di contrattazione non deriva quindi dalla bontà 
degli argomenti, ma dalla disponibilità di risorse materiali, manodopera, mezzi finanziari, ecc. e i contraenti 
devono essere in grado di presentare le promesse a minacce come credibili ai loro oppositori. 


34 Tale approccio è sbagliato secondo Elster: l’obiettivo, secondo lui, è quello di trovare la costituzione con 
le migliori proprietà di equilibrio a partire dal momento in cui essa entra in vigore, altrimenti si rischia di imporre 
sofferenze eccessive e ingiustificate alle generazioni che hanno la sfortuna di vivere nel periodo di transizione. 


300 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


dello stato di transizione che attraversiamo, in cui le forze democratiche 
conservano tuttavia una notevole forza, mentre le corporazioni dei produttori 
sono ancora embrionali, od almeno troppo imperfette ed incomplete per 
potersi sostituire interamente nella direzione dello Stato. Perciò ci è sembrato 
temerario ricorrere a quell’assoluta attribuzione dei poteri statali alle rappre- 
sentanze dei produttori, che gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella 
riconoscevano alle arti e la Costituzione della Repubblica Russa riconosce ai 
Consigli degli operai escludendo da ogni diritto politico chi non compia un 
determinato lavoro”. 35 


I costituenti fiumani erano molto più preoccupati con la discussione razionale 

che con la contrattazione. De Ambris si preoccupava soprattutto delle proprietà di 
equilibrio a lungo termine della costituzione fiumana: 

“il nostro disegno di costituzione cerca di sminuire, se non di eliminare, gli 

inconvenienti di entrambi i sistemi, conferendo al potere esecutivo una certa 

stabilità che lo sottrae all’alea delle cabale e dei colpi di mano parlamentari 

per un tempo sufficiente per realizzare un programma immediato (un anno); 

ma non così lungo da costituire una minaccia seria pel caso che ad un certo 

punto esso potere esecutivo si mettesse in contrasto con la volontà della 

nazione.”°39 


Come si voleva assicurare un equilibrio etnico in una comunità mista come 
Fiume? 


“Fiume è senza contestazione una città italiana; ma per piccolo che possa 
essere il territorio della Repubblica, e quand’anche risultasse composto dal 
solo “corpus separatum” non sarebbe meno vero che una parte della popola- 
zione è slava di razza e di lingua (...) ci siamo chiesti perciò come si potrebbe 
risolvere il problema ed abbiamo trovato nell’antica sapienza romana e 
nell’esperienza moderna la risposta: soltanto un sistema di larghe autonomie 
locali ed uno spirito di grande tolleranza può rendere possibile la convivenza 
pacifica di varie razze in un medesimo aggregato politico. La Confederazio- 
ne Elvetica — che sotto molti aspetti presenta una situazione analoga a quella 
in cui si trova la nostra Repubblica — ci offre l'esempio significantissimo di 
un cantone come quello dei Grigioni — dove 50 mila tedeschi, 367 mila 
romanci e ladini, 18 mila italiani, divisi per giunta in protestanti e cattolici, 


35 A. DE AMBRIS, La Costituzione di Fiume. Commento illustrativo di Alceste de Ambris, Fiume, 1920. 
Ora in R. De FELICE, La Carta del Carnaro..., op.cit., p. 82. 


36 Ibidem, p. 84. 


W. KLINGER, La carta del Camaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 301 


possono convivere in pace unicamente perché a ciascuna razza è riconosciuto 
il diritto di serbare la propria lingua e le proprie costumanze in seno all’ag- 
gregato politico cui appartiene. Roma poté reggere per molti secoli il mondo 
accordando il diritto di cittadinanza a tutti i popoli dell'Impero col rispetto 
per i costumi e per la lingua di ciascuno.”3? 


Gli argomenti che mirano sulle conseguenze delle azioni trattano due tipi di 
questioni — le linee di sviluppo della società nel prevedibile futuro e le relazioni 
causali tra il nuovo ambiente istituzionale e il comportamento individuale risultan- 
te. A Fiume troviamo solo congetture sullo sviluppo demografico ed economico 
della città. De Ambris difende cosi la nazionalizzazione del porto e delle ferrovie 
a Fiume: 


“la rivendicazione di questo diritto non ha soltanto un valore economico. 
Solo alla cecità ed al superficialismo ignorante di qualche politicastro può 
sfuggire che il porto e la ferrovia di Fiume in mani non italiane significhe- 
rebbe la snazionalizzazione della città entro dieci o vent'anni, mediante 
l'immissione artificiosa di elementi estranei che altererebbero il rapporto 
demografico ora esistente.”38 


La questione del suffragio illustra forse meglio di ogni altra il rapporto tra 
diritti e le loro conseguenze degli stessi. In particolare la estensione del suffragio 
universale alle donne ha due aspetti: esiti come un buon processo decisionale, 
dall’altra come legittimare e giustificare il diritto di partecipazione politica alle 
donne. Il diritto veniva percepito come contributo all’aumento del benessere dello 
stato ma anche alla sua difesa militare. Alla eguaglianza di diritti corrispondeva 
uguaglianza di doveri dato che il servizio militare era esteso anche alle donne. De 
Ambris riconosceva che l’eguaglianza dei sessi a Fiume era ormai quasi completa 
dalla legislazione vigente ma: 


“esse hanno meritato di vederla completata per la coscienza civica, per lo 
spirito di sacrifizio e per la fiera volontà di cui hanno dato prova costante nel 
lungo periodo della non conclusa lotta che Fiume sostiene contro il mon- 
do”.39 


37 Ibid., pp. 84-85. 
38 Ibid., p. 86. 
39 Ibid., p. 81. 


302 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


A Fiume le incertezze non mancavano così che ambedue introdussero provvi- 
sioni basate sulla incertezza e i rischi ad essa connessi. D’ Annunzio introdusse così 
la provvisione che la costituzione dovrebbe accomodare ogni futura estensione 
della libertà umana, anche se questa risulta ancora inintelligibile per i contempora- 
nei. La flessibilità della costituzione (quella fiumana era soggetta a modifica ogni 
5S anni nella versione definitiva di D’ Annunzio) era difesa con l’argomento della 
limitatezza della ragione umana e dalla risultante impossibilità di una costituzione 
tale da resistere le sfide del futuro. La Carta del Carnaro introdusse i diritti sociali 
per la prima volta in un testo costituzionale, come il salario minimo garantito, 
l’assistenza in caso di malattia o la disoccupazione volontaria e una pensione di 
anzianità. De Ambris giustificò così la loro introduzione: 


“noi pensiamo infatti che la Società non possa imporre ai suoi componenti 
per la sua esistenza e la sua difesa obblighi che vanno fino al sacrifizio della 
vita, se non assicura ad essi almeno quel minimo indispensabile indicato 
nell’articolo sopracitato, senza di che ogni altro diritto legale diventa nel fatto 
irrito e nullo.”99 


De Ambris progettò un sistema elettorale a più livelli. Lo schema che risultò 
si fondava sui diritti, ma aveva anche una funzione strumentale. Tutti i cittadini 
senza distinzioni avevano il diritto di voto per la camera alta, mentre i produttori 
avevano la possibilità di eleggere anche la camera delle corporazioni. I produttori 
avevano così la possibilità di votare due volte a differenza dei non produttori. Il 
diritto universale di partecipazione basato su concetti di eguaglianza degli uomini 
erano realizzati per il Consiglio degli Ottimi, mentre per il Consiglio dei Provvisori 
vigeva il requisito della strumentalità della competenza e dell’interesse diretto. 

L’assunzione generale che i pubblici ufficiali agiranno nell’interesse generale 
solo se questo coincide con il loro interesse era chiaramente compresa da de 
Ambris. Stranamente, su questo si fondava il principale argomento contro i partiti 
politici: dato che i partiti si fondano sui ideologie, essi non hanno nessun motivo 
reale materiale di formare ufficiali che agiranno nell’interesse dei loro collegi 
elettorali, ma agiranno solo per proprio interesse o peggio — per invidia e volontà 
di vendetta o rivalsa. Le corporazioni sarebbero quindi superiori ai partiti politici 
perché i loro membri condividevano gli stessi interessi per definizione secondo de 
Ambris. La possibilità che i partiti politici si organizzino era prevista nel comune, 
ma egli era convinto che le fratture ideologiche all’interno delle corporazioni e dei 


40 Ibid. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 303 


comuni sarebbero state superate in tempi brevi conducendo ad una graduale 
sparizione dei partiti politici. 

Tale conclusione radicale era fondata su ragionamenti saldi di scelta razionale. 
De Ambris supponeva che le preferenze individuali non si potessero cambiare, ma 
che le istituzioni potevano porre incentivi che avrebbero potuto influire sul com- 
portamento individuale. Pure a Maffeo Pantaleoni, Rettore delle Finanze del primo 
Governo della Reggenza del Carnaro, non sfuggirono le difficoltà teoriche e 
pratiche nel definire in modo chiaro e consistente i limiti delle cooperative. Come 
si poteva attendere inoltre che le cooperative avrebbero agito per il bene comune 
se di fatto esse erano concepite come monopoli economici? 

Le istituzioni politiche possono avere due tipi di effetti sul comportamento dei 
cittadini. Il primo appartiene all'economia e alla teoria della scelta pubblica: date 
dalle motivazioni individuali, le istituzioni possono porre incentivi agli individui 
ad agire in un certo modo, il secondo prevede che l’ambiente istituzionale influen- 
zerà le decisioni prese dagli individui*'. Sotto questa luce, le differenze tra i due 
costituenti appaiono notevolissime: le premesse dei ragionamenti di D’ Annunzio 
erano fragili e congetturali, secondo lui l’esperienza della Grande guerra e la 
nascita di una nuova società libera a Fiume avrebbe necessariamente modificato la 
natura delle preferenze umane e avrebbe condotto ad un nuovo tipo di uomini 
—“uomini nuovi”. Per de Ambris e in generale la prospettiva sindacalista era il fatto 
stesso dell’industrializzazione e la nascita della società di massa a modificare le 
preferenze degli uomini immettendo tutta una serie di incentivi nuovi. In un altro 
punto de Ambris considerò la pubblica deliberazione come metodo per cambiare 
le preferenze dei cittadini, anziché aggregarle soltanto: la revisione costituzionale 
poteva essere iniziata solo per iniziativa di assemblee locali comunali o dalle 
corporazioni, non per iniziativa individuale. Probabilmente la notevole esperienza 
politica e organizzativa di de Ambris portò quest’ultimo a ragionare in termini di 
incentivi molto più di D° Annunzio totalmente estraneo a questo genere di argo- 
menti. 


Alceste de Ambris e la “Costituzione della Repubblica del Carnaro” 


Il potere costituente è un potere capace di imporre un ordine nuovo dal nulla, 
anche se abitualmente costituzioni nuove si istituiscono sulle rovine di un vecchio 


4 L’individualismo metodologico porta Elster a privilegiare l'influenza degli individui sulle istituzioni che 
sono a loro volta costituite dagli individui con le loro credenze, preferenze e scelte. 


304 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


sistema dopo il suo collasso. Questo significa che durante una rivoluzione l’ordine 
sociale preesistente può essere almeno in parte preservato o distrutto completa- 
mente. Secondo, nel processo costituente gli autori possono accettare alcune 
caratteristiche dell’ordine sociale vecchio e immettere nella nuova costituzione o 
ripudiare tutto e cercare di costruire un nuovo tipo di comunità politica. 

Il compito di de Ambris era difficile: doveva costruire un sistema costituzio- 
nale a partire da una ideologia che essenzialmente lo ripudiava. Il Comandante non 
era fautore della democrazia liberale o rappresentativa, e la sua concezione perso- 
nale della politica e il suo modo di fare politica era lontano dalla deliberazione 
parlamentare. Come già visto, sussistevano profonde differenze tra i due anche 
riguardo i fini strategici che si volevano raggiungere con la Costituzione. Nono- 
stante ciò, l’opera di de Ambris fu un successo e il prodotto finale (anche se 
appesantito da aggiunte letterarie ed estetiche di D’ Annunzio) risulta essere una 
costituzione piuttosto coerente e, nel contempo, estremamente originale. Conviene 
quindi sintetizzare le tesi principali del sindacalismo rivoluzionario in materia di 
Stato, presentate nel primo capitolo. 

Scopo dello Stato era quello di assicurare il grado maggiore possibile di 
benessere ai cittadini, lasciando spazio per possibili miglioramenti. La ricchezza 
della società era dovuta al lavoro produttivo, di conseguenza, erano i produttori a 
meritarsi la maggior attenzione da parte dello Stato e, di conseguenza, avevano 
diritto a più peso all’interno della comunità politica. Di converso, coloro che non 
producevano si sarebbero visti diminuire i loro diritti politici. Lo Stato non si 
compone solo da individui atomici, ma deve la sua stessa esistenza allo spirito di 
associazione che è tipico dell’uomo. Le associazioni hanno problemi e necessità 
specifiche distinti dai problemi individuali e anche questi dovrebbero trovare il 
loro posto nella costituzione; il “diritto realistico” dovrebbe riconoscere il fatto 
della vita associata mettendolo in pratica e non arroccarsi in un “individualismo 
estremo quanto astratto”. I gruppi spontanei come la famiglia, i comuni o i 
sindacati hanno i loro codici e norme che la costituzione doveva riconoscere, 
accomodare in uno sistema coerente e consistente, non inventarne di nuovi di sana 
pianta. Lo stato che soddisfa la spinta all’ autogoverno che proviene dal basso, è lo 
stato decentralizzato e pone l’autogoverno come obiettivo; la rappresentanza 
politica avrebbe dovuto riflettere tale strutturazione sociale riconoscendo un ruolo 
politico di primo piano alle corporazioni — organizzazioni economiche. Anche se 
le corporazioni si trovavano in uno stato embrionale o neppure esistenti, la crea- 
zione di un chiaro quadro costituzionale ne avrebbe favorito la formazione secondo 
i principi dell’organizzazione spontanea. Ai fini di una migliore regolazione dei 
rapporti e relazioni tra le varie associazioni e tra di esse e gli individui e lo stato 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 305 


bisogna conferire lo status di persona giuridica; la rappresentanza politica ha da 
rispecchiare; deve esserci un parlamento tecnico delle corporazioni che legiferi su 
tutte le materie tecniche e commerciali; il vero parlamento politico, il senato, deve 
espri mere la volontà nazionale e deliberare su questioni generali. 

È fuori di dubbio che nella primavera del 1920, quando de Ambris stava 
lavorando sulla costituzione di Fiume, egli aderì alle tesi del sindacalismo rivolu- 
zionario elaborate principalmente da A. O. Olivetti e S. Pannunzio. Quando fu 
completata la bozza nel marzo 1920 da de Ambris, ciò che ne emergeva era già una 
costituzione matura. Fiume doveva essere una repubblica con un nuovo e rivolu- 
zionario sistema rappresentativo. Seguendo i precetti dei maestri teorici del sinda- 
calismo, de Ambris aveva impostato un sistema bicamerale, costituito da un 
parlamento tecnico o camera delle corporazioni, associato ad un parlamento poli- 
tico o senato che era il solo ad essere basato sulla rappresentanza territoriale e 
svolgeva le tradizionali funzioni politiche. 

Rispetto ai pensatori sindacalisti, de Ambris appare estremamente fedele ai 
valori classici e tipici della democrazia costituzionale. Ad una più attenta analisi, 
appare che il disegno di de Ambris cercava di comprendere e conciliare tutte le 
conquiste della democrazia costituzionale antica e moderna. L’eguaglianza giuri- 
dica di tutti i cittadini veniva estesa senza distinzione di sesso o stirpe, si prestava 
molta attenzione di garantire le libertà individuali dando ai cittadini una protezione 
efficace anche contro gli abusi di potere. Il bicameralismo, elezioni libere ed 
immediate degli organi legislativi, federalismo e specialmente l’indipendenza 
delle corti e giudizio della costituzionalità delle leggi, si trovano tutte nella sua 
bozza di costituzione fiumana. 

Uno degli obiettivi più importanti di una costituzione è quello di tracciare un 
equilibrio tra i rami esecutivo e legislativo del governo. Nel nostro caso ci fu un 
chiaro spostamento dell’equilibrio dei poteri a favore dell’esecutivo in tempi 
normali ed eccezionali. I pericoli di un esecutivo troppo forte erano ben presenti in 
de Ambris, ma l’atteggiamento di sfiducia sull’affidabilità ed efficacia del parla- 
mento come istituzione legislativa che non si riteneva capace di stabilità e respon- 
sabilità per il paese specialmente in tempi critici era da lui valutato in misura 
ancora maggiore”. 


“Per quanto riguarda il potere esecutivo ci siamo trovati di fronte al solito 
dilemma: parlamentarismo o presidenzialismo? Ognuno conosce i pregi e 


soprattutto i difetti di ciascuno dei due sistemi. La commedia politica che si 


4 A. DE AMBRIS, La Costituzione ..., op.cit., pp. 83-84. 


306 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


giuoca ora in America fra Wilson da una parte e la maggioranza del paese da 
un’altra, con incalcolabili conseguenze per tutto il mondo, dimostra meglio 
di ogni lunga disquisizione i pericoli del sistema presidenzialistico, che 
assomma ad un uomo solo e per un periodo assai lungo tutto il potere 
esecutivo. 

I pericoli e i danni del parlamentarismo ci sono troppo noti per diretta 
esperienza perché occorra illustrarli. Basterà ricordare come durante la guerra 
fosse sentita l’inferiorità dei paesi retti a sistema parlamentare, con un potere 
esecutivo in balia delle ambizioni, degli interessi e degli intrighi dei membri 
d’un’assemblea non di rado ignara, irresponsabile e perfino isterica.”4 


L’esecutivo doveva essere composto da sette “Commissari” ed era libero da 
ogni interferenza parlamentare, dato che si prevedeva una sola riunione del parla- 
mento volta ad eleggere l’esecutivo. D'altra parte si cercò di limitare il potere di 
questo, limitando il mandato di governo ad un anno solo. Era questo il compromes- 
so di de Ambris: porre dei limiti alla capacità di azione al legislativo e porre limiti 
al raggio d’azione all’esecutivo. Come molti altri, egli nutriva poca fiducia sull’ef- 
ficienza ed affidabilità della deliberazione parlamentare, ma d’altra parte teneva 
ben presenti i pericoli di una dittatura conferendo troppo potere all’esecutivo. 
Nonostante ciò l’emergenza costituzionale veniva considerata seriamente: per la 
prima volta in una costituzione scritta era prevista la carica del dittatore, ma 
strettamente limitata ad una durata temporale di sei mesi nell’abbozzo di de 
Ambris**. È da notare che un modo simile di ragionare fu condotto anche a Weimar 
dove si arrivò a conferire poteri illimitati dalla costituzione al democraticamente 
eletto presiedente del Reich". Anche se tali soluzioni possono col senno di poi 
essere definite “atti di populismo disastroso”, per usare un’espressione di Elster, 
essi comunque riflettono un problema reale di come impostare la nuova politica di 
massa in paesi in cui non c'erano tradizioni democratiche. In questa luce, la 
soluzione prospettata da de Ambris appare molto più bilanciata. 

La divisione territoriale del potere in comuni assicurava una struttura federale 
O piuttosto cantonale dello stato con l’obiettivo di realizzare quell’autogoverno e 


43 Ibidem, p. 84. 


44 De Ambris fu influenzato da D'Annunzio, tanto che nei suoi scritti successivi all'impresa, egli non 
menzionerà più questa possibilità, cfr. R. De FELICE, La Carta del Carnaro..., op.cit., pp. 83-84, e (Anonimo), 
La Repubblica dei Sindacati. Analisi sindacalista e testo integrale della costituzione di Fiume dettata da Gabriele 
D'Annunzio, Milano, 1921. 


4 W. MOMMSEN, opccit. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 307 


decentralizazione dei poteri cari ai sindacalisti ed anarchici. In caso di eventuale 
conflitto tra lo Stato, i cittadini, i comuni o le corporazioni, spettava alla Suprema 
Corte l’ultima parola in merito e la sua autorità era suprema. La Corte suprema 
aveva potere di giudicare la costituzionalità delle leggi. La costituzione era sogget- 
ta a revisione ogni 7 anni dall’ Assemblea Nazionale, un primato assoluto. 

La Repubblica non doveva avere un esecutivo forte, nessun capo dello stato 
né un esercito permanente. La parità totale dei sessi era definita sia in termini di 
doveri che di diritti: uomini e donne godevano degli stessi diritti politici e stessi 
diritti e doveri civili potevano far parte delle corporazioni e divenire attori dell’eco- 
nomia o difendere la terra in caso di guerra. I diritti sociali erano introdotti in 
misura massiccia come anche 1 diritti culturali della minoranza croata e slovena. 
In una lettera di de Ambris a Bonomi‘9, egli illustrò la probabile struttura cantonale 
del nuovo stato: il cantone sloveno a nord, il cantone croato a sud est, il cantone 
italiano a sud ovest. I cantoni secondo questo scritto dovevano aver “un’ammini- 
strazione federale molto larga, riconoscendo ad ognuno di essi i diritti sovrani di 
cui godono gli Stati dell’Unione Americana”. De Ambris voleva limitare il cantone 
italiano alla sola città di Fiume, compresi l’isola di Cherso e i comuni litoranei della 
Liburnia per dargli omogeneità etnica, anche se altre comunità potevano essere 
accolte su loro esplicita richiesta. 

Lo stesso de Ambris non nascondeva che l’ispirazione ideologica era quella 
del “Manifesto dei sindacalisti” scritto da Olivetti‘. Egli si trovava d’accordo con 
Olivetti sugli scopi della rivoluzione: non momento di violenza rivoluzionaria ma 
“processo attraverso il quale si raggiungeva la distruzione delle barriere che ancora 
impedivano l’affermazione dell’era sindacalista”. Parafrasando Olivetti, de Am- 
bris sosteneva che il sindacalismo proclamava in primo luogo l’ assoluta autonomia 
delle classi lavoratrici da organizzazioni partitiche o ideologie politiche; secondo, 
si voleva l’azione diretta degli operai contro le altre classi senza intermediari 
politici; terzo, la rappresentanza di interessi di categorie economiche nei corpi 
elettivi; l'autonomia dei comuni, dato che il comune era considerato l’organismo 
dove la libertà del popolo si affermava; l'autonomia politico-amministrativa delle 
regioni; e infine, la graduale eliminazione della funzione dello stato e della sua 
burocrazia. 


46 R. DE FELICE, Sindacalismo ..., op.cit., pp. 286-287. 


47 “I] manifesto dei sindacalisti” ora in A. O. OLIVETTI, Dal sindacalismo rivoluzionario..., op.cit., pp. 
197-220. 


48 R. DE FELICE, Sindacalismo..., op.cit., p. 313. 


308 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


Egli riconosceva che “il suffragio universale va almeno temperato dalla 
rappresentazione effettiva delle classi e delle categorie”. I capitoli sui poteri 
legislativi ed esecutivi delineano un tipo di governo repubblicano, uno stato 
federativo “per opera dei gruppi organici ed effettivi che lo compongono”. Si può 
quindi supporre che l’ultimo motivo che giustificava l’introduzione di un ordina- 
mento corporativo e una divisione spiccatamente territoriale, oltre che funzionale 
del potere politico, era la paura delle conseguenze imprevedibili che l'estensione 
del suffragio alla totalità dei cittadini avrebbe comportato e sulle quali nulla ancora 
si sapeva. 

De Ambris sottolineava la totale autonomia di ogni corporazione essendo i 
loro problemi regolati sul modello delle comuni e per le quali ovviamente il criterio 
di delimitazione era territoriale. “Ogni Corporazione svolge il diritto di una 
compiuta persona giuridica compiutamente riconosciuta dallo Stato”. La costitu- 
zione era pensata per una piccola città-stato; se fosse stata estesa all’Italia, il loro 
numero sarebbe stato maggiore delle dieci corporazioni della Carta. 

Non solo, i produttori erano arbitri dei destino dello stato perché avevano 
doppio diritto di voto: come cittadini eleggevano il Consiglio degli Ottimi (il 
senato) e come produttori il Consiglio delle corporazioni (il parlamento tecnico). I 
loro rappresentanti nelle corporazioni facevano le leggi in materia economica, 
commerciale e tecnica e l’arbitraggio veniva svolto dai giudici del lavoro scelti 
dalle corporazioni. Coloro che non partecipavano all’attività produttiva avevano 
una capacità politica dimezzata che aspettava solo di essere completamente sop- 
pressa. “I cittadini produttori sono effettivamente arbitri dello stato, avendo un 
doppio voto: come cittadini per l’elezione degli Ottimi — come produttori per 
l’elezione dei Provvisori.”° I produttori dovevano fare le leggi per tutta la materia 
economica dello Stato. 

Il potere esecutivo era nelle mani dei produttori: le corporazioni eleggevano 2 
dei 7 commissari del governo, quello dell’economia pubblica e quello del lavoro. 
Il Consiglio delle corporazioni partecipava all’elezione di altri 3 commissari: degli 
esteri, dell'educazione pubblica, delle finanze e tesoro. Infine, da cittadini i produt- 
tori eleggevano il senato, che nominava i commissari agli affari interni, alla 
giustizia e alla difesa nazionale. 

De Ambris ammise l’influenza che il modello svizzero aveva avuto afferman- 
do che “il capo del governo è presente in tutte le costituzioni — inclusa quella 


4 R. DE FELICE, Sindacalismo..., op.cit., p. 317. 
50 Ibidem, p. 320. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 309 


svizzera — che sotto un certo punto di vista può considerarsi la più vicina al nostro 
modello politico”. 


Gabriele D'Annunzio e “Lo Statuto della Reggenza italiana del Carnaro” 


La bozza della costituzione di de Ambris fu sottoposta al vaglio di D’ Annun- 
zio che, sorprendentemente, aggiunse solo minori correzioni di natura stilistica, ma 
senza cambiare lo spirito rivoluzionario ed egualitario del documento. Nella sua 
forma finale essa incorporò le visioni rivoluzionarie di de Ambris con le intuizioni 
volontaristiche di D’ Annunzio sulla natura dello stato che la nuova politica di 
massa stava trasformando in qualcosa di molto più simile ad una manifestazione 
teatrale. 

Comparare l’abbozzo di de Ambris con la versione definitiva dopo le modifi- 
che di D’ Annunzio, mostra le differenze nei fini politici che secondo i due la 
costituzione doveva avere. Le modifiche che il Comandante apportò, ci suggeri- 
scono quale poteva essere stata l'evoluzione politica del piccolo stato se solo fosse 
sopravvissuto sotto il suo comando. 

D'Annunzio introdusse due importanti articoli: sull’edilità e sulla musica, 
nonché due corporazioni: della Gente di mare per motivi “tattici”?! e la decima con 
finalità più ampie che potremmo definire “strategiche”. 

La modifica più importante resta comunque l’allentamento dei limiti di tempo 
della figura del dittatore, mentre per de Ambris la durata della carica era tassativa- 
mente limitata a solo sei mesi per D’ Annunzio questo dato era soltanto indicativo 
e non normativo”, 

L’introduzione della decima corporazione resta avvolta nel mistero anche 
perché la definizione che D° Annunzio ne dà non è di grande chiarezza e utilità. De 
Ambris, in un commento posteriore, e più chiaro: sempre rifacendosi a Olivetti* 
sostiene che il progresso tecnico libererà il lavoratore dalla fatica fisica. Il tempo 
libero e l’energia messa a disposizione darà così vita a un superuomo, il primo 
uomo capace di superare la maledizione biblica di produrre con pena e fatica. Ecco 


5! Probabilmente per garantirsi l'appoggio di un sindacalista italiano, Giuseppe Giulietti, capo della 
Federazione della ‘Gente di mare”. 


52 È interessante notare che nel commento alla Carta scritto da de Ambris dopo la fine dell’Impresa, la 
funzione di dittatore non viene più menzionata; il fatto suggerisce che essa fosse opera di D’ Annunzio fin dalla 
bozza. 


53 Si veda “Il manifesto dei sindacalisti”, op.cit., pp. 198-200. 


310 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


il motto di D’ Annunzio ‘fatica senza fatica”. In realtà la funzione della decima 
corporazione risulta molto simile ad una avanguardia rivoluzionaria che ha il 
compito di fornire all’uomo nuovo l’indirizzo giusto per permettere la realizzazio- 
ne di quel che in ultima analisi ci appare come un’utopia estetizzante. La decima 
corporazione che “non ha né arte né novero né vocabolo” doveva essere l’élite 
rivoluzionaria che “chiama il popolo all’aspirazione profonda, alla meta ideale 
verso cui muove l’Umanità fin dai lontani millenni.”°* La presenza di tale avan- 
guardia rivoluzionaria conferiva al progetto costituzionale in Fiume un’impronta 
simile a quella che Lenin diede alla Rivoluzione d’Ottobre posta sotto la guida del 
Partito comunista russo. 

È difficile provare se la carta era un documento coerente capace di dare vita 
ad un sistema politico stabile e di lunga durata. Ancora più difficile immaginare 
che tipo di società si sarebbe formata sulla base di questa costituzione. A Fiume la 
situazione politica difficilmente poteva dirsi ottimale all’implementazione di un 
governo costituzionale: sparirono tutti i partiti politici d’anteguerra e gran parte 
delle associazioni civiche. La polarizzazione di classe e nazionale erano estrema. 
Dopo le dimissioni dell’intero Consiglio Nazionale col pretesto di essere stato 
escluso dal processo costituente, D’ Annunzio cercò e ottenne a tutti i costi un 
compromesso che portò al ristabilimento del Consiglio. 

Esiste uno scetticismo generale condiviso sull’impossibilità di imporre strut- 
ture democratiche non indigene dall'alto. È precisamente ciò che accadde a Fiume. 
La costituzione dannunziana introdusse arrangiamenti istituzionali che erano una 
novità a livello mondiale e comunque gran parte del documento conteneva arran- 
giamenti non presenti nella società o nella tradizione politica della città. Nel caso 
di Fiume, la fondazione di un regime costituzionale fu imposta con la forza. 
D’ Annunzio giunse e si proclamò rappresentante dello stato italiano che al tempo 
poteva essere considerata una democrazia e regime parlamentare. L’idea iniziale 
era quella di annettere la città ed applicare il sistema giuridico e politico. Quando 
le prospettive si rivelarono poco favorevoli ad un tale esito, la natura del regime di 
occupazione dannunziano si trasformò da una forza provvisoria di occupazione ad 
un vero e proprio regime da lui governato in maniera autocratica. La Carta del 
Carnaro fu emendata quando tale processo era al suo massimo. È possibile quindi 
affermare che lo stato fiumano fu prodotto di un’occupazione che si trasformò 
rapidamente in regime autoritario. 


54 R. DE FELICE, Sindacalismo..., op.cit., p. 329. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 311 


IV. I fondamenti dello Stato 


Nella sua struttura e divisione di potere la Costituzione fiumana ricorda quella 
Svizzera del 1874, con i comuni che prendono il posto dei cantoni. La diversità 
culturale ed etnica all’interno dei comuni viene rispettata e preservata, la Corte 
suprema regola tutte le contese tra i comuni, le corporazioni e lo stato. Tutta la 
nazione è armata e non c’è un esercito permanente, ma vige il popolo in armi. In 
termini d’innovazioni, la novità più importante della Carta del Carnaro è rappre- 
sentata dall’ordinamento corporativo, quindi della rappresentanza politica basata 
su basi professionali anziché territoriali. Un'altra è l’introduzione della figura del 
comandante che si rifà esplicitamente al dictator della repubblica romana. La carta 
combina idee mistiche neo-religiose nate dalla fervida immaginazione e visione 
poetica della vita propria di D’ Annunzio, anche se l’accento posto sulla migliora- 
bilita della condizione umana che traspira da tutto il documento, corrisponde 
piuttosto ad una tradizione razionalista. 

La Carta del Carnaro consta di un’ Introduzione e 65 Dichiarazioni, raccolte in 
20 paragrafi, di cui il primo è dedicato ai cosiddetti “fondamenti”. Il potere 
costituente era messo formalmente nelle mani del popolo di Fiume. Si legge nel 
preambolo: 


Della perpetua volontà popolare 


Fiume, libero comune italico da secoli, pel voto unanime dei cittadini e per la 
voce legittima del Consiglio nazionale, dichiarò liberamente la sua dedizione 
piena e intiera alla madre patria, il 30 ottobre 1918. 


Il suo diritto è triplice, come l’armatura impenetrabile del mito romano. 
Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie, è l’estrema rocca della cultura 
latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco. Per lei, di secolo in secolo, di 
vicenda in vicenda, di lotta in lotta, di passione in passione, si serbò italiano il 
Carnaro di Dante. Da lei s’irraggiarono e s’irraggiano gli spiriti dell’italianità 
per le coste e per le isole, da Volosca a Laurana, da Moschiena ad Albona, da 
Veglia a Lussino, da Cherso ad Arbe. E questo è il suo diritto storico. Fiume, come 
già l’originaria Tarsàtica posta contro la testata australe del Vallo liburnico, 
sorge e si stende di qua dalle Giulie. È pienamente compresa entro quel cerchio 
che la tradizione la storia e la scienza confermano confine sacro d’ Italia. E questo 
è il suo diritto terrestre. Fiume con tenacissimo volere, eroica nel superare 
patimenti insidie violenze d’ogni sorta, rivendica da due anni la libertà di sceglier- 


32 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


si il suo destino e il suo compito, in forza di quel giusto principio dichiarato ai 
popoli da taluno dei suoi stessi avversari ingiusti. E questo è il suo diritto umano. 


La costituzione risultava quindi necessaria e legittima in conseguenza del 
diritto inviolabile delle genti all’autodecisione. La carta dannunziana fu il primo 
documento costituzionale che pone il diritto di autodeterminazione dei popoli alla 
base della legittimazione della rivoluzione”. 

Ancora dal preambolo: 


Le contrastano il triplice diritto l’iniquità la cupidigia e la prepotenza stra- 
niere; a cui non si oppone la triste Italia, che lascia disconoscere e annientare la 
sua propria vittoria. Per ciò il popolo della libera città di Fiume, sempre fisso al 
suo fato latino e sempre inteso al compimento del suo voto legittimo, delibera di 
rinnovellare i suoi ordinamenti secondo lo spirito della sua vita nuova, non 
limitandoli al territorio che sotto il titolo di "Corpus separatum" era assegnato 
alla Corona ungarica, ma offrendoli alla fraterna elezione di quelle comunità 
adriatiche le quali desiderassero di rompere gli indugi, di scuotere l’opprimente 
tristezza e d’insorgere e di risorgere nel nome della nuova Italia. Così, nel nome 
della nuova Italia, il popolo di Fiume costituito in giustizia e in libertà fa giura- 
mento di combattere con tutte le sue forze, fino all’estremo, per mantenere contro 
chiunque la contiguità della sua terra alla madre patria, assertore e difensore 
perpetuo dei termini alpini segnati da Dio e da Roma. 


L’obiettivo rivoluzionario ci viene indicato dal terzo paragrafo: 


III La Reggenza italiana del Carnaro è un governo schietto di popolo che ha 
per fondamento la potenza del lavoro produttivo e per ordinamento le più larghe 
e le più varie forme dell’autonomia quale fu intesa ed esercitata nei quattro secoli 
gloriosi del nostro periodo comunale. 


Il concetto di Stato 

XVIII Lo Stato è la volontà comune e lo sforzo comune del popolo verso un 
sempre più alto grado di materiale e spirituale vigore. Soltanto i produttori assidui 
della ricchezza comune e i creatori assidui della potenza comune sono nella 


55 T. MIRABELLA, La Carta del Carnaro, Palermo, 1940, p. 57. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 313 


Reggenza i compiuti cittadini e costituiscono con essa una sola sostanza operante, 
una sola pienezza ascendente. Qualunque sia la specie del lavoro fornito di mano 
o d’ingegno, d’industria o d’arte, di ordinamento o di eseguimento, tutti sono per 
obbligo inscritti in una delle dieci Corporazioni costituite che prendono dal 
Comune l’immagine della lor figura, ma svolgono liberamente la loro energia e 
liberamente determinano gli obblighi mutui e le mutue provvidenze. 


Lo Stato era la volontà comune del popolo verso gradi sempre maggiori di 
vigore spirituale e materiale. Con questa definizione dello stato gli enti che 
tradizionalmente si usano per definire lo stato furono omessi. Invece che definire 
lo stato in termini del suo territorio o la sua sovranità, troviamo solo il concetto 
indefinito di popolo e l'assunzione teleologica che era un diritto e un dovere delle 
genti tendere verso livelli superiori di vigore spirituale e materiale. Lo stato era 
passibile di miglioramento e così la sua costituzione. Il corollario successivo era 
che lo stato non si identificava con l’ordine giuridico di un gruppo sociale insediato 
in un determinato territorio, ma come convergenza di attività umane verso una 
relativa perfezione. Se questo principio vitale veniva meno, anche le istituzioni 
dello stato sarebbero sparite e crollate entro poco tempo. È da notare l'evidente 
affinità con la contemporanea filosofia politica del repubblicanesimo che, piuttosto 
che allo sviluppo dei diritti entro una società, antepone come obiettivo dello stato 
lo sviluppo delle virtù civili dei cittadini”. 

Questo fatto ci spiega un’altra caratteristica della costituzione: quella dell’uni- 
tà di potere. Non c’era un sistema di controlli e di equilibri tra i rami del potere, 
ma una divisione meccanica dei loro compiti senza ripetizioni o ridondanze. Ciò 
che doveva unire e prevenire i conflitti, doveva essere un’ideologia comune, che 
in tempi di crisi avrebbe potuto essere interpretata e rappresentata solo dal Coman- 
dante. D’ Annunzio sembrò concordare che l’esistenza, la formazione e la coerenza 
dei gruppi sociali restino su una decisione individuale. Per usare un’espressione di 
U. Preuss chi costituiva la nazione, il demos o l’ethnos? L’ ambiguità risiede nel 
fatto che la nazione può essere intesa in due modi molto diversi: essa viene 
comunemente definita come un gruppo di associati che vive sotto le stesse leggi e 
viene rappresentato dalla stessa assemblea legislativa, secondo l’altra concezione 
essa si identifica piuttosto con una comunità di sangue che costituiscono una stirpe. 
Lo spirito del primo articolo della Carta del Carnaro propende alla prima conce- 
zione affermando: 


56 P. PETTIT, Republicanism, Oxford, 1997. 


314 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


I Il popolo sovrano di Fiume, valendosi della sua sovranità non oppugnabile 
né violabile, fa centro del suo libero stato il suo "Corpus separatum", con tutte le 
sue strade ferrate e con l’intiero suo porto. Ma, come è fermo nel voler mantenere 
contigua la sua terra alla madre patria dalla parte di ponente, non rinunzia a un 
più giusto e più sicuro confine orientale che sia per essere determinato da prossime 
vicende politiche e da concordati conclusi coi comuni rurali e marittimi attratti dal 
regime del porto franco e dalla larghezza dei nuovi statuti. 


Per Rousseau il tipo ideale di popolo pronto a ricevere una costituzione deve 
già essere legato da una qualche associazione, interesse o accordo originario. Quale 
poteva essere l’interesse che univa gli individui nella Reggenza? La Reggenza era 
un governo schietto di popolo fondato sulla potenza del lavoro produttivo. Il lavoro 
è il principale fattore di produzione secondo gli autori e permette di fondare la 
costituzione dello stato che ha l’obbiettivo di assicurare un progresso verso un 
maggiore vigore spirituale e materiale. Come per la Costituzione di Weimar e a 
differenza di quelle sovietiche del 1918 e 1936, il lavoro non era limitato al lavoro 
manuale ma anche alla creazione artistica e allo sforzo intellettivo e alla gestione 
di risorse produttive. Il diritto al lavoro è allo stesso tempo un dovere, visto che la 
disoccupazione volontaria può condurre ad una perdita della cittadinanza. 


IV La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza 
divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione. Ma amplia ed inalza e 
sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori (...) 


Come abbiamo già detto, D’ Annunzio introdusse alcune modifiche ed aggiun- 
te alla costituzione ambrisiana. Esse ci sono d’aiuto per comprendere quale fosse 
la visione dello stato di D’ Annunzio. In primo luogo, la denominazione dello stato 
come “Reggenza” al posto di “Repubblica”; d’altra parte sottolinea il suo carattere 
provvisorio che agisce quasi da agente e rappresentante degli interessi del Regno 
d’Italia, smussandone anche la natura rivoluzionaria. 


XIV Tre sono le credenze religiose collocate sopra tutte le altre nella univer- 
sità dei Comuni giurati: la vita è bella, e degna che severamente e magnificamente 
la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà; l’uomo intiero è colui che sa ogni giorno 
inventare la sua propria virtù per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono; 
il lavoro anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla 
bellezza e orna il mondo. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 315 


La natura laica di queste provvisioni non ha bisogno di particolari commenti 
e comunque fa capire quanto l’ideale estetico dovesse permeare la vita pubblica, 
politica, economica e sociale nella visione di D’ Annunzio. Pure la pianificazione 
urbanistica e architettonica entrava a far parte del testo costituzionale. 


Della edilità 

LXII È instituito nella Reggenza un collegio di Edili, eletto con discern- 
imento fra gli uomini di gusto puro, di squisita perizia, di educazione novissima. 
Più che l’edilità romana il collegio rinnovella quegli ufficiali dell’ornato della 
città che nel nostro Quattrocento componevano una via o una piazza con quel 
medesimo senso musicale che li guidava nell’apparato di una pompa repubblicana 
o in una rappresentazione carnascialesca. Esso presiede al decoro del vivere 
cittadino; cura la sicurezza, la decenza, la sanità degli edifizii pubblici e delle case 
particolari; impedisce il deturpamento delle vie con fabbriche sconce o mal 
collocate; allestisce le feste civiche di terra e di mare con sobria eleganza, 
ricordandosi di quei padri nostri a cui per fare miracoli di gioia bastava la dolce 
luce, qualche leggera ghirlanda, l’arte del movimento e dell’aggruppamento 
umano; persuade ai lavoratori che l’ornare con qualche segno di arte popolesca 
la più umile abitazione è un atto pio, e che v’è un sentimento religioso del mistero 
umano e della natura profonda nel più semplice segno che di generazione in 
generazione si trasmette inciso o dipinto nella madia, nella culla, nel telaio, nella 
conocchia, nel forziere, nel giogo; si studia di ridare al popolo l’amore della linea 
bella e del bel colore nelle cose che servono alla vita d’ogni giorno, mostrandogli 
quel che la nostra gente vecchia sapesse fare con un leggero motivo geometrico, 
con una stella, con un fiore, con un cuore, con un serpe, con una colomba sopra 
un boccale, sopra un orcio, sopra una mezzina, sopra una panca, sopra un cofano, 
sopra un vassoio; si studia di dimostrare al popolo perché e come lo spirito delle 
antiche libertà comunali si manifestasse non soltanto nelle linee, nei rilievi, nelle 
commettiture delle pietre, ma perfino nell’impronta dell’uomo posta su l’utensile 
fatto vivente e potente; infine, convinto che un popolo non può avere se non 
l’architettura che merita la robustezza delle sue ossa e la nobiltà della sua fronte, 
si studia di incitare e di avviare intraprenditori e costruttori a comprendere come 
le nuove materie - il ferro, il vetro, i cementi - non domandino se non di essere 
inalzate alla vita armoniosa nelle invenzioni della nuova architettura. 


La provvisione più discussa e segnata da interpretazioni contrastanti è quella 
sulla musica: 


316 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


Della musica 

LXIV Nella Reggenza italiana del Carnaro la Musica è una istituzione 
religiosa e sociale. Ogni mille anni, ogni duemila anni sorge dalla profondità del 
popolo un inno e si perpetua. Un grande popolo non è soltanto quello che crea il 
suo Dio a sua somiglianza ma quello che anche crea il suo inno per il suo Dio. Se 
ogni rinascita d’una gente nobile è uno sforzo lirico, se ogni sentimento unanime 
e creatore è una potenza lirica, se ogni ordine nuovo è un ordine lirico nel setiso 
vigoroso e impetuoso della parola, la Musica considerata come linguaggio rituale 
è l’esaltatrice dell’atto di vita, dell’opera di vita. Non sembra che la grande 
Musica annunzi ogni volta alla moltitudine intenta e ansiosa il regno dello spirito? 
Il regno dello spirito umano non è cominciato ancora. "Quando la materia 
operante su la materia potrà tener vece delle braccia dell’uomo, allora lo spirito 
comincerà a intravedere l’aurora della sua libertà" disse un uomo adriatico, un 
uomo dalmatico: il cieco veggente di Sebenico. Come il grido del gallo eccita 
l’alba, la musica eccita l’aurora, quell’aurora. Intanto negli strumenti del lavoro 
e del lucro e del gioco, nelle macchine fragorose che anch’esse obbediscono al 
ritmo esatto come la poesia, la Musica trova i suoi movimenti e le sue pienezze. 
Delle sue pause è formato il silenzio della decima Corporazione. 


Questo articolo risulta estremamente difficile da comprendere, specie per una 
provvisione costituzionale: innegabile risulta il tenore nazionalistico che impone 
ad “ogni popolo” di creare ‘il suo inno per il suo Dio”. Un’interpretazione?” della 
funzione religiosa e quindi ideologica della musica si potrebbe avanzare con 
l’utilizzo degli inni e dei canti epici come strumento per l’educazione dei futuri 
cittadini. Tale indottrinamento avrebbe dovuto preparare i cittadini ad affrontare le 
sfide del futuro grazie a modelli comportamentali predefiniti che si addicono ad un 
popolo particolare rispettando il suo carattere, le sue tradizioni ed esperienze 
storiche comuni. 

La parte sul “Regno dello Spirito” esemplifica e chiarifica la funzione della 
famosa X Corporazione che deve guidare gli uomini in un’epoca in cui il progresso 
tecnico renderanno disponibili tempoe risorse materiali agli uomini e il cui utilizzo 
più proficuo, nobile e produttivo diventa compito della X corporazione che agisce 
come una specie di avanguardia estetico mistica. 


LXV Sono istituiti in tutti i Comuni della Reggenza corpi corali e corpi 


57 Tale interpretazione mi è stata suggerita dal prof. M. Matulovié (Com. pers.) e non mi risulta sia stata 
avanzata da altri autori. 


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istrumentali con sovvenzione dello Stato. Nella città di Fiume al collegio degli 
Edili è commessa l’edificazione di una Rotonda capace di almeno diecimila 
uditori, fornita di gradinate comode per il popolo e d’una vasta fossa per l’orche- 
stra e per il coro. Le grandi celebrazioni corali e orchestrali sono totalmente 
gratuite come dai padri della Chiesa è detto delle grazie di Dio. 


Il territorio 


La possibilità di cambiare i confini del nuovo stato era lasciata aperta. Esso 
poteva espandersi sia perché altri comuni potevano sentirsi attratti dal regime da 
porto franco, dunque incentivazioni economiche o “dalla larghezza dei suoi statu- 
ti”. Probabilmente D'Annunzio si rendeva conto che la coerenza di una politica 
necessitava più che un mero contratto stipulato da individui liberi ed uguali. Molto 
probabilmente l’omogeneità etnica era per lui la condizione più importante, fatto 
accettato anche da molti studiosi odierni. Infatti, nella premessa si affermava 
anche la possibilità che in caso di insurrezione delle comunità adriatiche, ad esse 
non sarebbe mancato il supporto di Fiume. 


II La Reggenza italiana del Carnaro è costituita dalla terra di Fiume, dalle 
isole di antica tradizione veneta che per voto dichiarano di aderire alle sue 
fortune; e da tutte quelle comunità affini che per atto sincero di adesione possano 
esservi accolte secondo lo spirito di un’apposita legge prudenziale. 


D'altra parte, la premessa non pone il limite del nuovo Stato al corpus 
separatum, ma a tutte le fraterne comunità adriatiche che vogliono insorgere. La 
definizione del territorio della Reggenza incluse anche “le isole di tradizione 
veneta” nonché le “comunità affini”. Nel commento alla carta, scritto da de 
Ambris, questi si premurò a negare velleità imperialistiche al programma di 
riconquista della Dalmazia di evidente ispirazione nazionalista, affermando che: 


“se le isole di antica tradizione veneta ed i comuni finintimi di terraferma 
sentiranno che è nel loro interesse di seguire le sorti di Fiume ed in tal senso 
voterannoliberamente l’adesione, noili accoglieremo fraternamente con pari 


58 UK. PREUSS, “Constitutional Powermaking of the New Polity: Some Deliberations on the Relations 
Between Constituent Power and Constitution”, Constitutionalism, Identity, Difference and Legitimacy, Durham 
and London, 1994, p.162. 


318 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


diritti, tuttavolta che — naturalmente esaminata la loro richiesta — ci convenga 
di accettarla”’.59 


Le isole di Veglia ed Arbe erano stare infatti occupate militarmente dai 
legionari di D° Annunzio due settimane prima della proclamazione della Carta. Il 
fatto causò un aumento della tensione nei rapporti italo-jugoslavi, dato che le due 
isole erano già state assegnate alla Jugoslavia. 


Cittadinanza 


Come venne concepito il diritto di cittadinanza- che fondae intitola al posses- 
so di tutti gli altri diritti? La cittadinanza nel primo disegno di costituzione di de 
Ambris venne definita mediante il principio dello ius soli: cittadini erano coloro 
che erano nati a Fiume e nel suo circondario che apparteneva al corpus separatum. 
Nel caso altre regioni volessero entrare a far parte della Repubblica del Carnaro, 
anche i residenti di tali regioni sarebbero divenuti cittadini, dunque nuovamente 
veniva applicato il principio di territorialità. D° Annunzio estese il diritto di citta- 
dinanza a tutte le persone che a quel momento si trovavano a Fiume. La cittadinan- 
Za si poteva ottenere per merito, ma anche su richiesta. Da notare che non 
sussisteva discriminazione su base etnica, politica o culturale. 

È da tenere presente che quando D’ Annunzio mise le sue idee sulla natura 
dello stato nella prima parte della carta, c’era poco spazio per definizioni geogra- 
fiche, e molto di più nella volontà umana. Egli concepì lo stato come unione 
volontaria di spiriti umani che condividono gli stessi obiettivi e di conseguenza 
cambiò il criterio di cittadinanza. 


XV Hanno grado e titolo di cittadini nella Reggenza tutti i cittadini presente- 
mente noverati nella libera città di Fiume; tutti i cittadini appartenenti alle altre 
comunità che chiedano di far parte del nuovo Stato e vi sieno accolte; tutti coloro 
che per pubblico decreto del popolo sieno di cittadinanza privilegiati; tutti coloro 
che, avendo chiesta la cittadinanza legale, l’abbiano per decreto ottenuta. A 

XVI I cittadini della Reggenza sono investiti di tutti i diritti civili e politici nel 
punto in cui compiono il ventesimo anno di età. Senza distinzione di sesso diven- 
tano legittimamente elettori ed eleggibili per tutte le cariche. 


59 A. DE AMBRIS, La Costituzione..., op.cit., p. 10. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 319 


XVII Saranno privi dei diritti politici, con regolare sentenza, cittadini con- 
dannati in pena d’infamia; ribelli al servizio militare per la difesa del territorio; 
morosi al pagamento delle tasse, parassiti incorreggibili a carico della comunità, 
se non sieno corporalmente incapaci di lavorare per malattia o per vecchiezza. 


Durante tutto il periodo di occupazione dannunziana a Fiume, le autorità locali 
erano molto riluttanti a concedere il diritto di cittadinanza ai forestieri. Il Consiglio 
Nazionale, che era la continuazione del Consiglio comunale d’anteguerra, applica- 
va la vecchia normativa in merito. Nel regno di Ungheria, Fiume era considerata 
una città libera ed aveva autorità ed autonomia decisionale per le questioni di 
cittadinanza. Tale “cittadinanza comunale” era definita “pertinenza” e consentiva 
al suo possessore di partecipare alla vita politica cittadina e a trovare impiego 
presso gli uffici comunali. Tipicamente la si acquistava per nascita entro il territo- 
rio del corpus separatum o sposando un cittadino fiumano. Il criterio della perti- 
nenza causò molti attriti con gli arditi dannunziani, dato che a molti di loro la 
pertinenza fu negata. Le provvisioni liberali che D’ Annunzio introdusse in materia 
di cittadinanza, rappresentavano quindi un novità per la pratica amministrativa 
fiumana e la locale consuetudine normativa. Esse possono essere considerate anche 
come uno strumento tattico di D° Annunzio per poter assicurare status legale alla 
presenza in città delle sue truppe e ai suoi collaboratori senza interferenze della 
autorità locali. 

È significativa la testimonianza di Vilfredo Pareto, il famoso sociologo italia- 
no. Oltre ad essere difensore dell’italianità di Fiume, seguì la vicenda di Fiume 
anche per ragioni personali. Egli era separato dalla prima moglie fin dagli inizi 
del secolo, il suo amico Maffeo Pantaleoni (nominato da D’ Annunzio Rettore per 
le Finanze e il tesoro nel Governo Provvisorio della Reggenza) gli aveva fatto 
sperare l'ottenimento del divorzio a Fiume mediante l’acquisizione della cittadi- 
nanza fiumana. 

Il 15 settembre 1922, dunque ben 2 anni dopo la fine dell’Impresa, il tribunale 
gli sentenziava in “nome del popolo sovrano di Fiume” la commutazione della 
sentenza di separazione in scioglimento di matrimonio. Il passaporto fiumano 
venne emesso il 21 ottobre ed aveva validità in Italia, Francia e Svizzera, dove 
Pareto risiedeva. 

Da quanto riportato da Busino, le vecchie norme restrittive in materia di 
cittadinanza e pertinenza fiumana si conservarono anche due anni dopo la cacciata 


60 G. BUSINO, “Vilfredo Pareto cittadino fiumano”, Fiume, n.s. 6 (1983), pp. 80-86; 


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di D’Annunzio da Fiume. Si può quindi supporre che le norme in materia di 
cittadinanza (delle quali D’ Annunzio stesso lamentava l’eccessiva restrittività) 
furono simili nella forma e sostanza. Uno degli obiettivi tattici della costituzione 
fiumana era quindi anche quello di rilassare notevolmente le procedure di cittadi- 
nanza, cosa che avrebbe ridotto l’autorità del CNI e consentito la rapida naturaliz- 
zazione di legionari e arditi a Fiume. 

Oltre a questo momento volontaristico che definiva lo stato e la cittadinanza, 
c’era pure un accento forte sulle origini culturali ed etniche della nazione. Come 
potevano andare insieme questi principi così diversi e per certi versi pure contrad- 
dittori? Probabilmente era la pratica dell’assimilazione culturale che doveva risol- 
vere tale problema, come recita l’articolo L: 


L Per ogni gente di nobile origine la coltura è la più luminosa delle armi 
lunghe. Per la gente adriatica, di secolo in secolo costretta a una lotta senza tregua 
contro l’usurpatore incolto, essa è più che un’arme: è una potenza indomabile 
come il diritto e come la fede. Per il popolo di Fiume, nell’atto medesimo della sua 
rinascita a libertà, diviene il più efficace strumento di salute e di fortuna sopra 
l’insidia estranea che da secoli la stringe. La cultura è l’aroma contro le corruzio- 
ni. La coltura è la saldezza contro le deformazioni. Sul Carnaro di Dante il culto 
della lingua di Dante è appunto il rispetto e la custodia di ciò che in tutti i tempi 
fu considerato come il più prezioso tesoro dei popoli, come la più alta testimonian- 
za della loro nobiltà originaria, come l’indice supremo del loro sentimento di 
dominazioiie morale. La dominazione morale è la necessità guerriera del nuovo 
Stato. L’esaltazione delle belle idee umane sorge dalla sua volontà di vittoria. 
Mentre compisce la sua unità, mentre conquista la sua libertà, mentre instaura la 
sua giustizia, il nuovo Stato deve sopra tutti i suoi propositi proporsi di difendere 
conservare propugnare la sua unità la sua libertà la sua giustizia nella regione 
dello spirito. Roma deve qui essere presente nella sua coltura. L’Italia deve qui 
essere presente nella sua coltura. Il ritmo romano, il ritmo fatale del compimento, 
deve ricondurre su le vie consolari l’altra stirpe inquieta che s’illude di poter 
cancellare le grandi vestigia e di poter falsare la grande storia. Nella terra di 
specie latina, nella terra smossa dal vomere latino, l’altra stirpe sarà foggiata o 
prima o poi dallo spirito creatore della latinità: il qual é non è se non una 
disciplinata armonia di tutte quelle forze che concorrono alla formazione 
dell’uomo libero. Qui si forma l’uomo libero. E qui si prepara il regno dello 
spirito, pur nello sforzo del lavoro e nell’acredine del traffico. Per ciò la Reggenza 
italiana del Carnaro pone alla sommità delle sue leggi la coltura del popolo; fonda 
sul patrimonio della grande coltura latina il suo patrimonio. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 321 


Diritti fondamentali 


VI Tutti i cittadini dello Stato, d’ambedue i sessi, sono e si sentono eguali 
davanti alla nuova legge. L’esercizio dei diritti riconosciuti dalla costituzione non 
può essere menomato né soppresso in alcuno se non per conseguenza di giudizio 
pubblico e di condanna solenne. 


VII Le libertà fondamentali di pensiero, di stampa, di riunione e di associa- 
zione sono dagli statuti garantite a tutti i cittadini. Ogni culto religioso è ammesso, 
è rispettato, e può edificare il suo tempio; ma nessun cittadino invochi la sua 
credenza e i suoi riti per sottrarsi all’adempimento dei doveri prescritti dalla legge 
viva. L’abuso delle libertà statutarie, quando tenda a un fine illecito e turbi 
l’equilibrio della convivenza civile, può essere punito da apposite leggi; ma queste 
non devono in alcun modo ledere il principio perfetto di esse libertà. 


L'introduzione della parità dei sessi era una novità per l’Italia. La giustifica- 
zione di questo passo veniva data sia in termini di diritti originari che conseguenze 
pratiche. Si pensava che esso avrebbe riflettuto meglio le preferenze degli elettori 
migliorando la qualità della democrazia. Ma soprattutto il ruolo delle donne nella 
difesa del paese che giustificava l’introduzione dei diritti politici anche alle donne. 


Diritti sociali 


VIII Gli statuti garantiscono a tutti i cittadini d’ambedue i sessi: l’istruzione 
primaria in scuole chiare e salubri; l’educazione corporea in palestre aperte e 
fornite; il lavoro remunerato con un minimo di salario bastevole a ben vivere; 
l’assistenza nelle infermità, nella invalitudine, nella disoccupazione involontaria; 
la pensione di riposo per la vecchiaia; l’uso dei beni legittimamente acquistati; 
l’inviolabilità del domicilio; l’ "habeas corpus"; il risarcimento dei danni in caso 
di errore giudiziario o di abusato potere. 


La scelta e l’ordine di diritti che i costituenti decidono di inserire in un testo 
costituzionale, non segue da regole universali o precise, ma dalle incertezze dei 
costituenti. Le incertezze dipendono dalle regole che definiscono l’operato dello 
stato e dalle aspettative di coloro che scrivono la costituzione!'. Nella Fiume 


6! J ELSTER, Ulysses Unbound..., op.cit. 


322 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 273-343 





Il porto di Fiume 


costituenti. Le incertezze dipendono dalle regole che definiscono l’operato dello 
stato e dalle aspettative di coloro che scrivono la costituzione?!. Nella Fiume 
dannunziana, la disoccupazione e la miseria erano talmente diffuse da minacciare 
di disgregare il tessuto sociale. L'estensione di quelli che oggi chiamiamo diritti 
sociali si spiega con la natura delle maggiori incertezze che pesavano sulla popo- 
lazione di Fiume e sui costituenti che erano quelle legate alla sicurezza sociale. 

Un diritto protetto dalla costituzione comporta non solo la libertà di agire, ma 
anche la capacità ad agire. Come si vede, i diritti sociali nella carta erano espliciti. 
Tale “altruismo costituzionale” non sorprende per de Ambris visto il suo passato 
politico, ma per D’ Annunzio sì. Esperienze come la guerra fanno sentire gli uomini 
più vicini e solidali. La costituzione fiumana fu scritta dopo una guerra e una sorta 
di rivoluzione (o piuttosto ribellione) in un momento quando i legami tra gli uomini 
raggiungono il massimo. Ci sono molti resoconti sull’ atmosfera “strana o comuna- 
le” che si respirava a Fiume in quei giorni, accompagnata dalla rottura di barriere 
cetuali, di sesso, di generazioni, che ricordano i resoconti della Comune di Parigi. 
È plausibile che la particolare esperienza fiumana spinse D’ Annunzio a mettere in 
costituzione provvisioni che offrivano una protezione minima di tutti i cittadini dai 
rischi comuni che tutti corrono. 

Motivazioni patriottiche giustificavano anche l’introduzione di diritti sociali 
come il sussidio di disoccupazione, la malattia e la pensione: non si poteva 
pretendere dai cittadini il sacrificio supremo in caso di guerra senza dargli anche 
garanzie sociali che facessero capire che valeva la pena di combattere e sacrificarsi 
per la patria. Evidenza di parecchi paesi mostra che in seguito a guerre e rivoluzio- 
ni, le élites politiche sentendosi più vicine alle sofferenze della masse sono più 
disposte a concedere concessioni di tipo economico o di eguaglianza sociale. 
Quanto accadde a Fiume può forse spiegarsi come conseguenza di eventi trauma- 
tici che aumentarono il livello di solidarietà sociale anche in D’ Annunzio, non 
certo attento a questioni di diseguaglianza distributiva prima della guerra. Una 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quademi, vol. XIV, 2002, p. 273-343 323 


XXXXVIII A tutti i cittadini che durante il servizio militare abbiano contratto 
una infermità insanabile, e alle loro famiglie in bisogno, è dovuto il largo soccorso 
dello Stato. Lo Stato adotta i figli dei cittadini gloriosamente caduti in difesa della 
terra, soccorre i consanguinei se siano in distratta, raccomanda i nomi dei morti 
alla memoria delle generazioni. 


L’ingerenza della politica nelle questioni economiche era comunque pesante. 
La Banca centrale era alle dirette dipendenze del governo, quindi il suo grado di 
indipendenza era minimo. Tale fatto probabilmente si giustifica con la paura che 
una politica monetaria tropo restrittiva avrebbe avuto effetti negativi sull’occupa- 
zione. Come molti altri governi che si trovarono ad affrontare i problemi della 
stabilizzazione macroeconomica dopo la prima guerra mondiale, essi scelsero 
l’inflazione come male minore rispetto alla disoccupazione. A Fiume la disoccu- 
pazione era a livelli senza precedenti, mentre non c'erano ancora esperienze di 
iperinflazione che caratterizzarono diversi stati nel primo dopoguerra. 

Il porto e le strade ferrate dovevano essere nazionalizzate, e si trattava di industrie 
chiave per la città. L'estensione delle garanzie sociali era tale che la spesa pubblica del 
govemo fiumano sarebbe stata sicuramente alta. Evidentemente, anche questo nelle 
valutazioni dei costituenti era il male minore e valeva il prezzo da pagare: 


X Il porto, la stazione, le strade ferrate comprese nel territorio fiumano sono 
proprietà perpetua incontestabile ed inalienabile dello Stato. È concesso - con un 
Breve del Porto franco - ampio e libero esercizio di commercio, di industria, di 
navigazione a tutti gli stranieri come agli indigeni, in perfetta parità di buon 
trattamento e immunità da gabelle ingorde e incolumità di persone e di cose. 


XI Una Banca nazionale del Carnaro, vigilata dalla Reggenza, ha l’incarico 
di emettere la carta moneta e di eseguire ogni altra operazione di credito. Una 
legge apposita ne determinerà i modi e le regole, distinguendo nel tempo medesimo 
i diritti gli obblighi e gli oneri delle Banche già nel territorio operanti e di quelle 
che fossero per esservi, fondate. 


Diritti di proprietà 
IX Lo Stato non riconosce la proprietà come ildominio assoluto della persona 


sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna 
proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può esser 


324 W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 


lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad 
esclusione di ogni altro. Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di 
produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa 
massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale. 


La concezione dei diritti di proprietà oggi è molto diversa rispetto al XIX 
secolo. Tipicamente oggi essa prevede un sistema di proprietà privata sui mezzi di 
produzione a libertà di contratto, nonché un sistema di istituzioni che rendono 
possibile un’economia di mercato. La giustificazione politica per la proprietà 
privata è la credenza che tutti gli individui possono trarre benefici dall’ aumento di 
valore che un sistema di mercato può generare, di conseguenza il desiderio di 
proteggere tali istituzioni si trova oggi nel maggior numero di agende politiche. 

Per questo motivo il concetto e la giustificazione della proprietà privata data 
da de Ambris nella costituzione non appare rivoluzionaria oggi. Il suo progetto 
costituzionale è stato attaccato anche decenni dopo l'Impresa. Il rettore dell’eco- 
nomia, Maffeo Pantaleoni, ripudiò soprattutto le caratteristiche di monopolio delle 
corporazioni e la concezione di proprietà perché funzionale: la proprietà privata era 
legittimata dai benefici alla società non in virtù di un diritto originario, il che 
significava che la proprietà senza benefici sociali poteva essere sospesa. 


Dittatura 


XXXII Quando la Reggenza venga in pericolo estremo e veda la sua salute 
nella devota volontà d’un solo, che sappia raccogliere eccitare e condurre tutte le 
forze del popolo alla lotta e alla vittoria, il Consiglio nazionale solennemente 
adunato nell’Arengo può nominare a viva voce per voto il Comandante e a lui 
rimettere la potestà suprema senza appellazione. Il Consiglio determina il più o 
men breve tempo dell’imperio non dimenticando che nella Repubblica romana la 
dittatura durava sei mesi. 


XXXXIV Il Comandante, per la durata dell’imperio, assomma tutti i poteri 
politici e militari, legislativi ed esecutivi. I partecipi del Potere esecutivo assumo- 
no presso di lui officio di segretarii e commissario. 


XXXXV Spirato il termine dell’imperio, il Consiglio nazionale si raduna e 
delibera di riconfermare il Comandante nella carica, oppure di sostituire in suo 
luogo un altro cittadino, oppure di deporlo, o anche di bandirlo. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 325 


XXXXVI Ogni cittadino investito dei diritti politici, sia 0 non sia partecipe 
dei poteri nella Reggenza, può essere eletto al supremo officio. 


Uno dei timori più diffusi nelle assemblee costituzionali del primo dopoguerra 
era costituito dall’introduzione della democrazia di massa. Essa era una logica 
conseguenza dell’estensione del suffragio a tutti gli uomini e donne adulti e i 
problemi di governabilità che esso generava costituivano un’incognita. A Fiume, 
la procedura di ratificazione adottata corrispondeva allo stile della democrazia 
plebiscitaria, e la Carta fu accettata per acclamazione popolare. Per controbilancia- 
re e conferire legittimità alle istituzioni, ogni istituzione o carica pubblica prevista 
dalla Costituzione poteva essere revocata o abolita per volontà popolare. Una 
simile linea di pensiero fu adottata anche da Max Weber nelle sue riflessioni sulla 
Costituzione di Weimar del 1919. Max Weber, ai tempi della Costituente di 
Weimar, sosteneva che con l’estensione del suffragio, la democrazia avrebbe 
assunto sempre di più una forma plebiscitaria e che di conseguenza essa necessita- 
va di un capo plebiscitario atto a governarla e rappresentarla in momenti di crisi. 
Fu questa argomentazione che condusse all’introduzione del famigerato art. 54 
della Costituzione tedesca del 1919, che conferiva al presidente del Reich poteri 
eccezionali e dittatoriali in caso di difficoltà che l’esecutivo avrebbe incontrato 
causate dal parlamento e dell’ingovernabilità dello stesso. 

Le considerazioni di D’Annunzio sulla democrazia e la sfiducia che egli 
nutriva nei confronti del parlamento lasciano intendere che argomenti del genere 
non gli dovessero risultare estranei. La figura del Comandante, esplicitamente 
modellata sulla figura dittatoriale della Repubblica romana, era limitata nel tempo 
a soli 6 mesi. Ma mentre nel disegno di de Ambris, tale limite era tassativo, nella 
versione finale di D’Annunzio esso era stato ridotto ad una valenza puramente 
indicativa. 

Alcuni aspetti del processo costituente seguono dalla necessità di giungere a 
compromessi con le istituzioni legittimanti. D’ Annunzio per esempio non poteva 
ignorare il Consiglio Nazionale, anche se era contro i suoi interessi e posizioni ed 
era discreditato nella pubblica opinione. Alcune limitazioni furono imposte anche 
dal Consiglio Nazionale, perlomeno indirettamente: la minaccia del dissenso del 
Consiglio influenzò il processo costituente che rimase segreto. L’esclusione del 
Consiglio Nazionale dal processo costituente spinse D’ Annunzio ad adottare un 
tipo di ratificazione plebiscitaria. È anche vero che D’Annunzio rispettò l'autorità 
del Consiglio Nazionale che godeva di legittimazione democratica, dato che la sua 
composizione fu ratificata per plebiscito nel novembre 1918. Nonostante avesse i 
mezzi e la popolarità per farlo, D'Annunzio non cercò mai di sospendere o 


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attaccare il Consiglio né di minacciare l’operato dei suoi membri. Tipicamente egli 
cercò sempre di giungere a compromessi, anche se le sue azioni nell’ultima parte 
dell’Impresa mostrano un deciso spostamento verso i modi autocratici, opportuni- 
stici e forse irrazionali. In breve: gli obiettivi cominciarono ad essere sempre più a 
breve termine, probabilmente in quanto la ‘finestra di opportunità” delle sue azioni 
si stava restringendo sempre più e di conseguenza i suoi orizzonti si stavano 
restringendo. 


V Conclusione 


L’evoluzione dell’Impresa che condusse alla promulgazione della Carta fa 
parte del declino del razionalismo nel pensiero politico successivo alla Grande 
guerra. Carl Schmitt, analizzando la crisi della democrazia parlamentare del dopo- 
guerra, intuì che l’opera di distruzione e di opposizione degli anarchici all’ autorità 
e all’unità dello stato moderno, sarebbe stata rimossa da un’altra fonte di legittimità 
atta ad introdurre un nuovo senso di disciplinata autorità e di ordine nello stato 
nell’era della politica di massa. Solo l’uso estensivo del mito in politica, teorizzato 
dapprima dall’opera di Sorel, poteva servire allo scopo fornendo alle masse lo 
stimolo emozionale ed estetico necessario®. L’esperienza della guerra fornì i miti 
e un senso di necessità di ordine e d’autorità posto su nuove basi estetiche, 
militarizzate, nazionaliste ed eroiche. L’uomo che per primo seppe sfruttare tutto 
questo fu D° Annunzio a Fiume. La sua costituzione risulta storicamente tanto più 
significativa in quanto essa si presenta come una prima cristallizzazione di un 
sistema politico nata nel caos del primo dopoguerra. Il documento in pratica non 
entrò in forza, comunque anche in assenza di una verifica sul campo della vita 
politica ed istituzionale si può ipotizzare che esso avrebbe avuto problemi in 
termini di stabilità e coerenza. Il principio di unità del potere e la divisione quasi 
meccanica delle aree di competenza dei vari corpi politici risultava in una presso- 
ché totale assenza di controlli e bilanciamenti. Il parlamento era quasi senza potere 
nei confronti dell’esecutivo. L’esecutivo non aveva nessuna responsabilità nei 
confronti del legislativo e dunque è questione aperta se lo stato di Fiume, dato un 
tale assetto costituzionale, sarebbe mai riuscito ad evitare una permanente situazio- 
ne di emergenza costituzionale. 

Il comando dannunziano e de Ambris stavano esplicitamente agendo da 


62 C. SCHMITT, The Crisis of Parliamentary Democracy, Cambridge, 1985. 


W. KLINGER, La carta del Carnaro, Quaderni, vol. XIV, 2002, p. 273-343 327 


avanguardia rivoluzionaria. Ciò emerge chiaramente dalla decima corporazione, la 
cui funzione principale era quella di formare un’ideologia per le masse in una sorta 
di religione secolarizzata e rendere possibile l’utopia politica, estetica di D’ Annun- 
zio. Essenzialmente come altri movimenti organicisti, era una rivolta contro l’in- 
dividualismo atomistico identificato con l’ideologia politica del liberalismo e 
contro lo statismo monistico degli hegeliani e soprattutto marxisti. Lo stato moni- 
stico preferiva concepire gli individui come entità separate dato che sono più facili 
da controllare. Una società formata da individui atomizzati è anche più facile da 
sottoporre al controllo del mercato. Chi resistette a tutti questi programmi politici, 
erano i gruppi e le associazioni. Secondo i sindacalisti, il riconoscimento di un 
ruolo costitutivo nella politica e un nuovo ordine basato sui gruppi, avrebbe 
condotto ad uno stato ancora più potente ed integrato. Questa concezione sembra 
essere stata pienamente accettata da de Ambris e in minor misura da D’ Annunzio. 

De Ambris, autore del documento, aveva piani ambiziosi e si trovò dinanzi al 
dilemma tipico del rivoluzionario: limitare il raggio dell’azione rivoluzionaria ad 
un territorio dove poteva esercitare una certa autorità ed essere sottoposto a tutta 
una serie di minacce dall’ esterno, o cercare di esportare la rivoluzione e assicurarle 
maggiori probabilità di riuscita. Se non si voleva che la carta restasse lettera morta, 
c’era solo un’opzione rimasta: dieci giorni dopo, il 18 settembre, in una lettera a 
D'Annunzio, egli espresse chiaramente che la rivoluzione fiumana (o fiumanesi- 
mo) doveva essere estesa all’Italia — “l’Italia deve essere annessa a Fiume”. 

Per sua stessa ammissione, de Ambris fu profondamente influenzato da alcuni 
pensatori sindacalisti, primo fra tutti Angelo Oliviero Olivetti. De Ambris credette, 
anche dopo la fine dell’impresa, che l’innovazione principale della Carta era da 
ricercarsi nell’introduzione dell’ordinamento corporativo: esso avrebbe permesso 
di smussare le conflittualità sociali, dato più voce ai produttori ed esteso forme di 
democrazia diretta sul lavoro. D’ Annunzio, che ebbe un ruolo maggiore nell’im- 
postazione filosofica dei fondamenti dello stato, basato su un volontarismo estre- 
mo, si preoccupò molto di più dell’ideologia, che venne intesa qui, per la prima 
volta, come mezzo supremo di comando e controllo delle masse. 

La costituzione dannunziana entrò in vigore 1°8 settembre 1920. La natura 
rivoluzionaria del documento si rivelò da subito un problema per il comando 
dannunziano. Vedendosi il suo ruolo pesantemente ridimensionato, il Consiglio 
Nazionale diede subito le sue dimissioni. Ufficialmente la scelta era stata motivata 
dall’esclusione deliberata dal processo costituente e dalla natura rivoluzionaria del 
documento. 

Poco dopo la promulgazione della carta, D’ Annunzio iniziò a costruire il suo 
sistema politico. Il 24 settembre 1920 il primo governo provvisorio vene istituito 


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Blocco della sede del Comando d’Occupazione Interalleato (Fiume, 13 settembre 1919) 


per decreto del comandante D’ Annunzio “in nome del popolo sovrano di Fiume 
per la Reggenza italiana del Carnaro”. 

Primo, l’autorità del Consiglio Nazionale veniva limitata