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Full text of "La fortuna di Pitagora presso i Romani dalle origini fino al tempo di Augusto [microform]"

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NO. 93-8167 





MICROFILMED 1 993 
COLUMBIA UNIVERSITY LIBRARIES/NEW YORK 



as part of the . ^^ . , „ 

"Foundations of Western Civilization Preservation Project 



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AUTHOR: 



GIANOLA, ALBERTO 



TITLE: 



LA FORTUNA DI 
PITAGORA PRESSO 

PLACE: 

CATANIA 

DA TE: 



1921 



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COLUMBIA ÙNIVERSrrY LIBRARIES 
PRESERVATION DEPARTMENT 



Master Negative # 



DIDLIOGRAPHIC MICRQFORM TARCFT 



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Gianola, Alberto. 

. La fortuna di Pitagora presso i Romani dalle origini 
fino al tempo di Augusto. Catania, F. Battiato, 192l! 



viii, 208 p., 2 I. 20^™. (0« ..z..r; Biblioteca di filologia classica. tl5,) 

Bibliographical foot-notes. 



ì. Pythagoras and Pythagorean school. 2. Philosophv Anrienf ^ T h.. 
S.'^'"'^^^"^"-^^"^' -d Latin, i LiteratuSSV^^^^^^ 



Library of Congress 



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Silver Spring, Maryland 20910 

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MRNUFfiCTURED TO fllIM STflNDFIRDS 
BY fiPPLIED IMfiGE, INC. 




BIBLIOTECA DI FILOLOGIA CLASSICA 

DIRETTA DA 

CARLO PASCAL 

PROFESSORE NELL'UNIVERSITÀ DI PAVIA 



ALBERTO GIANOLA 



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LA 

FORTUNA DI PITAGORA 

PRESSO I ROMANI 

dalle origini fino al tenijio iì Angasl« 







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ALBERTO GIANOLA 



LA 

FORTUNA DI PITAGORA 

PRESSO I ROMANI 

dalle origini fino al tempo di Angn^to 




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CATANIA 

FRANCESCO B ATTUTO — Editorr 

1921 



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PROPRICTX T.ETTERAKIA 






GIORGIO E GUSTAVO DEL VECCHIO 



FRATERNAMENTE 



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CatttnU - 8tab. Tip. ii. Di Mattei Se G. — WÀÌ. 



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La filosofia di Pitagora, che è qemralmente conosciuta 
appetm m alcuni dei suoi punti fondamentali, come la 
metempsicosi, V armonia delle sfere, la scienza dei mi. 
meri, l'astensione dai cibi carnei e dalle fave, era in 
realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine, 
iin vero e proprio sistema di speculazione e di morale] 
la cui conoscenza ci è tuttavia possibile soltanto in pic- 
cola parte, sì per la scarsità dei documenti scritti ori- 
(finali, dovuta alla nota tradizione della segretezza cke 
i più dei suoi cultori osservarono scrupolosamente, sì 
per le amplificazioni, le falsificazioni e le invenzioni 
che partorirono le fantasie di tardi seguaci, di pseudo- 
eruditi e di mistificatori. È però indubbio che tale filo- 
sofia fu non dilettantismo di mistici fanatici, ma vera 
e ragionata speculazione, a cui si accompagnò, parallela, 
mia conseguente e logica ragione di vita, sì che, men- 
tre da un lato potè attrarre, sedmendole col fascino 
delle verità da essa chiarite e con Varmonica bellezza 
de% suoi insegnamenti, le anime di molti cui pungeva 
l'assillante aculeo della conoscenza, incontrò dall'altro 



— YI — 

ostacoli e derisioni da parie di aristocraxie interessate 
di volgili igjtobili e sciocchi. 

Divulgata.^ se non creata iìiteraìnente ex novo, nel se- 
colo sesto a, C. per opera di Pitagora, del qaale^ come 
di Ornerò^ alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa^ 
fu coltivata^ prima che altrove, sulle rive delV lonio^ nella 
Magìia Grecia e in Sicilia.^ di dove si diffuse, sebbene 
osteggiata.^ nella Grecia ed in Roma. Bieca., com'essa 
era. di prineipii che oggi si direbbero idealistici e tra- 
scendentali.^ ed accompagnandosi^ come ho detto., a una 
sua particolare armonica concexione della vita indivi- 
duale e collettiva^ teorica insomma e pratica nello stesso 
tempo^ essa era ben atta ad informare di sé religione 
e scienza, politica e morale, consuetudini e leggi. 

Essa fu da molti connessa non pure con aìiteriori an- 
tichissime dottrine della Grecia, delVEgitto, delVIndia 
e per fin della Cina^ dalle quali sarebbe in tutto o in 
parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di 
somiglianza, ma altresì con la posteriore filosofia di Pla- 
tone., in molte parti ricalcata sulle sue orme. Coìiservata 
poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e tra- 
mandata^ senza il sussidio della scrittura., nel segreto 
delle scuole^ essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filo- 
sofi alessandrini, quando^ inalveatesi nel suo letto altre 
correnti di pensiero., alimentò le speculazioni della teo- 
sofia neoplatonica e neopitagorica di Plotino^ di Porf- 
rio e di altri molti., e diede origine a molteplici scrit- 
ture., quali più quali meno profonde ed attendibili^ in- 
torno alla vita ed ai primi insegnaìuenti delV antico 
maestro. Da essa infine trassero ispirazione alcuni filo- 
sofi, della rinascenza, e qualche sua derivazione può 
dirsi non del tatto spenta anche oggi. 



— VII — 

Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque, massime 
per noi Italiani, lo studiare la storia di questa dottri- 
na e il ricereavìie e ftarrarne le vicende nei vari tempi 
e nei vari paesi: poiché, sebbene molti abbiano fatto stu- 
di e ricerche in proposito — basterà ricordare, fra tanti, 
i lavori dei Bitter (1), dello Zeller (2), del Qomperx (3)' 
dello Chaignet (4) e del Mullach (5), e, in Italia, del Ca- 
pellina (6), del Centofanti (7), del Cof/netti De Martiis (8), 
del Ferrari (9), del Ferri (10) - e benché da tutti 



(1) Heinrich Ritter, Gesekichte der PyOmgor. Philosophie, Ham- 
burg. 1826. . 

(2) Eduard Zeller, Pythagoras und die Pythagorassage, in Vor- 
triige und Abhandlungen gesehichtlichen Inhalts, Leipzig, 1865 e 
Die l'hilosophie der Oriecken ecc., voi. P pp. 279 e segg. 

(3) Theod. Gompeez, Les penseurs de la Grece, trad. de la 2» 
ed. allem. par A. Reymond, Paris, Alcan, 1904. 

(4) A. E. Chaig.vet, Pythagore et la philosophie pythagor., Pa- 
ris, l873. 

(5) Fr. G. a. M[jllach, De Pythagora eiusque discipulis et suc- 
eessoribus, in Fragmenta philosoph\ graeeor. v. II, Paris 1881 
pp. I-LVII. ' ' ' 

(6) Domenico Capellina, Delle dottrine dell'antica scuola pitago- 
rica contenute nei Versi d'oro, in Memorie della R. Accad. di 
Scienxe di loririo, serie II, t. XVI (1857), pp. 37-109. 

(7) Silvestro Centofanti, Studi sopra Pitagora (1846) nel volu- 
me La letteratura greca. Firenze, Le Mounier, UlO {Opere voi. I 
pp. 359 e segg). ' ' ' 

(8) CoGNETTi De Martiis, L'Istituto Pitagorico, in Atti della R, 
Accad. delle Scienxe di Torino, 24 ',1888-89) e nel volume Socia- 
lismo antico, Torino, Bocca, 1889, pp. 459-496. 

(9) Sante Ferrari, La scuola e la filosofia pitagorica, in Rivi- 
sta Hai. di filosofia, 1890, I e II. 

(10) L. Ferri, Sguardo retrospettivo alle opi?iioni degl'Italiani 
intor?io alle origini del pitagorismo, in Atti della R. Accade?rna 
dei Lincei, Rendiconti, serie 4, 6, 1890, 1 pp. 532-547. 



— vili — 

qtusti e da altri studiosi non solo si siano raccolte molte 
notizie^ ma si siano anche esaminate e discusse quistio- 
ni importantissime, pure troppe cose ancora rimangono 
da chiarire e da risolvere della storia ch'io chiaraerò 
esterna fìeì Pitagorismo; e fors'anche^ riprendendone in 
esame il contenuto^ ossia tenendo l'occhio (dia sua sto- 
ria inlerìia, che è poi, ppr la filosofìa, la sola importan- 
te^ qualche verità, io penso^ già acquisita e insegnala 
dalVantico saggio, potrebbe dimostrarsi anche oggi vali- 
dameìite fondata e tale da poter resistere agli assalti del 
nostro pih acato rritlcismo. 

Gli studi raccolti in questo volume furono già da me 
in gran parte pubblicati, dal 1904 in poi, o in opuscoli 
tu Ririste: ma poiché ho dovuto, nel corso delle mie 
ricerche, modifìcare alcune delle conclusioìU alle quali 
ero giunto, e uuovi fatti ho potuto chiarire, mi sono 
indotto, anche per aderire al desiderio e alle sollecita' 
xioni di benevoli amici, a rista tuparli tutti insieme. 

Spero che il tenue contributo ch'io porto alla storia 
che or ora dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno 
a dimostrare che intorno a queste imporfautissime dot- 
trine non si è detto ancora lutto e cht inolio ancora si^ 
può indagare e scoprire. 



INTRODUZIONE 



Da diverse tradizioni furono connessi i più antichi istituti 
religiosi e politici di molte città dell'Italia meridionale con 
il Pitagorismo (1) ; né fa meraviglia che alle dottrine di 
Pitagora si facessero risalire anche le prime istituzioni e 
le più antiche leggi di Roma : Numa, il sacro legislatore 
della città capitolina, fu ritenuto scolaro di Pitagora, e le 
stesse leggi delle dodici tavole, copiate dalle legislazioni 
della Magna Grecia e della Sicilia, che alla loro volta 
traevano ispirazione, se non origine, dal Pitagorismo, fu- 
rono altresì ricongiunte con questo. 

Sarebbe indubbiamente assai utile e interessante poter 
determinare in che consistessero questi legami di dipen- 
denza e stabilire con precisione quali furono gl'influssi 
dell'antica sapienza italica sulla formazione delle credenze 
e degli istituti religiosi e della fondamentale legislazione 



(1) Seneca, per esempio, {Epist. ad Luoilium, 90) sull'autorità 
di Posidonio, dice, parlando dei glandi legislatori delTItalia: «Hi 
non in foro, nec in eo7isultorum atrio, sed in Pythagorae ilio 
sanctoque secessu didieerimt jura, quae fiorenti lune Siciliae et 
per Italiani Graeciae ponerent ». 

1. 



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romana; ma purtroppo, sebbene qualche lieve tentativo si 
sia fatto in proposito, non è, per ora, possibile una deter- 
minazione neppure approssimativa. 

Ma insieme con questa azione, da alcuni ritenuta sol- 
tanto leggendaria, su ciò che costituì l'anima della vita 
civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un ulteriore in- 
flusso, det^^rmiuando nel corso dei secoli, attraverso le 
vicende della sua storia vasta e complessa, una corrente 
di pensiero sua propria, continua o interrotta, palese o 

recondita ? 

Di vera e propria tradizione scritta non ci resiano trac- 
ce, se non frammentarie; di una tradizione orale abbiamo 
invece meno scarsi indizi e con certezza sappiamo di non 
pochi seguaci che la dottrina pitagorica ebbe in Roma. 
Anzi noi possiamo rilevare tin d'ora, anticipando in parte 
le conclusioni di (jueste nostre ricerche, che questi inna- 
morati cultori di una così riposta e difficile sapienza non 
furono già uomini oscuri né poeti o scrittori di second'or- 
dine, ma cittadini illustri, grandi poeti e celebii letterati, 
pensatori insigni e grandi uomini politici; cosicché la filo- 
sofìa pitagorica, non morta nella scrittura o negli insegna- 
menti orali, ma viva e operante nelle menti di magistrati 
famosi, come Appio Claudio e il maggiore Scipione, nelle 
fantasie di poeti eccellenti, come Ennio e Virgilio, nei 
cuori di cittadini nobilissimi, come Figulo, Varrone e i 
Sestii, accompagnò in certo modo passo per passo il pro- 
gredire della potenza e della grandezza di Roma; tinche 
poi, sopra la sua efficienza pratica e la sua virtù fattiva 
prevalendo Telemento speculativo, che, data la natura e 
r indole dei Romani, era il meno idoneo ad allettarli, e 
all'antica razionalità delle dottrine sovrapponendosi da un 
lato fantasticherie e aberrazioni come quelle di un Apol- 







3 — 



Ionio di Tiana, e dall'altro frammischiandosi elementi ete- 
rogenei di origine greca, orientale e forse anche cristiana, 
essa si ritirò di nuovo nel silenzio e nella segretezza di 
qualche scuola, illuminò appena la vita e lo spirito di 
qualche solitario amante della verità e del sapere, e finì 
per disperdersi e dileguare nelle acque torbide delle spe- 
culazioni di un Macrobio o di un Eulogio. 

Se io mi sono indotto pertanto a raccogliere con la 
maggior diligenza possibile i ricordi, le testimonianze, le 
tracce, o palesi o recondite, o tenui o larghe, che di sé 
ha lasciato il pensiero pitagorico nella storia e nella let- 
teratura dell'antica Roma, gli é che altri lavori e studi 
esaurienti intorno al mio tema non mi é accaduto di tro- 
vare, Brevi cenni riassuntivi si trovano bensì nelle opere 
dello Zeller, dello Chaignet, del Mullach, nella Storia di 
Roma del Rais, e in storie generali e particolari della 
letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare lun- 
ghe e pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse 
qua e là un po' dappertutto. L'importanza e il valore delle 
mie ricerche non consistono dunque nella novità dei ri- 
sultati, ma piuttosto nello svolgimento dato a un tema fin 
qui appena malamente sfiorato da qualche erudito, nella 
quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che ne 
ho fatto, seguendo l'ordine cronologico; e qualche que- 
stione spero anche di avere maggiormente chiarita, seb- 
bene, per la scarsità dei dati sui quali era concesso co- 
struire, non sempre abbia potuto giungere a conclusioni 
definitive. 



CAPITOLO PRIMO 



Inizi leggendari e storici 



i 



1. II Pitagt»rismo e le più antiche istituzioni di Roma. — 2. Testi- 
monianze e prove. — 3. I carmina convivalia. — 4. Numa e 
Pitagora. - f>. Le leggi delle XII tavole nei loro rapporti col 
Pitagorismo. — 6. Il carme pitagorico di A. Claudio Cieco. 

1. — Che molte delle antiche istituzioni di Roma fossero 
d'^^rivate dalla filosofìa pitagorica fu riconosciuto ed ara- 
messo esplicitamente da Cicerone, il quale nel principio 
del quarto libro delle Tmculane (§§ 2-4) lasciò scritto: 
« Pythagorae doctrina cum longe lateque flueret^ pernia- 
navisse mihi videtur in hane civitatem, idque cum coniec- 
tura probabile est, tum quibusdam ctiam vestigiis indica- 
tur » . A conforto dunque della sua opinione egli addusse 
due argomenti, uno congetturale e uno di fatto : « Quis 
enim est qui putet^ — così egli continua — cum fiorerei in 
Italia Oraecia potentissimis et maximis urbibus, ea quae 
Magna dieta est, in eisqne primum ipsins Pythagorae^ 
deinde postea Pythagoreorttni tantum nomen esset, nostro- 
rum hominum ad eorum doctissimas voces aures clamas 



l 



1 






— 6 — 

fiiissef Qiiin etiayn arbitrar propter Pythagoreonun admi' 
rationem Kumam quoque regem pytagoreum a posteriori- 
bus existimatum, Nam cuni Pythagorae discìplinam et 
instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapiens 
tiam a maiorìbus suis accepissent, aefates aiitem et tem 
pora ignorarent propter vetustatem^ eum, qui sapientia 
ejceUeref. Pythagorae aucUtorem erediderunt fuisse». E 
questa è la congettura ; la constatazione di fatto poi è, 
che nelle istituzioni romane e in alcune antiche scritture 
vi sono molte non indubbie tracce di Pitagorismo. Quanto 
alle istituzioni, egli trova materia di raffronto nell'uso dei 
canti e della musica : « Vestigia auteni Pythagoreorum, 
qnamqnam multa oolligi possunt, paucis tamcn utemur,,,. 
Nuììi cum carminibus soliti UH esse dicantur et praecepta 
quaedam occultius tradere et mentes suas a cogitationum 
intentionc cantu fidibusque ad tranquillitatem traducere, 
grarissimufi auctor in Originibus dixit Cato morem apud 
maiores hunc epularum fuìsse^ ut deinceps, qui accubarent, 
canerent ad tibiam clarorum virorum laiides atque virtù- 
tes. Ex quo perspicuum est et cantus tum fuisse discriptos 
vocum sonis et carmina. Quamquam id quidem etiam XII 
tabnlae dcclarant, eondi iam tum solitum esse carmen ; 
quod ne liceret fieri ad alterius iniuriam^ lege sanxerunt. 
Nec vero illud non eruditorum temporum argumentum est, 
quod et deorum puhinaribus et epulis magistratnum fides 
praecinunt, quod proprium eius fuit, de qua loquor, di- 
sciplinae ». E quanto alle antiche scritture egli ricorda un 
carme di Appio Cieco, che a lui pare pitagoreo : « Mihi 
quidem etiam Appii Cacci Carmen^ quod valde Panaetius 
laudai episiula quadanif quae est ad Q. Tuberonem^ Py- 
thagoreum videtur». E finalmente conclude: <^ Multa etiam 
sunt in nostris institutis ducta ab illis ; quae pr aetereo, 



ne ea, quae repperisse ipsi putamur, aliunde didicisse vi- 
deamur», È davvero un peccato che Cicerone, per senti- 
mento di orgoglio nazionale — che non doveva peraltro 
essere soltanto suo — e forse anche per ragioni, se non 
di Stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e di 
utilità pubblica, abbia creduto necessario di tacere intorno 
a queste molte altre derivazioni d'istituti romani dal Pita- 
gorismo, alle quali, come si è visto, accenna per ben due 
volte; tanto più che egli, e per le cariche da lui coperte, 
e per la conoscenza che aveva della scienza augurale e 
sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda 
cultura storica, letteraria e filosofica, era bene in grado 
di fornirci in proposito notizie, documenti e prove certo 
assai interessanti. Ci è forza dunque accontentarci di que- 
sta sua affermazione categorica, per quanto generica, e 
vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano va- 
lidi e, in secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò 
contro la sua tesi. 

2. ~ Che in verità il Pitagorismo importato nella Magna 
Grecia nel sesto secolo avanti Cristo, « temporilms isdem 
— corno dice lo stesso Cicerone — quibus L. Brutus pa- 
ir iam liberavit » (1) e propagatosi in tutta l'Italia meri- 
dionale, dove si conservò poi per molti secoli, non dovesse 
rimanere ignoto ai Romani e dovesse esercitare su di loro, 
presto tardi, qualche influsso notevole, ò ovvio, e le 
presenti ricerche dimostrano appunto la cosa alla luce dei 
fatti. Ma la questione è ora di vedere se tale influsso si 
possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei 



(1) Ibid. § 2. Cfr. I, 16, 8, dove è detto ohe Pitagora venne in 
Italia « Superbo regnante ». . 



\ 



I 



— 8 — 

suoi primi seguaci, come Cicerone credette, oppure, come 
credette Livio e con Un gli storici moderni, se esso si sia 
fatto sentire soltanto, per opera di neo-pitagorici, dopo la 
conquista della Campania e della Magna Grecia, che fu 
interamente compiuta nel 265 a. C. ; e, d'altra parte, se 
questa azione sia stata così larga e profonda da dover 
lasciare molte tracce di sé negli istituti politici e religiosi 
di Roma, o se si sia esercitata solo sulle prime manife- 
stazioni dell'arte musicale e letteraria e sulle prime spe- 
culazioni filosofico-religiose. 

Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me che dimo- 
strino, anzitutto, come già parecchie generazioni prima 
delI'Arpinate, e precisamente fin dal secolo quarto a. C, 
cioè prima della conquista dell'Italia meridionale, dovette 
essere convinzione di molti in Roma che a Pitagora, alla 
sua dottrina e alle sue leggi fosse debitrice di molto la 
città. 11 primo di questi fatti è che durante la guerra 
sannitica fu innalzata a Pitagora ai lati del Comizio in 
Roma, per volere di Apollo, una statua, che vi rimase 
poi sino ai tempi di Siila (1). Ora la guerra contro i San- 
niti si combattè in tre periodi, l'ultimo dei quali va dal 
298 al 290 a. C. : e il Pais crede che la cosa si debba 
ritenere avvenuta appunto in questi anni; ma in realtà 
non vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire an- 
che ad uno dei due periodi precedenti. L'altro fatto, un 
poco posteriore, è che dopo la presa di Turis, di Eraclea 

(1) La cosa ci è atte-stata da Plinio, il quale pero non cita la 
fonte da cui ha attinto la notizia. Dice egli infatti {N. H. XXXIV, 
26): Invento et Pythagorae et Alcibiadi in cornibus Comitii positas 
(statiias), Clini hello Samniti Apollo Pijthius iussisset fortissimo 
Oraiae gentil et alteri sapientissimo simulacra celebri luco dicari» . 
Cfr. Plctikco, Xuma, Vili. 






e di Taranto (272 a. C.) e con Tarrivo nella città di Livio 
Andronico, che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale, 
furono dichiarati cittadini romani, Pitagora e il suo alunno 
Zaieuco (1). Ora perchè mai sarebbero stati concessi a Pi- 
tagora due onori cosi distinti e di carattere pubblico, se 
non si fossero riconosciute le sue benemerenze verso la 
città? Evidentemente in quei tempi più antichi l'orgoglio 
nazionale non aveva ancora oscurato, come più tardi, il 
senso della verità storica ! Ciò premesso, veniamo ad esa- 
minare la possibilità degl'influssi pitagorici sulla più antica 
civiltà capitolina, secondo le prove che ce ne dà Cicerone. 

3. — I carmina convivalia, che, ormai disusati nell'età 
ciceroniana, erano invece ancora in uso al tempo della 
seconda guerra punica (218-202 a. C.) e che risalivano, 
come affermò Catone, a molte generazioni prima di lui, 
furono certamente anteriori alla legislazione decemvirale, 
che è della metà del secolo quinto: Cicerone infatti, per 
dimostrare l'esistenza di canti accompagnati da strumenti 
musicali, e quindi di una civiltà abbastanza evoluta nei 
tempi più antichi di Roma, ricorda nel passo citato, in- 
sieme con la testimonianza di Catone, il fatto che le leggi 
delle dodici tavole comminavano gravi pene a chi avesse 
usato quei canti « ad alteriiis iniurlam » (2). Senonchè 
Cicerone, come appare da un altro passo dei suoi scritti. 



I 



(1) Vedasi il framm. 5 nei Fragm. Hist. Graec.^ II, p. 273 e 
Bymm. ep. X, 25. 

(2) Cfr. De rep. IV, fr, 12 : « Nostrae duodeeim tabulae, quum 
perpaucas res capite sanxissent, in his kanc quoque sanciendam 
putaverunt^ si quis occentavisset sive carmen condidisset qiiod in- 
famiani faceret ftagitiumve alteri » e vedi anche Plinio, Nat, Hist. 
XXVm, 2, 10-17. 






- 10 - 

audò anche più oltre, ritenendoli già esistenti al tempo 
del re Niima (1). Se cosi è, non avrebbe dunque dovuto 
valere anche per essi l'obiezione che TArpinate moveva, 
come si è veduto, alla leggenda che il re Numa fosse 
stato scolaro di Pitagora? Neppure di questi antichissimi 
canti egli poteva logicamente ammettere la derivazione 
dall'analoga costumanza dei Pitagorici, se Numa che li 
istituì visse, secondo la cronologia ufficiale, a cui il nostro 
autore credeva, più di cento anni innanzi la venuta del 
filosofo di Samo. Cosicché o il raffronto istituito da Cice- 
rone e la analogia da lui messa in rilievo non ha alcun 
valore storico — e così dovrebbe ritenersi senz'altro, se 
fosse indiscutibilmente fondata la cronologia della più an- 
tica storia di Roma -', oppure — come è più probabile, 
in conformità dei risultati generali e particolari a cui è 
giunta la critica storica nell'esame delle primitive leggende 
romane — l'ipotesi della derivazione dei canti dal Pitago- 
rismo ha un fondamento di vero, e in tal caso ò da rite- 
nere che fosse errata la tradizione cronologica, in quanto 
faceva risalire al secolo ottavo un'usanza che dovette essere 
posteriore al seste secolo a. C. Quanto poi all'analogia 
considerata in sé, in che consisteva essa? Semplicemente 



(ì) De orai. 111,51, 197: «Nikil est autem tam cognatuin mentibiis 
nostris quavì mimcri atqttc voces : qìiihus et cxcitamur et incendi- 
mur et leniìnur et langiiescimus et ad hilaritatem et ad tristitiavi 
saepe deducimur : quorìiru illa summa vis cat minibus est apiior 
et cantibus, n,on neglecta, ni mihi ridetur^ a Numn regc doctissiytto 
maioribusque 7iostris, ut epularum sollernnùmf ftdes ac tibiae ò'a- 
liorumqiie versus indieant ; ìnaxime autem a Or (tee la vdere cele- 
brata ». Di questi canti poi Cicerone parla anche altrove, e cioè 
nel Brutus, 19, 75 e nelle Tusculane I, 2, 3. Si vedano anche 
Tacito, Ann, III, 5, Val. Massimo II, 1, 10, Nonio ad assa voce 
ed ivi Tarrone, de vita pop. rom.., fr. Il, 20, Kettner. 



— Il — 

neiruso comune del canto e della musica in occasione di 
feste religiose e di banchetti pubblici, non già nel conte- 
nuto dei canti stessi, che gii uni. cioè i Pitagorici, ado- 
perarono come mezzo terapeutico e di insegnamento eso- 
terico, e gli altri invece, cioè i Romani, per esaltare la 
memoria degli antichi eroi; come i Pitagorici erano soliti 
tramandare sotto il vincolo della segretezza certi insegna- 
menti in forma di canzoni e riposare per mezzo di canti 
accompagnati dalla lira le menti afiaticate dalla lunga 
meditazione, così gli antichi Romani solevano, al principio 
dei banchetti, cantare al suono delle tibie le lodi e le virtù 
degli eroi, ed ebbero anche Tusanza di far precedere tanto 
alle mense in onore degli dei, quanto ai banchetti dei ma- 
gistrati, il suono delle lire, il che fu pure caratteristico 
dei Pitagorici. Insomma, le piìi antiche manifestazioni del- 
l'arte musicale in Roma si ebbero per T influsso diretto 
del Pitagorismo. 

4. — A quei modo che si e dimostrata la possibilità che 
siano derivate dal Pitagorismo queste antichissime mani- 
festazioni dell'arte musicale, si potrebbe anche riconoscere 
come verisimile — contrariamente a ciò che ne pensava 
Cicerone — la notizia dei rapporti fra Numa e Pitagora. 

La notizia che il re Numa sia stato scolaro di Pitagora 
è probabilmente anteriore al terzo secolo a. C. ; anzi il 
Pais afferma (1) che essa si deve forse far risalire ad Ari- 
stosseno. Ma in tal caso sarebbe necessario credere che 
questi conoscesse una cronologia della storia romana di- 
versa da quella che fu poi consacrata dalla storiografìa 
ufficiale, secondo i computi della quale l'esistenza di Nu- 



(1) Storia di Eorna^ I^, p. 19 e 387. 



1* 






lì ;1 



12 



ma fu anteriore di oltre un r.ecolo a quella di Pitagora. 
Tanto è vero che quasi tutti gli scrittori presso i quali 
troviamo ricordata tale notizia — Cicerone, Dionigi d'Ali- 
carnasso, Diedero Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio — 
notano e discutono variamente questa inconciliabilità cro- 
nologica, concludendo tutti press *a poco come fa Manilio 
nel De re publica di Cicerone, che dice la storia di queste 
relazioni non sufficientemente provata dai pubblici annali 
e quindi da ritenersi « un errore inveterato > (1). Ora che 
dal punto di vista romano o di scrittori romanizzanti così 
dovesse concludersi, è troppo naturale: data la indiscuti- 
bile verità della tradizione e della relativa cronologia, non 
poteva esservi dubbio per loro sulla impossibilità per parte 
di Numa di essere stato alunno di Pitagora. Ma tale im- 
possibilita non esiste per noi, che sappiamo come la stona 
delle origini di Roma sia di formazione relativamente assai 
tarda, come ì computi cronologici che a quella si riferi- 
scono siano il risultato di una lunga elaborazione tradi- 
zionale, quasi interamente destituita d'ogni fondamento di 
verità, e infine come mi ►Ite figure della leggenda siano 
soltantn dei simboli nippresentativi di un complesso di 
fatti di istituzioni appartenenti talvolta a tempi succes- 
sivi e diversi. Tolto dunque Tostacolo cronologico che, se 
era validissimo per i contemporanei di Cicerone, non sus- 
siste più oggi che la critica storica ha demolito Tantichis- 
sima cronologia di Roma, non rimane altra obiezione che 



riì Cf . De re pubi. II, 15, 28: « Inveteratus howinuìii error "». 
Cfr DiON. Halic, II, 59; Diod. Sic. Vili, 14 {Exc. de viri et vii. 
p. 549) ; Livio i, 18 e XL, 29 ; Plut. Awma I, 3 ; VriI, 5 sgg.; 
Plinio, Nat. Bist . XIII, 27. —Quanto alla testimonianza di Ovidio 
si veda più innanzi, al cap. IX. 



— 13 — 

quella sollevata da Livio, il quale ritenne impossibile ogni 
lapporto fra Numa e Pitagora anche per ragioni di di- 
stanza e di lingua. Dice egli infatti : « Auctorem (ìocirinae 
« eius [i. e. Numae], quia non exstat alius^ falso tSamium 
« Pythagoram edunt^ quem Servio Tullio regnante Bomae^ 
« centum ampliìis post annos^ in ultima Italiae ora circa 
« Metapontìim Heracleamgue et Crotona iuvenum aemu- 
« lantium studia coetus habuisse constai. Ex quibus locìs, 
« etsi eiusdem aetatis fuisset^ quae fama in Sabinos ? 
« ant quo linguae commercio quemquam ad cupiditatem 
« discendi exeivisset f quove praesidio unus per tot gentes 
« dissonas sermone morihiisque pervenisset f suopte igitur 
« ingenio temperatum animum virtutibus fuisse opinor 
« magis instructumque non tam peregrinis artibus quam 
« disciplina tetrica ac tristi veternm Sabinornm^ quo gè- 
« nere nullum quondam incorruptius fuit » (1). Ma nel 
campo della storia, come giustamente osserva il De Mar- 
chi (2), è forse detta l'ultima parola sui rapporti che lega- 
rono in antico la civiltà della Magna Grecia con le più 
barbare popolazioni italiche del centro? E d'altra parte 
la esistenza ammessa da Livio di una « disciplina tetrica 
ac tristis » presso i Sabini dell'ottavo secolo a. C. non è 
cosa molto più problematica di quello che non sia pro- 
babile l'andata di qualche sabino o romano nella Magna 
Grecia nel secolo sesto? La leggenda dei rapporti fra 
Numa e Pitagora dovrebbe dunque, a parer nostro, accet- 
tarsi come rispondente a verisimiglianza, e il regno di 
Numa^ se questi è realmente esistito, o, in ogni modo. 



(1) Livio, I, 18. 

(2) Passi scelti da Tito Livio ad illustrare le istituxioni religiose.^ 
'politiche e militari di Roma antica, Milano, Yallardi, 1907 p. 65. 



— 14 



15 — 



il foriiìarsi di tutti quegli istituti di carattere religioso che 
la tradizione riportava a lui, dovrebbe ritenersi posteriore 
almeno al tempo di Pitagora, ossia posteriore al secolo 
sesto, appunto perchè dalla tradizione era tenuto in stretto 
rapporto di dipendenza dal Pitagorismo. In tal modo non 
sarebbe più necessario, come fa il Pais, di ritenere inven- 
tata da Aristosseno Taltra notizia, che risale appunto a 
questo filosofo del quarto secolo, che parla genericamente 
di Romani :ieeorsi ad ascoltar Pitagora (1), e più facil- 
mente si comprenderebbero alcuni dati della leggenda di 
Numa, la scoperta dei famosi libri pitagorici di questo re, 
e il fatto che qualche scrittore, per esempio Ovidio, am- 
metta la realtà dei rapporti, senza neppure discuterla. 

Raccontava ancora la tradizione che Numa ebbe tanta 
venerazione per il suo maestro Pitagora, che volle dare 
a un proprio figlio il nome di Mamerco, in onore deiromo- 
nirao tìglio del tìlosofo (2). Che significato può avere questo 
nuovo particolare? Alcuni hanno creduto di scorgere in 
esso un tentativo da parte degli Emili Mamertini di far 
risalire in tal modo le proprie origini al tempo di Numa. 
Se così fosse, noi dovremmo allora ammettere che quando 
il particolare fu inserito nella leggenda, la cronologia di 
questa non era ancora quella ufficiale: altrimenti il tenta- 
tivo sarabbe stato puerile. Ma così veramente non è, come 
fu giustamente osservato dal Muller(3); probabilmente il 



(1) npoaf^XO-ov 5'a'jT(p (cioè Pitagora), &<; cpyjatv 'Aptaxójsvo^, xal 
Asuxavol xal MsaaàTctGt xal risuxsxtot xal 'Pco[jLaIou Così dìc-^. Por- 
firio nel CHp. 22 della Vita di Pitagora; e il medesimo aft'ermaiio, 
senza citare Aristosseno, Diogene Laerzio (Vili, 14) e Gjamblico 
[Vita Pythag. 241). Quanto al Pus, vedasi St. di Roma I'-^, 
p. 678-679 n. e altrove. 

(2) Plutarco, Numa Vili, 11; P. Emilio I. 

(3) Q, Enmus, Pietrob. 1884, p. 162 n. 



particolare non ebbe altro ufficio che di avvalorare con 
un indizio di più la leggenda. Un'altra notizia, a propo- 
sito della quale non è veramente fatta menzione alcuna 
di Pitagora, è quella che si riferisce alla Musa Tacita, per 
la quale Numa ebbe particolare venei-azione (1). Allude 
forse essa alla pratica del silenzio e della segretezza, di 
cui parla costantemente la tradizione pitagorica? È pos- 
sibile. E il miracolo della mensa carica di ricco vasellame, 
che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli occhi di co- 
loro che dubitavano delle sue facoltà soprannaturali (2), 
non ricorda le analoghe facoltà magiche attribuite a Pita- 
gora dalla tradizione? Veramente queste due notizie, per 
il loro carattere favoloso, potrebbero indurci a credere 
l'austera e quasi mistica figura di Numa una proiezione 
storica immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del 
saggio di Samo. Ma un altro fatto, sulla cui verità storica 
non è possibile il dubbio, sembra indurci a conclusione 
diversa ; voglio alludere al fatto della scoperta dei famosi 
libri di Numa, avvenuta nel 191 a. C, in occasione di 
uno scavo sul Gianicolo. Ora data la realtà della scoperta 
e la inverosimiglianza, come vedremo nel capitolo seguente, 
di una falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la tra- 
dizione, che questi libri fossero veramente antichi. Siano 
poi essi stati opera del saggio Numa — la cui esistenza, 
come s'è già detto, dovrebbe necessariamente porsi in 
un'epoca posteriore al sesto secolo — o di qualche altro 
sapiente imbevuto di sapienza greco-italica, essi starebbero 
sempre a dimosti-are che effettivamente il Pitagorismo eser- 
citò una qualche azione suirantica civiltà capitolina. 



(1) Plutarco, Numa^ Vili. 
(2; DiON. Halic, II, 60. 



i 






16 — 



17 



Dal complesso di queste notizie e di questi fatti noi 
possiamo dunque inferire che non solo la leggenda dei 
rapporti fra i due legislatori dovette essere assai diti usa 
ed antica, ma che altresì essa ha un certo fondamento di 
vero : di guisa che se Cicerone la disse « inveteratus ho- 
m'niiim errar » noi possiamo senz'altro accettarne la vetu- 
stà; e quanto all'erroneità, essa fu probabilmente soltanto 
un desiderio di uomini di stato e di eruditi animati da 
un eccessivo orgoglio nazionale. Per la qual cosa Ovidio, 
che pure scrisse dopo che diversi storici avevano mosso 
alia leggenda le critiche accennate, potò ben accettarla 
senza discuterla affatto come una cosa ovvia e risaputa (1) 
e fare in certo modo dipendere le istituzioni religiose at- 
tribuite a Numa (2), persino la sua riforma del calenda- 
rio (3), dalla educazione pitagorica da lui ricevuta. 

5. — Anche alcune disposizioni legislative delle dodici ta^ 
vole — che appartengono alla metà del quinto secolo a. C. — 
furono messe in relazione col Pitagorismo; cosa ben natu- 
rale, se si pensi alla loro origine: non erano esse infatti 
ricalcate sulle orme delle legislazioni deUa Magna Grecia, 
che, alla lor volta, com'è ben noto, si informavano ai prin- 
cipi! di quella dottrina? Ora questa, che sarebbe, per dirla 
con Cicerone, semplice con'ìeciura, ha poi la sua ripi'ova 
nel contenuto delle leggi stesse, quale può desumersi dai 
frammenti che ce ne rimangono. Infatti il dii'itto punitivo 
in esse sancito s'ispirava a! principio del taglione: ^ Si 



(1) Metani, XV, 1-8, 479-484; Fast. UI, 151-154; Poìit, III, 
3, 41-46. 

(2) Metam. XY, 479-484. 

(3) Fast, 1. e. 



memhrum rup{s)it, ni cum eo paeit, talio està », dice il 
secondo frammento della ottava tavola, e questo principio 
che, come attesta Demostene, ebbe largo svolgimento nelle 
leggi di Zaleuco (1), era indubitatamente tolto dai Pitago- 
rici, i quali lo ricollegavano alla dottrina dei numeri. Dice 
infatti Aristotile (2) che la giustizia era da loro conside- 
rata come ràvTtJieTcov^óg; perchè consisteva in una pro- 
porzione — non inversa, ma diretta, come notò bene lo 
Zeller (3) — fra l'offeso, l'offensore e il giudice; nel che 
essi applicarono, secondo la critica aristotelica, i criteri 
della giustizia commutativa ad un ordine in cui non può 
aver luogo che la distributiva. Ora, dice il Chiappelli in 
un suo breve studio (4), in qual modo si determinasse dal 
Pitagorismo e quali applicazioni avesse questa teorica del 
taglione non possiamo dire, né possiamo quindi sapere 
quali elementi di essa penetrassero nelle dodici tavole e 
a quali trasformazioni andasse soggetta in Roma. Un punto 
tuttavia è possibile stabilire, sebbene solo in modo nega- 
tivo. Alla legge generale, nelle dodici tavole, seguivano 
le leggi speciali: la prima di esse riguardava la diversa 

(1) Timocr. 744 : « Svxo^ yàp a^xóD-t vófiou, éàv Tt^ dcp^aX|jiòv 
éxxócj^y^, àvT£xxóc];ai 7rapaa)(stv tòv éauToO xal oh xpY^fxàKov TtfX7{- 
asa)^ ouesjiLag, àitsa^aaC iig ^éysTai Ix-^pòg Ix^pcp §va Ix^v^t ò^O-aX- 
|iòv 5x1 aùxoO lxxóc|>et xoOxov xòv iva ». Le medesime parole si 
ritrovano in quelli che V autore della Grande Morale ci riferisce 
dei Pitagorici, il che è una riprova del rapporto storico fra questi 
e Zaleuco. 

(2) Eth. Nic. y, 8, 1132 b. 1 (ed. Susemihl) : « Soxsi 5é xtai 
xal xò àvxtTisTiovO'òc; slvat àTiXwg dCxatov waTisp o\ nuO-ayópetot 
Icpaaav. ùìpl'Qo^zo yàp àTiXwc xò aCxaiov xò àvxiTxsTiova-ò^ dcXXq) y> 

(3) [*, 360. 

(4) Sopra alcuni frammenti delle XII tavole nelle loro relazioni 
con Eraclito e Pitagora, in Arch. giurid. voi. XXXY. 



— 18 — 

misura della pena per T ingiuria recata a un libero o ad 
uno schiavo (1). Ora i Pitagorici non pare che avessero 
fatta questa distinzione^ se l'autore della Grande Morale 
combatte la dottrina pitagorica del taglione, come quella 
che non si può applicare incondizionatamente al servo o 
al libero, poiché di quanto quello cede a questo, di tanto, 
se gii abbia fatto ingiuria, deve accrescersi la pena cor- 
rispondente (2). E in verità siffatta distinzione era bensì 
impossibile nel sistema dei Pitagorici, per i quali il corpo 
era come il carcere dell'anima, che vaga in una perenne 
trasmigrazione, e il più alto precetto etico era l'imitazione 
degli dei per via della virtù, l'osservanza delle leggi e il 
rispetto verso tutti gli uomini; ma era invece possibilis- 
sima, anzi necessaria, nella legislazione di Roma, dove così 
netto era il distacco fra cittadini liberi e schiavi. 



6. — Abbiamo anche veduto come a Cicerone paresse 
ispirato ai principii della filosofia pitagorica il poemetto di 
Appio Claudio Cieco, che, censore nel 3P2 e console nel 
307 e nel 296 a. C, fu indubbiamente uno dei personaggi 
storici più importanti e, se non il primo, certo uno dei 
piimi lapprf'sentanti di una larga cultura. Orbene, che il 
giudizio di Cicerone non t'osse errato parrebbero dimostrare 
a sufBcienza i pochi frammenti che di quella poesia ci sono 
rimasti. E in verità la famosa sentenza « fahrum esse siiae 
quemqiie fortiinae » non potrebbe esprimere megho il fon- 
damento della dottrina morale di Pitagora; e l'altra, altis- 



(1) Si veda il fr. 3 della stessa tav. YIII ; « Manu fustive si os 
fregit libero GCC, [si] servo CL poenam subito ». 

(2) Magn. Mor. I, 34, 1194, a. 35: « xò bri toioOtov oux èaxt 
Tipo; acrcavTa?:-0'j yàp èait Stxaiov oìy.STr^ r.pòg èXcuO-spóv TaÒTÓv» etc- 



— 19 



sima, come dice il Pascoli (1), se fosse certa la lezione e 
l'interpretazione: «amicum cwn vides ohliscere miserias; 
ìnimicus sies; commentus nec libens aeque [idem tamen 
tenetoj »^ che il Pascoli stesso traduce: «tu dimentichi 
la tua miseria quando vedi un amico; ora sia tuo nemico 
quello che tu vedi: ebbene, pensatamente, e non volen- 
tieri come con l'amico, tieni lo stesso contegno, tuttavia », 
è pure strettamente conforme alla dottrina pitagorica, che 
insegnava amore e fratellanza ; il terzo infine « sui quem- 
que oportet animi compotem esse semper nequid fraiidis 
stuprique ferocia pariat » , non è certo disforme dalle pra- 
tiche e dagli esercizi spirituali degli adepti al Pitagorismo, 
che dovevano acquistare padronanza assoluta non pure del 
proprio corpo, ma anche delle proprie attività interiori, 
per dirigerle al bene. 

Non si apponeva dunque male Cicerone. Senonchè an- 
che intorno all'autenticità di questo antico poema, che 
sarebbe una delle prime manifestazioni letterarie di Roma, 
si sono sollevati dei dubbi. Il fatto che la notizia di esso 
era data da Panezio in una sua lettera a Quinto Tuberone 
ha indotto per esempio il Pais (2) a pensare che si tratti 
di una falsificazione posteriore, « da collegarsi con le altre 
falsità che andavano sotto il nome di Aristosseno intorno 
ai Romani scolari di Pitagora e su Pitagora cittadino di 
Roma » . Ma come è ciò possibile, se Aristosseno e Appio 
furono contemporanei? E se Appio visse, come è certo, 
nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lu- 
cania, che ragione c'è per negare che egli abbia potuto 
conoscere quelle dottrine e da esse trarre ispirazione per 



(1) Lyra romana, Livorno, 1895, p. XXXII. 

(2) St, di Roma I, 2, p. 671 n. 



- 20 — 

il suo poemetto? E poi come dubitare con qualche fon- 
damento dell'autenticità dell'opera che un Panezio e un 
Cicerone, a distanza di tempo relativamente breve, attri- 
buirono ad Appio stesso, tanto più che il medesimo Pais 
riconosce che Tefflcacia della filosofìa tarentina si esercitò 
sopra gli uomini di stato romani « dal tempo di Appio e 
di Pirro :» ? L' ipotesi di una falsificazione, della quale poi 
non si vedrebbe neppiir chiaramente la ragione, non ci 
sembra dunque per nulla fondata; sì che noi possiamo 
conchiudere che la dottrina del filosofo di Samo, in con- 
formità dei dati tradizionali, esercitò una qualche azione 
tanto sulla più antica civiltà di Roma, a partire dal sesto 
secolo a. C, quanto sui primi prodotti del pensiero e 
deli' arte. 



CAPITOLO SECONDO 



Quinto Eiiiiio e i suoi tempi 



1. Ennio e Catone. —2. Ennio in Eoma e il circolo degli Scipioni. — 
3. Il sogno degli Annali. —4. Sua importanza per la diffusione 
delle dottrine pitagoriche in Roma. —5. L' « Epicharmus ». — 
6. Ennio e il razionalismo. — 7. I libri di Numa. — 8. Culti 
Bacchici e sette orfiche in Italia nel principio del sec. II a. C. — 
9. Stazio Cecilie e Marco Pacuvio. — 10. 1 comici. — 11. Caio 
Lucilio. 



1.— Chi, pi il d'ogni altro, contribuì a diffondere in Roma 
la conoscenza delle dottrine di Pitagora fa senza dubbio 
il poeta Ennio (239-169 a. C), il grande padre della cul- 
tura e della letteratura romana. Nativo di Rudie, paese 
fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, egli aveva 
studiato in quest'ultima città, che era il centro italico, in 
cui si conservavano più pure le tradizioni pitagoriche. 
Versato nel greco, neirosco e nel latino^ egli diceva scher- 
zando di avere tre cuori (1). Nel 204 si trovò a militare 
in Sardegna fra gli ausiliari che Taranto aveva mandato 



(1) Gellio, N, a., XYIII, 17. 



— 22 — 

ai Komani, e quivi da Marco Perciò Catone, che era più 
giovane di lui di cinque anni, fu invitato a recarsi a Roma. 
Come si spiega tale invito ? Quali \incoli si stabilirono fra 
questi due giovani, destinati a sì grandi cose, che si incon- 
trarono fra gli orrori di una guerra di conquista? Furono 
vincoli di simpatia e di amicizia creati dalla comune gran- 
dezza d'animo e da comuni aspirazioni? si erano essi 
già conosciuti cinque anni prima, nel 209, quando Catone 
quindicenne fu in Taranto ospite del pitagorico Nearco?(l). 
Questo mi sembra più probabile. D'altra parte la profonda 
scienza e il forte intelletto dei Kudino dovettero certo 
colpire r animo eletto e la mente aperta di Catone, che 
alle qualità pratiche del futuro uomo di stato univa le 
attitudini del poeta e deirartista, del pensatore e del filo- 
sofo, hi virtù della sua sapienza Ennio dovette apparire 
al nobile cittadino di Roma come assai atto a cantare le 
antiche gesta della città; ed è forse per questo che Ca- 
tone, ragionando con lui delle istorie primitive della patria 
e delle relazioni che essa ebbe con la Magna Grecia, dovette 
suggerirgli Tidea del poema, che quegli poi realmente 
scrisse, e per la composizione di esso offrirsi di agevolar- 
gli la conoscenza dei documenti e d^^i materiali storici e 
promettergli tutto il suo aiuto ; il quale, e per la condi- 
zione e per l'ingegno dell'offerente, non poteva non ap- 
parire ad Ennio prezioso e inestimabile. Al poeta d'altro 
lato, piena i anima doll'antica sapienza della sua terra, di 
quella sapienza che nessuno 

in somnis vidit priu' quam sam diacere coepit (2) 



(1) Plutarco, Gaio maior, 4-5. —Cicerone, Cato maior, 12, 39; 
21, 78. 

(2) Annales^ VII. fr. 124 (Yalmaogi). 



— 23 — 

dovette balenare come in uno splendore radioso l'idea di 
ilìustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al 
tempo stesso, di farsi banditore di una sapienza scono- 
sciuta alla città che forse il suo spirito veggente presagiva 
sarebbe stata nuova fucina di cultura e di sapere e maestra 
di nuova civiltà alle più lontane generazioni! 

2. — Venuto in Roma, Ennio vi passò quasi per intero 
l'altra metà della sua vita, dedicandosi totalmente agli 
studi e alla poesia e a diffondere fra la gioventù colta 
della città l'amore del sapere. Egli chiamò intorno a sé, 
a formare un circolo di studiosi, i più influenti e noti 
cittadini e da essi seppe farsi amare ed onorare per le 
cognizioni vaste e profonde, per la nobiltà dell'animo e 
l'integrità del carattere, per la modestia della vita e dei 
costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascol- 
tarlo accorsero fra gli altri Scipione Africano, Scipione 
Nasica, Aulo Postumio Albino (1), Marco e Quinto Fulvio 
Nobiliore, e con tali amicizie egli seppe vivere sempre 
poverissimo e pur sempre sereno, mostrando così con l'ef- 
ficacia dell'esempio, che le verità da lui insegnate e pra- 
ticate erano realmente le più atte a dare la felicità e la 
pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio 
Elio Stilone soleva dire che Ennio fece il ritratto di se 
medesimo nei seguenti versi degli Annali, che descrivono 
il vero amico: 

Haece locutus vocat, quocum bene saepe libenter 
mensam sermonesque suos rerumque suarum 
comiter inpartit, magnam cum lassus diei 
partem trivisset de summis rebus regiindis 



•M 



(1) Fu « decemvir sacrorum * nel 173 a. C. (Lmo, XLII, 10). 



275 



280 



285 



24 



Consilio indù foro lato sanctoque senatu ; 
quo res audacter magnas parvasque iocumque 
eloqueretur cuncta [simul] malaque et bona dictu 
evomeret, si qui vellet, tutoque locaret ; 
quocum multa volup [et] gaudia clanique palamquo, 
ingenium quoi uulla maliim sententia suadet 
ut faceret facinus levis aut iiialus ; doctus, fidelis, 
suavis homo, facundus, suo contentus, beatus, 
scitus, secunda loquens in tempore, commodus, verbum 
paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas 
quem facit et mores vetoresquc novosque tenentem 
multorum veterum leges divomqae hominumque, 
prudenter qui dieta loquive tacereve posset(l). 



In questo ritratto tu vedi l'immagine del vero sapiente 
pitagorico, che sa trattare le faccende pubbliche e racco- 
gliersi nella meditazione, che sa parhire con piacevolezza 
e con facondia e tacere a tempo opportuno, che non com- 
mette mai il male, neppure per leggerezza, fedele neira- 
micizia e servizievole, contento del suo, felice, che infine 
sa niolte cose profonde e recondite, ma le tiene ermeti- 
camente chiuse nel fondo della sua anima, per non darle 
in balia di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri atto 
ad intenderle. 

E anche possibile, come osserva acutamente il Pascal (2), 
che in questi versi Ennio abbia voluto altresì rappresen- 
tare i suoi rapporti col grande Scipione, del quale si po- 
trebbe dire assai più convenientemente quello che Macro- 
bio scrisse deir Emiliano, che cioè fosse <i vir non minus 



(1) Gellio, N, a. XII, 47: * L. ielium Stilonem dicere solitum 
fenint, Q. Ennium de semet ipso haec scripsisse pioturamque istam 
morum et ingenii ipsius Q. Enni factam esse =>. I versi sono se- 
condo il testo dato dal Valmaggi {= vv. 294 ss. MiJLLEE = fr. 194 
Baehrens). 

(2) Antologia latina^ Milano, 1899, p. 16. 



— 25 — 

philosophia quam virtute praecellens » (1); e l'ipotesi tanto 
più è accettabile se pensiamo che Scipione fu forse il mi- 
gliore dei discepoli del poeta, il quale lo ebbe in tanta 
considerazione da comporre intorno a lui un poemetto 
— Scipio — e da fargli dire : 

A Sole exoriente supra Maeotis paludes 

nemo est qui factis me aequiperare queat. 

Si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est, 

mi soli caeli maxima porta patet (2). 

E Cicerone stesso, appunto per la sua sapienza, oltre 
che per la fama delle sue imprese, non lo scelse come 
protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De 
Republica? 






- Di Ennio fu notissimo ai Romani il sogno col quale 
incominciavano gli Aanales e di cui ci sono rimasti ap- 
pena alcuni frammenti (3) insieme con le testimonianze di 
Lucrezio, di Cicerone, di Orazio, di Persio e di altri (4). 



{\) In Somnium Seipionis, I, 3. 

(2) Cicerone, Tusc. V, 49; Seneca, ep., lOS e altri. Seneca poi, 
nellVp. 86, dice, parlando appunto di Scipione : ♦ animus eius in 
eaeluììi^ ex quo erai^ rediisse persucufeo mi hi ». 

(3) Vedili in V. J. Vahlen F?in. poes. rei., Lipsiae, 2^ ediz. 1902, 
pp. 4-6; L. Ml ELLER, Q. Enni carvi, rei., Petrop. MDCCCLXXXY, 
pp. 3-5, e nei Frag. poet. rovi, coli. Baehren:5, Lipsiae, 1886. Vedi 
anche le osservazioni del Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, 1884, 
p. 139 e seg. e lo studio del Valmaggt pubblicato nel Bollettino di 
filol. classica, III, 259 e seg. 

(4; Lucrezio, I, 112-126; Cicerone, Somn. Scip., 1, 10; Acad. 11, 
16, 51; 27, 88; Orazio, Ep. Il, 1, 52-54; Persio, proL 2 sg., 
sai. VI, 10-11; Schol. in Pers. prol. 2; VI, 9; Schol. Gruq. in 
Horat,, Ep, II, 1, 52; Frontone, ep, IV, 12, p. 74 Nab.; Sergio, 
ad Aen., II, 274, ecc. 



26 



Questo sogno che « levò grande rumore nel mondo ro- 
mano e di cui spesso si parlava, ora con serietà filosofica, 
ora per ischerzo, tanto che divenne quasi proverbiale » (1), 
doveva essere abbastanza lungo. Al poeta addormentato 
sarebbe apparso sul monte Parnasso (2) il fantasma pian- 
gente (3) di Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno 
alTordine dell'universo (4), alle trasmigiazioni di ogni ani- 
ma umana attraverso iii] proprio ciclo di vite (5) e alla 
sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una forma 
iììtermedia fra Tanima e il corpo (6) e a ricordargli le 
mutazioni della propria anima, trasformatasi, dopo la morte 
dpl corpo, in un pavone (7) e rinata appunto in lui, il 

(1) A. Pasdera, // sogno di Seipione, Torino, Loescher, 1890,- 
p. 4 nota. 

(2) Persio, Frol l 3 : « Nec fonte lahra prolui caballino Nec in 
bicipiti sommasse Parnasso Memini, ut repente sic poeta prodi- 
rem », e Sckol. ad v. 21 * ia^igit Ennium, qui dicit se vidisse 
sommando in Parnaso Homeruìn sibi dicentem quod eius anima 
in suo esset corpore » . 

(3) La ragione di questo pianto non è detta. Era forse pianto di 
gioia per il momentaneo ritorno a contatto con un essere terreno ? 

(4) Lucrezio, I, 126: <^ rerum naturam expandere dictis ». 

(5) Lucrezio, I, 113: « an contra naseentibus insinuetiir (ani- 
ma) * e 116 : « a/i pecudes alias insimiet se ». 

(6) Lucrezio, I, 120-123 : ^ Etsi praeterea famen esse Acherusia 
tempia Enntus aeternis exponit versibus eidem Quo ncque pernia- 
neanianimae ncque corpora nostra, Sed quaedam simulacra modis 
p a Ile ntia yn iris ». 

(7) Persio, ^at. VI, 10 sg. : « Cor iubet hoc Enni, postquaìn 
destertuit esse Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo ». Tertul- 
liano, de an., e. 33: « pavum se meminit Homerìis Ennio som- 
mante ^\ ibid.^ e. 34: « per inde in pavo retunderetur Homerus.^ 
sicut in Pyfhngora Euphorbus >\ cfr. eiiisd. de resurrectione, I, 
e. 1, e AcRON. in carm. I, 28, 10; Persio, VI, 9, e schol. ; Lat- 
tanzio in Tkeb. Ili, 484. 



— 27 — 

discendente del re Messapo (1), il poeta rudino. Tale, 
press'a poco, il contenuto di questo sogno, notevolissimo 
non solo per l'esposizione delle dottrine filosofiche, ma 
altresì per l' accenno alle trasformazioni e incarnazioni 
deir anima di Omero, e per V affermata parentela spiri- 
tuale dei due poeti. 

Che il pavone poi, importato, come sembra, nel secolo 
sesto a. C. dall' Oriente in Samo, la patria di Pitagora, 
avesse nella filosofia mistica di questo iniziato un'impor- 
tanza considerevole, è certo (2): e poiché era anche — 
per la colorazione delie penne — simbolo del cielo stel- 
lato, al quale salivano dopo ogni morte corporea le anime 
umane (onde l'espressione per me simbolica del fieri pa- 
vom usata da Ennio) (3), opportunamente fu scelto dal 
poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere la- 
nima di Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora. 

4. — Il fatto che il grande poema storico degli Amiales^ 
il quale ebbe da parte dei Romani un culto analogo a 
quello che noi tributiamo alla Divina Commedia, incomin- 
ciava con tale sogno, ebbe grande importanza per la dif- 
fusione e conoscenza del pensiero pitagorico in Roma ; 
poiché, appunto per lo studio che del poema si fece, fin 



(1) Servio, ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII, 393. 

(2) Mueller, Q. Ennius, p. 143 sg. Cfr. Hehn, Kulturp flange 7i 
und Hausthiere, 2* ediz., p. 309. 

(3) DaU'interpretazione letterale data a tale espressione o ad altre 
consimili nacque forse presso gli antichi - uno dei primi fu Seno- 
fane, contemporaneo di Pitagora, nei versi citati da Diogene Laer- 
xio (VII, 36) i quali peraltro hanno un' intonazione scherzosa, se 
non satirica — l'opinione che Pitagora credesse nella metempsicosi 
anche animale. 



-^ 28 -^ 

dal secondo secolo a. C. nelle scuole di grammatica e di 
rettorica (1) e per le pubbliche letture di esso, ancora in 
uso nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo (2), si 
dovette necessariamente mantenere viva in Roma stessa 
e in Italia la conoscenza di quella parte della dottrina di 
Pitagora, che nel sogno si ricordava e che era poi una 
delle principali di detto sistema. Difatti sono assai fre- 
quenti nella letteratura posteriore — e noi le vedremo — 
le allusioni alla teoria della metempsicosi; la quale del 
resto fu forse introdotta in iionia anche per altro tramite, 
sia cioè pei' mezzo dei Clisteri, nei quali si insegnavano 
appunto dottrine per molti rispetti somiglianti alle pita- 
goriche, sia per mezzo della filosofìa jìhitonica e stoica, 
che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e anteriore 
air apparire del neo-pitagorismo, era derivata almeno in 
qualche parte fondamentale, dalle dottrine pitagoriche 
stesse. 

5. — Se nel poema di Ennio vi fossero altri accenni 
alla filosofia pitagorica non ci è dato conoscere dagli scarsi 
e slegati frammenti che ce ne restano : ma non è impro- 
babile che, a proposito di Numa, fossero non solo notate 
incidentalmente, ma fors'anche illustrate con una certa 
ampiezza le somiglianze fra le sue leggi ed istituzioni e 
quelle del filosofo di Samo. In tal caso da PJnnio per la 
prima volta sarebbe stata inserita in un'opera storica e 
letteraria latina la notizia desunta dalla tradizione orale an- 
teriore, che il gran re avesse avuto a maestro Pitagora (3). 



29 



In altro scritto invece noi sappiamo con certezza che 
Ennio trattò ancora delle dottrine pitagoriche: e precisa- 
mente nelVJEpicharmus^ un poemetto così intitolato dal 
nome del filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei piti 
valenti seguaci della scuola italica (1). Anche in questo 
lavoro poetico, il nostro scrittore finse un sogno: 

Nani videbar somniare nied ego esse mortuum (2) 

e che il poeta comico Epicarmo gli comunicasse, nelle 
i'egioni infernali, dottrine di filosofia naturale suirorigine 
e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri, è il verso 
nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo il 
noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco : 

. . . terra corpus est, et mentis ignis est (3). 

Al qual proposito Varrone, citando un altro verso dello 
stesso Ennio, scriveva: « animalium semen ignis qui anima 
ac mens: qui caldor e caelo^ quod hinc innumerabiles et 
immortales ignes. Itaque Upicharmus de mente umana dicit: 

istic est de sole sumptus isque totus mentis est (4). 



(1) SvETONio, de gramm. 2. 

(2) Noctes Atiicae, XVI, 6, 1, e XVIII, 5. 
(3> MuELLER, Q. Ennius^ p. 161 sg. 



(1) Vahlen, 0. e, p. XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt, Quaesti 
epich. p. 53. Vedasi anche lo studio del Pascal, Le opere spurie 
di Epicarmo e V Epieharìnus di Ennio in Eiv. di filoL e di istrux. 
classica, a. XLVll, f. 1^ genn. I9l9 pagg. G6 sgg. 

(2) Cicerone, Aead. pr., II, 16, 51. 

(3) Prisciano, vii, p. 764 P. (I, p. 335 K.). Cfr. gh scolii al- 
l'Eneide, VI, 724-732. 

(4) De lingua latina, V, 39. Cfr. Muellkr, op. cit., p. Ili sg. 
Sul pitagorismo del poeta v. a pag. 70. Un'altra sentenza pitago- 
rica è quella che ricorda Cicerone {de divin., II, 62, i27) a pro- 
posito dei sogni : « aliquot soninia vera, inquit Ennius, sed omnia 
noenum n«cesse est ». 



'^''wSKSSw^ii^^^ttS." T, "^^Z-TZ^i^T. 



-»^ 30 — 

6. — Ma oltre che alle opere letterarie, le quali, come 
si è detto, ebbero efficacia fino al secondo secolo dopo 
Cristo, Ennio rivolse l'attività dell'ingegno, trasfondendovi 
i tesori della sua sapienza, all'insegnamento orale; senza 
dire poi che l'esempio della sua vita iutemerata spronò 
air esercizio costante della virtù tutti quelli fra i nobili 
cittadini di Roma che accostandolo ramarono. Egli si stu- 
diò di volgere le loro menti ad una libertà di pensiero e 
ad una concezione individuale delle cose, alla quale non 
erano certo avvezzi i Romani, educati sotto una disciplina 
ferrea. Abituando le loro intelligenze aDe bellezze ed alle 
sottigliezze della cultura greca, insegnando in privato le 
dottrine di l^itagora, combattendo nel nome di Evemero 
le superstiziose credenze popolari, e deridendo i sacerdoti 
ignoranti, predicando infine che l'uomo ha da trovare in 
se stesso, nelle profondità deir anima, il fondamento del 
proprio valore, della propria libertà e della propria feli- 
cità, diede impulso a una vera rivoluzione razionalistica 
nello spìrito romano (1): sì che fra quei valorosi soldati 
e pratici legislatori cominciò ad essere tenuta in conto la 
cultura, ad esercitarsi la libera attività del pensiero anche 
in fatto di fede, e a formarsi un'aristocrazia vera e legit- 
tima, fondata su ciò che l'uomo ha di più sostanziale e 
di proprio, cioè su l'intelligenza e sullo spirito. 

Non è improbabile che appunto per questo Catone, il 
quale, sopra tutto e innanzi tutto, vedeva l'interesse e il 
bene dello Stato, osteggiasse il movimento a cui aveva 
dato egli stesso involontario impulso e perseguitasse l'A- 



- 31 - 

fricano (1); tanto che questi, avendo suscitato contro di sé 
molte ire violente e molte accuse politiche, si ritirò sde- 
gnosamente nella sua villa di Literno, nella Campania, 
dove morì nel 183 (2). 

7. Proprio in questi anni, facendosi uno scavo, furono 
scoperti i famosi libri di JSTuma, i quali, per un caso assai 
strano, venivano molto opportunamente a confermare gli 
insegnamenti pitagorici di Ennio (3). La notizia della sco- 
perta risale, per quel che ci è noto, all'annalista Cassio 
Emina, il quale, secondo ci riferisce Plinio (4), narrava 
come un impiegato di nome Cneo Terenzio, facendo dei 
lavori in un suo podere sul Gianicolo, avesse scoperta e 



(1) GrussANi, Letterat. romana, Milano, Vallardi, p. 90. Si veda 
anche su Ennio il saggio critico del Lenchantin De Gubernatis (To- 
rino, Bocca, 1915). 



(1) V. Livio, XXXYIII, 54. 

2) SuU'esiHo e sulla morte di Scipione Africano Maggiore vedi 
C. Pascal, Fatti e leggende di Roma antica, p. 85-96. 

^3) Si veda, intorno a questi libri, lo studio del Lasaulx, Ueher 
die Buecher des Numa, negli Atti dell' Accademia di Monaco del 
1849. 

(4) Nat, Hist. XIII, Mr=Hist. Rom. rell. I, p. 106-107 Peter: 
« Cassiiis Eemina, vetustissimus auctor annalium, quarto eorum 
Ì(ibro prodidit, Cn. Terentium scribam agrum suum in lanieido 
tepastinanteìn offendisse arca?n in qua Numa qui Romae regna- 
vii situs fuisset. In eadern libros eius reprrtos P. Cornelio L. f, 
Gethego, Af. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad quos a regno Numae 
colliguntur aìini DXXXV, et ìios fuisse a charta, maiore etiam- 
nuni miraculo quod tot infossi duraverimt annis. Quapropter in 
re tanta ipsius Herninae verba ponam; mirabantur ahi quoìnodo 
UH libri durare potuissent, ille ita rationern reddebat : « Lapidem 
fuisse quadratimi circiter in medio arde vinctum cundelis quoquo 
versus. In eo lapide insuper libros inpositos fuisse, propterea ar- 
bitrarier tineas non tetigisse: in his libris seripta e?'ani pkiloso- 
phiae Pythagoricae : eosque combustos a Q. Petilio praetore quia 
philosophlae scripta essent ». 



— 32 — 



33 



scavata la tomba del re Nama, che conteneva i libri di 
lui ; e, cosa di cui molti si meravigliarono, cotesti libri di 
carta s'erano perfettamente conservati ; ma, come spiegava 
lo stesso Terenzio, tale conservazione era dovuta al fatto 
che, essendo posti sopra una pietra quadrata che si trovò 
quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni dal- 
Tumidità, ed essendo spalmati di cedro, le tignole non li 
avevano rosi. T libri stessi poi contenevano scritti di iìlo- 
sofia pitagorica, per la qual ragione furono poco dopo 
bruciati dal pretore Quinto Fetillio. Lo stesso racconto 
fece pure l'annalista L. Calpurnio Pisoue Censorio Frit- 
gì (1), secondo il ([uale però dotti libri erano sett(^ di di- 
ritto pontificio e altrettanti pitagorici. Quattordici erano 
pure, secondo V annalista C. Sempronio Tuditano (2) e 
contenenti i decreti di Numa. Secondo Valerio Anziate 
infine (3) essi erano invece ventiquattro, dodici pontificali 
scritti in latino e dodici di filosofia scritti in greco, e non 
si sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa, ma in 
un'arca adiacente. 

Se il racconto è vario nei particolari, tuttavia questi 



(1) Plinio, /. r. = H. R. veli. T, p. 12:M23, P. : « Hitc idem 
tradii C. Pìso eensorius primo coni meni ariorum^ sed lìbros septem 
iuris pontificii totidemque Pytkagorlcos fuisse ». 

(2) Plinio /. e. = H. li. veli L p. 142-'143 P : <' Tuditanus 
decimo tertio Ntimae decretoriim fuisse ». 

(3) Plinio Le: « ìihros XII fuisse ipse Varrò Humanarum 
antiquiiatuni septimo. Antias secundo libros fuisse XII ponti fi- 
cales latinos^ ioiident graeeos praecepf a philosophiae contine?) les -^ . 
Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, H =: H. R. rell. T, 
p. 240-241 P. Si noti però che il Peter crede (/. e, p. CO.) che 
Livio abbia citato per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio 
Pisone. 



ed altri autori (1) sono concordi nell'affermare sia la sco- 
perta dei libri, durante il consolato di P. Cornelio Cetego 
e di M. Bebio Panfilo (191 a. C), sia la loro pronta di- 
struzione per opera del pretore Petillio. Cosicché non è 
possibile dubitare che il fatto sia avvenuto. Senonchè la 
critica più recente si è aifrettata ad affermare che essi 
dovettero essere un'abile falsificazione di qualche scrittore, 
fanatico delle nuove idee pitagoriche, in quegli anni ap- 
punto diffuse in Roma dal grande Ennio, e accettate da 
Scipione Africano e da altri illustri cittadini. Ma ad una 
grossolana falsificazione fatta in quei tempi medesimi noi 
non vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la 
tradizione pitagorica che base dell' insegnamento di questa 
dottrina era la segretezza e il mistero? E proprio un 
pitagorico avrebbe divulgato le dottrine della sua scuola, 
in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno stratagemma 
così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che già 
la tradizione ammetteva la filiazione degli istituti e delle 
leggi religiose di Numa dal Pitagorismo ? Ed è poi possi- 
bile che fra i senatori romani^ i quali decretarono, su parere 
del pretore, l'abbruciamento dei libri così miracolosamente 
scoperti, non vi fosse alcuno in grado di comprendere una 
così grossolana mistificazione? Poiché non c'è dubbio che 
i libri furono bruciati con la convinzione che essi fossero 
realmente quelli del re sapiente (2), e perchè contenevano. 



(1) V. ancora le testimonianze di Yarrone, conservataci da S. A- 
gostino {De civ. dei, VII, 34), di Livio (XL, 29, da cui ha desunto 
la sua narrazione Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I, 1, 
12), di Pesto (p. 173 M. = p. 182 Thewr.), di Plutarco {Numa, 
22) e del de vir. ili, 3. 

(2) Livio osserva che questa convinzione derivò dall' opinione 
diffusa che Numa fosse stato discepolo di Pitagora, opinione che 



— 34 — 

secondo la testimonianza di Varrone^ la spiegazione degli 
stituiti religiosi di Numa (cur quidqiie in sacris fiierit 
institutum) ^ fondati, come quelli di tutte le religioni, su 
ragioni fisiche e filosofiche e sopra una concezione parti- 
colare della natura. 

Ora, dice assai giustamente lo Chaigriet (1), questa inter- 
pretazione razionale ed umana delle credenze e delle isti- 
tuzioni religiose, togliendo ad esse un' origine e un fon- 
damento sovrannaturale, avrebbe certo, divulgandosi, tolta 
ogni consistenza a quella religione « di stato » che, come 
tutte le religioni dogmatiche, si esauriva per i più nelle 
pratiche del culto (le « religiones » di cui parla Livio) 
esigendo, come condizione della propria esistenza, la fede 
cieca e T ignoranza superstiziosa. E proprio a questo pen- 
sarono il pretore urbano e il Senato, che si affrettarono 
a far scomparire sul rogo i pericolosi libri, nei quali era 
filosoficamente provata ed attestata V origine del diritto 
pontificale romano, cardine e fondamento primo dello Stato, 
dall'occultismo pitagorico (2); se pure il motivo di tale di- 
struzione non fu quello stesso per il quale^ come abbiamo 
già veduto, Cicerone non volle troppo approfondire la ri- 
cerca e la dimostrazione dei rapporti fra il Pitagorismo e 
i pili antichi istituti di Roma. Stando al racconto di Plu- 



egli, certo per ragioni cronologiche, chiama uu « mendacio » 
(XL, 29). 

(1) Pythag, et la philos. pythag.^ Parigi, Didier, 1874, v. I, p. 136. 

(2) È interessantissimo a questo proposito il passo di S. Ago- 
stino (De civit. dei Yll, 34), il quale spiega per quali ragioni 
« demoniache » Xuma compose i suoi libri e poi li fece seppeUire 
nella sua tomba, e il Senato li fece abbruciare. Nò meno interes- 
sante è il capitolo seguente (35j, in cui si parla delle arti « idro- 
mantiche » e delle evocazioni di Numa. 



— 35 — 

tarco, infine, questi libri erano stati scritti da Numa stesso 
e per ordine suo sepolti con lui; e ciò perchè, secondo 
la massima pitagorica, non era bene affidare la conser- 
vazione d'una dottrina segreta a caratteri senza vita, an- 
ziché alla sola memoria di quelli che ne erano degni. E, 
forse, per questa medesima ragione i Pitagorici romani 
non dovettero fare molta opposizione alla proposta di 
distruggere i libri stessi, gelosi come erano' delle loro 
dottrine, allora, come sempre, facilmente suscettibili di 
scherno e di riso, se male interpretate o fraintese (1). 

8. — Nel tempo in cui Ennio si adoperò così efficace- 
mente per introdurre in Roma V antica sapienza della 
Magna Grecia, di qui si diffondevano per l'Italia e pe- 
netravano nella grande metropoli anche i culti bacchici 
e le sette orfiche, intimamente legate con le pitagoriche 
per gli stretti rapporti che vi erano fra le due dottrine 
segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicarono senato- 
consulti (2) e si istituirono tribunali fquaestiones de Bac- 
chanalibus saerisqtie nocturnis extra ordinem)^ che ne di- 

(1) Uno scrittore israelita del secolo XYII, il Selden, nell'intro- 
duzione dell'opera De jure naturali et gentium iuxta disciplinam 
Hebraeorum stampata a Londra nel 1610, volendo sostenere che 
ogni sapienza viene dagli Ebrei o piuttosto dalla rivelazione tre 
volte rinnovata, di cui gh Ebrei erano i depositari, afferma invece 
che Numa Pompilio era in segreto un adoratore del vero Dio, che 
i libri da lui lasciati e scoperti solo parecchi secoli dopo la sua 
morte erano la giustificazione della sua fede e la glorificazione del 
Dio d'Israele, e che appunto per questo il Senato ne ordinò la 
distruzione, perchè racchiudevano la condanna della religione di Stato. 

(2) Nel 186 se ne pubblicò per tutta l'Italia uno (scoperto nel 
1692 in Calabria) che ordinava, fra le altre cose: ^ Bacas vir ne- 
quis adiese velet ceivis romanus neve nominus latini » . 



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36 — 



— 37 — 



mostrano la diffusione e la forza: e Livio ci riferisce il 
violento discorso che il pretore Lucio Postumio Tempsano 
pronunciò nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei mal- 
vagi culti forestieri : « cantra pravis et externis religio-' 
nibus captas mentes » (1). E ben vero che queste asso- 
ciazioni misteriose — clandestinae coniurationes ^ come dice 
Livio (2) — e questi culti sempre perseguitati dall' orto- 
dossia romana venivano in parte dall' Etruria e dalla Cam- 
pania, ma le ricerche giudiziarie ne fecero scoprire diversi 
focolari nell'Apulia, in tutta l'Italia meridionale, e spe- 
cialmente a Taranto, che come si è già visto, era uno dei 
centri d'origine del Pitagorismo (8). 

Così delle tavolette d' oro, scoperte recentemente in 
tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica Thurium e 
che risalgono alcune al secolo IV e altre al principio del 
sec. Ili a. C. (4), ci conservano l' eco di versi orfici che 
sino ad ora non si conoscevano per altro che per una cita- 
zione di Proclo, neo-pitagorico del quinto secolo (5): « Io 



(1) Livio, XXXIX, 15. 

(2) XXXIX, 9, 18, 41 ; XL, 19. 

(3) Livio XXXIX, 41 : « L. Postumius praetor^ cui Tarentum 
provincia evenerat^ reliquias Bacchanaliitm quaestionis cimi omni 
exsecutus est cura » g XL, 19 : « L. Duronio praetori^ cui pro- 
vincia Apulia evenerat^ adiecta de Bacchanalihus quaestio est : 
cuius residua quaedam velut semina ex priori bus malis iam priore 
anno adparuerant ». 

(4) Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et Italiae n. 638-642. 
Alcuni testi da lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie degli 
scavi, 1880, p. 15f> e nel Journal of Hellenic Studies III, p. 114 sg. 
Cfr. anche Comparetti Laminette orfiche edite ed illustrate^ Fi- 
renze I9l0. 

(5) Framm. 224 Abel: «ótitióts S'àvO-pWTrog tdpoXCtttj cpAog V/sXtoto » 
quasi uguale al fr. n. 642, 1 : « àXX' ÓTióxafi '^xì^ri npo'kln'Q cpàog 



sono sfuggita al cerchio delle pene e delle tristezze (1) », 
grida in uno slancio di speranza ranima che ha « subita 
tutta intera la pena delle sue azioni inique » e che ora 
« implorando il suo soccorso » , s' avanza verso la regina 
dei luoghi sotterranei, la santa Persefone, e verso le altre 
divinità dell'Ade ; essa si vanta di appartenere alla loro 
« razza felice », e domanda ad esse che la mandino ora 
nelle « dimore degiinnocenti » e attende da esse la pa- 
rola di salvezza : « Tu sarai dea e non più mortale ! » 
In questi brani poetici, dice il Gomperz, bisogna vedere 
redazioni diverse d'un testo comune più antico. Parecchie 
altre tavole, che risalgono in parte alla stessa epoca, sono 
state trovate nelle stesse località ; altre sono state scoperte 
nell'isola di Creta (2) e datano dall'epoca romana poste- 
riore: tutte prescrivono all'anima la sua strada nel mondo 
sotterraneo (3). Ora è notevole il fatto che il cap. 125 del 
« Libro dei Morti » egiziano contiene una confessione ne- 
gativa dei peccati, che sembra V amplificazione di quello 
che le tre tavole di Turio condensavano in poche parole (4). 
In queste, come in quello, l'anima del defunto proclama 
con enfasi la sua « purezza » e solo su questa purezza 



VjsXCó\o » . Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino, 1890, p. 87) ha 
richiamato 1' attenzione su r^ueste ed altre coincidenze. Y. anche 
H. DiELS, nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, 1902, p. 1 sg. 

(1) Cioè alla serie delle rinascite e delle esistenze terrestri. 
Y. Gomperz, Les penseurs de la Orèce^ Paris, Alcan, 1904, v. I, 

pag. 141 sg. 

(2) Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à V Orphisme^ Bull, 
de corr. héll. XYII, 121-124. 

(3) Y. qualche parallelo buddico in Rhys Davids, Buddhism, 

p. 161. 

(4) Cfr. Maspéro, Bibl. Egyptol. II, 469 sg. e BrucxSCH, Steinin- 
schrift und Bibelwort. Y. anche Maspéro, Hist. ancienne^ p. 191. 



38 — 



fonda la sua speranza in una felice immortalità. Se l'a- 
nima deir Orfico pretende di avere espiato « le azioni 
inique ^ e quindi si sa liberata dalla sozzura che ne de- 
riva, l'anima dell'Egiziano enumera tutte le colpe che ha 
saputo evitare nel suo pellegrinaggio terrestre. Pochi fatti, 
dice il Gomperz, nella storia della religione e dei costu- 
mi sono tali da meravigliarci più del contenuto di que- 
st'antica confessione, in cui si vedono accanto alle colpe 
rituali, e ai precetti di morale civile accolte da tutte le 
comunità incivilite, l'espressione d'un sentimento morale 
non comune e che ci può persino sorprendere per la sua 
squisita delicatezza: « Io non ho oppresso la vedova! Non 
ho allontanato il latte dalla bocca del lattante !... Non ho 
reso il povero più povero!... Non ho trattenuto l'operaio 
ai suo lavoro più del tempo stabilito nel contratto !... Non 
sono stato negligente! Non sono stato fiacco!... Non ho^ 
messo lo schiavo in cattivo aspetto presso il suo padro- 
ne!... Non ho fatto versare lacrime a nessuno!.... » Ma 
la morale che scaturisce da questa confessione non si è 
contentata di proibire il male; ha anche prescritto degli 
atti di beneficenza positiva : « Dappertutto, grida il morto, 
ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva fame, dissetato 
chi aveva sete, vestito chi era nudo ! Ho dato una barca 
al viaggiatore in pericolo di arrivar tardi! » E l'anima 
giusta, dopo aver subito innumerevoli prove, arriva final- 
mente nel coro degli dei. « La mia impurità, grida piena 
di gioia, mi è tolta, e il peccato che mi stava addosso 
l'ho gettato. Giungo in questa regione degli eletti glo- 
riosi.... » « Voi che mi state dinanzi^ aggiunge rivolta agli 
dei già nominati, tendetemi le braccia...., sono anch'io 
uno dei vostri ! » 



— 39 — 

Nessuna meraviglia quindi che gli scrittori del tempo 
di Ennio, quasi tutti venuti a Roma dal mezzogiorno, 
fossero più o meno imbevuti di così fatte dottrine. 

Di un grande poeta comico, Stazio Cechjo, morto nel 
168, che fece parte del eollegium poetarum dell'Aventino 
e abitò in Roma nella stessa casa con Ennio, ci restano 
troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir nulla del 
contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però 
r intimità sua col poeta di Rudie dovette esercitare un 
qualche influsso sulla formazione del suo gusto e della 
sua arte. 

Con Ennio visse pure in Roma, sino alla più tarda età, 
frequentando anch'egli il circolo degli Scipioni^ il nipote 
Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi nel 220, si ritirò poi 
a Taranto dopo il 14-0 e vi mori novantenne. Che egli 
dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre 
che l'esplicita dichiarazione di Pompilio : 

Pacvi dìscipulus dicor ; porro is fuit Enni^ 
Eanius Musarum^ Pompilius clueor^ 

i due frammenti del suo Chryses^ nel primo dei quali 
mostra la stessa libertà di spirito e di parola, rispetto ai 
falsi sacerdoti, che già abbiamo notata in Ennio: 

.... nam istis^ qui linguam avium intellegunt, 
plusque ex alieno iecorc sapiunt. quam ex sito^ 
magis aiidiendum quam ausoultandum censeo (1) ; 



(lì pr. Cic. de div. I, 57, 181 ; il terzo verso anche pr. Nonio 
246, 9. Si confrontino i versi di Ennio : « Sed superstitiosi vates 
impudentesque arioli^ Aut inertes aut insani aut quibus egestas 
imperat, Qui sibi semitam non sapiunt^ alteri monstrant viam^ 
Quibus divitias pollioentur^ ab eis dracumam ipsi petunt », e gli 



— 40 — 

e^ nel secondo esprime intorno all'etere un concetto affatto 
pitagorico, che troveremo anche in Virgilio: 

hoc vide, circum supraque quod complexu continet 
terrani,.,, 

solisque exortu capessii candorem, occaau nigref, 
id quod nostri caelum memorant. Orai perhibent aethera : 
qiiidquid est hoc, omnia anirnat, format, alit, auget, creai, 
sepelìt recipitque in sese omnia omniumque idem est pater, 
indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem occidunt. 

mater est terra; ea parit corpus, animam, aether adiugat (1). 
Istie est is lupiter quem dico, quern Qraeci vocant 
aerem: qui ventus est et niibcs; imber postea, 
atque ex imbre frtgus : ventus post fìt, aer denuo, 
haece propter luppiter sunt ista quae dico tibi, 
quia mortalis aeque furbas beluasque omiies iuvat. 

II passo, dice il Pascal {Antol. latina. Milano, 1899, p, 30 n.) 
era libera traduzione del Crisippo euripideo, del quale è rimasto il 
ir. 836 Nanck2; e trovò altro traduttore in Lucrezio II, 991-1005. 
Se il pensiero esposto da Euripide del Cielo o Giove nostro padre 
e della Terra madre risale al suo maestro Anassagora (500-430 
circa), fu peraltro indubbiamente abbastanza comune fra i mistici. 

10. — Questi ver^i od alcuni altri (2), se sono per sé poca 
cosa, tuttavia, tenuto conto della scarsità dei frammenti 
superstiti di questi primi poeti di Roma, mostrano una 
certa continuità di pensiero, che non può sfuggire neppure 
ad un esame superficiale. Così, per lasciare in disparte i 

altri : « Qui sui quaestus eausa ftctas suscitane sententias » e 
« Oìììììts dant consilium vanum atque ad voluptatem omnia*. 

(1) Congiunse così questi versi (citati in diversi luoghi da Var- 
RONE, Cicerone e Nonio) lo Scaligero. Questo concetto dell'aria poi 
ricorda i versi MV Epicharmus di Ennio: 

(2) Y. per es. i ir. 46 e 52 del Pascal (p. 30 e 35). 



— 41 — 

versi di Accio, che ritornano sullo stesso concetto, e che 
si possono anche spiegare con la dipendenza dai tragici 
greci (1), nonché il suo concetto della virtù (2), come non 
pensare alle dottrine pitagoriche — diretto o indiretto ne 
sia stato r influsso — , quando leggiamo sentenze come 
queste di Sesto Turpilio (morto nel 103 a. C), Tuna che 
ci afferma la felicità consistere nella limitazione dei de- 
sidera : 

Profecto ut quisque miìiimo contentus fuit, 

ita fortunatarn vitam vixit maxime, 

ut philosophi aiunt isti, quibus quidvis sai est (3). 

e Taltra che così definisce la difficoltà del sapere: 

Ita est: veruni haut facile est venire ilio ubi sita est sapientia. 
Spissum est iter: apisci haut possis nisi cum magna miseria? {4:} 

E se i grammatici che ci hanno conservato i frammenti 
di questo poeta (200 versi appena), avessero badato più 
al pensiero che alla forma e quindi ci avessero dato una 
raccolta di sentenze, piuttosto che un catalogo di arcaismi 



(1) Y. i fr. 60 e 61 del Pascal (p. 41- e le note. 

(2) Pascal (p. 42) : « . . . . nam si a me regnum Fortuna atque 
opes Eripere quivit, at virtutem non quiit » e « Scin ut quem" 
cumque iribuit fortmia ordinem, Numquam ulta humilitas inge- 
nium inflrmat bonum ? » 

(3) pr. Prisciano III, 425 Keil. 11 Pascal ;p. Q7) sl philosophi,,. 
isti annota : « i Cinici ?» Io credo piuttosto che qui il poeta, imi- 
tatore di Monandro, abbia alluso ai Pitagorici, dei quali sappiamo 
quanto si siano burlati i comici ateniesi della commedia di mezzo, 
di cui Gellio (N. a. IY, 11) potè scrivere: mediae comoediae pro- 
prium argumentum fuit Pythagoreorum exagitatio ». 

(4) pr. Nonio 392, 26 (Pascal, p. 67). Si notilo spissum.. iter, 
che foi*se può intendersi in senso proprio, non traslato. 



m 



— 42 — 

e di idiotismi, potremmo forse citare altri passi ugual- 
mente notevoli e significativi. 

Così veramente notevoli sono lo sentenze di comici 
ignoti citate dal Pascal (i), che certo non sarebbero fuor 
di luogo nei carmina aurea pitagorici e che riprendono 
motivi etici, già da noi accennati, proprii tanto del Pita- 
gorismo quanto di altri sistemi posteriori: 



1. 

2. 
3. 
4. 
5. 

6. 
7. 

8. 



Sui quique mores fingmit forktnam homi ni bus. (2) 

Non est beatus^ esse se qui non putat. (3) 

Is miniìno egei rnortaiis, qui minimum cupit. 

Quod vult habet^ qui velie quod satis est potest. (4) 

In nullum avarus bonus est^ in se pcssimus. (5). 

Ab alio expectes alteri quod feceris. (6) 

Beneficia in volgus cum largiri institueris 

perdenda sunt multa^ ut semel ponas bene. (7) 

.... quid ? tu non intellegis 

tantum te adimere gratiae quantum morae 

adieis? (8) 



(1) pag. 68 sg. 

(2) pr. Cic, Farad. 5, 35, che lo riferisce ad un sapiens poeta; 
esso ricorda la sentenza di A. Claudio su citata. Secondo alcuni si 
tratterebbe di un altro verso, che il Lachmann ricompone così : 
suts fingitur fortuna tuique moribus. V. anche pr. Nepote, Vita 
Att, li, 6 ed altri, di cui il Eibbeck, Com. Fragrn.^ p. 147. 

(3) pr. Seneca, epist. 9, 21. Che la felicità e l' infelicità, come 
dice questa sentenza, siano proiezioni subbiettivo dello spirito e non 
l'effetto di cause esterne, è verità che i Pitagorici affermarono ripe- 
tutamente Cfr. PuBL. Siro I, 56, Q, 7 Meyer. 

(4) Questa e la precedente pr. Seneca, epist. 108, li. Cfr. la 
prima sentenza di Tiirpilio su citata. 

(5) pr. Seneca, epist. 108, 9. 

(6) pr. Lattanzio, div. inst. 1, 16, lO. Cfr. pr. Lamprid. Alex, 
Sever. 51 : « quod libi fieri non vis^ alteri ne feceris » e nei Garm. 
epigr. lat. 192, 3 Buecheler: <^ aò alio speres., alteri quod feceris f>. 

(7) pr. Seneca, de benef. I, 2 ; cfr, Ennio pr. Cic. de off. 18, 62: 
^benefacta male locata tnalefacta arbitror ». 

(8) pr. Seneca, de benef, li, 5, 2. 



1. 
2. 



3. 



— 43 — 
Così pure degni di nota sono i seguenti frammenti: 

Felicitas est quam vocant sapientiam. (1) 
Tutare amici causam, polis es, suseipe. 
Obicitur crimen capitis^ purga fortiter. 
In amici causa es, immo c^rte potior es. .2) 
Iniuriarum remedium est oblivio. (3) 



Ma queste sono quisquilie, che, se pur dimostrano una 
certa diffusione del pensiero pitagorico in Roma, non pos- 
sono tuttavia essere prese per se come indizi di una vera 
e propria tradizione locale. Poiché per le dipendenze della 
poesia e della letteratura latina dalla greca è da credere 
che anche gli accenni, spesso accidentali, a quelle dottrine 
filosofiche, fossero presi di sana pianta dalle opere che gli 
scrittori latini, massime i comici, o imitavano o traduce- 
vano. Il fatto tuttavia di trovarli frequenti anche in opere 
prettamente romane dimostra che le dottrine stesse ave- 
vano un contenuto ideale — morale specialmente — con- 
sono allo spirito e ai bisogni del popolo romano, il quale, 
sopra ogni cosa, ebbe un profondo senso del giusto, che 
poi attuò nel suo mirabile sistema di leggi. 

11. — Infine, anche dalle poesie satiriche di Caio Lucilio 
(180-103 a. C.) noi potremmo certo aver notizia del Pita- 
gorismo, quale egli potè osservarlo praticato e seguito in 
Roma al tempo suo, se ci restassero, dei suoi trenta libri 
di satire, i libri XXVIII e XXIX, nei quali pare che sì 
occupasse principalmente di mettere in parodia e in deri- 
sione, ed anche di sottoporre a critica seria, sì pel conte- 



li) QuiNTiL. YI, 3, 97. 

(2) Charis. V, p. 253 P. 

(3) Seneca, epist.., 94, 28. 



■' 






nuto che per la forma, i filosofi, le loro opere e i loro 
sistemi. Ma disgraziatamente anche di questo poeta poco 
nulla ci resta. Anch'egli, bensì, come Ennio, ebbe mente 
libera dai pregiudizi volgari : 

Ut puerì infantes credunt signa omnia ahena 

vivere et esse hoìnines^ sie ist somnia fida 

vera putant^ credunt signis eor inesse in ahenis (1) 

sono versi del 1. XV delle Satire. E un altro bellissimo 
frammento, forse del libro IV, ci dimostra quanto alto e 
nobile fosse il concetto ch'egli ebbe della virtù: 

Virtus, Albine, est pretium persolvere verum 

quis in versanmr^ quis vivimus rebus potesse, 

virtus est homini scire id quod quaeque valet res ; 

virtus scire homini rectum^ utile quid sit^ honestum.^ 

quae bona, quae mala item, quid inutile^ turpe, inhonestum ; 

virtus^ quaerendae finem^ rei scire modumque ; 

virtus^ divitiis pretium persolvere posse ; 

virtus^ id dare^ quod re ipsa dehétur honorì ; 

hostem esse atque inimicum hominum morumqiie malonitn, 

contra defensorem hominum morumque bonorum, 

magnificare hos, his bene velle^ his vivere amlcum ; 

commoda pr aeterea patriai prima putare^ 

deinde par entum^ tertia iam postrernaque nostra. \1) 



(1) fr. 354 del Bahrens = Lattanzio. I, 22, 13. 
(1) fr. 119 del Bahr. = Latt, VI, 5, 2. 



CAPITOLO TERZO 



Sette e scuole pitagoriche in Roma nei I secolo a. C, 



1. I Oenethliaci. — 2. P. Nigidio Piguìo e la sua scuola segreta. — 
3. La scuola dei Sestii. 



1. — Da Saut'Agostino (1) ci è stato conservato, del- 
l'opera Varroniana De gente populi romani^ un passo per 
noi importantissimo: « Genethliaei quidam scripserunt esse 
in renascendis hominihus qnam appellant TcaXtyysveatav 
Oraeci ; hanc scripserunt confici in annis numero CJDXL^ 
ut idem corpus et eadem anima, quae fuerint comuncta> 
in corpore aliquando, eadem rursus redeant in coniun- 
ctionem » . Chi erano mai questi scrittori, i quali credevano 
nella risurrezione dell'anima e della carne e ne fissavano 
persino il compimento nello spazio di quattrocento e qua- 
ranta anni? Essi erano studiosi di discipline magiche ed 
astrologiche, a cui si davano anche i nomi di magi, di 
caldei e di matematici. Abbastanza numerosi in Roma nel 
li e I secolo a. C, col decadere dei culti ufficiali e Tin- 



{[) De civitate dei, XXII, 28. 



- 46 — 



filtrarsi di riti stranieri, massimamente dalF Egitto e dal- 
l'Asia, divennero a grado a grado così potenti da trovarsi 
persino ad essere qualche volta arbitri delle sorti dello 
stato. Poiché, come dice il Pascal in un suo geniale e 
interessante studio (1), svolgendo in particolare la dottrina 
della resurrezione dei morti (filiazione diretta della metem- 
psicosi pitagorica) la fecero entrare in un sistema di loro 
particolari teorie, la congiunsero con predizioni contenute 
nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero anche di co- 
noscere dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi 
umani. Essi non partivano, come gli aruspici e gl'indovini, 
dal concetto che gli dei manifestassero la volontà loro per 
mezzo di segni particolari, ma dal concetto, razionalmente 
svolto, « che tutto fosse armonico e regolato da leggi e da 
rapporti immutabili nell'universo e che quindi, all'apparire 
di determinati fiitti o fenomeni dovesse normalmente se- 
guire l'avverarsi di determinati eventi umani » . Era dunque, 
aggiunge il Pascal, « un tentativo di giustificazione scien- 
tifica, tratta dal fondo della dottrina pitagorica e platonica, 
della credenza popolare che la vita di ciascun uomo fosse 
regolata dall' astro che lo aveva visto nascere » . Strani 
davvero questi scienziati-filosofi che si sforzano di ribadire 
con argomenti razionali e di ridurre a ragioni scientifiche 
le superstiziose credenze del volgo! e che riescono tanto 
bene nel loro proposito da far sentire a Favorino (li sec. 
d. C.) il bisogno di abbattere con una confutazione siste- 
matica il loro edifizio logico (2), ancora saldo sulle sue basi 

(1) La resurrexione della carne nel mondo pagaìio, in Atene e 
Roma del marzo 1901 e in Fatti e leggende di Roma antica, Fi- 
renze, 1903 pp. i86 e segg. 

(2) AULO Gellio, Noci. Att. XVI, 1, riporta quasi testualmente 
il discorso di Favorino. 



47 — 



a più di due secoli di distanza ! Io in verità non posso 
acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo mon- 
dano computato a quattro secoli di 110 anni ciascuno 
venisse ai Genetliaci dalla tradizione popolare: gli argo- 
menti che il Pascal porta a sostegno della sua affermazione 
mi inducono piuttosto a credere il contrario, e cioè che 
l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica greco- 
italico-romana (1) e del questa passasse poi al volgo per 
mezzo dei responsi sibillini (2) e dei poeti che l'accolsero 
e la diffusero per il popolo (3). Di più, un'altra credenza 
notevolissima fu propria e del Sibillismo e dei Genetliaci : 
la credenza cfoò che ultimo dio del ciclo mondano dovesse 
essere il Sole od Apollo (4) che avrebbe bruciato l'uni- 
verso e riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini 
rinnovati alla vita; quell'Apollo che pure Orazio (Carm. 
I, 2) invocò perchè venisse a redimere l'umanità dal 
peccato : 

Tandem venias^ precamw\ 
huhe candentes timer os amictiis 
Augur Apollo. 



(1) Così Cicerone ci parla nel De dimn. II, 46, 97 di un' altra 
scuola di astrologi per la quale V estensione di tempo era molto 
maggiore, e cioè di 470000 anni ! 

(2) pr. Proho a Virg. Ed. IV, 4 : « La Sibilla cumana ha pre- 
detto che dopo quattro secoli sarebbe avvenuta la palingenesi ». 

(3) Orazio, I, 2, v. 29 e sg. ; Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI, 
748-751; Ovidio, Metam. I, 89 sgg.; Persio, Sat. V, 47 sg. 

(4) Servio nel commento al v. 10 della IV ed. di Virgilio riporta 
il seguente passo del quarto libro de diis di P. Nigidio Figulo : 

s « Quidam deos et eorum genera temporibus et aetatibus (distin- 
guuntj, inter quos et Orpheus ; primum regnum Saturni, deinde 
loi'is, tmn Neptuni, inde Plutonis ; nonnuUi etiam, ut ma.id, aiunt 
Apollinis fore regnum, in quo videndum est, ne ardorem sive illa 
ecpyrosis adpellaìida est, dicant * . Vedasi anche il Lobeck, Aglao- 
phamus, pag. 791 sgg. 



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— 48 — 

La rigenerazione degli uomini e la conflagrazione del- 
l'universo per virtù di Apollo — conflagrazione probabil- 
mente simbolica e che tuttavia potè essere aspettata da 
alcuno come reale ed effettiva (1^ — furono dunque due 
concetti paralleli ed uniti anche nel dogma pagano, e più 
precisamente in quelle dottrine mistiche, nelle quali sap- 
piamo quanta parte e che profonda significazione avesse 
il mito apollineo e solare, E come può tutto questo essere 
stato creazione popolare ? Veramente forse un po' troppo, 
e non solo in fatto di mitologia e di credenze, si vuole 
attribuire al popolo, a questo essere impersonale, così im- 
maginoso e così balordo^ così ricco di fantasia e così cre- 
denzone! Non è assai più verosimile pensare a una genesi 
più elevata e razionale, a una creazione veramente intel- 
lettuale e filosofica, che, passando dai dotti agli indotti, 
dai sapienti agi' ignoranti, si materializza e degenera dal- 
l'essenza primitiva, o, meglio ancora, acquista con moto 
parallelo e continuo, nuovi aspetti e nuove significazioni 
realistiche e concrete? 

In ogni modo siamo così arrivati alle più grossolane 
deformazioni che il pensiero pitagorico dovette subire in 
Roma, uscendo dal segreto sacrario delle scuole dei saggi 
e mescolandosi, in mezzo al popolo, a credenze d'altra 
derivazione. Non ò quindi meraviglia che siffatte credenze, 
aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo, fossero, 
come vedremo più innanzi; oggetto di riso nel teatro po- 
polare, e d'altra parte si spiega assai bene come i seguaci 
del Pitagorismo dell'antica maniera, per sottrarre le loro 



(1) Y. il passo dei Garm. Sib. .IV, 175 sgg., forso dell'Sl od 82 
d. C, citato dal Pascal e che questi crede composto da qualche 
terapeuta od esseno. 



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— 49 — 

dottrine al ridicolo cui venivano esposte nei loro contatti 
col popolo, sentissero il bisogno di raccogliersi nuovamente 
in segreto, nel silenzio delle loro case e delle loro scuole, 
per meditare, lontano dal profanum vulgus, V antica sa- 
pienza loro tramandata attraverso tante generazioni. 

2. — Chi sopra ogni altro si curò di far rivivere la filo- 
sofia di Pitagora, che, in un certo senso, poteva dirsi ormai 
estinta come complesso di teorie e d' insegnamenti pratici 
ben distinti da quelli di altre scuole, fu un grande sapiente, 
del quale in verità ben poco sappiamo, contemporaneo e 
amicissimo di Cicerone. Il quale appunto nel proemio dei 
Timaeus seu de Universo lasciò scritto parlando di P, 
Nigidio Figlilo: « Fuìt vir ille cum ceteris artibus, quae 
« quidem dignae Ubèro essente ornatus omnibus^ tum acer 
« investigator et diligens earum rerum quae a natura invo- 
« lutae videntur». E poi continuava: «JDenique sic ludico 
« post illos nobiles Pythagoreos^ quorum disciplina exstincta 
« est quodam modo, hunc extitisse qui illam renovaret » . 

Nato forse verso il 105, già senatore nel 63, pretoro 
nel 59, legato in Asia nel 52 (l), e infine esiliato da C. 
Giulio Cesare, forse non soltanto, come ora vedremo, per 
aver seguita la causa di Pompeo, morì in esilio nel 45 (2). 

(1) Cicerone nel Timeo fr. 1, t. Vili p. 131 Bait. ci dà notizia 
di questa sua legazione con le parole : « qui (Nigidius), eum me 
in Gilieiam proficiscentem Ephesi expectavisset, Romarn ex lega- 
tione ipse decedens etc. ». 

(2) SvETONio fr. 85 = Hieron. ad Euseb. chron. olìmp. 183,4 = 45 
a. C. : « Nigidius Figulus Pythagorlcus et magus in exsilio mo- 
ritur ». Si noti che ancora una volta vediamo qui congiunti, come 
nella tradizione che si riferisce a Numa e come, del resto, sempre, 
il Pitagorismo e la magia. S. Agostino (De civ. dei Y, 3) parlando 
di Nigidio, lo chiama « matkematicus ». 

4. 



— 50 — 

Per il suo sapere fu giudicato secondo al solo Yarrone, 
e benché non ci restino che pochi e scuciti frammenti 
dei suoi scritti (1), pure sappiamo che egli scrisse molto e 
con profondità di ricerche « che arrivava fino all'astruse- 
ria », come dice il Gidssani (2), cioè oltrepassava quel limite 
al di là del quale gli equilibrati uomini comuni non ve- 
dono che nebbie e fantasmi,. immaginazioni e utopie. Sam- 
MONico, come ci riferisce Macrobio (II, 12) lo disse « maxi- 
miis rerum naturalium indayator » ^ e lo stesso Macrobio 
{Sai. YI, 8) lo dice « homo omnium bonarum artiiim di- 
scipUnis egregiuH », e così pure Cicerone, come s'è visto, 
lo giudicò acuto e diligente studioso dei più involuti feno- 
meni naturali, e precisamente di quelle ricerche e di quegli 
studi, che furono la cura di pochi solitari d' ogni tempo, 
quasi sempre, forse a torto, misconosciuti dai più. Sant'A- 
gostino lo disse ' matematico ' e Svetonio ' pitagorico e 
mago '. Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse ritenuto 
mago, dimostrano anche altre testimonianze e dello stesso 
Svetonio e di Apuleio e di Dione Cassio. Il primo racconta 
come cosa nota a tutti che il giorno in cui Ottaviano nac- 
que, discutendosi in Senato intorno alla congiura di Cati- 
lina, ed Ottavio, per causa appunto della moglie partoriente, 
essendo arrivato un po' in ritardo, Publio Nigidio, cono- 
sciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa del parto, affermò 
che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la ter- 
ra (3). Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto 



— Si- 
che di essa fa, con qualche leggera variante, Dionbs Cassio 
(l. XLY, cap. I), alle elucubrazioni astrologiche di Nigi- 
dio. Apuleio a sua volta (1) riferisce di aver letto in 
Yarrtoe che un certo Fabio, avendo smarrito una forte 
somma di denaro, andò da Nigidio per consultarlo e questi, 
per mezzo di fanciulli eccitati (instinctos) con sortilegi ed 
incantesimi (carmine)^ ossia, coma oggi si direbbe, ipno- 
tizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire dov'era 
stata sepolta, la borsa con una parte delle monete, che le 
altre erano state distribuite, e che una ne aveva anche 
il filosofo Catone; ciò che fu pienamente confermato dai 
fatti. E dove mai aveva acquistate il nostro filosofo siffatte 
conoscenze magiche ed astrologiche? Forse durante un 
viaggio in oriente, fatto in gioventù ? Non sappiamo, seb- 
bene d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella 
Grecia imparò che la terra si muove con la velocità della 
ruota di un vasaio (2). 



(1) Cfr. NiGiDii FiGULi operum reliquiae eollegit A. Swoboda, 1889. 

(2) Storia della Ietterai, romana, VaUardi, 1902, p. 230. 

(3) SvKTON., Aug. 94: <iquo natus est die^ cum de Catilìnae co- 
niuratione ageretur in Curia et Octaviiis oh uxoris puerperiuìu 
serius adfuissetf nota ac vulgata est res P. Nigidimn comperta 



morae causa, ut horam quoque parfus acceperit» ad/ir masse domi' 
num terrarum orbi natum ». 

(1) De magia 42, p. 53, 9 Krueo. « Memini me apud Varrò- 
nem philosophum, virum. accuratissime doctum atque eruditum, 
cum alia eiusmodi, tum. hoc etiam legere... itemque Fabium^ cum 
quingenios denarium perdidisset^ ad Nigidium consultum venisse; 
ab eo pueros Carmine instinctos indicafnsse^ uhi locorum defossa 
esset crumena cum parte eorum, celeri ut forent distributi', unum 
etiain denarium ex eo numero hahere Catonem philosophum., quem 
se a pedissequo in stipem Apolliìiis nccepisse Calo confessus est ». 

(2) Ciò si desume da una nota del Gommentum, sl Lucano (I, 639), 
dove è detto che Nigidio ebbe il soprannome di Figulo perchè « re- 
gressus a Gr accia dixit se didicisse orhem ad celeritatem rotae 
figuli torqueri »• Dei soprannome aUri davano una ragione un po' 
diversa, in rapporto con la famosa obiezione dei due geraeUi cosi 
spesso fatta agli astrologi e di cui fanno ricordo, fra gli altri, lo 



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52 — 



— 53 — 



Quanto alle opere di JSfigidio, del quale sappiamo ancora 
che usava una dieta assai parca (1), possiamo dire che 
furono molte e di varia natura: egli scrisse di filosofia, 
di astrologia e anche di filologia (2). Di lui si riiorda 
un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel quarto 
dei quali, per esempio, trattava dei vari regni ed età degli 
dei, secondo Orfeo e i Magi, e nel sesto e nel decimo 
accennava alla teoria etrusca delle quattro specie di dei 
penati : quelli di Giove, quelli di Nettuno, quelli degl'In- 
feri e quelli degli uomini (3), cioè, probabilmente, gli spi- 
riti celesti, acquatici, terrestri (gli elementari dell' oc- 
cultismo medievale) ed umani. Perchè di quest'opera ci 
restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il gram- 
matico Servio in una nota aìVJEneide (X, 175): ^Nigidius 
solus est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theo- 
logia, Me in commimibiis litteris, nani uterqiie utrumque 
scripsertmt » . La luce di Varrone dunque oscurò quella 
di Nigidio, i cui libri intorno agli dei erano letti soltanto, 
come dice lo Swoboda (4), dagli investigatori della dottrina 



stoico Diogene presso CicerOxVe (De divinai. II, 43, 90), Gellio, 
N. A. XIV, 1, 26, lo PsKUDO Quintiliano ^Declam. Vili, 12) e 8. 
A SOSTINO !.. e. 

(1) IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigidius : nos ipsi ieiunia ien- 
iaculi s levibus solvimus. 

(2) Egli sostenne, come ci attesta Gkllio A^. A., X, 4, che il 
linguaggio è d'origine naturale e non convenzionale. 

(3) Arnob. adv. nai. Ili, 40, p. 138, 5 seg. Reiff : « idem (Ni- 
gidius) rursus in libro VI exponii et X, discìplinas etruscas se- 
quenSy genera esse Penatium guai fuor et esse lovis ex his alios^ 
alios Neptuni.^ inferorurn tertios, mortalium hominum. quartos^ 
inexplicable nescio quid dieens » . 

(4) P. NiGiDii FiauLi operum reliquiae coli, emend. enarr. quae- 
stiones nigidianas praemisit Ani. Swoboda, Vindob., 1889, p. 25. 



più recondita, come, ad esempio, quel Cornelio Labeone, 
uomo assai dotto, che visse nel terzo secolo d. C. (1). Di 
Nigidio sono ricordati anche tre scritti intorno alla divi- 
nazione per mezzo delle viscere (2) e intorno ai sogni (3), 
una Sphaera graecanica (4) e una Sphaera barbarica (5), 
un libro intorno agli animali ed altri, interamente o quasi 
interamente perduti. 

Un'altra causa di questa perdita è spiegata in parte da 
Gellio (N: a. XIX, 14, 3) il quale ci fa sapere precisa- 
mente che mentre le opere di Varrone erano lette e co- 
nosciute da tutti € Nigidianae commentationes non proinde 
in vulgus exibant et obscuritas subtilitasque earum tam 
quam parum titilis derelicta est » . Dunque gli scritti di 
Nigidio avevano un carattere piuttosto riservato e segreto, 
erano poco intellegibili ai piìi per la loro sottigliezza. E 
che significa cotesta oscurità e sottigliezza che è poi ab- 
bandonata perchè poco utile? e da chi fu abbandonata? 
dai lettori o dagli scrittori in genere o dai cultori di quelle 
stesse dottrine filosofiche? Se noi pensiamo alla diffusione 
delle conoscenze pitagoriche, sempre maggiore dal tempo 
della morte di Figulo a quello in cui Gellio scriveva (se- 
colo II d. C.) e air infinito numero di profezie, di predi- 
zioni, di oracoli che sempre più chiaramente annunziavano 
l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ; se pen- 
siamo che fu questa appunto l'età nella quale, pochi de- 



(1) Si veda, intorno a lui, Kettner, Cornelius Labeo^ Progr. Port, 
dell'anno 1877. 

(2) Gellio, .V. A. XVI, 6, 12. 

(3) Giov. LoR. Lido, de ostentis e. 45 p. 95, 14 — 96, 3 Wachsm. 

(4) Serv. ad Georg. I, 43 e I, 2l8. 

(5) Serv. ad Oeory. I, 19. 



- 54 - 

cenni dopo il Cristo apparso in oriente a dare la nuova 
parola divina agli uomini, in Roma fece la sua apparizione 
la strana figura di Apollonio di Tyana, il Pitagora redi- 
vivo, che ebbe immagini e culto divino da parte degl'im- 
peratori, non può esservi alcun dubbio : se Figulo fu 
costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli amici 
le conoscenze clie aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze 
nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ebbe molte 
noie); se lo stesso dovettero fare, dopo di lui, come or ora 
vedremo, i Sestii, die furono ugualmente perseguitati; le 
vecchie dottrine di Pitagora andarono tuttavia sempre più 
diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior libertà 
di parola e d'azione ai loro seguaci, che poterono final- 
mente abbandonare in gran parte la segretezza e il mi- 
stero in cui si chiudevano e il simbolismo oscuro di cui 
si servivano prima. 

Lucano nella sua Farsaglia (I, 639 seg.) riferisce una 
oscura predizione di Nigidio, che, com'egli dice, si studiò 
di conoscere gli dei e i segreti del cielo e in queste co- 
noscenze astrologiche fu superiore ai sapienti dell'Egizia 
Menti ; 

At FiguluSy cui cura deos secretaque oaeli 
nosse filiti quem non stellarum Aegyptia Memphis 
aequaret visti numerisque nioventihus astrn^ 
aut hic errata ait, ulla sine lege per aevum 
mundus et incerto discurrunt sidera ìnotu : 
aut, si fata movent, orbi gencrique paratur 
humano matura lues 

Egli predisse dunque alla terra e agli uomini un vicino 
flagello, proprio come, prima di lui, avevano fatto e con 
lui facevano i Genetliaci. Ora, dobbiamo noi veramente 
pensare; a proposito di siffatte predizioni, che si tratti di 



— 55 — 

semplici manifestazioni sentimentali del desiderio di tempi 
migliori? Certo le condizioni dei cittadini romani e del 
mondo, su cui l'aquila di Roma andava stendendo e allar- 
gando sempre piti le sue ali insanguinate, erano assai tristi; 
ma d'altra parte le predizioni sono troppe e troppo precise 
talvolta e troppo vicine alla manifestazione del Cristiane- 
simo, per non dover pensare a qualche relazione, misteriosa 
senza dubbio e in parte inesplicabile, ma pure innegabil- 
mente certa. 

Comunque sia, poiché, secondo le parole surriferite di 
Cicerone, con Nigidio Figulo si iniziò in Roma un vero 
e proprio risveglio delle dottrine pitagoriche, vediamo ora 
in qual guisa egli tentasse questo rinnovamento dell'an- 
tica disciplina italica. 

Noi possiamo desumerlo da altre testimonianze, le quali 
non solamente accennano a una vera e propria scuola, a 
un sodalicium, a una factio, ma vi accennano in modo, 
che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio 
stesso abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse 
tenuto da chi, forse troppo tenero e non disinteressato 
amico del nuovo ordine di cose creato in Roma dal trionfo 
di Cesare, accoglieva, senza approfondirle né vagliarle trop- 
po, accuse vaghe e imprecise formulate contro i fa'Utori 
dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli 
scolii bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio (1) 
queste notevolissime notizie : « Fuit autem ilUs temporibus 
« Nigidius quidam^ vir doctrina et eruditione studioruni 
« praestantisslmus^ ad quìnii plurimi eonveniebant. Haec 
« ab obtrectatoribus veluti factio niiaus probabilis iacti- 
« tabatur, qaanivis ipsi Pythagorae sectatores existimari 



(1) V. tomo y, part. 2, p. 317 dell'Orelli. 



— 5^ - 



» 



« vellent », e altrove (1) si dice di un tale che « ahiit 
« in sodalicinui saerile^ii Xi^qdiani ». In casa sua dunque 
Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai 
misteri della filosofia pitagorica e forse anche vi si dedi- 
cavano a pratiche mistiche, come ci persuade la ciarlata- 
neria di quel Yatinio, che, volendo farsi credere pitagorico 
e dottissimo, faceva evocazioni di morti e si abbandonava 
a nefandità d'ogni genere (2). E questi convegni finirono 
col suscitar dicerie, maldicenze, sospetti, calunnie, e vi 
furono degli obtrectatores, i quali andavano sussurrando 
qua e là che quella era una setta riprovevole e sacrilega; 
le quali calunnie, credute tanto più facilmente quanto mi- 
nore era il numero degli onesti in quei tempi così torbidi, 
furono forse un ottimo pretesto per legittimare T allonta- 
namento da Roma e l'esilio di un uomo d'antica tempra 
repubblicana. Che poi il tentativo di Nigidio avesse un 
carattere anche politico e che egli vagheggiasse, nella rico- 
stituzione del sodalizio pitagorico e quindi nella eguaglianza 
sociale e nella comunanza dei beni, il sogno della nuova 
felicità umana, è cosa piii che probabile, ma non certis- 
sima (3). E così il sapientissimo mago, il maestro pitago- 



(1) PsEUD. CicER. in Sali. resp. 5, 14. 

(2) « Tu qui te Pythagoricum soles dicere et hominis doctissimi 
nomen tuis immanibus et harbaris moribics praetendere..., cum 
inaudita ac nefaria sacra susceperis^ cum inferorum animas eli- 
cere, cum puerorum extis Deos manes mactare soleas » Cicero.ve, 
in Vatinium 6, 14. Dal che si può vedere, sia detto incidental- 
mente, che lo spiritismo non è un'invenzione moderna! 

(3) V. quanto afforma a proposito di lui e dei Sestii il Pascal : 
Il rinnovamento umano negli scrittori di Roma aJitica (Riv. d'I- 
talia, gennaio 1902. p. 98, poi nel voi. Fatti e leggende, Firenze, 
Le Monnier, 1903;. 



« ■■^.. m»n»t,mar.d^ Mf^we wnHW'jtw ' ' jMtw — »?sr^iia?MBi:a Pa iiii JJ l 



-- 57 - 

rico, il matematico P. Nigidio morì nell'esilio, nel tempo 
stesso che ìp Roma intercedeva per lui, allo scopo di otte- 
nerne il richiamo in patria, l'amico Cicerone. Ma doveva 
essere davvero tenuto per uomo assai pericoloso il sacri- 
lego Pigulo, se, non ostante che i famigliari di Cesare e 
quelli ch'egli avea più cari ne parlassero con ammirazione 
e ne avessero alta stima, il divo lulio non si lasciò troppo 
commuovere, a favore del fiero repubblicano ! Gli è che 
in verità in quel momento di trapasso dalla repubblica 
(o meglio dall'anarchia) all'assolutismo l'interesse dello 
Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di fronte 
agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori. 
Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente con- 
servataci, nella quale Cicerone, dando notizia all'esiliato 
delle pratiche ch'egli faceva indirettamente presso Cesare 
e delle speranze che aveva di poter presto riuscire a otte- 
nergli il perdono, dice cose così interessanti e adopera 
espressioni di così alta stima, che metterebbe conto davvero 
che la riferissimo per intero (1). Basti accennare tut- 
tavia che egli si rivolge a lui come ad uomo « uni 
omnium doctissimo et sanctissirno et maxima quondam 
gratta » e suo amicissimo, e che accingendosi a censo- 



V 

(1) E la lettera 13^ del quarto libro Ad familiares, dell'anno 46 
a. C. In essa dice bensì Cicerone : « Videor mihi prospicere pri- 
mum' ipsius animum, qui plurimum. potest, propensum ad salutem. 
tuam », ma questa era la semplice illusione, creata in lui dall' a- 
micizia che aveva per Figulo e dal desiderio che sentiva del suo 
ritorno; poiché in realtà il povero filosofo fu lasciato morire in 
esilio. E sì che — come aggiungo ancora Cicerone — « familiares 
eius (cioè di Cesare), et ii quidem, qui UH iucundissimi sunt, 
mirabiliter de te et loquuntur et sentiunt » e di più « accedit eodem 
vulgi voluntas vel potius consensus omnium i> ! 



— 58 — 

Jarlo crede opportuno di premettere : « ai ea quidem fa- 
cultas vel ttii vel alterms consolandi in te summa est^ si 
nmquaìn in ulto fuit » ; cosicché « eam partein, quae ab 
exqulsita qiiadam ratiorw et doctrina proficiscitur, non 
attingam: tibi totani reUnquam »; e conchiudendo termina 
col pregarlo « animo ut maximo sis nec ea soliim memi- 
neris, quae ab aliis magnis niris accepisti, sed illa etiam, 
quae ipse ingenio studiisqiie peperistL Quae si colliges, et 
sperabis omnia optime et quae aecident, qualiacumque erunt, 
sapienter feres. Sed haee tu melius vel optime omnium». 
Ora se insieme con queste eloquenti e perspicue parole 
si ricordano i versi citati della Farsaglia e se si pensa 
ancora al contenuto dei frammenti che di queste sapiente 
ci sono rimasti e ai titoli delle opere ch'egli scrisse, pos- 
siamo formarci un' idea approssimativa del genere di dot- 
trina e di conoscenze che ebbe e di cui si fece maestro: 
il misticismo pitagorico, la dottrina dei numeri, la divina- 
zione (quella che oggi si direbbe chiaroveggenza) in tutte 
le sue forme, Tastrologia; il tutto espresso e significato in 
un modo oscuro e involuto, forse per via di simboli, che 
fu poi una delle cause maggiori, se non la maggiore di 
tutte, per la quale le opere di lui furono poco lette e a 
poco a poco caddero neiroblio. 



3. — E dopo la morte del maestro, che ne fu dei suoi 
seguaci? Pfobabilmente non si dispersero e continuarono 
a riunirsi ; tanto piii che non mancava certo fra loro chi 
potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e la 
sua dottrina. In quegli stessi anni infatti, o poco dopo, 
ci fu m Roma un'altra setta, ch'io non dubito punto fosse 
continuazione di quella di Nigidio, o certo frutto dei suoi 
insegnamenti: voglio alludere alla <^ Sextiorum nova et 



59 



romani roboris secta » , la quale però « Inter initia sua, 
quum magno impetu coeplsset, extinota est » (1). Decisa- 
mente i tempi non erano favorevoli alla fi.losofia, anzi a 
certa filosofia! E in verità non potevano essere molti quelli 
che, in Roma, desiderassero di attendere sul serio alle 
speculazioni filosofiche: le ricchezze e la potenza della 
nuova Roma imperiale offrivano troppi svaghi, troppi di- 
vertimenti, troppe orgie, perchè vi fosse tempo e voglia 
di dedicarsi a meditazioni gravi ed ingrate ! Cosicché gli 
sforzi di quei pochi, i quali avrebbero pur voluto richia- 
mare i concittadini alla serietà d'una vita meno fatua e 
più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire effetti poco 
duraturi. 

Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna Seneca? Le 
notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma suffi- 
cienti tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corru- 
zione, come uomini desiderosi più delle gioie del pensiero 
che di quelle dei sensi, amanti più della verità e della 
scienza che delle ricchezze e degli onori; come uomini 
infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù, quanto 
maggiori intorno si addensano lo tenebre del vizio. 

Del primo di essi, di nome Quinto^ parla specialmente, 
e sempre con parole di profonda e sentita ammirazione, 
il più grande dei moralisti romani, Seneca, in quelle sue 
mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta filosofica sapienza 
e così degne d'essere studiate e meditate più che non 
siano! In una di queste, la novantottesima, volendo egli 
provare al suo alunno che spesso molti disprezzarono quei 
beni che i più desiderano come fonti di felicità, cita gli 
esempi di Fabrizio e di Tuberone, e poi aggiunge che il 



(1) Seneca, Quaest, nat. cap. ultimo. 



- 60 - 



padre Sestio, pur essendo nato in tali condizioni da dovere 
un giorno governare la cosa pubblica, rifiutò persino la 
carica di senatore, offertagli da Giulio Cesare ; poiché egli 
non annetteva aJcuna importanza ai pubblici onori, rite- 
nendoli, come sono, troppo incerti e transitori (1). Una 
rinunzia di questo genere non era certamente cosa che 
tutti sapessero e volessero fare in quei tempi di sfrenate 
ambizioni; e tanto meno poi per ragioni filosofiche! Ma 
tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua persona altro 
ornamento che non fosse il laticlavio: ornamento meno 
visibile e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero, 
che fosse conquista della sua intelligenza e della sua virtù, 
che nessuno potesse riprendergli e che egli potesse libe- 
ramente trasmettere senza pericolo di manomissioni o di 
latrocinii, Tornamento insomma della sapienza; per la quale 
fu acceso di tanto amore, che non facendo, in sul principio, 
progressi sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo desi- 
derio, fu sul punto, un giorno, di suicidarsi (2). 

Come degli onori, ei non fu avido neppure doUe ric- 
chezze; anzi si racconta di lui che, trovandosi in Atene, 
ripetè quanto aveva già fatto il filosofo Democrito, il quale, 
avendo previsto da certi segni astrologici una carestia d'olio, 
prima dell'epoca del raccolto — che la bellezza delle olive 
faceva sperare sarebbe stato abbondante — comperò a buon 



(1) « Eonores repulìt pater Sextius, qui, ita natus ut rcmpu- 
hlieam deberet eapessere, ìatum clavum, divo Tulio dante, non re- 
eepit; intelligehat enim, qtiod davi posset, et eripi posse >. 

(2) PLUtARCo, « Del modo di conoscere i propri progressi nella 
virtù », § 5: « KaeàTiep i^aal Ségxióv te tòv 'Pcoiialov àcpsixóia xà^ 
iv z-fi nàXei zi\iòc<; xal àpxà^ 5ià cptXoaocp(av èv 5è Tcp cptXoaocpelv 
au TcàXtv Suor.at'fo'jvxa xal xpwP'Svov 1$ AÓytp xaXsTio)^ za nptbzow, 
òXCyou 5£f;wai xaiagaXstv éauTòv Ix xivo^ 5ty]poug ». 



— 61 



mercato tutto l'olio del paese, e poi, sopravvenuta real- 
mente la carestia, restituì ai primi proprietari! la merce 
acquistata, appagandosi d'aver provato così che gli sarebbe 
stato facile arricchirsi quando lo avesse ^^oluto (1). 

Ma che uomo era Sestio ! Che scrittore vigoroso e ardito, 
e come diverso da tanti filosofi che scrivendo siedono in 
cattedra, discutono, cavillano, e non danno all'anima alcun 
vigore perchè non ne hanno ! A leggere Sestio — son pa- 
role di Seneca -- si sente ch'è pieno di vita e di vigore, 
uno spirito libero e superiore, uno che ha virtù d'ispirarti 
sempre una gran fiducia in te stesso ! In qualunque stato 
d'animo, quando si legge il suo libro, si sfiderebbe la 
fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro qualsiasi 
ostacolo! Poiché egli ha questo grande merito, che, pur 
mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non 
ti fa disperare di raggiungerla: egli la mette bensì molto 
in alto, ma in luogo accessibile a chi la voglia conqui- 
stare, sì che ammirandola tu speri (2). Quale piii alta lode 



(1) Plinio, Naturaìis Bistorta, XYIII, 68, 9-10 : <x Ferun 
Democritumy qui primus intellexit ostenditque eum terris caeli 
societatem, spernentihus hanc curam eius opulentissimis civiuni, 
praevista olei caritate ex futuro Vergiliarum ortu.... magna tum 
vintale propter spem olivae, coemisse in loto tractu om,ne oleum, 
mirantibus qui paupertatem et quietem doctrinarum ei seiebant 
in primis cordi esse. Atqiie ut apparuit causa, et ingens divitia- 
rum cursus, restituisse mercem anxiae et avidae dominorum. poe- 
nitentiae, contentum ita probasse opes sibi in facili, quum vellet, 
fore. Hoc postea Sextius e romanis sapientiae adsectatoribu^ Athenis 
fecit eadem rat ione ». 

(2) Seneca, Epistola LXIY : « Lectus est deinde liber Quinti 
Sextii patris ; m,agni, si quid miki credisj viri, et, lìeet neget. 
Stoici. Quantus in ilio, Dii boni, vigor est, quantum animi! Hoc 
non in omnibus philosophis invenies. Quorumdam scripta clarum 



62 — 



63 



per un uomo, di questa entusiastica esaltazione fatta da 
Seneca ? 

E i suoi insegnamenti })()i quanto erano sentiti e pro- 
fondi, altrettanto erano semplici ed efficaci. Vuoi tu persua- 
dere un uomo della bruttezza dell'ira ? egli ammaestrava: 
portalo, mentr'è adirato, inuauzi a uno specchio e fa che 
vi si veda riflesso ; poi fagli intendere che s'ei vedesse a 
quel modo auche l'orridezza dell' anima sua sconvolta ed 
agitata ne sarebbe atterrito (1). Della onestà e 'della virtù 
egli ebbe così alto e giusto concetto che sostenne l'uomo 



hahent tantum nomen, cetera exsanguia sunt. Instituunt, dispu- 
tante eavillantur: non faciunt animum, quia non hahent. Quum 
legeris Sextium, dices: Vivit, viger, liber est, supra hominem est, 
dimittit me plenum ingentis fiduciae. In quacumque positionc 
mentis sÌ7n; quum hune lego, fatebor Uhi, lihet omnes casus pro- 
vocare, Uhet exclamare : Quid cessas, Fortuna? congredere! para- 
tum vides. Illius animum induo, qui quaerit ubi se experiatuv, 
ubi virtutem suam ostendat, 

Spumantemque duri pecora inter inertia votis 
Optat aprum, aut fulvum descendere inonte leonem, 

Ltbet aliquid hahere, quod vincavi, cuius patientia exercear. 
Nam hoc quoque egregium Sextius hahct, quod et ostendet libi 
beatae vitae magnitudinem, et desperationem eius non faciet. Scies 
illam esse in excelso, sed volenti penetrabilem. Hoc idem virtus 
Ubi ipsa praestabit, ut Ulani admireris, et tamen speres * . 

(1) Seneca, De ira, lib. Il, eap. 36: « Quibusdam, ut ait 
Sextius, iratis profuit aspexisse sptculum; perturbava illos tanta 
mutatio sui: velut in rem praesentem adducti non agnoverunt se, 
et quantiilum ex vera deformitate imar/o illa speculo repercussa 
reddebat ? animus si ostendi, et si in ulta maferia perlucere pos- 
set, intuentes nos confunderet, ater maculosusque, aestuans, et 
distortus, et tumidus. Nunc quoque tanta deformitas eitcs est per 
ossa carnesque, et tot impedimenta, effiuentis : quid si nudus o- 
stcnderetur? etc. 



onesto non per altro essere inferiore al sommo Giove, che 
per avere una virtù meno stabile e duratura ; ma per tutto 
il tempo in cui si conservi onesto essere altrettanto felice 
quanto Giove, non essendovi tra la perfezione e quindi 
la felicità umana e la divina differenza se non di durata. 
Ond'è che egli potè veramente additare ai volonterosi il 
bel cammino della virtù ed esclamare : « Di qui si monta 
alle stelle! di qui: seguendo frugalità, temperanza^ for- 
tezza y^ — e non già (par quasi sottintendere) per decreto di 
popolo di senato ! — e potè confortare anche all'ascesa, 
persuadendo che gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi 
la mano. ... (1). 



(1) Seneca, Epistola LXXIII: « Solebat Sextius dicere , <k lovem 
plus non posse, quam bonum virum » . Plura lupiter habet, quae 
praestet hominibus; sed inter duos bonos non est melior, qui lo» 
cupletior : non rnagis, quatn inter duos, quihus par scientia re- 
gendi gubernaculum est, melior cm dixeris, cui maius speciosiusque 
navigium est. lupiter quo anteceda virum bonum! Diutius bonus 
est. Sapiens nihilo se minor is aestimat, quod virtutes eius spatio 
breviore clauduntur, Quemadmodum ex duobus sapientibus, qui 
senior decessit, non est beatior eo, cuius intra pauciores aìinos 
terminata virtus est : sic Deus non vincit sapientem felicitate, 
etiani si vincit aetate. Non est virtus maior, quae longior. lupi- 
ter omnia habet', sed nempe aliis tradidit habenda. Ad ipsum Me 
imus usus pertinet, quod utendi omnibus causa est: sapiens tam 
aequo omnia apud alios videi contemnitque, quam lupiter, et hoc 
se magis suspicit, quod lupiter uti illlis non potest, sapiens non 
rult, Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et 
clamanti : « Hae ifur ad astra ! hac, secundum frugalitatem; hac^ 
secundum fortitudinem ! » Non sunt Dii fastidiosi, non invidi ; 
admittuntj et ascendentibus manum porrigunt. Miraris hominem 
ad deos ire? Deus ad hoìuines venit\ imìno, quod propius est, in 
homines venit. Nulla sine Deo mens bona est. Semina in corpo - 
ribus humanis divina dispersa sunt-, quae si bonus cultor excipit,^ 



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— 64 — 

Questa sicura fede, questa virile forza di pensiero susci- 
tatrice di virtù, era la nota caratteristica degli scritti di 
Sestìo, di quest'uomo profondo, che filosofava scrivendo 
in greco con gravità romana, e che paragonava l'uomo 
sapiente, cinto di tutte le buone energie del suo animo, 
a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto e 
pronto alla battaglia (1). 

Ed esercitando sui migliori uomini di Roma, come per 
esempio quel Lucio Crassizio di cui parla Svetonio (2), 

similia origini prodeunt; et paria hiSj ex quihus orla sunt^ sur- 
gunt: si malus^ non aliter quam humus sterilis ac palustris^ ne- 
cai, ac deinde creai purgamenta prò fì^ugihus ». 

(1) Seneca, Epistola LIX : « Sextium ecce quam maxime lego^ 
vira iti aerem^ graecis verhis^ romanis moribus philosophantem. 
Movit me imago ab ilio posila : ire quadrato agmine exerciturn^ 
ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae paratum. Idem^ 
inquit^ sapiens facete debet; omnes virtutes suas undique expan- 
dat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur, ìllic parata praesidia 
sini^ et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. Quod in 
exercitibus his^ quos imperatores magni ordinante fieri videmus^ 
ut imperium ducis sirm^l omnes copiae sentiant^ sic dispositae, 
ut signum ab uno datum, peditem simul equitemque percurrat ; 
hoc aliquanto magis necessarium esse nobis Sextius ait. UH enim 
saepe hostem timuere sine causa ; tutissimumque UH iter, quod 
siispeetissimum fuit. Nihil siultitia pacai um h ibet ; tam superne 
UH metus est, quam infra ; utrumque trepidai latus ; sequuntur 
pericula^ et occurrunt; ad omnia pavel ; imparata est^ et ipsis 
lerretur auxiliis. Sapiens autem^ ad omnem incursum munitus 
est et inlentus: non si paupertas^ non si luctuSy non si ignomi- 
7iia, non si dolor impetum faciale pedem referet. Interri tus et 
contra illa ibit^ et inter illa. Nos multa alligante multa debilitante 
diu in istis vitiis iacuimus ; elui difficile est : non enim inquinati 
sumus^ sed mfecti ». 

(2) Nel De illustr. grammat.^ § 18, rammenta di lui che « ad 
Q. Sextii philosophi sedani transiisse dicitura. AUuni codici 
però invece di Q. Sextii leggono Q. Septimii. 



— 65 — 

questa sua efficace robustezza di pensiero, e affascinandoli 
col vigore della sua persuasione e con la nobiltà della sua 
vita, sdegnosa d'ogni viltà e d'ogni bassezza, potè far sor- 
gere quella « romani roboris seda » , di cui abbiamo fatto 
già cenno e che, se fa subito soffocata, ebbe tuttavia dei 
seguaci e prosecutori isolati, come Sozione di Alessandria, 
che fu maestro anche di Seneca (1), Cornelio Celso (2), 

(1) Di lui parla Lattanzio, Divin. institut. lib. VI, § 24. 
Vedi anche Gellio, «V. A,. I, 8. Nella interessante epistola 108^ 
Seneca, parlando di so al suo Lucilio, gli dice come oltre al- 
l'avere imparato ad astenersi per sempre dalle ostriche, dai fun- 
ghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e ad usar materassi duri, 
aveva anche incominciato, da giovane, ad astenersi dalla carne, e 
ciò per gli insegnamenti di Soxione^ che dimostrava la inutilità e 
i danni di questo cibo, valendosi, oltre che degli argomenti di Pi- 
tagora e di Sestio, anche di ragioni proprie. Riporto quasi per in- 
tero il passo di Seneca, che suona cosi: « Quoniam coepi libi ex- 
poìiere quaìitum maior impelli ad philosophiam iuvenis accesse- 
rim^ quam senex pergam^ non pudebit fateri^ quem mihi amorem 
Pythagorae iniecerit Solion. Docebat^ quare ille animalibus ab- 
stinuisset^ quae postea Sextius. Dissimilis utriqiie causa erat^ sed 

utrique magnifica, Hic etc,.,. At Pythagoras Haec quum ex- 

posuisset Sottoìi et implesset argumentis suis: Non credis^ inquity 
animas in alia corpora atque alia describi^ et migratioìiem esse 
quam dicimus mortem'^ Non credis in his pecudibus ferisve aut 
aqua mersis illum quondam hominis animum morari? Non cre- 
dis nihil perire in hoc ìnundo, sed mutare regionem? nec tantum, 
caelcstia per eertos circuitus ver ti, sed ammalia quoque per vices 
ire^ et anitnos per orbem agi ? Magni ista crediderunt viri. Ita- 
que iudicium quidem tuum sustine: ceterum Oìnnia tibi integra 
serva. Si vera sunt ista., abstinuisse animalibus innocentia est^ 
si falsa frugali tas est, Quod istic credulitatis tuae damnum est ? 
Alimenta tibi leonum et culiurum eripio. His instinctus abstinere 
animalibus coepi .^ et anno pera do non tantum facilis erat mihi 
consuetudo^ sed dulcis... » 

(2) Quintiliano, Lib. X, 1, 124 : « Scripsit non parum multa 
Cornelius CeUus., Sextios secutus^ non sine cultu ac nitore ». 

». 



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— 66 - 

Papirio Fabiano (1), Moderato di Cadice (2) ed altri. 

I Sestii dei quali abbiamo notizia furono due: il primo 
quello di cui si è parlato finora, che sarebbe vissuto al 
tempo di Augusto e anche di Cesare, se, come dice ^^- 
neca, rifiutò il laticlavio « divo lidio dante » (3), e avrebbe 
pure, secondo il surriferito passo di Plinio (4) dimorato, 
non sappiamo quando né per quanto tempo, in Atene; 
l'altro, suo figlio, anch'esso di prenome Quinto, che pro- 
seguì Tinsegnamento paterno, che fu ritenuto, sebbene a 
torto, autore delle sentenze filosofiche note sotto il nome 
di Sesto pitagorico (5j, della cui vita infine non sappiamo 
assolutamente nulla. 

Ora, di qual dottrina furono maestri questi filosofi, solitari 
ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di tristi? 

(1) Seneca, Epist. C; cf. Seneca il retore al hb. II delle Con- 
troversie^ prefaz. 

(2) Questo filosofo pitagorico visse al tempo di Nerone, fu famo- 
so per i suoi insegnamenti intorno alla scienza simbolica dei nu- 
meri, fu maestro di Lucio Etrusco (v. Plutarco, Quaest. Conviv. 
YIII, 7) e scrisse un'opera voluminosa intorno alla dottrina pita- 
gorica (V. Porfirio, Vita di Pitay, p. 33 ed. Nauck; Stefano Bi- 
ZANTiNO e SuiDA, sotto la voce ràastpa}. Cfr. pure Porfirio, Vita di 
Plotino e. 20 e S. Gerolamo, Adv. Eufinum III. 

(3) Epist. XCYIII già citata. Di un Sestio, filosofo pitagorico, 
che fiorì ai tempi d'Augusto, parla Eusebio (Chro?i,, all'olimpiade 
195. 1 = 1 d. C.}. Dobbiamo dunque ritenere il nostro Sestio vis- 
suto press'a poco fra il 70 a. C. e il 5 d. C. 

(4) Natur. Eist., XVIII, 68, 10. 

(5) Vedile nella collezione del Mììllach, Fragrnenta philosopho- 
rum graecorum, Parigi, Firmin-Didot, voi. 1 (1875) p. 522 e 
voi. II (1881) pp. 116-117, e leggi, a proposito della paternità di 
esse, oltre a ciò che ne dice lo stesso Mullach v. II, pp. XXXI sg.), 
anche l'esauriente discussione che fa lo Zeller, Die Philosophie 
der Qriechen, voi. IV, III ediz. (Leipzg 1880), pp. 679 e 681 nota. 



— 67 — 

Essi ebbero intanto una propria dottrina psicologica, se, 
come riferisce Claudiano Mamerte (1) spiegarono che l'a- 
nima è « una certa forza incorporea, illocale e inafferra- 
« bile, che, essendo capace senza spazio, assorbe e contiene 
« il corpo » . Ma questo evidentemente è troppo poco per 
determinare a che scuola essi appartennero. È ben vero 
che Seneca^ come abbiamo già veduto riferisce (nella Epi- 
stola LXIV) che « volere o no » (licet neget), il padre Sestio 
era uno stoico; ma quel « volere o no » ci fa compren- 
dere che in realtà Sestio non si professava stoico. E infatti 
qualche altra testimonianza lo dice pitagorico (2), e tale lo 
proverebbero non solo le sue conoscenze astrologiche, dimo- 
strate dalla famosa esperienza dell'olio, ma altresì alcune 
abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di ogni 
giorno l'esame di coscienza (3) e quella di astenersi dai 
cibi carnei (4), l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei 
seguaci del Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima 
è da notare che Sestio non la giustificava, come Pitagora, 



(1) De statu animae, II, 8 : « ... Romanos etiam.^ eosdemque 
pkilosophos testes citamus^ apud quos Sextius pater .^ Sextius filius 
propenso in exercitium sapientiae studio apprime philosophati 
sunt^ atque hanc super omni anima attulere sententiam. Incor- 
poralis, inquilini^ oìnnis est anima et illocalis atque indeprehensa 
vis quaedatu ] quae sine spatio capax corpus kaurit et contifiet *. 

(2) V. pag. preced., nota 3. 

(3) Seneca, De ira^ lib. Ili, e. XXXVI, 2: « Faciehat hoc 
Sextius ut consunnnato die^ quum se ad nocturnam quietem re- 
cepisset^ interrogaret animum suum : Quod hodie malum tuum 
sanasti ? cui vitio ohstitisti ? qua parte melior es? y> . 

(4) A questo proposito, oltre alla Ep, CVIII di Seneca riportata 
nella nota seguente, si suol citare il passo, conservatoci da Orige- 
ne, « {contra Celsum », lib. Vili, p. 397 ed. di Cambridge), che 
suona: « Il cibarsi di carni è indifferente, ma l'astenersene è più 
conforme a ragione ». Tale sentenza però è di Sesto pitagorico; non 
già del nostro Sestio. 



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— 68 — 

con la dottrina della metempsicosi, ma con argomenti che 
ai Romani dovettero parer più ragionevoli, perchè meno 
astrusi : « gli uomini, egli infatti insegnava, hanno altri 
«alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e poi ci 
« si abitua alla crudeltà provando piacere nel divorar della 
«carne; si deve duuqu3 ridurre al minimo ciò che può 
« alimentar la lussuria » e concludeva dicendo che « la 
« varietà dei cibi è contraria alla salute e innaturale per 

« i nostri corpi » (l). 

Ci sembra quindi lecito di potv.r affermare che i Sestii 
non furono ne stoici ne pitagorici, ma ebbero un proprio 
sistema, eclettico quasi senza dubbio, con prevalenza di 
elementi pitagorici ; e che questo loro sistema non fu né 
inorganico, né dubitoso (come quello degli accademici del- 
l'ultima maniera) né materialista (come Tepicureo), sibbene 
avvivato da una profonda fede, illuminato da una chiara 
luce spirituale e fondato su convinzioni ben salde e su 
opinioni precise e indubitabili; un sistema d'idee insomma, 
che non era una piìi o meno piacevole distrazione o un'o- 
ziosa occupazione dell'intelletto, ma una vera e propria 
forza organizzatrice e ordinatrice della vita, e per ciò ap- 
punto destinato a raccogliere pochi 'seguaci e a vivere per 
tempo assai breve, in quella sentina di ambizioni, di cor- 
ruzioni, di violenze, di immoralità, che era divenuta la 
grande Roma nel trapasso dalla repubblica all'Impero. 



(1) Seneca, Epist. CYIII : « kic {Sextius) homini satis alimen- 
torum citra sanguinem esse credebat, et crudelitatis consuetudi- 
nera fieri, ubi in voluptatetn esset adiucta laceratio. Adiciebat 
eontrahendam materiam esse luxuriae, colligebat bonae valetudini 
contraria esse alimenta varia et nostris aliena corporibus ». 



\ 



CAPITOLO QUARTO 



Pitagora e le sue dottrine ne^li scrittori latini 
del primo secolo avanti Cristo. 

I. 

Lucrezio e il poema « Della Natura » 

1. Lucrezio e il poema Della Natura. —2. Epicuro coutro Pitagora 
a proposito di immortalità dell'anima e di metempsicosi. - 3. Ac- 
cenni alla metempsicosi nel proemio del primu canto. Il sogno di 
Ennio. —4. Polemiche intorno all'anima nel terzo canto: la dot- 
trina dell' anima-armonia. — 5. Argomenti epicurei contro la 
preesistenza dell'anima e la metempsicosi. —6. Insussistenza del 
timore della morte nell'ipotesi della reincarnazione. — Riassunto 
e conclusione. 



V 



1. — Poiché si è visto come, dopo Nigidio, i Sestii cerca- 
rono di restaurare in Roma il culto del Pitagorismo, non 
sarà certo inutile indagare quali tracce esso aveva lasciato di 
sé nella letteratura romana del primo secolo avanti Cristo, 
siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche o sem- 
plici notizie incidentali: così infatti potremo non solo farci 
un'idea del giudizio che ne fecero gli scrittori di quel 



— 70 — 



71 — 



tempo, ma ci si offrirà anche il modo di esporne e chia- 
rirne qualcuno dei punti più importanti o di metterne in 
luce gli aspetti più notevoli. 

Certo, in un'età nella quale le più svariate credenze 
religiose e i più diversi sistemi di filosofia affluendo in 
Eoma da ogni parte del mondo, e specialmente dalla Grecia 
e dall'Asia, vennero a poco uniformandosi per vicendevole 
influsso e preparando così il terreno che doveva di lì a 
non molto accogliere e far germogliare il seme della nuova 
fede cristiana, non è facile sceverare e seguire uno per 
uno i vari indirizzi di pensiero; massime poi quelli che, 
come la filosofia pitagorica, essendo molto antichi e avendo 
avuto larga ditfusione e gran numero di seguaci, trasmi- 
sero parte dei loro principii alle speculazioni filosofiche 
posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci per- 
metterà almeno di raccogliere tutti quei passi di scrittori 
latini dell'ultimo periodo repubblicano nei quali si fa espli- 
cita menzione di Pitagora, e di esaminare altresì quei 
luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a dottrine 
e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per 
concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di 
Samo. 

Incominceremo pertanto dal poema di Lucrezio, che 
fu, come tutti sanno, il più mirabile tentativo di elabora- 
zione poetica in lingua latina di un sistema filosofico greco, 
e precisamente del sistema epicureo. Altri felici tentativi 
di esporre in versi dottrine di filosofi greci erano bensì 
stati fatti da Appio Claudio, da Ennio, da qualche altro, 
ma per brevi trattazioni ; sì che Lucrezio — pur conscio 
della grandezza del cantore degli Annales — potè ben affer- 
mare con legittimo orgoglio di essere il primo a tentare 
di esprimere poeticamente, nella lingua del Lazio e del- 



li 



V Italia romana, non ancora assueta alle sottigliezze, alla 
profondità, alla precisione del linguaggio filosofico, le 
speculazioni dei Greci. 

Il poema Bella Natura infatti non solo espone con 
ordine sistematico la complessa dottrina di Epicuro intor- 
no all' essere delle cose in generale, all' infinità dell'uni- 
verso, ai moti e alle forme atomiche, alla natura, com- 
posizione e mortalità dell' anima, alle cause delle sensa- 
zioni e delle funzioni fisiologiche, alle origini del mondo 
e della vita vegetale e animale, alle cause dei fenomeni 
meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè abbiano 
più sicuro fondamento i principii della dottrina epicurea, 
le opposte e diverse dottrine di altre scuole filosofiche, e 
combatte le argomentazioni contrarie e le obiezioni pos- 
sibili degli avversari. 

Di questa opera dunque, costruttiva in quanto elabora 
su fondamenti nuovi, e polemica in quanto combatte e 
distrugge principii vecchi o diversi, è ben naturale che 
noi dobbiamo tener presente soprattutto la parte polemica, 
per vedere se e quanto in essa il poeta — e prima di lui 
Epicuro — abbia tenuto conto delle dottrine di Pitagora. 

2. — Ora, su due punti essenzialmente il poeta discute 
e lotta ad oltranza contro indirizzi di pensiero diversi dal 
suo : sulla teoria atomica e sulla teoria dell' anima. E a 
proposito della prima combatte e confuta esplicitamente, 
nominandoli, Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del filosofo 
di Samo invece non fa il nome neppure una volta, né 
qui né in altra parte dei poema; ma ciò non toglie che 
un attento esame del poema stesso non ci permetta di 
scoprire dove e quando, pur senza dirlo, il poeta pensi 
a combattere i principii della filosofia pitagorica. 






— 72 — 



- 73 — 



E ben nota, in verità, la disistima che Epicuro ebbe 
per la matematica; il che parrebbe che dovesse farci esclu- 
dere senza altro qualsiasi considerazione, da parte diluì, 
per un sistema che aveva studiato e rappresentato sotto 
l'aspetto numerico il mondo, e nel quale le ricerche ma- 
tematico-musicali avevano tanta parte. In realtà però pos- 
siamo escludere a priori soltanto questo: che Epicuro te- 
nesse presenti in qualche modo le dottrine della scuola 
italica nella parte fisica del suo sistema. E infatti lo stu- 
dio del poema di Lucrezio conferma senz' altro questa 
induzione; tanto nella parte teorica che in quella polemica 
dei primi due canti, che contengono T esposizione e lo 
svolgimento dei principii epicurei intorno al mondo e alla 
materia, e la teoria atomica, manca affatto qualsiasi ac- 
cenno, anche indiretto e lontano, alle dottrine pitagoriche. 

Ma queste, oltre al mondo fisico, governato dal numero 
e dall' armonia, abbracciavano anche il metafisico (anima 
e dei), e quanto all'anima, pur considerando anche di 
questa l'aspetto numerico e musicale, sviluppavano so- 
prattutto il concetto della sua eternità : non mai nata, 
perchè esistente ab aeterno^ essa vive, perenne e immor- 
tale, attraverso un ciclo indefinito di vite terrene (me- 
tempsicosi). Sotto questo aspetto pertanto la filosofia di 
Pitagora dovette pure essere tenuta in qualche conside- 
razione da Epicuro, se scopo fondamentale della sua spe- 
culazione fu di combattere i due grandi timori onde nasce 
r intelicità umana, cioè il timore della morte e quello 
degli dei, e se, per vincere il primo, difese con tutte le 
armi della logica il principio 'della materialità e della 
mortalità deir anima. Non risalivano forse in gran parte 
alla filosofia pitagorica la dottrina platonica e le specu- 
lazioni stoiche intorno alla origine divina e alllmmortali- 



tà dell' anima ? E la filosofia pitagorica non si uniformava 
forse, spiegandole e chiarendole, alle più inveterate su- 
perstizioni, alle pili profonde convinzioni, alle più diffuse 
credenze religiose degli uomini ? 

Se Epicuro avesse avuto solo lo scopo della costruzione 
teorica del suo sistema, sarebbe stato sufficiente che, ac- 
cettata da Democrito la teoria atomica e fattane V appli- 
cazione al mondo fisico, l' estendesse, come fece realmente, 
al mondo psichico (per lui V anima constava infatti d' un 
aggregato d'atomi sensiferi), per trarne la conseguenza 
della mortalità dell' anima o, più precisamente, del ne- 
cessario dissolversi dei suoi atomi alla morte del corpo. 
Ma, giova ripeterlo, egli volle anche soprattutto combat- 
tere il timore della morte, il quale nasce, secondo lui, 
dal pensiero — alimentato dalle superstizioni religiose, e 
dalle favole dei poeti e dei vati — che, morto il corpo, 
l'anima sopravviva. Ora, fra le varie forme di tale cre- 
denza una ve n' era — largamente diffusa dalla religione, 
dai misteri, da oscure predizioni sibilline, da filosofi e da 
poeti — secondo la quale 1' anima non solo continuava 
ad esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi 
corpi e ritessere più d' una volta la trama della vita ter- 
rena : insomma l'antichissima credenza nella metempsi- 
cosi. E per di più questa credenza, anche nei termini 
strettamente epicurei, poteva in un certo senso (come ve- 
dremo) apparire ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità 
del tempo e nel perpetuo dissolversi e ricomporsi degli 
atomi materiali, era ben lecito ammettere come possibile 
il ricostituirsi dell' identico conglomerato atomico che ri- 
creasse di nuovo il medesimo corpo e la medesima ani- 
ma. Data dunque questa possibilità teorica, si comprende 
che Epicuro o i suoi seguaci dovessero esaminarla anche 



I 



74 



al lume della logica interna del loro sistema, per dedurne 
le loro conseguenze in rapporto alle due questioni del- 
Feternità deiranima e del timore della morte. 

Tanto ciò è yero, che Lucrezio svolge appunto in mo- 
do ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale discussione 
polemica, là dove vuol dimostrare la mortalità dell'anima 
e la vanità del temere la morte. 



3. Ma prima di esaminare ed analizzare questa parte 
del poema che si riallaccia così strettamente con la dot- 
trina pitagorica, è necessario premettere che già al prin- 
cipio del primo libro, in quel mirabile e tormentato proe- 
mio dove il poeta espone le ragioni, l' ordine e la materia 
della sua trattazione, è fatto cenno delle varie credenze 
e opinioni intorno air anima e dell' importanza capitale 
che la soluzione del problema psicologico ha, nel sistema 
epicureo, in ordine alla necessità di sradicare dair animo 
umano il timore della morte. 

E questo cenno, sia in sé stesso, sia per il ricordo che 
ad esso si collega del famoso sogno di Ennio, ha pure 
importanza per il nostro tema. 

Per rassicurare infatti Memmio — al quale il poema è 
dedicato — che potrebbe dubitare, accettando la dottrina 
epicurea, di commettere atto di scellerata empietà, Lu- 
crezio dimostra che anzi la religione fu causa che gli 
uomini commettessero delitti nefandi, come il sacrificio 
d'Ifigenia in Aulide (vv. 80-101). E poi soggiunge che, 
vinto anche il timore degli dei, può tuttavia rimaner 
sempre queir altro timore, che è alimentato dalle spaven- 
tose favole dei poeti sulla vita d' oltretomba, da sogni e 
da apparizioni, e trova la sua ragion d'essere nelP igno- 
ranza umana intorno alla vera natura dell' anima (vv. 102- 



— 75 — 

126). Di qui pertanto la necessità di studiare — insieme 
con la natura delle cose celesti, degli dei e della mate- 
ria — anche il problema dell' essenza dell' anima e della 
natura dei sogni e delle visioni (vv. 127-135). 

E precisamente nei versi 112-126 si accenna in par- 
ticolare alle varie dottrine intorno all'origine dell'anima e 
intorno alla sorte che le tocca quando muore il corpo: 

112 Ignoratur enim quae sii natura animai, 

nata sit^ an cantra nascentibus insinuetur^ 
et simul intereat nohiscum morte direm/pta, 

115 an tenehras Orci visat vastasque lacunas^ 
an pecudes alias divinitus insìnuet se^ 
Ennius ut noster cecinit^ qui primus amoeno 
detulit ex Helicone perenni fronde coronam, 
per gentis Italas kominum quae darà clueret ; 

120 etsi pr aeterea twmen esse Acherusia tempia 
Ennius aefernis exponit versihus edens^ 
quo ncque permanent (1) animae ncque corpora nostra^ 
sed quaedam simiilacra modis pallcntia miris ; 
unde sibi exortam semper fiorentis Homeri 

125 commemorai specian laerimas effundere salsas 
coepisse et rerum naturam expandere dictis (2). 

Quanto all' origine dell' anima, Epicuro sosteneva che 
essa era nativa {nata)-^ ma altri invece la credeva entrata 
già fatta nel corpo aL momento della nascita (an contra 



(1) Mi pare qui perfettamente accettabile la lezione già proposta 
dal GoBEL (permanent è cong. pres. da permanare), che è la più 
ragionevole correzione del permaneant dato dai codici. Ne so ve- 
dere in qual modo tale correzione urti, come dice il Giussani, con- 
tro il senso di permanare. 

(2) In questi versi, come in quelli che citerò più innanzi, mi 
attengo alla lezione e alla grafia data dal Giussani (De rerum na- 
tura^ Torino, Loescher, 1896-I898j. 



— 76 



— 77 — 



nascentlbiis insinuetur). Quanto alla sorte che V aspettava 
al morire del corpo le opinioni invece erano tre: Tepicu- 
rea, che V anima si dissolvesse col dissolversi degli atomi 
corporei (siìnnl intereat nohisciim morte dirempta) ; la 
popolare, che scendesse all'Orco, o Ade o Averno [te- 
nehras Orci visat vastasqne lacunas) ; la pitagorica, che 
passasse per virtù divina nel corpo di altri animali (pe- 
cudts alias divinitiis insimiet se). Le due ultime però 
non erano in contraddizione fra loro ; tanto è vero ap- 
punto che Ennio, nel sogno famoso degli Annali, pur 
esponendo la teoria pitagorica, ammise altresì l'esistenza 
dell'Ade e dei templi Acherontei, ai quali però discen- 
deva non già l'anima (questa passava — subito? — in 
altri corpi), ma nn' ombra, come a dire un doppio, del- 
l'anima stessa, di mirabile pallore: come quella precisa- 
mente che egli narrava gli fosse apparsa nel sogno — 
doppio dell' anima del divino Omero — che, piangendo a- 
mare lagrime, gli svelò l'essere delle cose. 

E dunque evidente, per questo accenno alla dottrina 
psicologica epicurea in contrapposizione con quella di altri 
filosofi ed anche di Pitagora, che nel terzo libro di 
Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo — e 
lo è infatti esaurientemente — la teoria pitagorica della 
metempsicosi (1). 

•4. Ma non v' è forse cenno d' un' altra concezione che 
fu propria di Pitagora e dei suoi seguaci ; voglio dire 
della concezione dell' anima - armonia? 



E un fatto che il poeta, nel terzo canto, prima di ac- 
cingersi a determinare la natura materiale - atomica del- 
l' anima nelle sue due distinzioni di animus ed anima^ 
confuta una dottrina — certo ancor diffusa ai suoi gior- 
ni — che negava 1' esistenza dell' anima, o meglio le ne- 
gava una consistenza sua propria, non pure extracorporea, 
ma nel corpo stesso, concependola soltanto come una spe- 
cie di armonia delle funzioni organiche: 

r 

98 sensum animi certa non esse in parte locatuni^ 

rerum habitum quendam vitalem corporis esse^ 

100 harmoniaìn Orai quam dieunt^ quod faciat nos 
vivere cum sensu^ nulla cuìu in parte siet mens : 
ut bona saepe valeiudo cum dicitur esse 
corporis j et non est tamen haec pars ulta valentis, 
sic animi sensum non certa parte reponunt. 

Ora chi, prima di Epicuro, aveva svolto cosiffatta dot- 
trina, che anche ai tempi di Platone e di Aristotile era 
tanto diffusa da far sentire all' uno e air altro (1) la ne- 
cessità di confutarla ? Pitagora e i suoi seguaci, e spe- 
cialmente, fra questi, Filolao (2), avevano bensì accettato 
e svolto il concetto dell' anima-armonia; ma che però tale 
concetto non potesse avere pei Pitagorici il senso datogli 



(1) La cosa, del resto, è tanto più evidente se si pensi elio Lu- 
crezio compose verosimilnìente questa parte del proemio del primo 
libro, quando già aveva composto il terxo. Si veda in proposito 
la paziente e lucida analisi del Giussani voi. II, pag. 4-5). 



(1) Platone, Fedone, e. XXXVI e XLI - XLY; Aristotile, DeU 
Vanima, I, 4. Dopo Aristotile la svolsero ancora, accettandola e 
difendendola, Aristosseno talentino (Cicerone, Tusculane^ I, 19) e 
DicEARCo di Messina (Cicerone, ibidem, I, 20). 

(2) La si fa risalire veramente a Parmenide e a Zenone d' Elea 
(Dioti. Laerzio IX, 29); ma che debba riconoscersi anche come 
propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel suo 
Philolaos, (p. 177); tanto è ciò vero che nel dialogo platonico chi 
la espone è Simmia, discepolo di Filolao, ed Echecrate pitagoreo 
la riconosce per propria dottrina {Fedone, e. XXXVIII). 



— 78 — 



— 79 — 



il 



I 






\ 



qui da T ucrezio e neppure quello datogli da Simmia nel 
dialogo di Platone, è appena necessario di dire, se esso 
si accordava — nel sistema di quella scuola — con l'altro 
della metempsicocji, ossia con il concetto della preesistenza 
e immortalità dell' anima stessa. L'ironia lucreziana dun- 
que dei versi 131-135: 

... 7'edde harinoniai 
Tìomen^ ad organicos alto delatuin Heliconi 
— sive aliunde ipsi porro traxere et in illarn 
trastiilerunt^ proprio quae tum res nomine egehat — 
quidquid id est habeant. . 

— come le argomentazioni di Socrate nel Fedone — era- 
no volte non contro la teoria di Pitagora, ma contro 
quella interpretazione e limitazione materialistica di essa, 
per cui r anima era ridotta a semplice fiuizione del corpo. 
Ed è ben naturale che - così limitata e interpretata — la 
combattessero, insieme con gl'idealisti platonici, anche i 
materialisti epicurei : poiché per gli uni rappresentava la 
negazione della essenza individuale e quindi della immor- 
talità dello spirito, e per gli altri, significava l' inesisten- 
za di quella quarta sostanza atomica (la sostanza senso- 
riale) onde essi concepivano costituita (insieme con le altre 
tre sostanze elementari aria, freddo e caldo) 1' anima u- 
mana (1). Si comprende quindi che Lucrezio, prima di 



(1) Per Epicuro V anima è beusì nativa e mortale, ma è però, 
fin che vive il corpo, sostanziata di materia atomica ed è parte 
dell' essere umano — ne più nò meno di quel che ne siano parte 
le mani, i piedi, gli occhi, ecc. (Lucr. Ili, 94-97) — e localizzata 
nel petto, di dove si diffonde per tutto il corpo, è adibita alla re- 
cezione dei moti e delle immagini sensoriali e alle funzioni intel- 
lettuali : sì che ammettendo la teoria delTanima-armonia veniva a 
cadere tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle iin- 



accingersi alla esposizione della teoria psicologica, confu- 
tasse questa dottrina, che non solo negava all' anima una 
sua localizzazione nel corpo, ma veniva in ultima analisi 
a negarne V esistenza (1). 

5. Dimostrata la materialità dell'animo (vv. 94-416), Lu- 
crezio passa a dar le prove — ventotto in tutto — della 
sua mortalità. Ora vi è un gruppo di queste che combat- 
tono il concetto della immortalità sotto V aspetto non già 
del persistere dell' anima dopo la morte, ma del suo pree- 
sistere alla nascita del corpo e della possibile pluralità 
delle sue esistenze terrene (vv. 668-710, 711-738, 739-766, 
774-781). 

Qui siamo evidentemente nel campo della metempsicosi, 
e occorrerà quindi esaminare quest' altro centinaio di versi. 

Veramente non soltanto i Pitagorici — con la dottrina 
della metempsicosi — ammisero, fra gli antichi, un' esi- 
stenza pre-terrena dell' anima, ma anche Platone e gli 
Stoici; e inoltre, come ho già osservato piìi volte, tale 
dottrina non fu che la elaborazione filosofica d' una cre- 
denza largamente difi'asa nelle leggende popolari, nella 
poesia, neir arte, e rafforzata se non derivata, dagli in- 



magini, dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni (anche queste 
vere immagini materiali^ che V anima riceve dal di fuori, ma non 
produce essa stessa. 

(1) Cicerone infatti, parlando di Aristosseno e di Dicearco, dice 
appunto che essi con la loro teoria venivano a dimostrare « nikil 
esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum ùiane^ frustraque 
ammalia et animantes appellati, neque in homine inesse animum 
vel animam nec in bestia » {Tuse,, I, 21), e più esplicitamente 
più sotto (31): « Dicearchus quidem et Aristoxenus. .., nullum 
omnino animum esse dixerunt ». 



\ 



_ 80 — 



segnamentì religiosi che s' impartivano nei Misteri. Sì che 
gii argomenti di Lucrezio — possiamo affermarlo con si- 
curezza — non sono escìimvamente contro i Pitagorici. 
Ma poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e fra 
il popolo tale credenza, e se pure la derivò, come vo- 
gliono, dall'Egitto, fu veramente il primo che le diede 
veste filosofica, e su di essa fondò il suo sistema dottri- 
nario, dal quale mossero, dopo di lui, e Platone e gli 
altri, così dobbiamo pur esaminare le ragioni del poeta 
epicureo, che venivano, in sostanza, a battere in breccia 
ed a scalzare uno dei capisaldi della filosofia pitagorica. 
Gli argomenti che Lucrezio adduce contro V opinione 
della preesistenza dell'anima sono quattro, svolti in quattro 
successivi e continui gruppi di versi, e rincalzati poi — 
dopo conchiusa questa parte fondamentale della sua trat- 
tazione — nella meravigliosa invettiva contro il timore 
della morte. 

a) Il primo argomento (vv. 668-676) è desunto dalla 
mancanza in noi di ogni ricordo dell' esistenza anteriore 
alla nascita (1): se la nostra anima è esistita un'altra volta 
e quindi ò entrata nel corpo al momento della nascita (2), 
perchè non siamo assolutamente in grado di ricordarci 
del tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri- 



fi) C è bisogno di rammentare clie appunto dalla rorJtà di tale 
ricordanza -- rappresentata non già dalla reminiscenza di parti- 
colari di una anteriore vita terrena, ma dalla inoppugnabile e in- 
controvertibile esistenza delle idee innate nella mente di ciascun 
uomo — Piatone deduceva la necessità d'un 'anteriore esistenza 
dell'anima e quindi della sua immortalità? ^^Vedansi nel Fedone 

i capitoli 18-22). 

2) È, come si vede, io svolgimento di quel che ha accennato 
nel verso 113 del proemio al primo cauto. 



— 81 



membranza delle nostre azioni passate? Dunque l'anima 
ha mutato così da potere perdere interamente la facoltà 
di ricordare le proprie vicende ? Se così è, questo non 
differisce molto dalla morte ; bisogna quindi concludere 
che r anima di prima è morta e che quella che abbiamo 
in questa vita è stata creata proprio in questa vita (1). 
Ora si noti che il poeta non trae, dalla mancanza della 
memoria del passato, la conclusione che sembrerebbe le- 
gittima : « dunque 1' anima non è preesistita » ; ma dice 
soltanto che — dato pure che potesse essere material- 
mente esistita — il fatto di non serbar coscienza del 
passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità 
(personalità infatti non è altro che persistere di una me- 
desima coscienza), cioè che è morta da quella che era, per 
diventare un'altra. 



670 



675 



Praeterea si immortalis natura animai 
constai et in corpus naseentihus insinuaiur, 
cur super ante actam aetateni meminisse nequimus 
nec vestigia (jestarum rerum ulta tenemus ? 
nani si tanto operest animi mutata potestas, 
omnis ut actarum exciderit retinentia rerum, 
non, ut opinor, id a leto iam longiter errat; 
quapropter fateare necessest quae fuii ante 
interasse j et quae nune est nunc esse creatam. 



Insomma in questi versi non si nega la possibilità che 
siano preesistiti, e quindi che esistano in eterno i com- 
ponenti materiali dell' anima, ma bensì si nega il persi- 



fi) Su questo argomento della mancanza di ogni ricordo, come 
vedremo fra poco, Lucrezio ritorna ancora, prima con un semplice 
cenno (al v. 766) e poi più innanzi (vv. 845 e seguenti) accennan- 
do alla possibilità della rinascita dell'anima e del corpo. 



Q 



: » 



— 82 — 

stere in eterno delJa coscienza, che, per Epicuro, deriva 
dai moti atomici dei quattro componenti dell'anima. 

D'altra parte, continua il poeta, se 1' energia vitale del- 
Tanima entra in noi quando, formato il corpo, usciamo 
alla luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa — 
che si vede che è cresciuta col corpo e con le membra 
immedesimandosi nel sangue, — ma dovrebbe, non fusa 
col corpo, vivere a se come in una prigione. Ora, poiché 
avviene proprio il contrario -- e cioè l'anima è diffusa 
per tutto il corpo, sì che ogni parte di esso sente, e cre- 
sce e si sviluppa col corpo stesso — segno è che non è 
en tralci in esso perfetta, e che, i)artecipando delle vicende 
del corpo, nasce (e quindi anche muore) con esso. E am- 
messo pure che, perfetta e in se raccolta air atto di en- 
trare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogui sua parte 
appena entrata, questo equivari'ebbe a uno scomporsi e 
dissolversi per cambiar natura: insomma equivarrebbe a 
un morire per rinascere tosto altra da quella di prima 
(vv. 677-7] 0). 

b) Un altro argomento pare al poeta di poter trarre 
dal fatto del formarsi dei vermi onde pullula il cadavere 
in putrefazione. Se Tanima che li avviva non è costitui- 
ta, come pensava Epicuro, da residui frammentari dell'ani- 
ma primitiva, (il che dimostra che fan ima stessa, potendo 
frazionarsi, è peritura e mortale) bisognerebbe ammette- 
re — ed eccoci ancora alla metempsicosi — che nei vermi 
si incarnino animo preesistenti; nel (jual caso, lasciando 
pure a parte la stranezza che mille subentrino là di dove 
una è partita, o esse stesse si formano il pi'oprio corpo 
dalla materia putrescente, o lo trovano già fatto e vi en- 
trano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè, 
piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontanea- 



— 83 — 

mente a rinchiudersi in un carcere corporeo, dove neces- 
sariamente dovranno soffrire; nella seconda varrebbe il 
ragionamento fatto precedentemente che un' anima non 
può entrare, intrecciarsi ed espandersi in un corpo già 
formato senza snaturarsi (vv. 711-738). 

720 quod si forte anintas extrinseeus insinuari 

verìnihus et privas in corpora posse venire 
credis, nec reputas cur nhilia multa animarum 
conveìiiant unde una recesserii, hoc tamen est ut 
quaerenduìn vldeaiur et in discrinien agendu7n, 

725 utru7ìi tandem animae venentur semina quaeque 

vermiculoriim ipsaeque stbi fabricentur uhi sint, 
an quasi corporibus perfectis insinuentur. 
at neque cur faciant ipsae quareve laborent 
dicere suppeditat, ncque enim, sine corpore cum sunt, 

730 sollicitae iwlitani morbis alguque fameque : 

corpus tnim magis his vitiis adfine laborat, 
et mala multa animtts contage fungitur eius. 
sed tamen his esto quamvis facere utile corpus 
■ cui subeant: at qua possint via nulla videtur, 

735 haut igitur faciunt animae sibi corpora et artus, 

nec tamen est utqui perfectis insinuentur 
corporibus: ncque enim poterunt suptiliter esse 
conexae, ìieque consensus contagia flent. 

c) In terzo luogo, se veramente ci fosse la metem- 
psicosi, perchè non dovrebbe, nelle sue peregilnazioni, 
un'anima di leone, per esempio, capitare in un cervo o 
quella d'un avoltoio in una colomba, e viceversa, per 
modo che ne nascessero leoni e avoltoi timidi, cervi e 
colombe feroci ? Invece i caratteri' psichici delle singole 
specie si ereditano e sono costanti in esse al pari dei 
caratteri tisici. Se l'anima immortale mutasse solo i corpi, 
questa costanza non vi sarebbe o, almeno, soffrirebbe 
molte eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima che, mu- 



84 — 



— 85 — 



tando corpo, muta carattere, allora vuol dire che essa non 
rimane la stessa, che cambia natura, insomma che muore 
per rinascere un'altra (vv. 739-751): 

Denique cur acris violentia triste leonuni 
740 seminium sequiiur, volpes dolus, et fuga cervis 

a patribus da tur et patribus pavor incitat artuSy 
et iam cetera de genere hoc, cur omnia membris 
ex ineunte aevo generascunt ingenioqiiey 
si non, certa suo quia semine seminioque 
745 vis animi par'iter crescit cum corpore tato ? 

qiiod si immortalis foret et ìnutare solerci 
cof'pora, pennixtis anivtantes moribus essent, 
effugeret canis Hgrcano de semitie saepe 
cornigeri incursum cervi, tremeretque per auras 
750 a'éris accipiter fugicns veniente coluuiba, 

desiperentque homines, saper ent fera saecla ferarum. 
illud enim falsa fertur ratione, quod aiìint 
immortale?n anìmam mutato corpore flecti : 
quod ìnutatur enim dissolvitur, interit ergo. 

Se poi si volesse invece sostenere la metempsicosi solo 
entro i limiti di ciascuna specie, e dire che un' anima 
umana non s'incarna successivamente in altro che in uomi- 
ni (1), allora si potrebbe sempre chiedere: perchè può, di 



(1) Così, a mio avviso, svolse il concetto delle trasmigrazioni 
deir anima la scuoia pitagorica: limitandolo cioè entro i contini 
della specie umana. Che se quasi tutte le testimonianze attribui- 
scono ai seguaci di Pitagora 1' interpretazione più lata a cui Lu- 
crezio accenna nei versi or ora citati, tali testimonianze si può 
dimostrare che o sono esagerate per amor di polemica o di satira, 
sono errate per confusione delia metempsicosi pitagorica con 
quella egiziana od orientale in genere, o, in qualche caso, possono 
spiegarsi dando un signitivato simbolico uì passaggio dell'ani- 
ma nel corpo di un animale. In tale categoria rientra, per me, la 
testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato degli Annali, fa- 



saggia che era, diventare sciocca, dal momento che non 
s' è mai visto un fanciullo assennato né un piccolo pu- 
ledro esperto come un robusto cavallo ? Forse che la men- 
te in un corpo tenero, si fa tenera anch' essa ? Allora 
dunque non è immortale se, trasmutando corpo, perde in 
tal modo la vita e il sentimento di prima (vv. 758-766): 



760 
762 



765 



Sin animas hominum dicent in corpora semper 
ire humana, taìnen quaeram cur e sapienti 
stulta qiteat fieri, nec prudeus sii puer ullus, 
nec taiìi doctus equae pullus quam fortis equi vis ? 
scilicet, in tenero tenerascere corpore mentem 
confugient, quod si iam fit, falcare necessest 
mortalem esse animam, quoniarn mutata per artus 
tanto opere amittit vitarn sensumque priorem. 



d) Infine — e siamo così aUa chiusa, di sapore 
umoristico, di questa serie di argomentazioni contro la 
preesistenza e la metempsicosi — non è cosa oltremodo 
ridicola, dice il poeta, che ad ogni accoppiamento e ad 
ogni parto di animali stiano lì pronte delle anime, e, in 
numero innumerevole, immortali aspettino membra mor- 
tali, e lottino e gareggino a chi prima e di preferenza 
riesca a penetrare ? Se pure non e' è fra le anime il patto 
che chi prima arriva a volo entri per prima e così non 
ci sia fra loro nessuna lotta violenta (vv. 774-781) : 



775 



Denique conubia ad Veneris partusque ferarum 
esse animas praesto deridiculum esse videtur, 
expectare immortalis mortalia membra 
innumero numero, certareque praeproperanter 



cendo esporre dall' anima di Omero la dottrina di Pitagora, le fa 
anche dire d'essere divenuta un pavone (< pavone » qui significa 
« cielo »). Perciò credo prettamente pitagorica, e non stoica, la 
dottrina della metempsicosi che svolge Virgilio nel sesto dell'Eneide. 



il 



1 



780 



86 



Inter se quae prima potissimaque insinuetur ; 
si non forte ita sunt ani mar um foedera pacta^ 
ut, quae prima volans advenerit, insinuetur 
prima, neque inter se contendant virihus hilum. 



6. Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle cre- 
denze e dottrine pitagoriche: ma poiché subito dopo, in 
quella parte di questo stesso terzo canto in cui si dimo- 
stra la vanità del timore della morte, è formulata V ipo- 
tesi della resurrezione delia medesima anima nel mede- 
simo corpo, e tale ipotesi è stata da qualcuno identificata 
con 1' analoga dottrina pitagorico-stoica della palingenesi, 
dobbiamo esaminare anche questo passo. 

Continuata e compiuta dunque la dimostrazione della 
mortalità dell'anima, il poeta ne trae subito la legittima 
conseguenza che la morte non ci riguarda per nulla (v. 828- 
829). Come non abbiamo sentito niente di ciò che è acca- 
duto prima della nostra nascita ([>erchò V anima nostra 
non esisteva), cosi non sentiremo nulla dopo morti, per- 
chè una volta avvenuto il distacco fra corpo ed anima 
(e la conseguente dissoluzione di questa) noi, che esistia- 
mo solo per r intima unione di entrambi, non esisteremo 
e quindi non sentiremo più (vv. 830-840). E giunto a 
questo punto conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi, 
come infatti, sembra, si fermò in una prinia redazione 
del poema, nella quale seguivano a questa dimostrazione 
i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piì^i tardi, 
tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui ò formulata la 
suddetta ipotesi, che dobbiamo appunto esaminare (1). 



(1) Accetto senz' altro le conclusioni del Giussani, sì por 1' in- 
terpretazione dei vv. 860-867, sì per la composizione di tutto que- 
sto interessante brano. Rimando perciò il lettore all'opera già ci- 
tata, voi. Ili, pp. 106-107. 



j 



..? 






- 87 - 

• 

Poiché in essa è detto anzitutto che se pure, dopo 
avvenuta la separazione, l'anima avesse facoltà di sentire, 
anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi, 
che siamo solo in quanto anima e corpo sono stretti in 
un'esistenza unica (vv. 841-844). 

La quale ipotesi peraltro (che V anima senta staccata 
dal corpo) s'intende bene da tutto quel che il poeta ha 
detto precedentemente, che non era assolutamente ammis- 
sibile (1), perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste, 
consistendo la morte, per lui, nel rompersi del legame 
tra corpo ed anima e nell'immediato dissiparsi degli ato- 
mi di questa, appena rimasta priva del suo coibente. 

Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di più 
poteva apparire ad alcuno n(m del tutto in contrasto — 
come la precedente — con la dottrina epicurea; l'ipotesi 
cioè di un possibile ricrearsi materialmente identico del 
nostro essere, anima e corpo. Anche in questo caso però 
la morte non ci riguarderebbe affatto per l' interruzione 
della coscienza personale fra le due esistenze. ¥j tale ipo- 
tesi appunto il poeta svolge nei versi 845 e seguenti, in 
questo modo : 



(l) Il Giussani ha creduto invece di poter sostenere che l'ipotesi, 
per quanto strana, non è però in contraddiziono assoluta ~ in a- 
stratto — con la teoria epicurea. Ora a me le sue ragioni non 
sembrano buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio abbia 
formulata un' ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina 
d' Epicuro : come poteva infatti pensare che una qualsiasi persi- 
stenza del sentire dell' anima fosse possibile, dopo il distacco dal 
corpo, se per lui l'anima non poteva assolutamente esistere fuori 
del corpo che la tiene unita ? Perchè dunque Lucrezio ha formulata 
l'inverosimile ipotesi ? Forse unicamente come ipotesi di transizio- 
ne alla successiva; se pure non si tratta qui di un'argomentazione 
per absurdum. 



i-: 



— 88 — 

« 

845 Nec, si materiem nostrani colle gerii aetas 

post obitum rursumque redegerit ut sita nane est, 
atque iterum nohis fuerint data lumina vitae, 
pertineat quicquarr? famen ad nos id quoque facttirn, 
interrtipta' semel cunt sit repetentia ìiostri ; 

850 et nunc nil ad nos de nohis attinet, ante 

qui fuDNu^, ìieque iam de illis nos adficit angor, 
nam cum r espia ias immensi temporis oìune 
praeteritum spatium, tum motìts matcriai 
mnltiìnodis quam sintj facile hoc adcredere possis, 

855 semina saepe in eodem, ut nunc sunty ordine posta 

haec eadem, quihus e nunc nos sumus, ante fuisse : 
nec yneniori tamen id quimus reprehendere niente : 
inter enim iectast vitai pausa, vageque 
deerrarunt passim motus ab sensibus omnes. 

Ora a prima vista questa ipotesi potrebbe apparire 
identica a quella già formulata nei versi 668-676, dove 
si fa pui cenno della interruzione della coscienza. Tanto 
che si è voluto da alcuno vedere in questi versi un'allu- 
sione alla dottrina dei Genetliaci, i quali credevano che 
nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la mede- 
sima anima rivivessero insieme (1) e ciò dipendentemente 
dalla dottrina della palingenesi universale che era propria 
dei Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità qui non si 
tratta punto di questo, poiché mentre in quei versi si 
parla del rinascere della medesima anima in nuovi corpi, 
e nella dottrina dei Genetliaci si parla del ricongiungersi 
dell'identica anima e dell'identico corpo (nel!' un caso e 
neir altro però 1' anima non ha mai perduto la sua perso- 
nalità), qui invece si considera il caso di una duplice 



— 89 — 

creazione ex novo per accozzamento degli stessi atomi, 
cioè si considera la possibilità della rinascita d' un iden- 
tico aggregato atomico corporeo-psichico nel rispetto della 
teoria epicurea. Che poi ciò fosse legittimo e logico è 
un'altra quistione (1); ma sta di fatto che Lucrezio for- 
mula r ipotesi secondo la logica del sistema di Epicuro. 

7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo ve- 
duto che il nostro poeta accenna a quattro diverse opi- 
nioni intorno all'anima: 1^) che essa non esiste a sé, ma 
risulta dall' armonia delle funzioni organiche (teoria di 
Aristosseno e Dicearco); 2^) che essa nasce e si distrug- 
ge col corpo, ma ha una propria ubicazione neir organi- 
smo umano (nel petto) e risulta di quattro elementi (moto, 
caldo, freddo, sostanza atomica sensoriale) (teoria epicu- 
rea); 3^) che essa sopravvive al corpo e scende nell'Ade, 
donde può uscire per apparire agli uomini (credenza 
popolare); 4*) che essa, non solo sopravvive al corpo, ma 
è preesistita ad esso e può incarnarsi più volte. E abbia- 
mo veduto come quest'ultima dottrina, della quale abbia- 
mo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata in 
modi diversi: a) l'anima immortale passa attraverso mol- 
teplici esistenze, cambiando specie animale (teoria egiziana); 
b) l'anima immortale passa attraverso molteplici esistenze, 
ma entro i limiti della propria specie e conservando la 
propria identità personale (teoria pitagorica-platonica-stoica); 
e) l'anima può bensì rinascere, magari neiridentico corpo. 



(1) Il primo a pensar questo è stato l'editore inglese di Lucre- 
zio, il Munro, il quale cita il passo di S. Agostino {De civ. Dei 
XXII, 28) che ho già riportato al principio del Gap. III. 



(1) L'ha posta con molta sottigliezza il Giijssani (op. cit. pa- 
gina 105-106). Ma si veda anche quello che osserva in proposito il 
Pascal nel suo scritto « Morte e resurrezione in Lucrezio » pub- 
blicata nella Riv. di Filologia classica dell'ottobre 1904 e ristam- 
pato nel volume Or accia capta, pag. 67 e seguenti. 



IH 



— 90 — 

senza però conservare la propria identità personale (ipo- 
tesi (1) epicurea-lucreziana). 

La teoria b poi alla sua volta fu diversamente svilup^ 
pata, poiché vi era chi sosteneva che l'anima potesse 
bensì reincarnarsi, ma in corpi sempre nuovi; chi invece 
che si reincarnasse nei medesimo corpo, e ciò in atti- 
nenza a una- dottrina più generale, anzi universale, se- 
condo la quale non pur T anima e il corpo umano anda- 
vano soggetti a periodici ritorni aihi vita, ma tutto Tuni- 
verso si distruggeva e si ricreava perfettamente identico 
(pitagorici, stoici e genetliaci). 

Con questa teoria però non veniva distrutta la credenza 
nell'Ade o Averne come luogo di espiazione, poiché, se 
anche ranima riviveva, scendeva all' Ade un suo doppio 
(eidolon, simulacnwi) che poteva anche riuscirne (e ve- 
rosimilmente si distruggeva neiratto che Fauima tornava 
a nuova vita terrena) (Ennio). 

Quanto alla teoria pitagorica in particolare, abbiamo 
veduto che Lucrezio ne parla, in sostanza, in due luoghi: 
1") nel proemio del i>rimo libro (vv. 112-126) ; 2'') nella 
conuuazione deiripotesi delhi preesistenza dell'anima nel 
terzo libro (vv. 668-676, 720-738, 739-757, 758-766, 774- 
781); e che non debbono ritenersi affatto come riferi- 
menti a Pitagora né il cenno alla dottrina dell' anima- 
armunia (e. ili, v\. lKvL35j nò l'ipotesi della rinascita, 
come ò formulata nei vv. 845-859 dello stesso libro. 



(1) Ipotesi la credo, e non vera teoria di Epicuro; che, in so- 
stanza, Luciezio la formula come tale, per potere opporrr 1' argo- 
mento per ini capitale della interruzione della coscienza anche a 
coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina, avessero 
potuto pensare ad una eventuale rinascita deli' anima col medesi- 
mo corpo. 






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II. 



Frammenti deìhi dottrina di Pita2;ora desnnti dalle opere 

di Marco Terenzio Varroue. 

1. M. Terenzio Yarrone : suoi scritti pitagorici e sua conoscenza 
del Pitagorismo. - 2. Frammenti della dottrina di Pitagora <ie- 
sunti dalle opere di Varrone: a) La teoria dei numeri e sue ap- 
plicazioni, b) Pitagora e i due fabbri, e) La teoria degli accordi 
musicali, d) La stessa applicata al corso dei pianeti: l'armonia 
delle sfere e del mondo, e) Sua curiosa estensione al decorso del 
puerperio, f) l numeri e la musica in relazione con le pratiche 
della vita. — 3. Altri accenni alla dottrina pitagorica: i quattro 
aspetti delle cose e i quattro elementi ; magia ; metempsicosi; il 
divieto di mangiar fave. — 4. Varrone e gli altri scrittori del 
primo secolo av. Cristo. 



1. _ Veri e propri trattati d' indole pitagorica sappia- 
mo con certezza che compose Marco Terenzio Varro- 
ne di Rieti, il quale, nato nel 116 av. Cr. , morì quasi 
nonagenario nel 27. Eruditissimo in ogni campo del sa- 
pere, fu, appunto per questo, incaricato da Giulio Cesare 
di mettere insieme ed ordinare in Roma una grande bi- 
blioteca, specialmente di opere latine e greche; ciò che 
gli diede agio di allargare e approfondire ancor più le 
sue conoscenze enciclopediche, delle quali si valse per 






; - 92 - 

comporre iunumerevoli opere, trattando dei più svariati 
argomenti, occupandosi d'o^rni genere di ricerche, racco- 
gliendo con cura particolare tutte le tradizioni sacre e 
profane della patria, e dettando pure, a quel che ci ha 
lasciato scritto Quintiliano, un'opera filosofica in versi 
( praecepta sapientiae versibus tradidit) (1). Della sua 
prodigiosa attività e di una ricchissima messe di opere 
letterarie, storiche, filosofiche, scientifiche — si ricordano 
di lui non meno di 74 opere in 620 libri — non ci re- 
stano purtroppo che scarsi avanzi (poco più di nove li- 
bri ) e numerose citazioni, massime dei Santi Padri, che 
da Varrone attinsero largamente notizie d' ogni sorta. Sì 
che siamo quasi air oscuro sul contenuto della maggior 
parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci resta appena 
appena il titolo. Così dei suoi famosi Logistorici, che era- 
no in 76 libri, e contenevano discussioni di argomento 
filosofico con miscela di notizie storiche, conosciamo i ti- 
toli di alcuni, nei quali si doveva trattare più o meno 
largamente di filosofia pitagorica : tali sono V Attico o dei 
mimeri (Attieus sive de ìiumeris) il Tuberone o dell' ori- 
gine umana (Tubero seu de origlile humana) il Gallo o 
delle meraviglie (G alias de admirandis), il libro de sae- 
mlis e r altro de philosophia; ma quale ne fosse preci- 
samente il contenuto non sappiamo. Così, d' altra parte, 
ci è rimasta notizia d' un' opera in nove libri intorno ai 
principii dei numeri [de principiis numerorum), la quale, 
messa accanto alf Attico già citato e alla testimonianza 

(1) Intorno a Varrone si veda l'opera di Gaston Boissief, Elude 
sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri Antiquitatum. 
rerum, divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti Io studio 
dall' Agahd nei Jahrbucher f. class, Philologie, 24ter Supplement- 
band I Heft, Leipzig, 1898. 



— 93 — 

di Gelilo (Notti Attiche 3,10), che riferisce come Varrone 
trattò in maniera oltremodo compiuta del numero sette- 
nario ( Varrò de numero septenario scripsit adìuodum 
eonquisite)^ prova che il grande reatino dovette conoscere 
profondamente la teoria pitagorica e specialmente la dot- 
trina fondamentale dei numeri (1). 

2. — È veramente un peccato che di tali opere non 
resti quasi nulla, giacche da esse avremmo forse potuto 
trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina, 
che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica 
di Pitagora. Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto, 
vale a dimostrarci che larghe e geniali applicazioni potè 
avere per opera del Maestro e dei suoi seguaci la teoria 
stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili scoperte 
nel campo delle scienze sperimentali. 

a) Poiché le investigazioni matematiche dei Pitago- 
rici non furono soltanto rivolte alla ricerca delle proprie- 
tà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell' aritmetica 
e della geometria, trovarono le più nuove e più larghe 
applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni na- 
turali. 

Una delle prime e forse la piìi importante scoperta di 
Pitagora fu dovuta a una di quelle felici intuizioni che, 
in ogni tempo, sono state il privilegio del genio; intendo 
parlare della determinazione matematica degli accordi, che 
poi dalla musica, applicata a particolari fatti della natura. 



(1) Già il Rathoeber {Orossgriechenland und Pythagoras, Gotha 
1855, p. 423) scrisse : « Dem M. Terentius Varrò aus Reato, der 
aufgeìdàrt ilber Pythagoras war, bot sein Werk hebdomades Gele- 
genheit zur Erwahnung dar ». 



— 94 — 



— 95 



portò a molte curiose osservazioni come quelle che ri- 
guardano le due diverse specie di parto (a termine e 
settimino), e, applicata all' astronomia, portò alla teorica 
deir armonia delle sfere e alla concezione dell' universo 
come di un tutto perfettamente armonico (kósrnos). 

h) Fu un caso che fece volgere la mente speculativa 
di Pitagora alla ricerca della teoria matematica degli ac- 
cordi musicali, la cui determinazione, prima di lui, era 
affidata semplicemente all'orecchio degl'intenditori. Pas- 
sando un giorno per istrada accanto a due fabbri che 
martellavano alternatamente un ferro sopra l'incudine, 
egli fu colpito dai suoni cadenzati e armonici dei mar- 
telli : quelli acuti dell' uno rispondevano così giustamente 
a quelli gravi dell' altro, che, entrando ritmicamente nel 
suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo accordo. 
Ebbe così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno 
al quale già da qualche tempo lavorava col pensiero, e 
non si lasciò sfuggire 1' occasione per chiarirlo. Avvici- 
natosi ai fabbri, osserva più da presso il loro lavoro e 
nota i suoni che erano prodotti dai colpi di ciascuno. 
Credendo che la loro diversità di tono dipendesse dalla 
diversa forza degli operai, fa che essi si scambino i mar- 
telli : e si accorge che invece essa dipende da questi. 
Allora volse tutta la sua attenzione a determinare con 
esattezza i due pesi e la loro diflerenza, poi fece fare alti-i 
martelli più o meno pesanti di quei due; ma dai loro colpi 
nascevano suoni diversi da quei primi e per di più non 

intonati. 

e) In tal modo capì che l'accordo dei suoni doveva 
nascere da un determinato rapporto matematico dei pesi, 
che cercò subito di calcolare; trovati che ebbe tutti i nu- 
meri che corrispondevano ai pesi dai quali nascevano suo- 



ni intonati, passò dai martelli alle corde musicali : prese 
alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale gros- 
sezza e lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi 
proporzionati a quelli di cui aveva fatto il computo e de- 
terminato il rapporto coi martelli ; fattele risuonare per 
mezzo della percussione, non solo trovò che le corde tese 
da pesi uguali vibravano all'unisono al vibrare di una sola 
di esse, ma ottenne altresì suoni armonici precisamente 
dalle corde i cui pesi stavano in rapporto di 3 : 4 ( oca 
T£aaàpo)v o ènl xplzov o saper tertium), di 2 : 3 (otà TiévTs) 
e di 2 : 4 (Sia Tiaawv). Per averne poi un'altra riprova, 
ripetè r esperienza con alcuni flauti, in questo modo: ne 
fece preparare quattro di calibro uguale, ma di binghezza 
diversa, il primo, poniamo, lungo 6 pollici, il secondo 8 
il terzo 9 e il quarto 12 ; poi facendoli sonare a due a 
due trovò che il primo e il secondo armonizzavano in 
accordo diatessdron (6:8 = 3:4); il primo e il terzo in 
accordo diapènte (6:9 = 2:3) e il primo e il quarto in 
accordo diapason ( 6 : 12 zzz. 2:4) (1). In tal modo egli 
riuscì molto genialmente alla determinazione matematica 
degli accordi, ciò che permise in seguito di estendere e 
perfezionare la teoria della musica. E il caso che lo con- 
dusse alla scoperta non è molto dissimile da quello per 
il quale il Galilei^ dall'osservazione dei movuiienti d'una 
lampada in chiesa, fu tratto a investigare e scoprire le 
leggi della oscillazione del pendolo^ o da quello in virtù 
del quale Newton, per la caduta di un pomo, arrivò a 
scoprire le leggi della gravitazione universale. Tanto è 



(Ij Vedasi la narrazione, desunta da scritti varroniani, in Ma- 
gro big, Oonnn. ad Som/fi ium Scìpionis, II, 1, 9 e Censorino, de 
die natali 10,7. 



lai** . 



— 96 



vero che il genio in ogni tempo e in ogni luogo sa trarre 
partito dalle cose e dai fatti più semplici ! 

il) E una volta messosi su questa via, che mirabile 
serie di investigazioni non seppe escogitare quella pro- 
fonda mente speculativa, che, dall'osservazione di due 
fabbri all'incudine arrivò non pure alle leggi dell'armonia 
musicale, ma a scoprire 1' armonia dei cieli e di tutto 
r universo ! Poiché applicando i suoi calcoli al corso e 
alle distanze degli astri e dei pianeti vaganti fra il cielo 
e la terra — dai quali, secondo lui, era regolato il corso 
della vita e degli eventi umani — trovò che essi avevano 
un moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai toni, e 
suoni, proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accor- 
do, da formare una dolcissima armonia, non però perce- 
pibile da orecchio umano, per la sua forza che supera la 
facoltà del nostro udito. 

Calcolate infatti le distanze dalla Terra a ciascun pia- 
neta in stadi italici di 625 piedi, trovò che dalla Terra 
alla Luna ci sono circa 126000 stadi ; e questo rappre- 
sentava per lui r intervallo di un tono; dalla Luna a Mer- 
curio (Stilbon) calcolò una distanza uguale alla metà, ossia 
un semitono; di qui a Venere, altrettanto; da Venere fino 
al Sole, tre volte tanto, come a dire un tono e mezzo. Il 
Sole quindi distava, secondo lui, dalla Terra tre toni e 
mezzo, formando così con essa un accordo diapente e 
dalla Luna due toni e mezzo, formando un accordo diates- 
sdroìi. Dal Sole poi a Marte (Pyrois) stimava esserci e- 
guale distanza che dalla Terra alla Luna, ossia un tono; 
di qui a Giove (Phaéton), la metà, ossia un semitono; da 
Giove a Saturno, altrettanto, cioè ancora un semitojio; di 
qui finalmente al cielo delle stelle fisse, press' a poco un 
mezzo tono ; e però da questo cielo al Sole poneva un 



FIRMAMENTO 



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— 98 — 

intervallo diatessdron (di due toni e mezzo), e dallo stesso 
cielo alla Terra un intervallo in accordo diapason (di sei 
toni) (1). 

e) Per queste osservazioni e scoperte è ben naturale 
che Pitagora dovesse convincersi che nell' universo tutto 
è regolato dal numero, ossia che nulla vi è di casuale, di 
fortuito, di tumultuario, ma tutto procede da leggi divine 
e da una determinata e determinabile proporzione (2). Sic- 
ché dalla niusica e dair astronomia passando, per esempio, 
alla fisiologia, trovava nel decorso del puerperio ancora 
una riprova della regolarità matematica dei fenomeni na- 
turali. Orbene, la curiosa applicazione che Pitagora fece 
della dottrina dei numeri al piìi complesso e meraviglioso 
dei processi fisiologici, cioè alla generazione, era appunto 
spiegata in una delle opere varroniane su ricordate [Tu- 
bero seti de origine humana), 

Quell' acuto e profondo osservatore infatti avendo stu- 
diato accuratamente il decorso delle due diverse specie di 
parto, 1^mo di sette (settimino) e l'altro di dieci mesi 
lunari (a termine) che avvengono rispettivamente 210 e 
274 giorni dopo la concezione, e avendo determinato i 
numeri corrispondenti ai giorni nei quali, per ognuno dei 
due parti, si compiono i mutamenti piìi importanti — del 
seme in sangue, del sangue in carne, della carne in for- 
ma umana — trovò che il parto settimino è in rapporto 
col numero 6 e quello a termine col numero 7; non solo, 
ma che i numeri suddetti, tanto neir uno quanto nell'al- 
tro, si trovano nello stesso rapporto degli accordi musi- 
cali. Ed ecco in qua! modo. 



(1) Censorino, de die natali^ cap. 13. 

(2ì MICROBIO, Comm, in Somnium Sctp, II, 11, 7 e 4, 14. 



'*4 ^«i 



Nel parto di sette mesi, per i primi sei giorni dopo la 
fecondazione, V umore che è contenuto nell' utero è di 
aspetto lattiginoso ; nei successivi otto giorni è di aspetto 
sanguigno. Il rapporto fra 6 e 8 è, come abbiamo veduto 
più volte, quello precisamente che forma accordo diatessd- 
ron (6 : 8 r- 3 : 4). Nel terzo stadio si hanno 9 giorni, 
in cui comincia la trasformazione dell' umore sanguigno 
in carne : e il 9 col 6 forma il secondo accordo diapènte 
(6:9 = 2:3); finalmente nei 12 giorni seguenti si ot- 
tiene il corpo gicà formato : e il rapporto di 12 con 6 
forma il terzo accordo diapason (6 : 12 c= 1 : 2). Questi 
quattro numeri 6, 8, 9, 12 sommati insieme formano 35 
giorni, i quali moltiplicati per 6 danno appunto il nu- 
mero totale dei giorni di durata della gestazione, ossia 
210. Nel parto a termine invece, con analogo ragiona- 
mento, il calcolo era basato sui numeri 7, 9 1/3, 10 1/2, 
14, che sommati insieme danno 40 e una frazione; 40 
moltiplicato per 7 dà 280, da cui detraendo 6 si ha 274. 
Vale a dire che nel parto di dieci mesi il mutamento 
del seme in umore latteo avviene in sette giorni anziché 
in sei, e la formazione del corpo è già avvenuta <lopo 
40 giorni interi, che moltiplicati per 7 danno 280, cioè 
quaranta settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo 
giorno dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei 
giorni, onde ne restano 274. Tanto il 210 che il 274 so- 
no veramente due numeri pari, laddove Pitagora dava 
speciale importanza al numero dispari, tanto da ritenere — 
in virtù delle sue molteplici osservazioni — che tutto è 
regolato da esso (1): ciò non pertanto, osserva Censorino 



(1) Macrobio, Saturnal. I, 13, 5; Solino, I, 89; Servio, ad 
BueoL Vili, 75. 



— iOO — 

che riporta tutto questo passo Yarroniano, egli non era 
qui in contraddizione con se stesso, perchè i due dispari 
209 ^ 273 sono bensì compiuti, ma non si compie né il 
210^ né il 274^ giorno in cui il parto avviene; in con- 
formità precisamente di quanto ha fatto la natura sia ri- 
guardo alla durata delF anno (365 giorni più una frazione) 
che a quella del mese (29 giorni più una frazione) (1). 

J^on è il caso di entrare qui in merito al valore in- 
trinseco e alla veracità di siffatte osservazioni. Poiché 
anche se errori vi sono, bisogna naturalmente tener 
conto da un lato della diversità dei mozzi d'indagine e di 
esperimento da oggi a ventisei secoli or sono, e pensare 
dall' altro che molte delle applicazioni della teoria dei nu- 
meri non dovettero neppure essere l' opera diretta di Pi- 
tagora, ma il prodotto delle speculazioni dei suoi seguaci. 
In ogni modo però risulta chiaro dal poco che si ò ve- 
duto sin qui che le speculazioni stesse non rimanevano 
campate nell'aria e nelle nebulosità della metafisica, ma 
trovavano la loro base e la loro ragion d' essere nell' os- 
servazione scientifica dei fatti naturali; sì che fu indub- 
biamente merito di Pitagora e dei suoi discepoli quello di 
aver dato un nuovo impulso alla scienza; e, fatta ragione 
dei tempi, non fu merito piccolo. 

f) Se la teoria dei numeri trovava così mirabili ri- 
scontri nella natura e nei suoi fenomeni, è ben naturale 
che ad essa dovesse pure conformarsi la vita pratica 
degli uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai mi- 
steri e alle profonde verità del Pitagorismo. Ond' è, per 
esempio, che un'altra testimonianza varroniana ci ricorda 



(1) Censobino, de die natali 9 e 11. Si confronti con questo il 
passo di GjLUO, Notti attiche, III, 10, 7. 



-- 101 



la particolare considerazione in cui erano tenuti i così 
detti numeri cubici, al punto che persino nello scrivere 
i Pitagorici ne tenevano conto scrupolosamente badan- 
do di comporre in una sola volta 216 righe o versi 
(216::^ 6 X 6 X 6) e non mai più di tre volte tanto! (1). 

Ora questo è uno di quei particolari che, presi a sé, 
prestano facilmente il fianco al riso e alla satira; ma in 
verità se noi non possiamo spiegarci la cosa in modo ra- 
gionevole, ciò può dipendere dal fatto che non conosciamo 
tutto il complesso della dottrina e della vita pitagorica ; 
poiché è ben possibile che pratiche di questo genere rien- 
trassero neir ambito del sistema per puro amor dell' ordi- 
ne e dell'euritmia, al solo scopo di far sottostare a una 
certa regola anche gli atti minimi e più insignificanti 
della vita ; se pure non si tratta^ qui e in altri casi, di 
esagerazioni dei seguaci o di degenerazioni dei primitivi 
insegnamenti del Maestro. 

Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte quisquilie, è 
ben noto d'altra parte — ed è ancora Varrone che parla — 
quanta parte avesse la musica nel sistema educativo di 
Pitagora, e come egli medesimo se ne dilettasse al punto, 
che ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina al 
suo svegliarsi cantava, accompagnandosi con la cetra, per 
meglio disporre 1' animo ai suoi pensieri divini (2). 

3. — Oltre a queste notizie, che io, valendomi delle 
indagini già fatte da altri (3)^ ho cercato di esporre si- 

(1) ViTRUVio, De architectura V pr. p. 104, 1. 

(2) Censorino, de die natali 12, 4. 

(3) Si veda nell' opuscolo di A. Schmekel, De Ovidiana Pytka- 
goreae doctrinae adumbratione (Gryphiswadensiae, MDCCCLXXXY) 
l'appendice a pagina 76 « Varronis Pythagoreae doctrinae f rag- 
menta continens », 



102 ~ 



stematicamente raggruppandole intorno alla dottrina dei 
numeri, altre se ne trovavano nelle opere di Varrone, 
intorno alla vita di Pitagora, intorno alla sua scuola e ai 
suoi seguaci e intorno ai principii del suo sistema. 

Così Tarrone poneva V esistenza di Pitagora al tempo 
di Tarqiiinin Prisco (1) e quindi implicitamente non ac- 
cettava la tradizione che ^'uiua fosse stato suo scolaro a 
Crotone. A nell'egli attribuiva a Pitagora il merito di 
essersi chiamato per primo filosofo, cioè amante del sa- 
pere, e ricordandone il maestro Ferecide faceva risalire 
già a questo 1' uso di pratiche magiche per indovinare il 
futuro ; cume pure accennava altrove alla sua andata a 
Turio (Sibari^ nella Calabria (2). E Sant'Agostino ci ha 
conservato un altro passo nel quale Varrone, da vero 
romano, esprimeva la sua ammirazione perchè V ultima 
cosa che Pitagora insegnava ai suoi discepoli, quando già 
fossero perfetti, sapienti e felici, era quella del governare 
la cosa pubblica (3). 

Appartiene al libro quinto deir opera intorno alla lin- 
gua latina un brano in cui Varrone afferma che Pitagora 
insegnava « due essere i principii d' ogni cosa, come ti- 
« nito e infinito, bene e male, vita e morte, giorno e 
« notte. E quindi parimenti due i modi di essere : stato 
« e moto; ciò che sta fermo o si muove, corpo; il dove 
<?: si muove, spazio; il quando si muove, tempo : ciò che 
« vi è nei movimento, azione; e avvenire appunto perciò 
« che quasi tutte le cose siano quadripaitite od eterne, 
« poiché né può mai esservi stato tempo se non preco- 



ci) S. Agostino, de civitate dei XVIII, 25. 

(2) ibidem, XVIII, 37 e Vili, 4; Tertulliano, dean, 28; Apol. 46. 

(3) S. Agostino, de ordine II. 20. n4. 



— 103 — 



« duto da moto, — se tempo è appunto T intervallo fra 
« un moto e l'altro — ; né moto senza spazio e senza 
« corpo, perchè Puno (il corpo) è ciò che si muove e 
* r altro (lo spazio) il dove; ne può mancare Tazione dove 
<^ e' è movimento; onde le due coppie di principii : spazio 
« e corpo, tempo e azione » (1). Altrove ci ricorda Var- 
rone un altro pensiero fondamentale di Pitagora, assunto 
poi più tardi da Aristotile, quello cioè che V esistenza de- 
gli animali e però anche delPuomo non ha mai avuto 
principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti (2). E 
parimenti faceva risalire a lui quella teoria dei quattro 
elementi (terra, acqua, aria ed etere o fuoco) che comu- 
nemente si suole invece attribuire ad Empedocle di Gir- 
genti, vissuto un secolo dopo (3). Non mancava neppure 
nelle opere varroniane qualche accenno alla teoria pita- 



li) Varrò, de Lingua Latina, V, Il : « Pythagoras Samius aii 
omnium re/rum initia esse hina^ ut fmitum et infinitum^ bonum 
et malum, vitam et mortem, diem. et noctem. Quare item duo, 
status et motus : quod stai aut agitatur^ corpus ; uhi agitatur 
locus; dum agitatur, tempus; quod est in agitatu, actio; quare 
fit^ ut ideo fere omnia sint quadripartita et e a aeterna ^ quod ne- 
que unguam tefupus quin fuerit motus^ eius enÌ7n intervallum 
tempus; ncque motus uhi non locus et corpus, quod. alterum est 
quod movetur, alterum ubi; ncque ubi agitatur, 7ion actio ibi; 
igitur initiorum quadrigae : locus et corpus, tempus et actio ». 

(2) Varrò, de re rustica^ 1, 3 : « Sive enim aliquod fuit prin- 
cipium generandi animalium, ut putavit Thales Milesius et Zeno 
Gittieus : sive contra principium horum exstitit nullum, ut crC' 
didit Pythagoras Samius et Aristoteles Stagirites., necesse est hu- 
manae vitae a summa memoria gradatim descendisse » . Cfr. Cen- 
soRiNO, de die natali, IV, 3. 

(3) ViTRUVio, de architectura, V, 1; Servio, ad Aeneid. VI, 
724; ad Geòrgie, IV, 219; Ovidio, Metamorfosi^ XV, 237 e seg. 
E cfr. Diogene Laerzio, VIII, 25. 



— 104 — 

gorica deir eternità dell' anima (1) e alla sua dottrina della 
metempsicosi (2), a conferma della quale ricordava persi- 
no le sue vite anteriori, essendo stato prima un certo 
Etalide, poi Euforbo, poi il pescatore Pirro e iìnalmente 
Ermotimo (3). Altrove ancora Varrone accennava alle pra- 
tiche di evocazioni dei morti, che del resto erano larga- 
mente usate nell'antichità, come dimostra, fra le altre, la 
rappresentazione di una scena di necromanzia dipinta in 
un monumento cretese, scoperto da poco, che risale al 
tempo pre-omerico (1500-1400 av. Or.) della così detta 
civiltà micenea o minoica (4). 

È finalmente quasi superfluo dire che Varrone non 
mancò di parlare del famoso divieto pitagorico di man- 
giar fave, connesso con la credenza nella metempsicosi 
e con la concezione che Pitagora ebbe della vita post- 
mortale (5). 



(1) Symmaohus, Ep, I, 4. 

(2) Varrò, Sai. Moùpp,, ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello, 
p. 121, 26); Tertulliano, de an. 27 e 34; ad nat. I, 19; S. Ago- 
stino, de civ, dei 18, 45; Sckolia in Lucan. p. 289, 11 e 304, 13. 

(3) Tertclltano, de an. 28, 31 e 34; Sant'Agostino, Trinit. XII, 
24. 

(4) Sant'Agostino, de dv. dei VII, 35 « Quod genus divinatio- 
nis idem Varrò e Persis dìcit aUatum, quo et ipsurn Numam^ et 
postea Pythagonim philosuphum infuni fuisse contnieìnorat ; uhi 
adhihifo sanguine etiam inferos perhibet sciscitari et nekyoman- 
teìan graece dicit vocari » . Quanto allo rappresentazioni di scene 
di necromanzia si veda, per esempio, Drerup, Omero (Bergamo 
I9l0) a p. 176 e relativa tavola a colori; e si ricordi la famosa 
Nekuia omerica del libro XI dell'Odissea. 

(5) Tertulliano, ApoL 47 ; de anima, 33 ; Plinio, Nat. Hist, 
XVIII, 118, XXXV, 160. 



— 106 — 

4. _ Tali a un di presso le notizie di contenuto pitago- 
rico, che si possono far risalire a Varrone. Data Tesiguità 
delle opere superstiti e la varietà degli autori da cui fu- 
rono raccolte, esse sono slegate e frammentarie, ma tali 
però da farci ancora una volta rimpiangere la perdita 
quasi totale dell'enciclopedia varroniana, con la quale si 
è certo perduto per sempre un ricco tesoro di notizie 
utili e importanti per la storia del Pitagorismo neiranti- 

chità classica. 

Ma poiché del materiale già sistematicamente raccolto 
da Varrone, come delle sue speculazioni e delle sue ri- 
cerche storico-filosofiche debbono essersi serviti non poco 
gli scrittori contemporanei o che vissero poco dopo di lui, 
così, continuando a cercare le tracce di Pitagorismo ri- 
maste nelle opere di altri scrittori di questo tempo, po- 
tremo ricostruire e svolgere qualche altro punto della 
dottrina di Pitagora e compiere così il quadro della co- 
noscenza che ne ebbero i contemporanei di Cesare e di 
Augusto. 



III. 



Appio Claudio Fulcro — Cicerone e il « Somiiium Scipioiùs ». 

1. Appio Claudio Fulcro e la sdenxa augurale. — 2. Marco Tullio 
Cicerone e la sua conoscenza dei Pitagorismo. — 3. Notixie 
intorno a Pitagora e alle sue dottrine desunte dalle opere cice- 
roniane, — 4. // « Sogno di Scipione » / a) Suo carattere 
pitagorico e profetico; b) Contenuto e materia di esso: la via 
lattea; vita e morte; il suicidio; le sfere celesti e la loro armonia; 
la terra e le sue zone; la gloria terrena; anima e corpo; l'im- 
mortalità dell' anima. 



1. -- Fra gli amici di Marco Terenzio Varrone è degno 
di essere ricordato queir Appio Claudio Fulcro, del quale 
sappiamo che fu augure, pretore nel 57 a. C, console 
nel 54, censore, governatore della Oilicia e legato in rap- 
porti di amicizia anche con Cicerone, di cui ci restano 
diverse lettere a lui indirizzate. 

Convinto che la scienza augurale avesse il suo fonda- 
mento non già uel desiderio o nel bisogno di gipvare 
anche con T ausilio potentissimo della religione agli in- 
teressi dello Stato — come la pensava V altro grande 
augure 0. Claudio Marcello — ma che realmente fosse 
un dono concesso dagli dei agli uomini, perchè questi 



— lOS — 

fossero in grado di meglio intendere la loro volontà e di 
regolare, uniformandosi a questa, la propria condotta pub- 
blica e privata (1), era solito far sortilegi, oroscopi, evo- 
cazioni di morti (2); nò più né meno di quello che, secondo 
la tradizione aveva fatto in antico il re Numa (3) e di 
quel che avevano fatto il filosofo Ferecide di Siro, il suo 
discepolo Pitagora, e Platone f4). Questa convinzione 
suffragata dalle dette pratiche della divinazione artificiale 
CUI era dedito, dovette appunto indurre Appio a scrivere 
quel suo « Uber auguralis > , forse di carattere polemico 
che dedicò air amico Cicerone (5). li quale fra l' interpre- 
tazione utilitaria e razionalistica di quelli che la pensavano 
come Marcello, e la fede ortodossa di coloro che la pen- 
savano come Appio Claudio, ebbe un'opinione intermedia 
m questo senso : che cioè una vera e propria scienza e' ' 
arte augurale fosse già esistita in antico, ma che di essa 
pero uon fosse più depositario, al tempo suo, il collegio 
degli auguri, poiché, per il lungo tempo trascorso e per 
^abbandono e la negligenza in cui s' era lasciata, era, 

(1) Cicerone, de dimnatione. L. IJ, 13, 32 : . sed est in eonleaio 
vestro ^nter mreellun. et Appiurn, optin.os au.ures, maanldZ 
sem.o <nam eorum ego in libros incidi;, Jon. àlterf^làZt 
auspteza ^sta ad utilitutem esse reipublicae composita, alteri di 
sctpltna vestra quasi divinare rideatur posse , 

(2) CiCEE Tusculane, I. I, 16, 37 : . inde ea, quae meus anueus 
Appms nekyomanteia faciebat .. Cfr. de divinai. I, 10, 30 • 68 

(4) CicER., Tuscul., 1, 16, 38; 17, 39. 
E^tT ^^ ^'''^'^''''''^ ^' ^' ^> ^' 3, 11, 4; Vaebone, R. 



— 109 



secondo lui, svanita (1). Dichiarazione questa, che per 
essere fatta da un augure di tanta autorità, non è certo 
di lieve momento. 

Sarebbe in verità molto interessante addentrarsi nella 
ricerca di quel che fosse proprio questa mantica, come 
la chiamavano i greci, o aruspicina, che tanta parte ebbe 
nella vita privata e pubblica degli EUeni e degli antichi 
Italici ; ma questa trattazione mi porterebbe troppo lon- 
tano dal tema di cui ora sto occupandomi. E del resto 
ricerche abbastanza ampie, se non proprio in tutto sod- 
disfacenti ed esaurienti, sono già state fatte in proposito (2). 
Basti dire pertanto che la mantica o arte divinatoria si 
esercitava in forme e modi diversi — con V osservazione 
del volo degli uccelli in un punto determinato del cielo 
detto templum (onde trasse origine la parola contempla- 
zione), con r esame dei visceri (cuore, polmone, fegato) 
di animali sacrificati a questo scopo (hostiae consultato- 
riae)^ con la interpretazione o ermeneutica dei sogni, con 
la considerazione dei fenomeni celesti (tuono, lampo, ful- 
mine, ecc.), cogli oracoli, coi pubblici e privati carmi 
profetici — ; e che era pure praticata da Pitagora, il 
quale vi annetteva anzi un particolarissimo valore, tanto 
da voler essere ritenuto egli stesso augure (3) : il che 



(1) CicER., de leglbus 1. II, 13, 33 : « Sed dtibiiim non esty 
quin haee diseiplina et ars augurUìn evanuerit jam et vetustate 
et neglegrntia. Ita neque illi (cioè Marcello) adsentior, qui negai 
unquam in nostro conlegio fiiisse^ neque illi cioè Appio) qui esse 
etiam nunc putat ». Cfr. de divinai. II, 33, 70. 

(2) Si vedano, fra gli altri, i due importanti lavori del Buchsen- 
scHUTZ, Sogni e cabala neW antichità, Berlino 1868, e del Cae- 
tani-Lqvatelli, Sogni e ipnotismo nelV antichità, Roma 1889. 

(3) Cicerone, de dìvinatione, L. I, 3, 5 « .... kuic rei (cioè 
>^-^'alla divinazione) magnani auctoritatem Pythagoras,,. tribuit^ qui 



— 110 — 



— Ili 



naturalmente non poteva pretendere senza dare qualche 
prova di virtù profetica ; e^ secondo la tradizione, egli 
ne diede infatti non poche. 

2. — Altro amicissimo di Varrone fu, come è noto, 
Marco Tullio Cicerone^ che visse dal 106 al 43 a. C. 

Negli scritti che in gran numero ci restano di lui fre- 
quentissimi sono gli accenni a Pitagora, alla sua scuola 
e alla ^ua filosofia ; non però tali da farci pensare a una 
elaborazione personale e originale, o all' approfondirnonto 
di qualche parte delle dottrine pitagoriche. Seguace come 
fu di un eclettismo che stava fra T accademismo e lo 
stoicismo deir ultima maniera, iniziato ai misteri religiosi, 
augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore 
della filosofìa greca, della quale si fece divulgatore fra i 
Romani, creando quasi rr novo per essi, dopo il mirabile 
tentativo poetico di Lucrezio, la lingua filosofica, autore 
anche di molte opere, nelle quali, con squisito senso di 
arte, trattò dei più svariati argomenti sì metasitìci che 
morali. Cicerone ebbe senza dubbio una conoscenza ab- 
bastanza larga dell' antica filosofia italica, V unica forse 
che avesse già avuto in Roma insigni ilivulgatori e se- 
guaci, come Appio Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori 

come Nigidio. 

È anche indubitato che molto gli giovarono per tale 
conoscenza — oltre che V assiduo studio dui filosofi gre- 
ci — r amicizia di Varrone e dello stesso Nigidio Figulo, 
e la lertui-a dei loro scritti, per noi perduti. Ma non per 



etiam fuse auyur rellef esse ». Cfr. i, 39, 87 ed anchu 45, 1(^2: 
« Neque salii m deorum poces Pfjthagorei ohservitaverunt, sed etiam 
homlnuiu, quac vocant omina ». 



questo possiamo dire che TArpinate avesse fatto parti- 
colari studi intorno a quel sistema di dottrine, che, se 
collimavano in parecchi punti con le sue convinzioni per- 
sonali, tuttavia^ per il simbolismo onde erano involute, 
si prestavano assai meno delle posteriori e più note filo- 
sofie ad essere facilmente comprese dai profani e divulgate 
artisticamente. 

3. — In ogni modo, volendo raccogliere dalle sue opere 
le notizie che si riferiscono a Pitagora e alla sua scuola, 
dort-ei prendere le mosse da quel passo delle Tuscolane 
(libro IV, 1-4) in cui Cicerone parla delle dottrine pita- 
goriche, della loro diffusione in Italia e delle tracce che 
esse lasciarono nelle istituzioni e nelle leggi dì Roma. Ma 
poiché ne ho già discusso lungamente, rimando senz'altro 
i lettori al primo capitolo di questo studio. 

Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che fu disce- 
polo di Perecide (1), specialmente per la sua dottrina 
suir eternità dell' anima, in quanto egli insegnava V esi- 
stenza di un' anima universale, compenetrante tutta la 
natura e ciascuna delle sue manifestazioni, e la deriva- 
zione da essa di ogni anima umana (2). E per ciò che 
riguarda la natura di questa, Cicerone stesso accettò la 
distinzione - fatta prima da Pitagora e poi da Platone — 



(ì) De divinatione, I, 50, 112; Tusculane I. 16, 38: « Pherecides 
Syrius priìnum dixit ani mas esse hominum sempitenios. .. Huìic 
opinionem discipulus Pyth\goras maxime eonfirmarnt ». 

(2/ De natura deorum, L li, 27: « Pythagoras eensuit ani- 
mum esse per naturam rerum omnem intenturn et eonmeantem, 
ex quo nostri aninii carperentur *. De senectute 21, 78: « Au- 
diebam Pythagorarn Pytkagoreosque.... numquam dubitasse, quin 
ex universa mente divina delibatos anlmos haberemus ». 



— li^ — 



113 — 



deli' anima in due parti, V una ragionevole, in cui questi 
filosofi ponevano la tranquillità, cioè una placida immu- 
tabile costanza, e V altra irragionevole, onde traevano 
origine i moti torbidi sì dell' ira come del desiderio (1). 
Per la quale credenza V uiio e T altro ammisero la pos- 
sibilità di accrescere le forze conoscitive dello spirito, 
specialmente nel sonno, quando a questo Tuomo si fosse 
disposto opportunamente con particolare dieta e con una 
meditazione preparatoria (2); e credettero nella divinazione, 
al punto che Pitagora, come ho già ricordato, pretendeva 
di essere egli stesso profeta. Cicerone seppe anche dei 
viaggi di quest' ultimo nelle terre più lontane (3), del suo 
colloquio con Leonte, il capo dei Fliasii, in cui per la 
prima volta si chiamò filosofo (4), della successiva venuta 
in Italia, dei suoi studi di geometria e del sacrificio d'un 



(1) Tuseulane, IV, 5, lO : « Vetereyn illam equidem Pythagorae 
primuniy dein Platonis discriptiGnem sequar, qui animum in 
duas partes dividunt, alteraìn rationis partinpem faciunt, alte- 
rarti expertem : in participe rationis ponunt tranquillitatem, id 
est placidam quietamque constantiam, in ilici altera motus turbi- 
dos curri irae, timi cupiditatis, conirarios inimicosque rationi ». 
Cfr. libro I, 17, 39. 

(2) De divinatione, II, 58, 119: « PythcKjoras et Plato.,, quo 
in somnis certiora videamuSy praeparatos quodani eultu atque 
vietii profieisei ad dorniienduni jubent : faha quideni Pythagorei 
utique abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur ». 
Sulle meditazioQi serotine, ma di altro genere, vedasi De senectuie 
11, 38: Ptfthagorii quid quoque die dixissent, audissent, egissent, 
commemorabaHt resperi » ; e sulla astinenza dalle fave si con- 
fronti de divinatione 1, 30, 62 e II, 58, 119. 

(3) TuscuLy IV, 19, 44; 25, 55; de finihus Y, 19, 50; 29, 87. 

(4) Tuscul.j V, 3, 8 e segg. Cfr. sopra e vedi Diogene Laerzio, 
Proemio. 12, che desume la notizia da un libro di Eraclide pontico. 



I 



bue alle Muse per aver trovata la soluzione d'un teorema (1), 
della sua dimora a Crotone (2) e a Taormina in Sicilia (3), 
della sua operosa vecchiezza (4) e infine della sua dimora 
e della morte a Metaponto (5). 

Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto prin- 
cipio autoritario dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a quello 
che ho accennato or ora della natura dell' anima, Cicerone 
ricorda la teoria dei numeri (7), T armonia del mondo e 
il culto della musica (8), l'astinenza dai sacrificii cruenti 
e il rispetto per gli animali, naturale e logica conseguenza 
del concetto pitagorico della vita (9), il divieto d^l suici- 
dio (10) e infine la bella concezione dell' amicizia, vera 
comunanza di spiriti e di vita (11), che diede fra gli altri 
il mirabile e notissimo esempio di Damone e Finzia (12); 
oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri pitagorici, 



(1) De nat. deorurn, UT, 36, 88. La cosa per altro non par cre- 
dibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle sacrificare 
una vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di sangue 
un altare. E non ha torto. 

(2) De re publica II, 15, 28; ad Attictmi IX, 19, 3. 

(3) De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita Pythag . 122. 

(4) De senectuie 7, 23. 

(5) De finibus V, 2, 4. 

(6) De nat. deor., I, 5, 10. Per la critica ed il valore di questo 
principio autoritario si veda nell'Appendice « Il sodalixio pitago- 
rico di Crotone ». 

(7) Tuscul., I, 10, 20; Acad. pr. II, 37, 118 e Somnium Sci- 
pionisy 12 e 18. 

(8) De nat. deor., IH, 11, 28; Tuscul., Y, 39, 113. 
^9) ibid., Ili, 36, 88: de re pubi., Ili, 11, 19. 

(10) De senect,, 20, 73 ; prò Seauro, 4, 5. 

(11) De officiis, I, 17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscid., V, 23, 66. 

(12) Tuscul. V, 22, 63; de officiis, III, 10, 45; de finibus. II, 
24-79; Cfr. Porfirio, F. P. 59. 

8. 



I 
\ 



— 114 — 



— 115 



e cioè Filolao di Crotone e il suo discepolo Archita di 
Taranto, Echecrate di Locri, Timeo ed Acrione contem- 
poranei di Platone (1). 

Di quest'ultimo poi egli dice esplicitamente che, dopo 
la morte di Socrate, prima si recò in Egitto e poi in Italia 
e in Sicilia per conoscere da vicino le verità scoperte da 
Pitagora, e che stette molto con Archita e Timeo e potè 
procurarsi ì commentarli di Filolao (che esponevano per 
iscritto per la prima volta le dottrine del maestro, fino 
allora trasmesse solo oralmente e sotto il vincolo della 
segretezza) ; e poiché allora appunto era più che mai ce- 
lebre nella Magna Grecia il nome di Pitagora, praticò 
con Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che, pre- 
diligendo egli Socrate sopra ogni altro e volendo rappre- 
sentarlo adorno di ogni virtù e sapienza, fuse insieme la 
piacevolezza e la sottigliezza socratica con V oscurità del 
simbolismo pitagorico e nei suoi dialoghi fece parlare il 
maestro in modo che, anche quando discuteva di morale 
e di politica, si studiò di mescolarvi i numeri, la geometria 
e r armonia, alla guisa di Pitagora (2). Dal quale poi 



(1) De fiìilhus, V, 29, 87. 

(2) De re pubi., I, 10, 16 : « In Platonis libris multis locis 
ita loquitur SocrateSj ut etiarn cum de morìbus, de virtiUibus 
denique de republìca disputet, numeros tamen et geometriam et 
harynoniam siudeat Pythagorae ynore coniungere. Tum Scipio : 
Sunt ista, ut dicis, sed audisse te credo. Tubero.^ Platonern, So- 
crate mortuo, primiim in Aegypturn discendi causa, post in Ita- 
liani et in Siciliam contendisse, ut Pythagorae inventa perdisceret, 
eumque et cum Archyta Tarentinc et cum Timaeo Locro ìnultum 
fuisse et Pìiilolai commentar ios esse nanctuìn, quumque eo tem- 
pore in his locis Pythagorae nomen viger et, illuni se et hominibus 
Pythagoreis et studiis illis dedisse. Itaque cuìn Socratem unire 
dilexisset eique omnia trihuere voluisset , leporem Socraticum 



i 



tolse di peso la dottrina ferecidea sull'eternità dell'anima, 
aggiungendovi però di suo una spiegazione razionale (1). 
Un complesso dunque di notizie, o meglio di accenni, 
superficiali e sconnessi, che rappresentano press'a poco 
il grado di conoscenza che del Pitagorismo ebbero gli 
uomini colti dell'età di Cicerone. 

4. — Ma vi è un' opera di questo fecondo scrittore, 
anzi un frammento della sua opera più importante, sul 
quale dobbiamo fermare un poco più particolarmente la 
nostra attenzione, per la molteplicità degli elementi pita- 
gorici che contiene: voglio dire il Sogno di Scipione^ 
così famoso e di tanta importanza per la storia della mi- 
stica, sia considerato in sé stesso sia per i commenti che 
ebbe ; poiché intorno ad esso si affaticarono molti ingegni, 
da Macrobio e da Eulogio, che ne fecero amplissima ana- 
lisi nel quarto secolo (2), all'inglese Wynn Westcott, che 

subtilìtatemque sermonis cum obscuritate Pythagorae et cum illa 
plurimarum artimn gravitate contexuit » . 

(1) Tuscul.y I, 17, 39 : « Platonem ferunt, ut Pythagoreos cogno- 
scerety in Italiam venisse et didicisse Pythagorea omnia primumque 
de animorum aeternitate non solum sensisse idem quod Pyiha- 
goram sed rationeìn etiam attutisse » . Cfr. De amicitiay lY, 13 : 
« Ncque enim, adsentior iis, qui nuper haec disserere coeperunt, 
cum corporibus simul animos interire atque omnia morte deieri. 
Plus apud 7ne antiquorum auctoritas valet, vel nostrorum majo- 

rum vel eoruìn, qui in hac terra fuerunt magnamque Orae- 

ciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat, institutis et 
praeceptis suis erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraculo sapien- 
tissimtis est iudicatus, qui non tum hoCy tum illud, ut in plerisque, 
sed idem semper, animos hominum esse divinos, iisque, cutn ex 
corpore excessissent, reditum in coelum patere optimoque et iu- 
stissimo cuique expeditissimuìn. Quod idem Scipioni vìdebatur » 

(2) AuRELTi Macrobii Ambrosii Theodosh v. ci. et inlustris Gom- 
mentarius ex Cicerone in Somniuìn Scipionis libri duo. — Favonh 
EuLOGii oratoris almae Karthaginis Disputatio de somnio Scipio- 
nis, scripta Superio v. e. cos. Provinciae Bizacenae. 



— 116 



non molti anni addietro ne pubblicò una traduzione di- 
cendolo senz'altro, (non so però con quale fondamento 
che non sia una semplice presunzione ipotetica) un fram- 
mento dei Misteri (1). 

a) Mi preme tuttavia di mettere subito in chiaro che, 
affermando pitagorico il contenuto di questo sogno, non 
voglio con ciò asserire nò che Cicerone fosse un seguace 
di quella filosofia, né che desumesse direttamente le idee 
informative del sogno stesso da scritti pitagorici: poiché 
so bene che studi fatti recentemente da valentissimi crì- 
tici come il Gylden (2), il Corssen (3), il Pascal (4), hanno 
messo in chiaro che fonti ciceroniane per la materia di 
esso furono o poteroiio essere Platone, Posidonio ed Era- 
tostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in esso 
tutti quasi i concetti suesposti, che Cicerone stesso at- 
tribuiva a Pitagora e ai suoi seguaci ; il che dimostra 
ancora una volta, se pur ve ne fosse bisogno, che i filo- 
sofi posteriori fecero proprie e tramandarono l'uno all'altro 
molte delle idee e degli insegnamenti della scuola croto- 
niate. L' idea poi di valersi d' un sogno per fare un'espo- 
sizione di principi filosofici già era venuta, agli albori 
della letteratura romana, a un grande scrittore e poeta, 
pitagorico per giunta: voglio dire Ennio, del quale si è 
già veduto nel capitolo secondo. 



(1) Somnium Scipionis. The vision of Scipio considered as a 
fragment of the Mysteries, London, 1899. 

(2) Vestigia Platonis in Ciceronis Somnio Scipionis, 1848. 

(3) De Posidonio Rhodio M. T. Ciceronis in l, I TuscuL disp, 
et in Somnio Scipionìs auctore. Bonnae, 1878. 

(4) Di una fonte greca del « Somnium Scipionìs » di Cicerone, 
nei rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e belle 
Arti di Napoli, 1902. Ripubblicato in « Graecia Capta », Firenze, 
Le Monnier, 1905. 



117 



Sicché possiamo ben dire pitagorica V ispirazione di 
questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto piii che 
abbiamo sentito or ora, per bocca dello stesso Cicerone, 
che opinione Pitagora e i suoi avessero intorno al sonno 
e alle forze conoscitive dello spirito nel riposo e nella 
quiete del corpo. 

Questo sogno, poi, secondo le osservazioni di Macrobio, 
partecipava contemporaneamente di tutte e tre le forme 
principali o profetiche dei fenomeni del sonno, oracolo 
visione e sogno: oracolo {oraciilum =: xp'yìl^axtafxó^), in 
quanto apparvero a Scipione addormentato il padre Lucio 
Emilio Paolo e il padre adottivo Scipione Africano Mag- 
giore, uomini venerandi, che avevano anche coperto ca- 
riche sacerdotali, e gli predissero quello che egli avrebbe 
fatto come generale e come magistrato e la sua morte a 
56 anni ; visione {visio = opafjia), in quanto durante il 
sonno parve all' Emiliano di essere trasportato in cielo e 
più precisamente nella via lattea, — dove avrebbe poi 
dovuto tornare dopo morto a godervi la felicità concessa 
da Dio ai buoni reggitori degli Stati — e di lassìi con- 
templare r universo e i pianeti e la terra stessa divisa 
nelle sue cinque zone ; sogno propriamente detto {som- 
niitm = ovetpo^), perchè la profonda verità delle cose a 
lui dette dalla grande anima di Scipione non poteva essere 
svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica (1). 
Tanto è vero che il commento .interpretativo di Macrobio 
è di gran lunga più esteso che tutti i sei libri della Re- 
pubblica, e non meno lunga è la dissertazione di Eulogio, 
che verte specialmente intorno alle qualità mistiche dei 
numeri e alla musica delle stelle. 



(1) Macrobio, 1. I, o. 3. 



118 



- 119 — 



b) Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi uomini 
che si resero benemeriti della patria e mostrare quale 
premio, dopo la morte, fosse dato alle loro virtù, quello 
cioè di ritornare alla loro patria celeste, immaginò che 
uno degli interlocutori dei dialoglii intorno alla Repub- 
blica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narrasse agli 
altri interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo 
tribuno in Africa, fu ospite del re Massinissa, grande 
amico di Scipione il Maggiore. 

Uscita dal corpo durante il sonno, V anima dell' Emi- 
liano si trova trasportata, a un tratto, nella via lattea, 
dove, giusta le credenze dei Pitagorici, avevano loro sede 
le anime degli eroi, tanto prima di scendere in terra a 
vestirsi d' umana carne, come dopo aver fatto il loro pel- 
legrinaggio quaggiù (1). 

Ascoltata dall' Africano la predizione delle sue imprese 
e della sua- morte, che sarebbe avvenuta quando la sua 



(1) Somnium 5, 13 : « Oìnnibus qui patriam conserv aver ini, 
adluverint, auxerint, certuìu esse in caelo definitum locutrij ubi 

beati aevo sempiterno fruantur Harum rectores et conservatores 

hinc profecti huc revertuntur ». Al qual proposito osserva il Cors- 
SEN (op. cit. p. 46) che l' idea è forse presa dai Pitagorici. Infatti 
a proposito dei versi 12-13 del 1. XXIV della Odissea, in cui ò 
detto che le anime dei Proci guidate da Hermes « andavano alle 
porte del Sole e al popolo dei Sogni e poi giunsero nel prato degli 
asfodeli, dove abitano le anime, ombre dei trapassati » scrisse Por- 
firio (de antro ISynipharum^ e. 28) che il popolo dei sogni non 
sono altro che, secondo Pitagora, le anime che dicono raccogliersi 
nel cerchio della via lattea. Poiché il prato degli asfodeli i Pitago- 
rici appunto lo immaginarono in quel cerchio. Anche Plutarco (de 
facie in orbe liin,, p. 943 G.) scrisse che le anime dei buoni si 
indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla del cielo 
che chiamavano prati dell' Ade. 



età avesse percorso « uno spazio di otto volte sette giri 
e rivoluzioni del sole e questi due numeri (ognuno dei 
quali, per ragioni proprie a ciascuno di essi, era ritenuto 
perfetto) avessero compiuto col naturale succedersi degli 
anni la somma a lui predestinata » (1), e saputo — quasi 
a conforto del suo triste destino — che egli pure sarebbe 
salito lassii, dove si trovava anche suo padre Paolo, 
« dunque, chiede, siete vivi tu e mio padre e gli altri 
che crediamo estinti ?» « E come ! gli risponde Scipione, 
anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai legami 
corporei come da un carcere siamo veramente vivi ; la 
vosti-a, che si chiama vita, è morte ». E riveduta, con 
intensa commozione, V anima del padre, chiede ad essa : 
« Perchè dunque, se questa è la vera vita, debbo in- 
dugiarmi e vivere ancora sulla terra? » « Perchè, gli 
viene risposto, se quel Dio a cui appartiene tutto V uni- 
verso non ti ha prima liberato dal carcere corporeo, non 
ti può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli uomini 
sono stati creati per dimorare sulla terra, che occupa 
il centro del creato, ed è stato dato ad essi l'animo, 
originario di quei fuochi eterni che chiamate costellazioni 
e stelle e che, di forma sferica e circolare, animati da 
menti divine, fanno i loro giri e descrivono le orbite loro 
con prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gli uomini pii 
dovete trattenere l'animo vostro nei legami corporei e 
non disertare, contro la volontà di chi ve l'ha data, 
dalla vita d' uomini, perchè non sembri che voi vogliate 



(1) Somnium 4, 12. Della pienezza o perfezione dei due nume- 
ri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli V e VI, adducendone 
partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le teorie e 
le speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di Eulogio, 



I 



s 



— 120 — 



— 121 



sottrarvi al compito umano assegnatovi da Dio (1) ». Perciò 
il padre lo esorta ad essere giusto ed a coltivare la pietà, 
perchè così vivendo si aprirà la via per ritornare al cielo 
fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora se- 
parate dalla materia corporea, abitano la via lattea (2). 
Dalla quale poi V Emiliano contempla estatico lo spettacolo 
deir universo stellato e il roteare dei nove cerchi o meglio 
globi, di cui il più esterno, che abbraccia gli altri, è 
quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso dio su- 
premo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gii altri, 
cioè i cieli di Saturno, di Giove, di Marte, del Sole, di 
Venere, di Mercurio, della Luna, nel mezzo dei quali sta, 
immobile, la Terra (3). E mentre osserva i cieli roteanti, 
ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce, quella cioè 
che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro per- 
cuotere neir aria, onde si producono suoni acuti e gravi, 
che insieme formano i sette accordi della lira (4) : proprio 
secondo la dottrina pitagorica, che ho già chiarita nel 
capitolo precedente. L' ammirazione per la grandezza e 
la novità delle cose che vede e ode non fa però che 
Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano 

ì) Sornnium, 7, 15. Cfr. il luogo già ricordato del /)e senectute 
(20, 73) dove è detto esplicitumente che questo concetto è di Pi- 
tagora : « vetat Pythagoras iniussu imperatoris, id est dei, de 
praesidio et statione vitae decedere ». 

(2) Somninììiy 8, 16. 

(3) Tutta questa concezione della terra immobile nel centro di 
un ambiente sferico, intorno al quale s'aggirano col firmamento i 
sette cieli planetarii, è prettamente pitagorica ; e tale fu puro, se- 
condo il Martini, la scoperta della direzione del corso dei pianeti 
e della eclittica. Vedasi il Gìjnther, Oeschickte der antiken Natur- 
wissensckaft m Muller's Handbuch V, 1. 

(4) Somnium 10, 18-19. Cfr. QuintiliAxVo, Instit, oratoria, I, 10, J2. 



gliene mostra parte a parte i circoli, le zone, le acque 
e conclude che essa è campo ben ristretto per la gloria 
degli uomini : onde la vanità della gloria 'stessa, la quale 
non può neppur durare lo spazio di uno solo dei grandi 
anni mondani (1). « Se tu dunque, conchiude la grande 
anima, vorrai mirare in alto e tenere volto lo sguardo a 
questa dimora eterna, non curarti dei discorsi del volgo 
né porre la speranza delle tue azioni nei premi degli 
uomini : bisogna che la virtù per se stessa con le sue 
blandizie ti tragga alla vera gloria » (2). Esaltato dallo 
spettacolo delle cose viste e dalle promesse, dalle predi- 
zioni, dai consigli uditi, V Emiliano promette di adope- 
rarsi con tutta r anima per il bene della patria e T avo 
lo conferma nel suo proposito dichiarandogli V immorta- 
lità dell' anima. « Ricordati che non tu, ma il tuo corpo 
è mortale ; e che tu non sei quello che codesta forma 
corporea fa apparire: ciascuno è ciò che ò T anima sua, 
non quella parvenza che può mostrarsi a dito. Sappi che 
tu sei DiO; se divina è quella forza che anima, che sente, 
che ricorda, che prevede, che regge e modera e muove 
questo corpo, a cui è preposta, così come il sommo Dio 
regge, modera, muove il mondo; e come lo stesso Dio 
eterno muove il mondo per qualche rispetto mortale, così 
il fragile corpo è mosso dall' animo sempiterno » (3). 



(1; Della durata di circa 12000 anni comuni, secondo lo dottrine 
dei Genetliaci, dei quali ho accennato nel capitolo terzo. 

(2) Somnium j 17, 25. 

(3) Somniumy 18, 26 : ^ Tu vero enitere et sic habeto, non esse 
te mortalem sed corpus hoc; nec enirn tu is es^ quem forma ista 
declarat : sed mens cuiusqiie is est quisque, non ea figura, quae 
digito denionstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est 
deusy qui viget, qui sentita qui meminit, qui providet, qui tam 



f- -i* 



— 122 — 



« Tu esercita questo nelle più nobili cure : e nobilissime 
sono le cure spese per il bene della patria (1); onde 
Tanirao che in esse si adopera e si esercita volerà più 
velocemente in questa sede e dimora sua. Anzi tanto più 
presto vi verrà se, fin da quanto è chiuso nel corpo saprà 
uscirne e, contemplando quel che è fuori di esso, stac- 
carsene il pili possibile. Perchè gli animi di quelli che 
si abbandonano ai piaceri dei corpo e si rendouo quasi 
schiavi di essi e, sotto l'impulso dei desideri obbedienti 
ai piaceri, violano i diritti divini e umani, usciti dal corpo 
vacuo svoicizzaudo intorno alla terra e non ritornano a 
questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne agi- 
tazione molti secoli » (2). E con 1' enunciazione di questi 
concetti pitagorico-platonici il magnifico sogno finisce. 



regit et moderatur et ynovet id corpus, cui praepositus est quam 
kunc mundum ille princeps deus ; et ut mundum ex quadani 
parte mortalem ipse deus aeternus, sic fragile corpus aìiimus 
sempiternus ynovet » . 

(1) Anche questo, è bene ricordarlo, era un concetto pitagorico; 
tanto è vero che Pitagora, serbava come insegnamento ultimo ai 
suoi discepoH quello relativo all' esercizio dei pubbhci poteri. V. 
S. Agostino, de ordine II, 24, 54. 

(2) Somnium, 21, 29 : « liane tu exerce optimis in rebus : sunt 
autem optimae curae de salute patriae, qulbiis agitatus et exer- 
citatus animus velocius in hanc sedem et domani suam. pervolabit. 
Idque ocius faciet, si jam tum, cum erit inclusus in corpore, 
eminebit foras et ea, quae extra erunt, conteniplans quam maxime 
se a corpore abstrahet. Namque eorum animi, qui se corporis 
voluptatihìis dedlderunt earumque se quasi ministros praebuerunt 
impulsuque libidinum voluptatibus oboedientlum deorum et homi- 
num iura violaverunt, corporibus elapsi circum terram ipsam 
volutantiir nee hunc in locum nisi multis exagitati saeculis rever^ 
t untar », 



I 






IV. 



Mimi — Q. Orazio Placco — P. Virgilio Marone. 

l. Riflessi pitagorici nel teatro popolare. — 2. Pitagora nella poe- 
sia oraziana : fave, metempsicosi, Euforbo. — 3. Virgilio e la 
filosofìa. — 4. La quarta ecloga. — 5. Le Georgiche. — 6. La 
« storia deir anima » nel sesto libro dell' Eneide. - 7. Ragioni 
artistiche di essa e suo valore per la determinazione del pensiero 
filosofico virgiliano. 



1. _ Nel tempo del quale ci stiamo occupando non 
è a credere che la conoscenza del Pitagorismo avesse i 
suoi riflessi soltanto negli scritti di prosa e di poesia del 
genere di quelli che abbiamo già visti, destinati a un 
pubblico eletto e relativamente limitato ; che anzi l' inse- 
gnamento fondamentale della dottrina di Pitagora, cioè 
la metempsicosi, e il precetto dietetico deirastinenza dalle 
fave erano così entrati, come oggi si direbbe, nel domi- 
nio pubblico, da essere oggetto di satira e di riso nel 
teatro popolare. Fra quelle specie di farse infatti che fu- 
rono i mimi è ricordata una Nekijomanthia (Evocazione 
di morti) di Decimo Laherio, che fu contemporaneo di 
Cicerone (105-43 a. C.) e del quale Tertulliano ricorda 
una satirica interpretazione della metempsicosi : « Insom- 



— 124 - 

ma, se qualche filosofo affermasse, come dice Laberio 
secondo V opinione di Pitagora, die V uomo si fa dal mulo 
e la serpe dalla donna, e in tavore di questa opinione 
volgesse, con parola efficace, tutti gli argomenti possibili, 
non incontrerebbe V approvazione di tutti e non indur- 
rebbe forse anche a credere che ci si debba perciò aste- 
nere dalle carni animali? Chi potrebbe esser sicuro di 
non comperare eventualmente del manzo di qualche suo 
antenato ? » (1). Laberio dunque avrà tirato scherzosa- 
mente in ballo in qualche farsa, della quale nulla peraltro 
sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è neppur difficile 
pensare che gliene abbia data occasione una situazione 
comica in cui fossero in contrasto l'ostinata cocciutag- 
gine d' un uomo e la velenosa malizia d' una donna. Il 
commento e le deduzioni ironiche circa Tasten^ione dalle 
carni che aggiunge Tertulliano ricordano quella che è 
forse la prima testimonianza, in ordine di tempo, che ci 
rimanga intorno alla metempsicosi pitagorica ; voglio dire 
i noti versi di un'elegia di Senofane (contemporaneo di 
Pitagora, ma un po' più giovane di lui) : 

E dicon eh' egli un giorno, vedendo un eagnuol maltrattato, 

Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò : 
« Cessa, ne bastonarlo, poiché vive in lui d' un amico 

r anima, ohe ravvisai, quando T ho udita guair » (2). 



(1) Tertulliano, Apologia, 48: « Aye jam, si qui pkilosophus 
adfirmet, ut ait Laberius de sententia Pythagorae, hominem fieri 
ex mulo, coluhram ex muliere, et in eam opinionem omnia argu- 
meìita eloquii virtute distorserit, nonne consensum movehìt et (idem 
infiget etiam ab animalibus abstinendi propterea ? persuasum qttis 
habeat, ne forte bubulam de aliquo proavo suo obsonet ? » 

(2) I versi ci furono conservati da Diogene Laerzio (Vili, 36) 



— 125 — 

Anche in questi versi infatti, come nel commento dì 
Tertulliano, attribuendosi a Pitagora la metempsicosi an- 
che animale (per una falsa estensione però, come ho già 
detto), se ne mette scherzosamente in mostra il lato ri- 
dicolo. 

Di un altro mimo dello stesso autore, intitolato Cancer, 
è rimasto uno spunto di verso, in cui si accenna a un 
«dogma pitagorico)^, che molto probabilmente possiamo 
ritenere che fosse la stessa metempsicosi (1). Finalmente 
Cicerone e Seneca ci hanno conservato il ricordo di un 
terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato Faba (2), 
del quale sarà forse stato argomento la satira dello stesso 
dogma di Pitagora e dei precetti riguardanti il vitto e 
r astensione dalle fave (3). Nò ò davvero il caso di me- 



e prendendoli da lui, li ha citati anche Suida (sotto la voce Xeno- 
phanes). Si veda a proposito di essi e delle altre antiche testimo- 
nianze pitagoriche che risalgono ad Eraclito, Empedocle, Ione, ecc. 
ciò che ha scritto lo Zeller nei Siixungsber . d. preuss. Akad, 
1889, n. 45, pag. 985. Si è recentemente messo in dubbio che 
questi versi si riferiscano a Pitagora ; ma tali dubbi sembrano al 
Gompebz {Penseurs de la Orèee, p. 135 nota) infondati. Ed ha per- 
fettamente ragione. 

(1) Prisciano. vi, 2, pag. 679 P. e Anon. Been. negli Anal. 
Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33 e 109, 3 : « nee pythagoreani 
dogmam doctus ». 

(2j Cicerone, ad Att. XYI, 13: « videsne consulatum illuni no- 
strum, queni Curio antea apotheosin voeabat, si hi e factus erit, 
fabam mimum futuruni ? * e Seneca Apoeoloc, 9 : <» olini magna 
res erat deum fieri, iani fabam mimum feclstis » . Debbo tuttavia 
notare che da qualcuno si è proposto di leggere -O-aOiia in luogo 
del primo fabam,, e famam in luogo del secondo. V. in proposito 
la Eiv, di filol. class, del gennaio 1913, pag. 75-76. 

(3) D. Capocasale in un suo breve lavoro {Il mimo romano, 
Mouteleone, 1903, pag. 49) pensa che « forse vi si dovea mettere 



— 126 — 

ravigliarsene, solo che si consideri con che argomenti 
piccini e con che sciocche ragioni si cercava di persua- 
dere della necessità di tale astensione (1). 

2. — Del resto anche Orazio (65-8 a. C.) si prese 
amabilmente gioco di questi due stessi punti della dot- 
trina pitagorica. Che se in una delle sue satire rievocava 
con vivo senso di nostalgia le parche cenette di campa- 
gna fatte di fa 70 e di erbaggi conditi col lardo, è evi- 
dente che egli — da buon epicureo — si infischiava del 
precetto del filosofo; non solo, ma lo prendeva anche un 
po' in giro, facendo addirittura la fava « consaguinea di 
Pitagora » (2). 

E la prima parte della famosa ode d'Archita non pare, 
per dirla col Pascoli, « un attacco ai sistemi filosofici 



in azione la parentela che esiste ~ secondo Pitagora — tra la fava 
e r uomo, ed il passaggio dell' anima in una fava ». Ora queste, 
più che opinioni del severo filosofo, furono certo stramberie di 
begli spiriti, che gliele attribuirono per burlarsi meglio di lui e 
delle suo idee, come fece Orazio, per esempio. 

(1) Si veda, per esempio, il capitolo 43 della vita di Porfirione. 

(2) Orazio. Sat. II, 6, 63-64 : 

quando faha Pythagorae cognata simulque 
Uncta satis pingui poneniur oluscula lardo ? 

Un' altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli inter- 
preti d' Orazio nel v. 2l della XII Epist. del libro I {verum seu 
pisces seu porrun et caepe trucidas)^ dove riferendosi il verbo tru- 
cidare non solo ai pesci, ma anche ai porri e alle cipolle (quasi 
che anche in queste, come nella fava, si trovassero anime dei 
morti) verrebbe a prendersi un po' in giro 1' amico Iccio — che 
s' occupava di filosofìa — e con lui la dottrina pitagorica della 
metempsicosi, alla quale verrebbe data una ben larga estensione. 
Qualcuno peraltro (per es. il Ritter) nega ogni allusione. 



— 127 — 



che ammettono la sopravvivenza dello spirito, sistemi 
quasi personificati in Archytas, per opera del quale il 
Pythagorismo entrò nelle dottrine di Platone ? » (1). Dice 
infatti il poeta : « Te, o Archita, che misuravi il mare e 
la terra e T innumerabile arena, tiene ora fermo presso 
il lido di Matinata lo scarso dono di poca sabbia, e nulla 
ti giova aver esplorato V aria, dove altri che l'uomo abita, 
e aver corso per la volta del cielo con l'animo destinato 
a morire. E morto anche il padre di Pelope, che pur 
banchettava con gli dei, e Titone, che fu tolto alla terra 
e sollevato nell' aria, e Minosse, che fu ammesso agli ar- 
cani di Giove, e il regno dei morti tiene anche il figlio 
di Panto (Euforbo), che scese all' Orco un' altra volta 
(dopo la sua nuova incarnazione in Pitagora), sebbene, 
con lo scudo che fece staccare (dalla parete del tempio 
di Giunone argiva in Micene) data testimonianza del 
tempo della guerra trojana, non avesse concesso alla nera 
morte (così affermava lui) niente piìi che i nervi e la 
pelle (2); e tu (che eri un grande pitagoreo), splendido 
mallevadore della verace scienza del tutto lo sai bene. 
Ma tutti ne attende un' uguale notte senza fine e tutti 
dobbiamo calcare una volta sola (e non più, come tu credi) 
la via che conduce sotterra. Le furie offrono alcuno gra- 



fi) Pascoli, Lyra romana, Livorno, Giusti, 1895, p. 163. Per 
altri modi d' intendere quest' ode, che è la 28^ del lib. I, si veda 
il commento dell' Ussani, Le Uriche di Orazio, Torino, Loescher, 
1900, voi. I, pag. 119-122, e in particolare 1' opuscolo dello stesso 
autore L'ode d' Archita. Roma, 1893. 



(2) 



hahentque 

Tartara Panthoiden iteruni Orco 
Demissum, quamtns clipeo Trojana refixo 

Tempora testatus nihil ultra 
Nervos atque cutem morti concesserat atrae. 



— 128 — 



129 



dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro 
di morte ai naviganti ; si susseguono senza posa i fune- 
rali sì dei vecchi che dei giovani, l'implacabile Proserpina 
non ebbe mai rispetto ad alcun capo ^, 

E evidente che qui Orazio, affermando recisamente che 
tutti, senza distinzione, subiremo un-egual destino mor- 
tale, e contrapponendo in particolare la sua affermazione 
al ricordo « di Pitagora redivivo », come lo chiama altra 
volta (1), fa dcir ironia bella e buona alle spese del « fi- 
gliuolo di Panto ». 

3. — E Virgilio (15 ott. 70-21 sett. 19 a. C.j in qual 
conto tenne le dottrine pitagoriche ? Esercitarono esse 
qualche influsso sul suo pensiero e lasciarono traccie vi- 
sibili neir opera sua, dal momento che sappiamo — per 
quello che ce ne dice egli stesso e per quello che ci 
hanno tramandato i suoi biografi e commentatori — che 
egli ebbe grande inclinazione agli studi filosofici e che 
desiderio di tutta la sua vita fu quello di poter visi de- 
dicare di proposito ? 

Nel tempo in cui Figulo e i Sestii tentarono di far 
rivivere in Roma la filosofia pitagorica, ò possibile pen- 
sare che uno spirito come quello di Virgilio, colto, cu- 
rioso e naturalmente portato alle speculazioni filosofiche, 
non ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo non 
v'è argomento di dubbio, ma credo di poter dire anche 



(1) In uno degli Epodi (XV, 21) Orazio accenna eincora alle 
varie vite di Pitagora nel verso « 7iee te Pythagorac fallant 
arcaìia renati », dove è da notare anche l'allusione al carat- 
tere segreto e misterioso della dottrina (arcana) Nelle Satire no- 
mina una volta (IL 4, 3) Pitagora con Socrate e con Platone e 
nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di Ennio (II, 1, 52). 



di più. Cicerone, come ho già mo strato nelle precedenti 
ricerche, credette di ravvisare nelle pratiche e nei prin- 
cipi del Pitagorismo Torigine di molte delle piìi antiche 
istituzioni romane, e con Cicerone lo avranno creduto na- 
turalmente anche altri. Orbene Virgilio, che con V opera 
sua maggiore mirò a rappresentare in un meraviglioso 
quadro d' insieme le origini e lo svolgersi della potenza 
di Roma (1) e che perciò fece lunghi studi intorno alle 
leggende e alle antichità romane, dovette proprio in modo 
particolare rivolgere la sua attenzione alla filosofia pita- 
gorica, la quale per di più aveva già ispirato anche il 
grande Ennio^ la cui opera degli Annali fu uno dei mo- 
delli sui quali fu condotta V Eneide. Questo mi par che 
si possa affermare con certezza, anche indipendentemente 
da un esame analitico dell' opera poetica di Virgilio ; che 
se poi procediamo a questo esame — ancorché molto 
sommario — non solo sarà confermata a posteriori la 
nostra induzione, ma dovremo senz'altro assentire al giu- 
dizio che di lui fece il Pontano, quando Jo disse esplici- 
tamente « poeia augurale e profondo conoscitore della 
dottrina di Pitagora » (2). 

Come tutti sanno, agli studi filosofici Virgilio attese 
fin dalla prima giovinezza e fu avviato in essi da un 
maestro epicureo, dal gran Sirene, com' egli lo chiama. 
E per amore dei « docta dieta > di lui egli avrebbe 



(1) Servio, ad Aen. VI, 752: « Qui bene eonsideret imeniet 
omnem romanam historiam ab Aencae adventu usque ad sua 
tempora summatim celebrasse Virgilium, quod ideo latet quia 
con f US US est or do, etc. ». 

(2) « Poeta auguralis pythagoricaeque doctrinae peritissimus » , 
come ò detto in una nota al Commento di Macrobio al Somnium 
Scipionis, nella edizione di Lione del 1670, pag. 66. 

». 



I 



— 130 



anche rinunziato in gran parte alle « dolci Muse » ! 
Vano proposito ! che queste tennero sotto la loro amabile 
tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu poeta prima che filo- 
sofo. Filosofia fu in lui solo in potenza : i germi latenti 
nel suo pensiero — che pur si delinea abbastanza chia- 
ramente a chi ne mediti V opera poetica — sarebbero 
certo cresciuti in fioritura d^ arte, se fosse vissuto più a 
lungo, sì che, condotta a perfezione T Eneide, egli avesse 
potuto fiual mente appagare il desiderio ^~ lungamente 
maturato e pii:i volte espresso — di poter attendere alla 
poesia filosofica : così noi avremmo forse, accanto al poema 
di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del juaterialismo 
epicureo, un poema virgiliano informato ai principi del- 
l' idealismo pitagorico-stoico. 

L'avviamento epicureo ch'egli ebbe da Sirene, e l'am- 
mirazione che sentì per la grande arte di Lucrezio la- 
sciarono bensì qualche traccia, e non soltanto formale, 
nell'opera sua giovanile, nei poemetti bucolici e nelle 
Georgiche ; ma in queste stesse poesie già si manifesta 
abbastanza chiaramente un indirizzo filosofico affatto op- 
posto. Sulla concezione epicurea, ma con molta libertà e 
larghezza di movenze, è foggiata quella specie di teoria 
suirorigine del mondo che Sileno espone nella sesta ecloga 
(vv. 31 e seguenti); ma dobbiamo ben guardarci dal darie 
un'importanza maggiore di quella che essa ha realmente, 
col trasferirla da Sileno a Virgilio e col dedurne perciò 
che questi fosse epicureo ; poiché nel campo dell' arte e 
della poesia sono possibili ben altre finzioni, e 1' artista 
fa parìare i personaggi che sono figli della sua fantasia 
secondo criteri e leggi lor proprie. Non solo, ma alla 
stessa stregua allora altri potrebbe ritenere specchio delle 
idee e concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu scritta 



— 131 — 

poco prima della sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ra- 
gione, anzitutto perchè in essa il poeta canta in persona 
propria, in secondo luogo perchè il concetto che V informa 
tornerà insistente e sempre più preciso negli scritti po- 
steriori. Ma in verità il pensiero di Virgilio non doveva 
in quegli anni essere ancora definitivamente orientato e 
formato. 

4. — La quarta ecloga fu composta quando il poeta 
aveva ventinove anni, e precisamente alla fine del 41 a. 
C, allorché stava per entrare in carica Asinio PoUione, 
console designato per V anno successivo (1). Sulla inter- 
pretazione di questo carme, così stranamente suggestivo, 
s' è tanto discusso, che non si sente davvero il bisogno 
d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai 
commentatori cristiani si credette di poter vedere in que- 
st' ecloga, scritta in tempi così vicini all' apparizione del 
Cristo, qualche accenno alla imminente venuta del Messia; 
anzi il fanciullo di cui si celebra la nascita fu addirittura 
identificato col Nazareno. Non e' è da meravigliarsene, 
che r intuizione artistica — nei grandi — giunge tal- 
volta a tali profondità e 1' espressione poetica acquista 
tal forza di significazione e un tale carattere di univer- 
salità, che essa par quasi attingere inesauribilmente, dalle 



(1) Generalmente si ritiene composta al principio dei 40, anziché 
alla fine del 41; ma essendo la pace di Brindisi stata conchiusa 
sul finire del 41, ed essendo avvenuta pure in quello scorcio di 
anno la nascita del figlio di Pollioue, Asinio Gallo (che, secondo 
Servio, nacque appunto PoUione consule designato)^ mi pare che 
non possa esservi ragione di incertezza ; tanto più che in tal modo 
meglio s' intende il futuro inibii che accompagna il te consule dei 
v. 11, 



— 132 — 



— 138 — 



disposizioni deiraiiimo e dagli atteggiamenti del pensiero 
di chi legge, aspetti e valori sempre nuovi. Ma che poi 
proprio Virgilio abbia consapevolmente profetizzato la 
venuta di Cristo per conoscenza che avesse delle predi- 
zioni messianiche, questa è un' altra quistione, risoluta 
dai critici in senso non del tutto negativo (1). 

Certo è che, in occasione della nascita d' un fanciullo 
— che si ritiene generalmente sia stato Asinio Gallo, figlio 
di PoUione, a cui è dedicata Tecloga — il poeta affermava 
ormai venuta V ultima età (quella di Apollo) predetta dal- 
l'oracolo in versi della Sibilla di Cuma, e sul punto di 
iniziarsi da capo, incominciando dall' anno del consolato 
di Pollione (40 a. C), una nuova serie di generazioni 
umane^ un nuovo anno mondano, col quale sarebbe tor- 
nata sulla terra la vergine Astrea (la giustizia) e sareb- 
bero tornati i beati tempi del regno di Saturno (ossia 
r età dell' oro) e « dall' alto cielo sarebbe fatta scendere 



(1) Il Mancini p. es., nel suo commento alle Bucoliche (Sandron, 
1903) ha scritto (p. 48,i : « Non si può appunto escludere assolu- 
« tamente (sebbene io non lo creda necessario) che Virgilio avesse 
« in qualche modo conoscenza delle profezie messianiche certo 
* pervenuta a Roma, e che ne traesse qualcosa per tratteggiare 
« il suo puer, che di questa conoscenza sentisse insomma gli of- 
€ fetti l'economia del carme ». Per la rinomanza che Virgilio si 
acquistò fra i Cristiani con questa ecloga, per la quale fu sollevato 
alla dignità dei profeti che predissero la venuta di Cristo, si veda 
il CoMPARETTi, Virgilio nel Medio Evo (Firenze, 1896, I, p. 133 
e seg.) e gli scritti ivi citati. L' interpretazione cristiana di questa 
poesia era già molto in voga presso gli scrittori del quarto secolo. 
Si vedano anche i lavori di C Pascal : // eulto d' Apollo in Roma 
nel secolo di Augusto e La questione dell Ecloga IV di Virgilio 
(Torino, 1888), ristampati nel volume Commentationes vergilianae 
^Palermo, R. Sandron, 1903). 



una nuova progenie d' uomini » (v. 7 : jam ìiova prò- 
genies caelo demittitur alto). Sì che il fanciullo, allora 
nascente, avrebbe visto scomparire del tutto la « gens 
ferrea >> e crescere insieme con lui la « gens aurea » 
e « ricevendo la vita degli dei » avrebbe veduto sulla 
terra dei ed eroi e anch' egli si sarebbe mescolato con 
loro: nella giovinezza avrebbe veduto ancora — residui 
delle colpe delle età trascorse (e in pari tempo condizione 
necessaria al ripetersi delle vicende umane) — nuove 
spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove guerre, 
come la trojana, finché poi nella maturità avrebbe goduto 
a pieno la felice pace della nuova età, della quale già 
si allietavano e cielo e terra e mare. 

Come si vede da questo accenno, siamo lontani le 
mille miglia da Epicuro ! E che cos' è poi questa conce- 
zione d' una palingenesi che Virgilio tratta con sì pro- 
fondo entusiasmo poetico ? Pura finzione del suo spirito? 
No, senza dubbio. Una predizione dei carmi sibillini pro- 
metteva certo con V età d' Apollo — 1' ultimo dei grandi 
periodi della vita universale — il rinnovamento del mondo 
e il ritorno dell' età dell' oro ; non solo, ma teorie filoso- 
fiche allora correnti e che ho già avuto occasione di ri- 
cordare, ammettevano anch' esse il rinnovarsi periodico 
dell' universo e il ripetersi perfettamente identico dei me- 
desimi eventi e il ritorno alla vita degli stessi corpi e 
delle stesse anime (teoria pitagorico-stoica e dei genetliaci). 
Pensò dunque Virgilio, nel fingere che proprio col co- 
minciare dell' anno 40 si iniziasse T ultima età mondana 
designata dai carmi sibillini, a queste teorie ? A me pare 
che non se ne possa dubitare. Solo ci si potrà chiedere 
se queir « altro Tifi » , quell' « altra nave Argo che tra- 
sporterà ancora gli eroici compagni », « le altre guerre > 



— 134 — 

che si rinnoveranno e « il grande Achille » , che ancora 
« sarà mandato a Troja», indichino l'identico ripetersi 
di tali eventi, il ritorno al medesimo punto della vita 
universale, oppure indichino soltanto una generica legge 
dei ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur così vi- 
cino ai tempi del poeta, non seppe decidere: potendo 
quei nomi simboleggiare genericamente il ritorno di eventi 
simili, ma non proprio gli stessi. 'Certo però che, asse- 
gnando Virgilio alla seconda età dell' oro già imminente 
quei medesimi, identici caratteri che la tradizione dotta 
e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto in- 
dotti ad ammettere V ipotesi che il poeta abbia raffigurato 
e rappresentato in atto, coi colori smaglianti della sua 
arte divina, l' avverarsi della teoria pitagorico-stoica della 
palingenesi. E ancora : parlando della « nova progenies », 
la quale « caelo demittitur alto », a che cosa ebbe pre- 
cisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla sua 
immaginazione come un flusso di anime emananti dal- 
l'anima universale all' inizio del nuovo anno o periodo 
mondano posto sotto T egida di Apollo ? (1). 

L'anima del fanciullo — nel pensiero del poeta — non 
v'ha dubbio che appartenesse a questa nuova progenie 
spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato « cara deum 
suholeSj magnuni lovis incrementìun » (v. 49), non par- 
rebbe che si dovesse intendere altrimenti che la sua anima 
è emanata pura e semplice direttamente da Giove, e 
Giove starebbe qui a indicare, più che il supremo dio 
dell'Olimpo pagano, quel principio divino che ò 1' anima 



(1) Mi pare, non ostante il diverso parere di qualche commen- 
tatore (p. es. del Pestalozza), che si debba precisamente dare al- 
l' espressione il suo senso proprio e letterale. 



— 135 — 

dell' universo, secondo la teoria che Virgilio doveva an- 
cora riprendere più tardi, nel secondo delle Georgiche, e 
che doveva svolgere più compiutamente là dove, dall'ani- 
ma di Anchise, fa esporre ad Enea, giù negli Elisii, la 
famosa « storia dell' anima » . 

Vero è che, come ho già rilevato, bisogna andar molto 
cauti nella interpretazione di siffatti motivi poetici e nel- 
r inferire da essi il pensiero filosofico animatore operante 
nell'artista; che questi può, indipendentemente dai pro- 
cessi logici normali, assurgere per pura intuizione alla 
visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso nostro 
il poeta; prendendo bensì lo spunto da un fatto reale 
com'era la predizione sibillina, ha forse raccolto intorno 
ad essa reminiscenze d'altra origine ed aggiunti elementi 
nuovi di pura elaborazione fantastica; ed espressioni poe- 
tiche di tale natura sono per sé indeterminate e male si 
prestano ad essere analizzate e misurate con le rigide 
seste della logica. Non potevamo però non tenerne conto, 
almeno come indice di quella tendenza mistico-idealistica, 
che ancora e meglio doveva rivelarsi più tardi, in suc- 
cessivi n^omenti dell' attività poetica del nostro autore. 



5. — Da ispirazioni così diverse e lontane come quelle 
della sesta e quarta ecloga appar probabile dunque che 
prima dei trent'anni Virgilio non avesse ancora definiti- 
vamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse non 
lo aveva neppure orientato definitivamente quando — dal 
37 al 30 — compose le Georgiche ; poiché in queste si 
osservano ancora da un lato somiglianze di pensiero e 
di forma con il poema lucreziano, e dall'altro si incontrano 
immagini e concetti stoico-pitagorici. Mi basti ricordare, 
per questi ultimi, i bellissimi versi del quarto libro (219- 



136 — 



227), nei quali il poeta accenna, seìixa ancora accettarla 
come propria, ma con evidente simpatia, la concezione 
panteistica (che fu prima di Pitagora e poi di Platone e 
degli stoici) secondo la quale V anima di tutti gli esseri 
viventi non è che una parte, più o meno grande, dello 
spirito divino clie, suscitando in mille forme la vita, per- 
vade e penetra tutto V universo, e a cui tutto ritorna. 



220 



225 



His quidam signis atque haec oxempla secati 
esse apibiis partem divinae mentis et haustus 
aetherios dixere : deum namque ire per omniay 
terrasque tractuaqiie maris caelumque profundum. 
Bine pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum^ 
quemque sihi tenues nas^entem areessere vitas ; 
sdlicet huc reddi deinde ac resoluta referri 
omnia j nec morti esse locum, sed viva volare 
sideris in numerum atque alto succedere caelo. 



Il filosofo, esponendo il pensiero come di altri (quidam... 
dixere)^ fa ancora le sue riserve; ina il poeta evidente- 
mente vi aderisce, e l'altezza dell'arte ci dice la profon- 
dità dell' adesione sentimentale. Non solo ; ma il fatto 
che uno di questi versi mirabili (il 222) non è nuovo, 
ma Virgilio lo ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga 
(v. 31), lega idealmente questa col passo delle Georgiche. 

L' animo di Virgilio ha dunque ondeggiato certo a 
lungo prima di aderire a quelle idee contro le quali ave- 
vano combattuto la dottrina di Sirone e V arte di Lucrezio; 
ma il suo temperamento prima e poi le convinzioni che 
via via. si vennero elaborando in lui col maturare degli 
anni e degli studi dovettero riportarvelo fatalmente ; sic- 
ché quando, iniziati gli studi per T Eneide, immergendosi 
tutto nelle ricerche intorno alle origini e alle antichità 
romane, si trovò di fronte al Pitagorismo, che la leg- 



— 137 — 



genda collegava colla sacra figura del re Numa, che 
aveva ispirato anche V arte di Ennio e che aveva in que- 
gli anni cultori come Nigidio e come i Sestii, egli do- 
vette sentirsi preso tutto quanto da quelle idee e assimi- 
larle ancora più profondamente, tanto che ad esse volle 
poi dare anche piii precisa e piìi degna espressione là pro- 
prio dove il poema attinge la piii alta romanità e acquista 
nel medesimo tempo carattere di universalità. 

6. -- Al principio del sesto libro dell'Eneide, che si 
riteneva generalmente dagli antichi contenesse la più pro- 
fonda dottrina virgiliana, Servio credette di dover premet- 
tere queste parole: « Tutto Virgilio è pieno di scienza, 
nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui la 
parte principale è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del 
canto XI deir Odissea). Alcune cose sono dette semplice- 
mente (cioè senza allegoria), molte sono prese dalla storia, 
molte provengono dall'alta sapienza dei filosofi e teologi 
egizi ; talché parecchi hanno scritto interi trattati su cia- 
scuna di tali cose che trovansi in questo libro » . Di que- 
sti trattati peraltro a noi non ne è giunto alcuno, nemmeno 
quello, certo assai interessante dal punto di vista del 
nostro tema, che scrisse Macrobio, V erudito grammatico 
del quinto secolo ; poiché dei suoi Saturnali, che pure 
ci restano in buona parte, è andata perduta proprio quella 
parte in cui si conteneva V esame del valore filosofico 
dell' opera virgiliana (1). È un peccato, perchè Macrobio, 



(1) Il compito di talo esame se l'era assunto, nei dialoghi dei 
Saturnali, Eustaxio, filosofo per i suoi tempi assai erudito, come 
ci fa sapere Macrobio stesso fi. I, e. V); anzi, per la superiorità 
della filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni, 1' esposizione 
di Eustazio era la prima di tutte, come appare da ciò che è detto 



— 138 — 



come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gli ele- 
menti pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del 
quale, per esempio, ricordando nel commento al Somnmm 
Scipionis (I, 6, 44) il terque quaterque beati, riconosce 
neir espressione la dottrina pitagorica dei numeri (1). 

Non è certo il caso di andar cercando, come qualche 
antico ha fatto (2), io ogni espressione, in ogni parola 
di questo mirabile libro, al quale doveva ispirarsi Dante 
Alighieri^ i sensi piìi reconditi, le più astruse allegorie, 
e di immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel 
comporlo. Ma sopra un punto in particolare, che ò come 
la chiave di volta di questo canto e che indubbiamente 
è di quelli che Servio ha detto provenire dall'alta sa- 
pienza' dei filosofi e teologi egizi, noi fermeremo la nostra 
attenzione. 

Enea, con la scorta della Sibilla di Curaa è sceso al- 
l' Inferno. Passata la palude Stigia sulla barca di Caronte, 
attraversato Tanti-inferno o limbo (dove sono le anime 
dei neouaii, dei condannati a morte ingiustamente, dei 
suicidi) e ai campi dolorosi (dove sono i morti per causa 
d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra il Tartaro 



nel e. XXIY dello stesso 1. I. Senonchè il libro seguente è mu- 
tilo ; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo dpgli scrittori cri- 
stiani. si deve far risalire al tempo in cui questi tendevano ad 
accentuare il carattere profetico-cristiano di Virgilio. 

(1) Per Macrobio, Virgilio non solo ò dotto in ogni genere di 
sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al Somnimn 
lo dice nullius disciplinae expers (I, 6, 44) e disciplinaruyn orn- 
7iuim pcritissimus (I, 15, 12); così nei Saturnali (I, 16, 12): 
omnium disciplinar uni peritus. 

(2) Per esempio Elio Donato, il quale attribuiva a Virgilio un 
sapere straordinario e cercò nei suoi versi dottrine risposte e scopi 
filosofici ai quali certamente non aveva pensato mai. 



— 139 — 

(dove subiscono le pene più orribili le anime di tutti co- 
loro che in qualche modo hanno violato le leggi umane 
e divine) ò giunto neir ampio Elisio, liete pianure che 
sono il felicissimo regno dei beati 



630 



... locos laetos et amoena virecta 
fortunatorum nemoruni sedesque beatas. 



Quivi, in una luce perpetuamente serena e fiammante, 
le anime dei beati (eroi morti per la patria, sacerdoti, 
poeti, filosofi ed artisti, benemeriti della umanità) trascor- 
rono la vita su colli ameni e per valli, in prati ed in bo- 
schetti, sulle rive di ameni ruscelli, continuando le loro 
abitudini ed occupazioni terrene : fra esse è Museo, al 
quale Enea chiede notizie d' Anchise e che gli si offre 
per guida. Il padre d' Enea stava in quel momento ad 
osservare con attenzione le anime che si trovavano chiuse 
nel fondo di una valle verdeggiante, destinate a ritornare 
alla vita terrena, passando in rassegna fra esse quelle 
che dovevano rincarnarsi nei suoi discendenti, per cono- 
scerne il destino, le vicende, il carattere, le opere future. 

At pater Anchises penitus convalle virenti 
680 inclusas animas super umque ad lumen ituras 

lustrabat studio recolens omne^nque suorum 
forte recensebat numerum carosque nepotès 
fataque fortunasque virum moresque manusque. 

Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incon- 
tro, dopo il quale Enea vede da un lato della valle un 
bosco appartato e cespugli pieni di suoni e il fiume Lete 
(il fiume dell' oblio) che lambisce quelle placide sedi e 
intorno a questo una infinita moltitudine di anime svo- 
lazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro sus- 



— 140 — 

surro, simile al ronzio che fanno pei prati, nei sereni 
meriggi estivi, le api, quando si posano su ogni sorta di 
fiori e si addensano intorno ai candidi gigli (1). L' eroe, 
stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia 
quello, e che uomini quelli che si affollano così nume- 
rosi sulle sue rive. E il padre subito gli risponde : « Le 
anime alle quali ò dovuto per destino un altro corpo^ 
bevono alle onde del fiume Lete le acque che sigilleranno 
in loro per lungo tempo il ricordo degli affanni e della 
vita trascorsa »: 



715 



anìmae, quìbus altera fato 
corpora debentur, Lethaei ad fuminìs undam 
securos latices et longa oblivia potant. 



Queste anime appunto egli si accinge a mostrargli, 
enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi di- 
scendenti (i re Albani e gli eroi gloriosi di Roma da 
Silvio a Marcello il giovane) perchè s' allieti con lui di 
essere finalmente giunto alle spiaggie d' Italia. Ed Enea 
subito gli chiede : « padre, si deve dunque credere 
che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e ri- 
tornino una seconda volta neir impaccio del corpo ? qual 
mai assurdo desiderio della vita terrena hanno le infe- 
lici ?» : 

pater, anne aliquas ad caelum hine ire putandum est 

720 sublimis animas iterumque ad tarda reverti 

corpora ? quae lucis miserìs tam dira cupido ? 



(1) Nella concezione orfica pare che le anime destinate alla {pa- 
lingenesi fossero chiamate api; donde ia ragione della similitudine 

iSabbadìni). 



141 — 



Ed ecco subito Anchise esporgli quella eh' io ho chia- 
mata la storia deiranima : 

« Anzitutto un' interiore forza spirituale anima il cielo, 
la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle, e un' intelli- 
genza infusa per tutte le sue parti agita e compenetra 
la gran mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli ani- 
mali che vivono sulla terra, che volano per V aria^ che 
si muovono negli abissi del mare : essi, particelle dell'a- 
nima universale disseminate nello spazio, hanno vigore 
etereo e origine celeste ; ma, più o meno, li inceppa la 
lue corporea e le membra terrene e periture li ottun- 
dono. Ond' è che essi vanno soggetti a timori e desideri, 
a gioie e dolori e, chiuse nelle tenebre e in cieco car- 
cere, le anime disconoscono il cielo onde derivano. Tanto 
che, anche quando nel dì del trapasso le abbandona la 
vita, non si stacca tuttavia dalle infelici ogni male né 
le lasciano interamente le sozzure corporee ; molte delle 
quali anzi^ avendole profondamente intaccate, devono ne- 
cessariamente crescere nel loro intimo per lungo tempo 
in modi meravigliosi. Perciò sono sottoposte a pene e 
pagano con supplizi il fio delle passate colpe : delle cui 
infezioni alcune si purificano rimanendo sospese ed espo- 
ste all' azione dei venti, altre immerse in un profondo 
abisso d' acqua (negli abissi oceanici ?), altre bruciando 
nel fuoco. Tutti subiamo da morti la nostra espiazione, 
dopo la quale passiamo nell' ampio Elisio ; e pochi sol- 
tanto restiamo nelle sue liete pianure, finché un lungo 
volgere d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le 
traccio d'ogni sozzura contratta nel corpo e lascia puro 
il senso etereo e il fuoco della semplice aura. Tutte 
queste invece, quando son volti mille anni, sono chiamate 
da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè, immemori 



£^3SKwdilfi;wK.ai£-;j» ^ . 



- 142 — 

del passato, rivedano la volta del cielo e comincino a 
sentire di nuo^o la volontà di rincarnarsi nei corpi >/. 

€ Princìpio caelum ac terras camposque liquentìs 
725 lucentemque giobuin luriae Titaniaque astra 

spiritus intus aiit totainque infusa per artus 

mens agitat molem et magno se corpore miscet. 

inde hoDiinum peoudumque genus vitaeque volantum 

et quae marmoreo fert monstra sub aequore pontus. 
730 ignens est ollis vigor et caelestis erigo 

seminibus, quantum non noxia corpora tardant 

terrenique hebetant artus moribundaque membra. 

hinc motuunt cupiuntque, dolent gaudentque, ueque auras 

dispiciunt clausae tenebris et carcere caeco. 
735 quin et supremo cum lumi ne vita reliquit, 

non tamen omne malum miseris nec funditus omnes 

corporeae excedunt pestes, penitusque necesse est 

multa diu concreta modis inolescere miris. 

ergo exercentur poenis veterumque malorum 
740 supplicia expeudunt. aliae panduntur inanes 

suspensae ad ventos, aliis sub gurgite vasto 

infectum elicitur scelus aut exuritur igni ; 

quisque suos patimur manis ; exindo per am})lum 

mittimur Elysium ; et pauci laeta arva tenemus, 
745 donec longa dies, perfecto temporis orbe, 

concretam exemit labem purumque relinquit 

aotherium sensum atque aurai simplicis igneni. 

has omnis, ubi mille rotam volvere per annos, 

Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno, 
750 scilicet immemores supera ut convexa revisant 

rursus et incipiant in corpora velie reverti ». 

Qui non siamo più di fronte evidentemente a concetti 
vaghi e imprecisi, ma all' esposizione alta e solenne di 
una teoria, nella quale ò riaffermato anzitutto (vv. 725- 
729) il concetto di uno spirito immanente neir universo, 
di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli esseri 



— 143 — 

animati — uomini e bruti — sono delle manifestazioni ; 
cioè il medesimo concetto che abbiamo già veduto nel 
quarto delle Georgiche, e perfettamente identico a quello 
che Cicerone, come s' è visto, attribuiva a Ferecide, mae- 
stro di Pitagora (1). Di più la forza spirituale, di origine 
divina ed eterea, che è nell' uomo e negli animali, è 
concepita in perfetta antitesi con la materia del loro 
corpo, che è per l'anima un carcere, un peso, un impe- 
dimento, e che è la causa degli errori, delle passioni, 
delle colpe, dei traviamenti. Siccliè la vita è un male 
(vv. 730-734). Anche questo concetto di un dualismo o 
antagonismo fra spirito e materia non è nuovo ed ap- 
partenne già anch'esso all' antica filosofìa pitagorica, come 
s'è pure veduto (2). Ma se la vita è un male per tutti, 
per i malvagi e per i buoni, tutti, dopo la morte, deb- 
bono purificarsi delle infezioni corporee. La purificazione 
infatti avviene per mezzo di pene e di tormenti, noìi 
però eterni j che debbono subirsi per il tempo necessario 
air espiazione perfetta. 

Ne sono mezzi i tre elementi dell' aria, dell' acqua e 
del fuoco (quelli stessi che si adoperavano appunto nelle 
cerimonie simboliche dei misteri). Dopo l'espiazione pu- 
rificatrice tutte le anime passano nell'Elisio, luogo di 
beatitudine, dove alcune poche, quelle degli eletti che 
furono in terra i migliori, rimangono a godere una serena 
felicità, anche questa non eterna, ma che dura fintantoché 
non sia compiuto il tempo prescritto — tempo assai 
lungo, quanto è necessario perchè si esaurisca e scom- 
paia da sé il loro attaccamento alla vita terrena e il ri- 



Ci) De Natura Deorum 1, 11, 27 e Z)e Senectiite 21, 78. 
(2) Cicerone, Somnium Scipionis, 7, lo e altrove. 



— 144 — 



cordo delle belle opere umane (1) — per riprendere poi 
la primitiva natura eterea e spirituale e di nuovo dis- 
solversi in seno ali' anima universale. Le altre invece, e 
sono la gran maggioranza, trascorsi mille anni in una 
delle convalli confinanti con V Elisio, vengono chiamate 
da Dio a bere nelle acpue purificatrici del fiume Lete 
r oblio della vita trascorsa e si incarnano in nuovi corpi. 
Non s'intende peraltro, poicliè Anctiise non lo dice, se 
queste ultime anime, destinate a nuova vita, quando ri- 
torneranno poi ancora, dopo la seconda morte e conse- 
guente espiazione negli elementi, air Elisio, vi resteranno 
tutte in attesa di convertirsi in puro etere e spirito, o 
se parte di esse dovrà ritornare nuovamente sulla terra. 
Nel primo caso il numero delle esistenze terrene sarebbe 
limitato ar! un massimo di due — una con prevalenza 
del male e una del bene —, nel secondo sarebbe inde- 
finito. Ma in un modo o nelP altro la teoria della resur- 
rezione è assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal mo- 
mento in cui r anima si stacca dallo spirito universale 
fino al momento in cui si ricongiunge ad esso, è perfet- 
tamente conchiuso ; il concetto panteistico e il processo 
di involuzione ed evoluzione dello spirito, appena accen- 
nati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti compiu- 
tamente. Né si può dubitare che anche 1' ultima parte 
che si riferisce alle pene e ai premi d'oltretomba (vv. 735- 
747) e che espone la dottrina della metempsicosi (vv. 748- 
751), sia, come le prime, foggiata secondo i principi del- 
l' Urficismo e del Pitagorismo. 



(1) Appunto per tale attaccamento, esse continuano noli' Elisio 
le occupazioni a cui attendevano sulla terra. 



— 145 — 

7. — Sarebbe certo oltremodo interessante svolgere 
questi principii fino alle ultime conseguenze logiche, e 
chiederci, per esempio, se in tale concezione il processo 
di emanazione delle anime dallo spirito universale avve- 
nisse una volta tanto, o ad intervalli, o ininterrottamente. 
Si vedrebbe allora che, non potendo avvenire né una 
volta tanto (perchè in tal caso, col ritornare continuo 
delle anime individuali in seno all' anima universa, ne 
sarebbe seguita in un determinato momento la scom- 
parsa della vita dalla terra), né ininterrottamente (perchè 
in tal caso, essendo sempre infinitamente maggiore il 
numero dei cattivi che non quello dei buoni, a un certo 
punto sarebbe prevalso irrimediabilmente sulla terra il 
male), ma dovendo considerarsi come avverantesi ad in- 
tervalli, r idea di tale processo d'emanazione si ricolle- 
gherebbe alla teoria già accennata dei grandi anni mon- 
dani (1). Così ancora, poiché dall' anima universale ema- 
nano non solo quelle degli uomini, ma anche quelle dei 
bruti, ci si potrebbe chiedere che cosa dovesse avvenire 
di queste, alla morte dei loro corpi. E si vedrebbe come, 
dal modo in cui dovette esser risolto questo problema da 
qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi -- quasi 



(1) Ognuno di questi anni o perìodi della vita universale era 
diviso in dieci mesi (di mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto 
il particolare influsso d' una delle divinità maggiori, concepita forse, 
filosoficamente, come aspetto, manifestazione, atteggiamento, ema- 
nazione particolare del dio universale. La durata però degli anni 
stessi era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi se- 
coli ; e in ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre 
identico di emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e 
si ripetevano gli stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto 
più su (§ 4) parlando della quarta ecloga. 

10. 



— 146 — 

unanimemente attribuita a Pitagora — d' una metempsi- 
cosi anche animale (1). 

]Ma prescindendo da queste considerazioni, che ci por- 
terebbero al di là di quello che Virgilio ci lui voluto o 
potuto dire, come si concilia questa storia dell'anima 
con tutta la rappresentazione precedente dell' anti-inferno 
e dol Tartaro ? È evidente che una contraddizione fon- 
damentale esiste : che V esistenza delie anime nel prein- 
ferno e le punizioni evidentemente eterne che subiscono 
quelle dei malvagi nel Tartaro non si possono accordare 
con le pene temporanee per mezzo dei tre elementi. Sic- 
ché noi siamo indotti a pensare che iiella rappresentazione 
virgiliana dell' oltre tomba si debba forse vedere un ten- 
tativo mal riuscito — per la mancata elaborazione ultima 
del poema, impedita dalla immatura morte di Virgilio — 
di fondere insieme quella che era rappresentazione po- 
polare e il concetto o rappresentazione filosofica del poeta. 

E poiché, considerata in sé stessa, questa storia sug- 
gestiva e profonda ha un senso compiuto e perfetto, e 
d'altra parte sappiamo che Virgilio compose l'Eneide a 
pezzi staccati, che poi collegava insieme, non verrebbe 
la voglia di credere che essa sia stata scritta a parte, 
fors' anello indipendentemente e in tempo anteriore a 
quello della composizione del poema, e poi opportuna- 
mente inserita in questo, allorché il poeta — artista, tì- 



(1) Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le incarnazioni del- 
l' anima fossero non tutte necessariamente in corpo umano, ma 
anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei, secondo che 
le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto clie nel-' 
r altro elemento : e la vita animale avrebbe perciò rappresentato 
uno stato di vita intermedio fra due vite umane. 



147 



losofo, cittadino nello stesso tempo - concepì l'idea di 
valersi, per esaltare la grandezza della Patria e per la 
rappresentazione dei grandi spiriti di Roma, della dot- 
trina della metempsicosi, antichissima e largamente dif- 
fusa e conforme alle credenze religiose dei suoi concit- 
tadini e già consacrata dall' arte di Ennio ? Anzi non mi 
parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse 
proprio vedere in essa un brano di quei poema della 
Natura al quale Virgilio già pensava quando finì il se- 
condo canto delle Georgiche (vv. 475-494), e forse ad- 
dirittura il principio del poema stesso o 1' idea madre 
eh' esse avrebbe svolta : principio ed idea eh' egli certo 
prese e imitò da Ennio, i cui Annali, come abbiamo ve- 
duto, si iniziavano appunto con 1' esposizione della dot- 
trina della metempsicosi (1). In tale ipotesi dunque la 
teoria messa in bocca ad Anchise non sarebbe soltanto 
una finzione poetica, un mezzo artisticamente perfetto 
per ottenere una grande e suggestiva efficacia di rappre- 
sentazione, ma esprimerebbe Ja genuina e schietta con- 
cezione di Virgilio, il risultato ultimo di quel contrasto 



(1) Molti raffronti fra Ennio e Virgilio fa Macrobto nel 1. VT 
dei Saturnali; ma, per dire la verità, non vi è cenno alcuno di 
rapporti formali o sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad Enea 
e quella di Omero ad Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne 
parlasse in quella parte dei Saturnali che ò andata perduta e nella 
quale appunto si conteneva l' esame del valore filosofico dell'opera 
virgiliana fatto da Eustazio. D' altra parte però è indubitabile una 
effettiva somiglianza di contenuto fra i due squarci poetici, come 
sono indubbie alcune analogie di pensiero fra i due poeti. E gli 
arcaismi che si trovano in Virgilio (ollisj aurai) potrebbero essere 
un altro indizio d' imitazione enniana. — Anche il Pascal (Coni- 
mentat. vergilianae, p. 143 sgg.) ha dimostrato che Virgilio ha 
derivato la sua esposizione dottrinale dal proemio degli Annales. 



^.^. 148 — 

a cui abbiamo accennato fra V idealismo pitagorico-stoico 
e li materialismo epicureo, sarebbe insomma il suo testa- 
mento filosofico. Mirabile testamento davvero, che la- 
sciava in eredità alle più lontane generazioni T alta e 
sublime espressione artistica d' una teoria che, sorta agli 
albori del ponsiero nelle più remote età dell' uomo, tra- 
smessa di generazione in generazione da una civiltà al- 
l' altra, dall'Oriente al!' Occidente, custodita con cura 
gelosa nel mistero dei santuari, insegnata come la verità 
più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una volta, 
come già nei miti immortali di Platone, alla luce della 
poesia e dell' arte. 



V. 



Pitagora e h sue dottrine nella poesia di Ovidio. 

i. La tradizione di Ninna scolaro di Pitagora in Ovidio. — 2. Na- 
tura, ostensione, contenuto degli insegnamenti pitagorici secondo 
il canto XV delle Metamorfosi : vegetarianismo ; metempsicosi ; 
flusso universale della materia e trasformazioni cosmiche e so- 
ciali; Pitagora profeta della grandezza di Roma e d'Augusto. — 
3. Ovidio e il Pitagorismo. — 4. Fonti e valore storico della 
esposizione ovidiana. — 5. Conclusione. 



1. -— Ilo già parlato nel cap. I della tradizione, se- 
condo la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato sco- 
laro di Pitagora. Raccogliendo là tutte le testimonianze 
di questa tradizione, ho anche accennato a quella che ne 
fa Ovidio (43 a. C. - 17 d. C.) nel quindicesimo e ultimo 
canto delle Metamorfosi (vv. 1-8, 479-484). Essa ha una 
importanza specialissima e merita di essere studiata sepa- 
ratamente dalle altre anche per questo, che della tradi- 
zione stessa il poeta si vale per fare un'esposizione, se 
non profonda, tuttavia molto estesa — la più estesa e la 
più organica che ci rimanga nella letteratura romana — 



— 150 — 

della filosofia pitagorica, specialmente in attinenza a due 
punti fondamentali di essa: Tastensione dai cibi carnei e 
la metempsicosi. 

Dice dunque Ovidio (vv. 1-8) che, scomparso Romolo, 
si cercò subito chi potesse addossarsi un peso tanto grave 
com'era il governo di Roma, succedendo a un tal re, e 
che una fama non menzognera designò all'impero Numa, 
già famoso per la sua giustizia, per la sua pietà, e, so- 
pratutto, per la sua sapienza : che, non solo conosceva a 
perfezione i riti della sua gente, la gente Sabina, ma, 
abbracciando con la vasta anima più larghi concepimenti 
ed essendo avido di scrutare i più ardui problemi della 
natura, aveva abbandonato la nativa Curi e si era recato 
a Ci'otone : 



Quaeritur interea qui tantac pondera molis 
Suistineatj tantoque queat succedere regi. 
Destinai imperio cìarttni praenuntia veri 
Fama Numaìn. Non ille satis eognosse Sahinac 
5 Qentis hahet ritus: animo viaiora capaci 

Goncipitj et quae sit rerwìn naiura requirit, 
Huius amor curae^ patria Guribusque rclictisj 
Fedi, ut Herculei penetrar et ad hospitis urbcm. 

Quivi insegnava Pitagora — e segue appunto nei versi 
60-478, l 'esposizione delle dottrine di questo filosofo, che 
or ora esamineremo — e Numa ne ascoltò le lezioni; dopo 
di che ritornò in patria e prese le redini del governo di 
Roma, insegnando al popolo del Lazio i riti sacrificali e 
le arti della pace: 



480 



Talibus atque aliis instructo pectore dictis 
In patriam re^neasse ferunt^ ultroque petitwtn 
Acoepisse Numam populi Latiaris habenas : 
Coniuge qui felix nympha ducibusque Gamenis 



— 151 — 



Sacrificos docuit ritus, gentemquc feroci 
\ Adsuetam bello pacis traduxit ad artes. 

Come si vede — e l'ho già rilevato, — Ovidio non 
solo accetta senza discuterla, come cosa ovvia e risaputa, 
la tradizione che faceva di Numa un discepolo di Pita- 
gora, ma vien pure in certo modo a mettere in connes- 
sione di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a 
Numa e l'educazione pitagorica da lui ricevuta; per 
quanto con l'accennata collaborazione della ninfa Egeria 
e delle Camene la leggenda abbia certamente voluto rap- 
presentare la parte che ebbe l'elemento indigeno nella 
creazione degl'istituti religiosi romani del più antico pe- 
riodo regio (1). Il poeta pertanto, non tenendo conto dei 
dubbi e delle critiche messe innanzi da qualche erudito, 
preferì seguire senz'altro la tradizione leggendaria, che 
pur Cicerone aveva chiamata inveteratns hominmn error; 
e ciò non tanto perchè siffatta tradizione gli offriva mi- 
rabilmente il modo di esporre quella dottrina della me- 
tempsicosi ch'era la più naturale conclusione d'un poe- 
ma come le Metamorfosi, quanto perchè, molto probabil- 
mente, la tradizione era più che mai viva nella coscienza 
dei contemporanei, per i quali il poeta scriveva (2), mas- 
sime dopo la recente rinascita del Pitagorismo in Roma. 

(1) Lo stesso Ovidio, in altro luogo (Fast. Ili, 151-154) accenna 
alla possibilità che la riforma del calendario sia stata ispirata a 
Numa dal filosofo di Samo : « Primus.,., Pompilius menses sen- 
sit abesse duos Sive hoc a Samio doctus, qui posse renasci Nos 
putat, Egeria sive monente sua ». 

(2) Un ultimo accenno alla medesima tradizione si legge nella 
terza elegia del terzo libro delle Fontiche, dove il poeta, immagi- 
nando di parlare in sogno all' Amore di cui si professa maestro, 
lo rimprovera di essersi comportato verso di lui ben altrimenti da 
quello che fecero altri discepoli verso i loro maestri : Eumolpo 
verso Orfeo, Achille verso Chirone, Numa verso Pitagora, ecc. : 



/■ 



— 152 — 

2. — In Crotone teneva dunque scuola Pitagora; :1 
quale, nativo dell'isola di Samo, aveva abbandonato spon- 
taneamente la patria, mal sopportando la tirannide ond3 
ora governata, e s'eia dato a profondi studi di filosofia. 
Per virtù di questi « egli potò elevarsi con la mente, 
per quanto fossero lontani nella immensità dello spazio 
celeste, fino agli dei e scrutare con gli occhi dell'intel- 
letto ciò che la natura ha negato alla vista degli uomini »: 

60 Vtr fuit hicy ortu Samius ; sed fugerat una 

Et Samoìi et dominos^ odioque tyrannidis exul 
Sponte erat, Isque^ licei caeli regione remotos^ 
Mente deos adiit et quae natura nogabat 
Visibus hurnanis^ oeulis ea pectoris hausit. 

Ecco subito, in questi magnifici versi, messo in evi- 
denza Pitagora, e determinata con molta precisione e con 
grande efficacia rappresentativa la natura del suo misti- 
cismo, fondato sopra l'esercizio assiduo delF intelletto e 
la profonda intensità del meditare, per giungere alla vi- 
sioiie e alla comprensione delle pii^i alte verità. 



65 



70 



Cumque animo et vigili perspexerat omnia eiira 
In mediuìn discenda dahat, coetusquc silentuiu 
Dictaqtie miranturn magni primordia mundi 
Et rerum causas et, quid natura, docehat : 
Quid deus, unde nives^ quae fulminis essct origo, 
luppiter an venti discussa nube tonarent^ 
Quid quateret terras, qua sidcra legc mcarent, 
Ed quodeumque latet. 

Ai non Ghionides Eumolpus in Orphea talis ; 

In Phryga nec satyrum talis Olympus erat ; 
Praem,ia nec Chiron ab Achilli talia cepit, 

Fythagor aeque ferunt non nocuisse Numam. 
Nomina neu referam, longum collecia per aevum, 

Discipulo perii soliis ab ipse meo. 



— 153 — 

e' in questi altri versi ecco parimenti accennata con 
grande chiarezza la vastità e larghezza degl'insegnamenti, 
che il filosofo impartiva all'attonita e silenziosa schiera 
dei discepoli e che abbracciavano « le origini primordiali 
dell' universo, le cause della materia e l'essenza della na- 
tura e della divinità, l'origine delle nevi e del fulmine, 
del tuono e del terremoto e le leggi onde è regolato il 
corso degli astri: insomma, tutti i problemi più reconditi 
della filosofia naturale e della scienza » (1). 

Egli per primo, aggiunge ancora il poeta, vietò di ci- 
barsi di carne, sconsigliando bensì tale astensione con 
molta dottrina, ma senza riscuotere la meritata approva- 
zione : 

Primusque aniinalia mensis 
Arguii imponi : primus quum talibun ora 
Docla quidem solvit, sed non et eredita, vcrbis. 

Ed ecco appunto il filosofo combattere, in prima per- 
sona, l'uso delle carni (vv. 75-95) e descrivere l'età del- 
l'oro, quando gli uomini non -conoscevano ancora tale 
uso (vv. 96-142); e poi, ispirato dalla divinità, eccolo ac- 
cingersi, con più alto afflato poetico, a trattare questioni 
più ardue e a svelare più riposti misteri : 

Et quoniam deus ora movet, sequar ora moventcm 
Rite deum, Detphosque tneos ipsumque reoludam 
145 Aethera et augustae rescrabo oraeula mentis. 

Magna, nee ingeniis evestigala priorwn, 
Quaeque din latuere, canam. luvat ire per alta 



(1) I vv. 67-71, che riassumono la supposta fisica pitagorica, 
sono manifestamente ispirati da Lucrezio, dico il Lafaye, Les mé- 
iamorphoses d'Oride et leurs modèles grecs, Paris, Alcan, 1904, 
p. 197; masi accordano pure benissimo coi principii dello stoicismo. 



tWlBiTllilìillllT-li 



I 



150 



— 154 — 

Astra; iuoat terris et inerti sede relieta 
Nube vehiy validique umeris insistere Atlantis, 
Palantesque koniines passim ac rationis egcntes 
Despectare procul^ trepidosque obitumque timentes 
Sic exkortarì, seriemque evolvere fati. 



« E polche sento di parlarvi per ispirazione divina, 
seguirò gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il 
rito, e vi svelerò i miei arcaui e lo stesso etere e vi 
schiuderò gli oracoli fin qui nascosti nel profondo della 
mia mente. Vi canterò cose grandi, né mai scrutate dalle 
menti dei padri, e che per lungo tempo restarono occulto. 
Mi piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace abban- 
donata la terra e questa inerte dimora, lasciarmi traspor- 
tare da una nube e poggiare sulle spalle del vigoroso 
Atlante e guardare da lontano gli uomini sparsi qua e 
là e ancora irragionevoli, e ad essi, che aspettano con 
trepido timore la morte, infondere coraggio e schiudere 
la visione del loro destino con queste parole... » 

Siamo alla rivelazione della metempsicosi, la cui cono- 
scenza appunto deve distruggere negli uomini il timore 
della morte : 



155 



genus attonituni gelidae formidine mortis ! 
Quid Stygaj quid tenebras et noìnina vana timetis, 
Materiem vatum, falsique perieula ìnuìidi? (1) 
Cor por a ^ sive rogus fiamma ^ seu tabe vetustas 
Abstulerit^ mala posse pati non ulta putetis. 
Morte carent animae; semperque priore relieta 
Sede novis domibits vivunt habitantque receptae. 



(1) Cade ovvio a questo punto il raffroato coi famosi versi delle 
Georgiche (II, 490-492) : 

Felix, qui potuit rerum cognoscere caussaSy 
Atque metus omnis et inexor abile fatum 
Subiecit pedibus strepitumque Ackerontis avaria 



ì 



— 155 — 

« schiatta attonita per lo spavento della fredda morte ! 
Che temete lo Stige, la tenebra e i suoi nomi vani, fan- 
tasie di poeti e pericoli d'un mondo inesistente? Non 
crediate che i corpi, o li abbia distrutti il rogo con la 
sua fiamma, o il tempo con la putredine, possano soffrire 
mali di sorta. E quanto alle anime, esse non muoiono : e 
sempre, abbandonata una sede, vivono e abitano in di- 
more che nuovamente le accolgono ». 

E in prova di ciò Pitagora ricorda (vv. 160-164) d'es- 
sere vissuto ancora, al tempo della guerra troiana, nel 
corpo d' Euforbo. Poi segue, più specificatamente chiarita 
ed espressa, la dottrina della metempsicosi animale, vol- 
garmente attribuita a Pitagora : 

165 Omnia mutaniur, nihil interit : errai et Mine 

Huc venit, hinc illue, et quoslibet oempat artus 
Sinritm; eque feris humana in coi-pora tramit, 
Inque feras noster, nee tempore deperii ulto, 
Vtque novis facilis signatur cera figtiris, 

170 Nec manel ut fuerat, nee formas servai easdcm, 

Sed lamen ipsa eadem est; animani sic sernper candem 
Esse, sed in varias doceo migrare figuras. 

« Tutto si trasmuta, niente muore. Lo spirito va er- 
rando e si muove di là a qui, di qui a là, e s'incarna 
nel corpo che si presceglie; e dalle fiere passa nei cor- 
pi umani e viceversa, ne mai vien meno. E come la molle 



che SI sogliono riferire ad Epicuro. Entrambi i filosofi dunque giun- 
gevano alla medesima conseguenza pratica (inanità del timore della 
morte) partendo da premesse assolutamente opposte : 1' uno, cioè 
Pitagora, dimostrando che il morire è soltanto trasformazione, o 
passaggio dell' anima d'una in altra forma di vita corporea; 1 al- 
tro cioè Epicuro, dimostrando che il morire è annientamento to- 
tale e definitivo della personalità per il disgregamento degli atomi 
onde l'anima si compone. 



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— 156 — 

cera si foggia in nuove figure, sì che, pur non restando 
quale era prima e non conservando le stesse forme, tut- 
tavia è sempre la stessa, così vi dico che l'anima è sem- 
pre la medesima, senonchè passa sotto varii aspetti » (1). 

Da ciò un nuovo argomento per astenersi dall'usar 
carne (vv. 173-175). 

A questo punto la trattazione di Pitagora si allarga, e 
il filosofo passa a dimostrare V evoluzione perpetua e il 
divenire incessante di tutto il creato : 

Et quoniam ìnagno feror acquare plenaquc veìiiìs 
Vela dedi : niliil est tato, quod perstet, m orbe. 
Cimcta fluunty ornnisque vagans fonnahir imago, 

« E poiché, aperte le vele al vento, navigo in alto 
mare, sappiate che non vi è nulla di immobile in tutto 
l'universo. Tutto fluisce, e si foggia incessantemente ogni 
mutevole aspetto j^. 

E questa nuova proposizione illustra con una lunga 
serie di esempi, tratti dai fenomoiii celesti, dall' avvicen- 
darsi delle stagioni, dalla vita dell'uomo e dalle vicissi- 
tudini degli elementi (vv. 179-251). 

Ma la natura non ci offre solo lo spettacolo di muta- 
menti regolari, determinati da leggi immutabili ed uni- 
versali; si compiono anche intorno a noi, nei corpi inor- 
ganici e negli organici trasformazioni impreviste, che i 
saggi osservano con curiosità, ma di cui essi ignorano 
le cause : questi fenomeni straordiìiari — spesso elencati 
e descritti nei periodo alessandrino, in opere intitolate 



(1) Questa prima parte dell'esposizione ovidiana è molto proba- 
bilmeote modellata sul « Sogno » degli Annali di Ennio di cui si 
e già visto. 



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— 157 — 

Paradoxa — Ovidio li fa esporre da Pitagora, non sen- 
za qualche anacronismo, nei vv. 252-417 (i vv. 307-336 
riguardano le proprietà di certi corsi d'acqua^ mirabilia 
fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri (vv. 418- 
452), che descrivono le rivoluzioni avvenute nelle società 
umane, sino al glorioso principato d'Augusto, predetto 
già da un oracolo fin dal tempo della caduta di Troia : 

Nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romani^ 
Appenninigenae quae proxima Thyhridis undis 
Mole sub ingenti rerum fundamina ponit. 
Haec igitur far mani crescendo mutata et olini 

435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates 

Vaticinasque ferunt sortes : quantumque recordor, 
Dixerat Aeneae^ cuni res Troiana labaret^ 
Priamides Helenus flenti dubioque salutis : (1) 
« Nate dea^ si nota satis praesagia nostrae 

440 Mentis habes^ non tota cadet te sospite Troia. 

fiamma libi ferrumque dabunt iter: ibis, et una 
Pergama rapta feres, donee Troiaeqiie tibique 
Externum patria conlingat amicìus arvum, 
Urbem etiam cerno Phrygios debere nepotes, 

445 Quanta nec est nec erit nee visa prioribus annis. 

Hanc aia proceres per saecula longa potentem,, 
Sed dominam rerum de sanguine natus luli 
Efficiet. Quo cum tellus erit usa, fruentur 
Aetheriae sedes^ caelumque erit exitus UH ». 
Haec Helenum cecinisse penatigero Aeneae 
Mente memor refero, cognataque moenia laetor 
Crescere, et utiliter Phry gibus vicisse Pelasgos. 

Così Pitagora ò fatto profeta della divina e fatale po- 
tenza d'Augusto, come con analogo procedimento, nel 



(1) La sola predizione che troviamo accennata, a proposito di 
Enea, nei poemi omerici, si legge nel e. XX àoiV Iliade (vv. 302, 
30G-308), e fu riprodotta da Virgilio {Aen.^ Ili, 97-98). 



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- 158 — 

poema virgiliano la dottrina pitagorica della metempsicosi 
è assunta quale mezzo artistico per la predizione della 
futura grandezza di Rom^». 

Nei pochi versi che seguono (453-478) Pitagora fiual- 
raPììte ritorna al punto di partenza e conchiude : « Poi- 
ché tutto cambia, poiché al termine della vita la nostra 
anima passa in nuovi corpi, anche animali, non uccidia- 
mo le bestie; chi può sapere se, uccidendole non faccia- 
mo scorrere il sanirue di nostri congiunti ? » . 

3. — Analizzato così il contenuto della esposizione 
ovidiana, vien fatto naturalmente di chiedersi quale sia 
stato r atteggiamento del poeta di fronte al Pitagorismo. 

Ne fu egli per avventura un seguace ? A questa do- 
manda noi possiamo rispondere negativamente senz'om- 
bra di esitazione : la vita e l'operosità poetica di Ovidio, 
anche nel periodo posteriore alla composizione delle Me- 
tamorfosi, furono in antitesi troppo stridente con gl'inse- 
gnamenti e la pratica pitagorica, per poter immaginare 
pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a 
quelle dottrine ; d' altra parte Ovidio non ebbe certo tem- 
pra di filosofo né eccessivo amore per le ricerche e spe- 
culazioni astruse. Che però una certa simpatia, o almeno 
una certa insisten.za del suo pensiero su quella filosofia 
ci sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua 
maggiore le ha fatto così larga parte, con una esposizio- 
ne quasi sistematica, ma altre volte ancora accenna ad 
essa, come nel citato luogo dei Fasti e in alcuni versi 
delle Tristezze (1). 



— 159 — 

E quasi certamente poi questa predilezione del poeta 
si deve ritenere l'effetto della rinascita del Pitagorismo, 
che era stata operata in Roma da Nigidio nella prima 
metà del secolo (onde abbiamo già visto quante e quali 
traccie se ne riscontrino nella letteratura dell'età di Ci- 
cerone e di Varrone), e che al tempo stesso del poeta 
fece sorgere la scuola dei Sestii : sì che Ovidio potè averne 
notizia sia dalle opere degli scrittori che appartenevano 
alla generazione precedente alla sua, sia dalla viva voce 
e dagli scritti di qualcuno dei nuovi seguaci. 

4; — Gli studiosi infatti che, proponendosi la questio- 
ne delle fonti di quest'ampia trattazione ovidiana del Pi- 
tagorismo, hanno cercato di risolverla, per poter quindi 
determinare il valore storico della trattazione stessa, hanno 
riconosciuto in sostanza che tali fonti debbono essere 
state le opere varroniane (le Antniuitates rerum duri' 
narum e sopratutto il dialogo Oalhis^ de admirandis) 



(1) 'Irist., Ili, 3, 59-64: 

Atque utinaw per ermi animae cuvi cor por e nosirae^ 
Effugiatque avidos pars mihi nulla rogoa. 



Nam si morte carens vacua troiai altus in aura 
SpirituSy et Samii sunt rata dieta senis, 

Inter Sarmaticas Romana vagahitur umhras^ 
Perque [eros manes hospita semper erit. 

Il poeta si augura che abbiano ragione coloro che « 1' anima col 
corpo morta fanno » e che nessuna parte del suo essere sfugga 
alle fiannne del rogo, poiché diversamente, egli dice, « se Io spi- 
rito, immortale, vola alto nelle vuote regioni dell' aria e sono veri 
gì' insegnamenti del vecchio di Samo, 1' ombra di un Romano sarà 
costretta a vagare fra le ombre dei Sarmati e sarà sempre un'e- 
stranea tra feroci anime di morti ». Il passo è importante, perchè 
mostra che, di fronte al pensiero della morte, il poeta era in so- 
stanza ancora incerto fra coloro che negavano e quelli che affer- 
mavano la immortalità dell'anima. 



^^ 160 _ 



oppure gli scritti di Nigidio, o dei Sestii, od anche dei 
loro discepoli Papirio Fabiano e Sozione (1). 

Sicché, qualunque si accetti delle ipotesi messe innanzi, 
sta di fatto che le fonti a cui Ovidio ha attinto non sono 
molto anteriori a lui. 

D'altra parte, anche tenendo conto del fatto che Ovidio, 
pili poeta che filosofo, non intese certo di trattar Targo- 
mento con rigore di metodo scientifico e filosofico, atte- 
nendosi scrupolosamente a questo o a quell'autore ; ma 
che avrà usato di una certa libertà e indipendenza, e che 
(pur valendosi, se si vuole di uno o piìi modelli, oltre 
che dei ricordi e delle cognizioni sue personali) avrà se- 
guito soprattutto il suo sentimento artistico, giovandosi 
della materia dogmatica nella forma genuina soltanto 
nei limiti atti a recare efficacia estetica air opera sua e 
non poco forse aggiungendo, sopprimendo o modificando 
di sua propria intenzione; si è riusciti tuttavia a mo- 
strare, per esempio, che certe intrusioni nel sistema pi- 
tagorico di principii appartenenti ad altri sistemi — come 
a quelli di Eraclito e di Empedocle — non sono affatto 
imputabili ad Ovidio, ma dovevano già essere avvenute 
negli scrittori dai quali egli attinse (2). La sua esposi- 



fl) Si vedano in proposito le opere seguenti : Hottingkr, T)e 
Pythagora ovidiano (in Opusrula philologica, Leipzig 1817, pag. 
100-107); A. ScHMEKEL, De ovidiaìia Pytkagoreae doctrinae adum- 
bratione. Gryphiswad, 1885 e Die Philosophie der ìnittleren Stoa, 
Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove sono modificata in parte le 
conclusioni dell'opera precedente); G. Lafaye, op. cit., cap. X. 

(2) Per Eraclito si veda C. Pascal, La dottrina pitagorica e la 
eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova, 1909 ripubblicalo 
nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920, p. 207 ; e 
per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta, Firen- 
ze, Le Mounier, 1904, pag. 129-151. 



— 161 - 

zione del sistema di Pitagora acquista pertanto il valore 
di documento storico, in quanto che, supplendo in parte 
alla deficienza delle nostre cognizioni in proposito, dovuta 
alla perdita delle opere di Varrone, di Nigidio, dei Sestii, 
ci mostra molto approssimativamente in che consistesse 
il neo-pitagorismo romano del primo secolo avanti Cristo. 



5. ,— L'esame che abbiamo così compiuto della lettera- 
tura latina dalle origini fino a tutto il secolo della sua 
maggior ficnitura ci ha dimostrato non solo che il Pita- 
gorismo fu nelle varie età di Roma abbastanza largamente 
conosciuto, ma che d'ispirazione pitagorica sono alcune 
delle pii^i eloquenti pagine che quei tempi ci Hanuo tra- 
mandate, come il sogno di Ennio, il sogno di Scipione 
e il sesto canto dell' Eneide: sicché dobbiamo concludere 
che nelle idee che quel sistema svolse era implicita una 
grande e mirabile virtù di esaltazione poetica ed artistica . 
Se riflettiamo d'altra parte che quelle idee esercitarono 
notevole influsso nel sorgere delle più antiche istitu;5Ìoni 
romane, e che contro di esse mossero guerra invano l'arte 
titanica di Lucrezio, la satira maliziosa di Orazio, la forza 
politica di Cesare e di Augusto (nella lotta contro il so- 
dalizio di Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii), dobbiamo 
tenere per certo che in esse fosse insita una grande forza 
di resistenza e quella specie di. malìa fascinatrice che su- 
scita le più alte energie morali. Se le idee tanto più val- 
gono quanto maggiore è il sentimento, che le accompagna 
e che le trasforma in forze vive cioè operanti nella vita 
degli individui e dei popoli, le concezioni pitagoriche, 
venute da sì lontane scaturigini e assurte a così varie, 
molteplici, alte manifestazioni d'arte, di pensiero, di mo- 
li. 



— 162 — 



ralità nel periodo della civiltà romana, ebbero certo valore 
altissimo. 

Che se poi, uscendo fuori dai limiti del nostro tema, 
pensiamo, alla forza di resistenza che esse mostrarono, al 
loro persistere attraverso i secoli e attraverso tante vicis- 
situdini del pensiero, al loro successivo e alterno rina- 
scere con sempre rinnovato vigore nei momenti di più 
intensa attività spirituale — nella Magna Grecia con Pi- 
tagora, in Atene con Platone, in Alessandria coi teosofi 
neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio, in Co- 
stantinopoli con l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ul- 
timo rinascimento con Giordano Bruno — e se riflettiamo 
che oggi ancora esse vivono nell' Oriente asiatico, ope- 
ranti con la forza della fede in milioni di coscienze, e 
che accennano per diversi segni, in questa nuova prima- 
vera dell'idealismo, a risorgere anche nel mondo occiden- 
tale (1), noi possiamo con sicurezza affermare che esse 
non furono apparizione fugace ed effimera d'un pensiero 
individuale, ma parole di quel linguaggio eterno che sgorga 
perenne dalle più profonde radici dell'anima umana. 



APPENDICI 



I. 



K UPHO H^OS. 



(1) Si veda, per esempio, tanto per citare un magnifico libro di 
scienza, l'opera di W. Mackenzie Alle fonti della vita (Genova, 
Formiggini, 1912) e la recensione clie io ne feci nel Oiornale del 
Mattino di Bologna del 7 marzo 1^12. 



1. La figura di Euphorbos uell' Iliade, 
di Euphorbos. - 



Pitagora rincarnazione 



3. Altre incarnazioni di Pitagora. 



1' \ 



Pubblicato nella Rivista Ligure di Seienxe , Lettere ed Arti^ 
a. XXXIX, fase. 2 (inarzo-apiilu 1912) Genova. 



• 1. — V'è forse alcuno per il quale, meglio che per 
Euphorbos figlio di Panto, possa ripetersi il famoso ver- 
so dell'antico commediografo, che il Leopardi tradusse 
« muor giovane colui ch'ai cielo è caro » ? Poiché ve- 
ramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli anni 
sotto le mura della sua Troja per mano del divino Me- 
nelao, dopo aver ferito^ primo fra i Trojani, il fortissimo 
Patroclo, Euphorbos ebbe la ventura non solo di una 
spiritual vita immortale ne la immortalità dell' Iliade, ma 
di lasciare altresì il suo nome, come ora vedremo, legato 
per sempre al ricordo di un grande pensiero e di ujia 
più grande vita : al pensiero e alla vi+a di Pitagora. 

Fusa nel vivo indistruttibile metallo della poesia d' 0- 
mero, la figura del giovinetto eroe appare, nel racconto 
dell' antica gesta, nel momento più acuto delF azione guer- 
resca. Quando, per l'ostinato disdegno di Achille, più 
grave è per i Greci il pericolo nella memoranda giornata 
del combattimento presso alle navi, Patroclo, indossate le 
armi dell'amico e ricondotti i Mirmidoni alla battaglia, 



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verso Torà del tramonto si trova coi suoi di fronte ad 
Ettore, che Apollo protegge : in tre assalti egli ha uccisi 
« tre volte nove » nemici, ma al quarto assalto un colpo 
del dio gli ha tolto Telmo, infranta la lancia, fatto cadere 
lo scudo, slacciata la corazza: 

II. XYI, 805 Smarrito il cor, fiaccate le valide membra, fermossi 
e titubò. Di dietro allor con la punta de l'asta 
infra le spalle, al dosso, lo colse da presso un trojano, 
il Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli eguali 
con la lancia e sul cocchio e al muover degli affili piedi, 
ed anche allor, venuto appena sul carro, sbalzati 
venti nemici avea, di guerra già prode campione. 
Primo ei vibrò con 1' asta un colpo su Patroclo auriga ; 
ne lo scrollò; poi corse indietro e tornò ne la mischia, 
tratta fuor da le carni la lancia di frassino; incontro 
Patroclo, ancor che ignudo, ei già non attese a TasRalto (1). 
Patroclo allor, stordito dall'urto di Febo e da Tasta, 
anco a 1' amiche schiere traeva, fuggendo la morte. 
Ma com' Ettore vide dal ferro piagato ritrarsi 
Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia, 
presso gli venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse 
sotto a r addome : fuori n' uscì da l'opposto la punta. 
Quei con fragor giù cadde, e grave fu il lutto de' Danai. 



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(1)1 versi 814-'B15 trovo segnati come spurii nella quinta edi- 
zione del DiNDORF, curata dallo Hentze (Lipsia, 1890), sulla quale 
è stata condotta la presente traduzione. Ma non mi pare che sia 
proprio necessario inquadrale fra parentesi i due versi, così ome- 
rici pur nell'apparente disordine dei particolari accennati : prima 
la pronta ritirata del giovinetto trojano, })0Ì il trarre dalle carni 
di Patroclo Tasta; T idua preponderante per il poeta (cantore in- 
nanzi a un pubblico di ascoltatori), dopo accennato T ardito colpo 
del giovine, è <[uella del suo rapido sottrarsi alla vendetta di Pa- 
troclo ; fermata questa, il poeta si riprende par aggiungere an- 
cora un particolare descrittivo (lo sforzo dello strap[)aro dalla fe- 
rita la lancia) p per nnoalzaru Tidea della fuga di fronte a Patroclo, 



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Suir eroe atterrato Ettore si vanta e lo schernisce, ma 
il caduto ne rintuzza V orgoglio, affermando che la vitto- 
ria non è stata merito suo, sì degli dei: che lo hanno 
ucciso la Moira e il figlio di Latona « e, degli uomini, 
Euphorbos »; e predettagli la fine imminente per mano 
d'Achille, muore e rimane supino in mezzo al campo di 
battaglia, mentre Ettore insegue Automedonte, che cerca 
di portare in salvo il cocchio d'Achille. 

A guardia del cadavere di Patroclo si fa innanzi l'A- 
tride Menelao, armato di lucido bronzo, tenendo davanti 
al morto, in sua difesa, la lancia e il rotondo scudo, fer- 
mo d'uccidere chiunque osi accostarsi. Ed ecco ancora 
Euphorbos, il cui intervento dà luogo ad uno dei più 
begli episodi delia battaglia : . 

IL XVII, 9 Pronto di Panto il figlio, esperto ne Tasta(l), s'avvide 
ch'era atterrato Patroclo, e fattosi subito innanzi 



V 



che, pur ferito e spoglio della difesa delle armi, era sempre un 
troppo temibile nemico, anche per un più esperto guerriero che 
non fosse Euphorbos. Poiché Omero non ha voluto certo rappresen- 
tare questa fuga come atto di viltà ! È tutt'altro che vile il figlio 
di Panto, come dimostrerà fra poco nelT impari duello con Mene- 
lao. Sicché non mi pare corrispondente né allo spirito né alle pa- 
role del testo omerico la traduzione che dà il Monti di questo passo: 

Anzi dal corpo ricovrando il ferro 

Si fuggì pauroso j e nella turba 

Si confuse il fellon, che di Patroclo 

Benché piagato e già dell'armi ignudo 

Non sostenne la vista. (//. XVI, 1146.1150) 

(1) L'epiteto (eummelies) non é certo ozioso : infatti già il poeta 
ha detto che Euphorbos primeggiava fra i coetanei « con la lancia » 
iXVI, 809), e che « con Tasta acuta » ha ferito Patroclo (XVI, 806 
e XVII, 15), come con Tasta dà un colpo iT ultimo !) nello scudo 
di Menelao (XVII, 43-45). 






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disse al Aglio trAtreo, al prode guerrier Menelao : 

« Menelao, divino germoglio, signor di gran genti, 

vanne, abbandona il morto, qui lascia le spoglie cruento (1). 

Prima di me nessuno, fra' Teucri o gì' illustri alleati, 

giunse con V asta Patroclo, in mezzo al furor de la mischia: 

lascia ch'io m' abbia dunque quest'inclito onor fra' Trojaiii, 

che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro ». 

Bieco d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo : 

« Bello davver, gran Giove, con tanta insolenza vantarsi ! 

Certo mai fu sì grande '1 furor di pantera o leone 

di cignal feroce, a cui nel fierissimo petto 

gonfiasi il cor superbo, alter di sua grande possanza, 

qual de* figli di Panto, esperti ne Tasta, è la boria ! 

Né ad Iperènor tuo, rettor di cavalli, già valse 

di giovinezza il fiore, allor che sprezzante aifrontommi 

e disse me fra' Danai il piii dispregevol guerriero ! 

Or ei non più, te '1 dico, da' suoi propri piedi portato, 

ad allietar ritorna la cara consorte e i parenti ! 

Così la tua baldanza, se pur d'affrontarmi tu ardisci, 

rintuzzerò. Ma io ancor ti consiglio a ritrarti 

dov'è folta la turba. Chi è saggio prevede l'evento ». 

Disse così, ma quello ne pur gli die retta e rispose : 

« Or, Menelao divino, trar dunque dovrò gran vendetta 

pel fratel eh' uccidesti - e ancor tu me 'l dici vantando - 

e nel segreto talamo tu n'hai vedovata la sposa, 

e i genitor nel lutto e in muto cordoglio gittasti ! 

Oh ! che per me dei miseri avrebbe il cordoglio una tregua, 

se la tua testa io stesso e l'armi portandomi in Troja, 

fra le man le gittassi a Panto e a la diva Frontide! 

Ma non più a lungo, omai, s' indugi a far prova con l'armi 

s' io m' abbia saldo il core o pieno di vile paura *. 

Detto così, die un colpo nel tondo perfetto suo scudo, 

ma non lo franse il ferro; bensì gii si torse la punta 

nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con l' asta 



(1) Le armi di Patroclo, sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo, 
giacevano in terra poco lungi dal cadavere. 



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l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove padre, 

e, mentre quei s'arretra, il coglie a la fossa del collo; 

dentro spinge con forza calcando la mano pesante, 

e dall' opposto n' esce pel tenero collo la punta. 

Cadde, die un tonfo e V armi su lui con fragor risonare ; 

s' insanguinar le chiome, che simili aveva a le Grazie, (1) 

i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d' argento. 

Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre 

in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi, 

bello, pien di rigoglio, e poi, come 1' agita il soffio 

di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, (2) 

ma piombando improvviso un vento con turbine grande 

dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte; 

tale di Panto il figlio, esperto ne 1' asta, Eiiforbo 

l'Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi. 

Come — allor eh' un robusto leone cresciuto fra' monti 

da pascolante gregge rapì la giovenca più bella, 



(1) Cioè ricciute, come dice nel verso seguente, e non bionde^ co- 
me ha interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse ricordando Pin- 
daro New. 5 fine. Le Grazie furono sempre rappresentate con lun- 
ghi ricci spioventi sì nelle arti plastiche e figurative, sì nella let- 
teratura dei Greci (cfr. Omero, Inno ad Apollo, 194 sg. e Stesicoro, 
fr. XIII neWAntoL della ìneltca greca di A. Taccone). —Si veda 
in proposito quello che scherzosamente Luciano, nel Sogno, fa dire 
a Micillo : questi, fra le altre cose dice al suo gullo-Pitagora: « e 
« mi sembra che Omero per questo abbia detto le tue chiome si- 
« mili alle Grazie, perchè « avvinte eran d'oro e d' argento »: in- 
« trecciate infatti con 1' oro e rilucendo con esso apparivano, evi- 
« dentemente, molto più pregevoli e desiderabili » (XIII). 

(2) Accenna forse il poeta coi « soffi di tutti i venti * la sta- 
gione di primavera, quando — fra il marzo e l' aprile — le pianto 
s' incurvano bensì sotto i venti, ma si rivestono anche della loro 
fioritura annuale ; anzi parmi che accenttf qui proprio alla prima 
fioritura del bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo turbine schian- 
ta, così come l'asta di Menelao, troncando la vita del giovinet- 
to forte ed ardimentoso, fa cadere il serto di fiorite speranze che 
già s' intesseva intorno al suo capo. 



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cui la cervice infranse tenendola forte co' denti, 
poi, facendola a brani, le viscere ingolla col sangue — 
intorno a lui, da lungo, si muovon con grande frastuono 
65 cani, villan, pastori, ma farglisi presso ad alcuno 
non regge il cor, che. tutti li fa scolorir la paura; 
così nessun de' Teucri ha l'alma nel petto sì ardita, 
eh' osi affrontar da presso la forza del gran Menelao. 

E questi agevolmente porterebbe via le splendide armi 
di Eiiphorbos, se non glielo impedisse Febo Apollo, il 
quale, presentatosi ad Ettore sotto T aspetto di Mente, io 
consiglia a desistere dall' inutile inseguimento dei cavalli 
d'Achille e ad accorrere invece là dove 

or Menelao frattanto, il figlio pugnace d'Atreo, 
89 corso a difender Patroclo, uccise il miglior do' Trojani, 
il Pantoide Euforbo e spento n' ha il valido ardire. 

Ettore infatti, pronto, si fa largo tra le schiere, vede 
r uno che toglie le magnifiche armi, 1' altro disteso in 
terra e il sangue che sgorga dalla ferita, irrompe fulmi- 
neo con orribili grida, e Menelao, riconosciutolo subito, 
non osando da solo tenergli testa, lascia a malincuore il 
corpo di Patroclo e si ritira verso i suoi, per chiamare 
qualcuno in soccorso. Così egli non ha potuto neppure 
portar via con sé sul suo cocchio la preziosa armatura ; 
della quale tuttavia dovette certo impadronirsi più tardi, 
quando i Trojani sconfitti furono costretti a rinchiudersi 
entro le mura. E non sarà stato quello il meno glorioso 
trofeo di guerra che avrà riportato con se a Micene. 

2. — Ma Eiiphorbos, morto di così bella morte e glo- 
rificato già dalla divina arte d' Omero, non rinacque per 
avventura, dopo (]uattro secoli, a nuova vita e ad opere 
non meno beile e gloriose? 



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Poiché alcune antiche testimonianze ci hanno traman- 
dato che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola 
italica, l'assertore più famoso della dottrina della metempsi- 
cosi, « nel tempio di Hera Argiva, veduto uno scudo di 
« bronzo, disse che quello portava e gli era stato tolto 
« da Menelao quando era Euphorbos. E degli Argivi, 
« staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome 
« d'Euphorbos ». Così afferma uno scoliaste d'Omero 
(//. XVII, 28) e così altri, fra gli antichi scrittori, ricor- 
dano accennano la cosa. Chi non rammenta infatti, tanto 
per citare i più noti, quella famosa ode d'Archita, dove 
Orazio afferma appunto, non senza una sottile ironia, che 
« il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto, sceso 
« all'Orco un'altra volta, sebbene, con lo scudo, che fece 
« staccare, data testimonianza dei tempi della guerra troja- 
« na, non avesse concesso alla nera morte niente più che 
« i nervi e la pelle? » (1) Il buon Orazio, tra scettico 
ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella me- 
tempsicosi e si burlò un poco di « Pitagora redivivo! » (2) 
Anche Ovidio, che nell' ultimo canto delle Metamorfosi 
fti esporre da Pitagora stesso le sue dottrine, lasciò espli- 
cito ricordo della tradizione, facendo dire al filosofo : 

Ben io — sì io rammento — nei dì della guerra di Troja 
ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui stette nel petto 



(1) Orazio, Carni. I, 28 vv. 9-13 : 

habentque 

Tartara Panthoiden iterum Orco 
Demissura, quamvis clipeo Trojana refixo 

Tempora testatus, nihil ultra 
Nervos atque cutem morti concesserat atrae. 

(2) Id. Epod. VI, 21: « nec te Pythagorae fallant arcana renati »* 



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la grave lancia infissa, per man del più giovine Atride, 

Riconobbi lo scudo, che già la sinistra mia tenne, 

or non è molto in Argo nel tempio sacrato di Giuno ». (1) 

E aucora due secoli dopo il filosofo neo-platonico Por- 
firio, raccogliendo in una breve biografia molte notizie 
intorno a Pitagora, lasciò scritto che questi « ricordava 
« a molti di quelli che si recavano da lui la precedente 
« vita che V anima loro aveva vissuto già un tempo pri- 
« ma di essere legata nel corpo d' allora. E di sé stesso 
« rivelò con prove induhitahili d'essere stato Euphorbos 
« figlio di Panto, E dei versi omerici cantava, accompa- 
« gnandosi mirabilmente con la lira, quelli di preferenza: 

50 s' insaguiniìr le chiome, che simili aveva a le Grazie, 
i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d'argento. 
Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre 
in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi, 
bello, pien di rigoglio, e poi, come V agita il soffio 

55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, 

ma piombando improvviso un vento con turbine grande 
dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte ; 
tale di Pauto il figlio, esperto ne 1' asta, Euforbo 
r Atride Menelao uccise e spogliava de V armi. 

« Poiché quel che si racconta dello scudo di questo 
€ Euphorbos frigio, che si trovava in Micene, nel bottino 



(1) Ovidio, Metamorpk, XV, vv. 160-164: 

Ipse ego — nani memini — Trojani tempore belli 
Fanthoi'des Euphorbus eram, cui pectore quondam 
Haesit in ad verso gravis basta minoris Atridae. 
Cognovi clipeum, ìaevae gestamina nostrae, 
Nuper Abanteis tempio lunonis in Argis 



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« trojano dedicato a Giunone Argiva, lo passo sotto si- 
« lenzio come cosa ben nota » (1). 

La tradizione dunque era assai diffusa fra gli antichi. 
Ora quale ne sarà stata T origine? Un'invenzione pura e 
semplice ? Potrebbe anche essere; nel qual caso dovrem- 
mo evidentemente pensare a qualche discepolo o seguace 
del Maestro, il quale, per confermarne meglio la dottrina 
della metempsicosi, avesse immaginato di sana pianta la 
storiella, cercando poi di accrescerle autorità col farne 
autore lo stesso Pitagora. V invenzione sarebbe nata da 
quel che abbiamo udito or ora narrare da Porfirio, che 
il filosofo, appassionato lettore d'Omero, recitava e can- 
tava spesso i delicati e soavi versi della morte d' Euphor- 
bos ? Anche questo é possibile. Ma a me pare molto più 
semplice e forse più ovvio — senza andare vanamente fan- 
tasticando in ipotesi — credere senz'altro alla concorde 
testimonianza degli antichi. Vi ' é forse nella cosa alcun- 
ché che trascenda i limiti della credibilità e della vero- 
simiglianza? Pitagora non credeva davvero alla metempsi- 
cosi, e non era anzi questo il pernio della sua psicologia 
e della sua morale, e convinzione (non pura ipotesi spe- 
culativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei suoi 
seguaci ? Dunque è ben possibile che egli, il quale aveva 
virtù taumaturgiche (tanto che nella sua vita il meravi- 
glioso, anzi il miracoloso, ebbe gran parte)^ egli, che tante 
profonde e misteriose cose aveva imparato nei suoi viaggi 
in Egitto e nell' Oriente, esercitando quelle sue pratiche 
magiche di vita, profondando lo spirito in quelle sue ma- 



il) PoRPHYRii, Vita Pythagorae, 26, 27. Così presso Luciano nei 
Dialoghi dei morti (20), quando Eaco presenta Pitagora a Menippo, 
questi si rivolge subito a lui con le parole: « Salve, o Euphorbos ». 



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ditazioni *~ così intense, che erano quasi astrazioni dal 
corpo ed estasi vere e proprie — , credesse di leggere 
nel suo passato la storia della propria anima e ne desse 
notizia — se non proprio alle turbe — agi' iniziati della 
sua scuola, agi' intimi, ai più perfetti, da qualcuno dei 
quali poi la cosa sarà stata divulgata. Insomma per me 
r attribuire a Pitagora stesso, anziché allo spirito inven- 
tivo di qualche zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite 
anteriori non ha nulla di inammissibile e di men che 
credibile : lo zelo dei seguaci avrà forse potuto aggiunge- 
re qualcosa, inventare qualche nuovo particolare o ma- 
gari immaginare qualche nuova esistenza, ma T origine 
prima di siffatti racconti si può proprio far risalire allo 
stesso Maestro. Il quale dunque potè realmente dire e 
naturalmente anche credere — poiché non è ammissibile 
la malafede in un uomo di tanta autorità, la cui vita fu 
tutta un apostolato di verità e di bene — di essere stato 
Eviphorbos. 

Ma in tal modo — si potrebbe osservare — se noi 
accettiamo per vero quello che l' antichità concorde ci ha 
tramandato, che cioè Pitagora credette e diede a credere di 
essere stato il giovinetto figlio di Panto, ne verrebbe di 
conseguenza che egli avrebbe anche creduto nella realtà 
storica A" Euphorbos, non già nato dalla feconda fantasia 
d' Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che per que- 
sto ? Chi mai dei Greci del sesto secolo avanti Cristo — 
per non dire di quelli dei secoli posteriori -- non credette 
nella realtà della guerra trojana, e dubitò della esistenza 
di Agamennone, di Achille, di Menelao, di Ulisse, di 
Ettore, di tutta la bella schiera degli eroi dell' Iliade e 
dell' Odissea? Ne la critica storica demolitrice, nò la qui- 
stione omerica erano nate ancora, e Federico Augusto 



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AVolf doveva tardare ancora ventiquattro secoli a nascere 
e a lanciare pel mondo la stupefacente teutonica mostruo- 
sità dei suoi Prolegomeni ad Omero ! (1) 

3. — Di Pitagora gli antichi conobbero anche altre 
incarnazioni, anteriori e posteriori. Soggiunge infatti Por- 
tino, un poco pili innanzi : « Affermava di essere già vis- 
« suto precedentemente, dicendo d' essere stato prima Eii- 
phorbos, poi Etàhde, in terzo luogo Ermótimo, poi Pirro 
e alloi-a Pitagora. Con che dimostrava che 1' anima è 
immortale e riesce, in chi sia purificato, a ricordarsi 
« dell'antica sua Vita » (2). Ma Diogene Laerzio ci ha 
conservato in proposito una testimonianza — che risali- 
rebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di Platone, Speu- 
sippo ed Aristotile) — la quale differisce da quella di 
Porfirio non solo perchè fa di Euphorbos la seconda in- 
carnazione, essendo stata la prima quella di Etalide, ma 
anche perchè riferisce ad Ermótimo (terza incarnazione), 
anziché a Pitagora, V episodio dello scudo, che sarebbe 



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(1) Veramente si é incominciato già da qualche tempo — anche 
in Germania — ad essere un po' meno radicali in fatto di nega- 
zioni. E a quel modo che il Beloch, per esempio, ammise come 
possibile che « fra gì' innumerevoli eroi venerati nelle diverse parti 
del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà una volta si 
mosse sulla terra in carne ed ossa » (I, p. 121), così il Drerl^p 
{Omero, Bergamo, 1910) afferma d'esser « disposto a vedere in 
Agamennone, Menelao, Nestore, Ajace, foise anche in Priamo e 
in altre figure dell' epopea, reali persone storiche » (p. 226). Gli 
rimangono però gravi dubbi sulla realtà storica della spedizione 
contro Troja (p. 231 e seg.). 

(2) /. e, 45. Della cosa discussero anche gli scrittori cristiani, 
come Tertulliano (de anima 28, 31. 34), LattaxNzio {Epit, Institi 
div. 36), Sant'Agostino {Irinit, XII, 24;» 



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inoltre stato appeso nel tempio di Apollo a Branchidas, 
e non a Micene. Ma ecco senz'altro le parole di Laerzio: 
« Dice Eradide Fon lieo che egli (Pitagora) affermava di 
« sé d'esser già stato Etalide e ritenuto figlio di Her- 
« mes (1). E che Hermes gli disse di scegliere quel che 
« volesse, tranne V immortalità : onde egli chiese il dono 
€ di conservare da vivo e da morto il ricordo di tutti 
« gli eventi. Che pertanto in vita si ricordava di tutto, 
« e dopo che fu morto conservò egualmente la memoria. 
« Che in seguito rinacque Eùphorbos e fu ferito da Me- 
r ìielao ; ed Eùphorbos diceva d' essere stato un tempo 
« Etalide e di aver avuto da Hermes quel dono e ricor- 
<< dava le trasformazioni dell'anima com'erano avvenute, 
e e attraverso quali piante ed animali fosse passata, e 
« che cosa l'anima avesse sofferto nelPAde, e qual sorte 
« attenda le altre anime. E che quando Eùphorbos morì 
« la sua anima passò in Krmòtimo, che alla sua volta, 
€ volendo dare una prova dell'esser suo, andò a Bran- 
« chidas ed entrato nel tempio iV Apollo mostrò lo scudo 
« che Menelao vi aveva appeso, ormai imputridito, re- 
« stando solo la parte esterna d\avorio (2). E che quan- 



di) Dobbiamo forse in questa ipotetica discendenza da Hermes, 
il dio dei misteri, vedere significata la iniziazione di Pitagora alle 
dottrine ermetiche? Mi par probabile; se pure non dobbiamo vedere 
in ciò, come neir altra comune tradizione che faceva di Pitagora 
un « tìglio d'Apollo », delle espressioni del linguaggio mistico 

fraintese. 

(2) Pausania, nella descrizione che ci ha lasciata dell' Hcraion 
di Micene, dice ben chiaro che nel i)ronao del tempio, a destra, 
dov' era la statua della dea, vi era « anche appeso in voto uno 
scudo, quello che Menelao già tolse ad Eùphorbos in Ilio ». {De- 
scriptio Orneeìae II, 17, 3;. Ora. poiché sappiamo ciie Pausania 
descrive neir opera sua proprio <iuel che ha visto coi suoi occhi 



« 



« 



« do Ermótimo morì, rinacque Pirro pescatore di Delo ; 
« e di nuovo si ricordava tutto : come fosse stato prima 
« Etalide^ poi Eùphorbos, poi Ermótimo, poi Pirro. E 
che quando Pirro morì, rinacque Pitagora e si ricorda- 
va di tutto quel che s' ò detto » (1). Non solo, ma a 
sentir Gelilo anzi i due filosofi Clearco e Dicearco — vis- 
suti fra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo — avreb- 
bero lasciato scritto che Pitagora rivisse ancora altre tre 
volte, come Pirandro, come Calliclea e finalmente come 
una bella etera chiamata Alce (2). 

E così l'anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto volte 
e avendo sperimentato, chiusa nel carcere corporeo, le 
più varie condizioni d'esistenza, sarà essa — dopo aver 
compiuto il ciclo assegnatole dal suo proprio destino — 
tornata a dissolversi nel gran mare dell' anima univer- 
sale ? (3) non avrà continuato ancora a vestirsi d'uma- 
na carne, indefinitamente, secondo la favola di Luciano? 



(tanto che una sua indicazione guidò lo Schliemann alla scoperta 
delle famoso tombe dei re nel foro di Micene), avrà egli veduto 
quell'antichissimo logoro avanzo, o una copia in bronzo fattane 
fare di poi, o addirittura un qualunque scudo che i sacerdoti del 
tempio vi abbiano appeso in tempi tardivi a ricordo e testimonianza 
dell'antica notissima tradizione ? Pausania in ogni modo visse 
nella 2* metà del secondo secolo dopo Cristo. 

(1) Diogene Laerzio, Vili, 4-5. 

(2) Gellio, Noctes JLiticae^ IV, 11 : «... . Pythagoram vero 
« ipsum, sicut celebre est, Euphorbum primum fuisse, dictitasse; ita 
« haec remotiora-sunt his, quae Glearchus et Dicaearchus memo- 
« riae tradiderunt, fuisse eum postea Pyrandrum, deinde Callicleam, 
« deinde feminam pulchra facie meretricem, cui uomen fuerat 
« Alce ». 

(3) Se, come è probabile, Platone ha desunto dal Pitagorismo i 
principii a cui informa la teoria delle pene d' oltretomba nel De 
republica (X, 615; — secondo la quale chi aveva commesso ingiu- 

12. 



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1 



— 178 - 

« Lungo sarebbe a dire — così parla il suo gallo filo- 
« sofo (Pitagora redivivo anche questo!) — in qual forma 
« i' anima mia venisse via da Ajjollo volando, ed entrasse 
« in corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal guisa... 
« Mentre eh' io era Eiiphorbos combattei a Troja, e quivi 
« ucciso da Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare 
« in Pitagora; ma fra T un tempo e T altro non ebbi 
e casa, aspettando che Mnesarco (1) mi apparecchiasse 
« r abitazione..,. — Ma quando ti spogliasti di Pitagora 
4 (domanda Micillo al suo gallo) di che ti vestisti? — Di 
« Aspasia, femmina di mondo, di Mileto — . . . — E dopo 
€ Aspasia qual uomo o qual nuova donna diventasti? — 
« Grate, cinico. — figliuolo di Giove, qual differenza! 
« Di femmina di mondo, filosofo ! — Poi re, poi un po- 
« verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc- 
« chic, e mille altre cose che non finirei mai a dirle tutte. 
« Ma sopra tutto fui gallo spesso (vita da me sopra le 



stizia verso un altro doveva subire dieci volte quella medesima 
ingiustizia e occorreva quindi lo spazio di dieci vite per scontare 
le colpe della prima — bisognerebbe veramente ammettere (s' in 
tende bene, dal punto di vista di Pitagora e della sua dottrina) 
almeno altre due vite. — Per il luogo platonico e le relazioni che 
esso può avere avuto con il dogma cristiano della resurrezione si 
veda ciò cbe lia scritto il Pascal nella Rassegna Contemporanea 
del dicembre l9ll (ripubblicato in Credenxe d'oltretomba^ II, pa- 
gina 199). 

(1) Padre di Pitagora. Si noti poi che qui Luciano sorvola sul- 
le altre note incarnazioni del filosofo. Ma altrove {Vera Historia^ 
II, 21) egh dice: « In quel tempo appunto ci venne (nella città di 
« Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di Samo, che allora aveva 
« finita la settima mutazione, vissuto le sette vite, compiuti i sette 
« periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il lato destro. Fu de- 
« ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva se chia- 
* marlo Pitagora od Euforbo ». 



— 179 - 

e altre amatissima) servendo ad altri molti, a re, a pove- 
« relli, a ricchi uomini; e finalmente vivo in tua compa- 
« gnia, facendomi beffe cotidianamente di te, che ti que- 
« reli della tua povertà, e piangi e ammiri i ricchi perchè 
« non sai i mali che comportano... » (1). 

E con l'amabile arguzia lucianea possiamo ben chiu- 
dere questa singolare istoria d'Eiiphorbos figlio di Panto, 
il quale fu veramente molto caro ai celesti. 



(1) Luciano, Il Sogno o il Gallo (secondo la traduzione di Ga- 
sparo Gozzi). Si legga tutto questo piacevolissimo dialogo. Il no- 
stro autore del resto scherza in parecchi altri luoghi su Euphor- 
bos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere un qualunque indice 
delle opere di Luciano. 



II. 



11^ SODALT/^TCì PTXAGOF^TCO 

r>I CROTONK. 



1. Oggetto del prosente studio. — 2. Origine e formazione del So- 
dalizio pitagorico. — - 3. Carattere e scopi di esso. — 4. Sua du- 
rata. — 5. Suo ordinamento. — 6. Natura degl' insegnamenti 
che vi ,si impartivano. — 7. Conclusione. 



1 



Edito nel 1904 dalla ditta Nicola Zanichelli di Bologna. Tradotto 
e pubblicato in The Tkeosophical Review (Londra) voi. XX XVII, 
n. 219-20 (nov.-dic. 1905). 



1. — Una tradizione che fu diffusa e concorde nel- 
r antichità anche prima dell' apparizione del neo-pitagori- 
smo, narra che il filosofo di Samo, dopo aver viaggiato 
nelle regioni d'Oriente — in Fenicia, nella Babilonia, in 
Caldea, nella Persia, nell' India e in particolare nelF E- 
gitto — e aver presa quivi conoscenza delle dottrine se- 
grete che i saggi ed i sacerdoti vi professavano, proprio 
nello stesso tempo in cui fiorivano nella Cina Lao-Tse 
(604-520 a. C.) e nell'India Gotamo Buddho (560-480) (1) 
venne a Crotone, una delle più fiorenti fra le città della 
Magna Grecia, dove, acquistato subito largo seguito di 
ammiratori, istituì un celebre Sodalizio, Di questo ap- 
punto intendo ora di esporre le origini, la durata e la 
costituzione, valendomi delle notizie abbastanza numerose 
e particolareggiate, perchè possiamo farcene un' idea esatta, 



(1) Cfr. le osservazioni contenute nel cap. I dello studio di G. 
De Lorenzo sull' India e il Buddhismo antico (Bari, Laterza, 1904, 
22 ediz. 1919). 



ié 



— 184 — 



185 



che ce ne hanno lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio (1), 
Porfirio (2), Giamblico (3), Clemente Alessandrino (4), 
nonché, incidentalmente, gli scrittori classici maggiori, 
delle quali poi si servirono, in misura più o meno larga, 
con criteri più o meno discutibili, gli storici moderni del- 
la filosofia greca in generale e del movimento pitagorico 
in particolare, come il Krische (5), lo Chaignet, il Cen- 
tofanti, lo Zeller, il Cognetti de Martiis, lo Schuró (6) 
ed altri. 

2. — Quanto al roWgfme dell'Istituto, la tradizione con- 
corde narra che verso la LXIP Olimpiade (530 a. C.) o 
poco dopo (7) Pitagora, giunto a Crotone, forse accom- 
pagnato da numerosi discepoli che ve lo seguirono da 
Samo (8), cominciò a tenere in pubblico discorsi tali da 
conquistare subito la simpatia degli uditori, accorrenti in 
gran numero ad ascoltare la sua parola ispirata (9), che 

(1) Vitae et piacila clarorum philosophorum I. Vili e. I. 

(2) De vita Pythagorae. 

(3) Z>e pythag erica vita. 

(4) Stroììiat. libri, passim. 

(5) De societatis a Pythagora in urbe Crotoniatarmn conditae 
scopo politico commentatio^ Gòtting, l831. 

(6) Les Grands Inities, Paris 1902, pp. 267 sgg. Ed. ital. (Bari, 
Laterza, 1905). Per gli altri autori v. note a p. 186 e 192. 

(7) Variano dal 529 al 540 le date proposte relativamente all' anno 
della sua partenza da Samo; la prima data è ammessa dalI'UEBERWEo, 
Qrundr. I, 16, 1' altra è in Bernhardy, Orundr. d. gr. Liti. p. 
I, pag. 755. Il Lenormaxt (La Grande Grece) sta pel 532. Quanto 
air arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che nel 540 Pitagora vi 
si trovasse già. 

(8) GlAMBL. 29. 

(9) V. PoRi^iRio /. e. 20, che riferisce la notizia da Nicomaco e 
cfr. GuMBL. /. e. 30. 



predicava verità non mai udite prima d'allora in quella 
regione e da quegli uomini. Accolto con molta deferenza 
tanto dal popolo quanto dalla parte aristocratica, che al- 
lora aveva nelle mani il governo, per V entusiasmo su- 
scitato dalla sua predicazione, fu eretto dai suoi ammira- 
tori un ampio edificio in marmo bianco — homakoeion 
od uditorio comune (1) — nel quale egli potesse inse- 
gnare comodamente le sue dottrine ed essi ridursi a vi- 
vere sotto la sua guida. La tradizione, quale la troviamo 
presso Giamblico e presso Porfirio, aggiunge altri parti- 
colari: Pitagora, entrato nel ginnasio, avrebbe parlato ai 
giovani che vi si trovavano suscitandone V ammirazione (2), 
del che venuti a conoscenza i magistrati e i senatori 
avrebbero manifestato il desiderio di sentirlo anch' essi ; 
ed egli, venuto dinanzi al Consiglio dei Mille, vi ottenne 
tale approvazione da essere invitato a rendere pubblico 
il suo insegnamento^ al quale infatti molti accorsero pron- 
tamente, mossi dalla fama, subito diffusa per tutto il 
paese, della grande austerità d'aspetto, della dolce soavità 
d'eloquio, della profonda novità di ragionamenti del fo- 
restiero. Via via, la sua autorità crebbe in modo che egli 
potè esercitare nella città una vera dittatura morale; poi 



(1) Si noti che Clemente (Strom. I, 15) lo identifica con quella 
che al suo tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa cristiana. 

(2) V. in Giamblico op. cit. 37-57 un largo sunto di questo di- 
scorso, che ci dà un' idea di quello che fosse V insegnamento esso-, 
terico di Pitagora. La diversità notata a questo proposito dallo 
Zeller fra il racconto di Giamblico e quello di Porfirio non mi pare 
sufficiente per trarne, com' egli fa, l' induzione che il discorso ri- 
ferito dal primo non può essere stato preso da Dicearco, citato dal 
secondo ; ad ogni modo è fuori di dubbio che Dicearco stesso lo co- 
nosceva, se potè dire che conteneva « molte belle cose ». 



— 186 — 



187 — 



si allargò, dift'oudendosi nei paesi vicini della Magna Gre- 
cia e nella Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Ca- 
tania, ad Imera, a Girgenti; dalle colonie greche, dalle 
tribù italiche dei Lucani, dei Peucezi, dei Messapii ed 
anche da Roma (1) vennero a lui discepoli di ambo i 
sessi ; e più celebri legislatori di quelle regioni, Zaleuco, 
Caronda, Numa ed altri, V avrebbero avuto per maestro (2), 
sì che per merito suo si sarebbero ristabiliti dovunque 
l'ordine, la libertà, i costumi e le leggi (3). In questo 
modo, dice il Lenormant (4), « egli potò giungere a rea- 
lizzare l'ideale d'una Magna Grecia composta in limone 
nazionale, sotto l'egemonia di Crotone, non ostante la 
differenza di razze degli Elioni italioti » ; il che peraltro 
è inesatto, poiché, come vedremo, l' intendimento di Pi- 
tagora nella sua azione e nella sua predicazione non fu 
politico nazionale, ma essenzialmente umano. Forse, ag- 
giunge un altro scrittore (5)^ non fu estranea all'acco- 
glienza avuta dal filosofo ed al successo da lui riportato, 
una persona con la quale egli doveva essersi trovato in 
rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre medico ero- 
tonese Democede. Ma senza dubbio, più che a conoscenze 
personali, l'approvazione ottenuta da Pitagora in Crotone 
e l'entusiasmo da lui suscitato in tutta la Magna Grecia 



(1) DioG. Vili, 15; PoRF. 22 ecc. 

(2) V. Seneca, 90, 6 che cita Posidoniu ; Diog. Vili, 16; Forf. 
21; GiAMBL. 33, 104, 130, -172; Eliano, Var. llist, IIJ, 17; Diod. 
XII, 20. 

(3) V. Diog. VIII, 3; Porf. 21 sg., 54; Giambl. 33, 50, 132, 
214; Cic. Tuse. V, 4, 10; Diod. hrag^n, p. 554; Giustino XX, 4; 
Dione Crisost. or. 49, p. 249 ; Plut. c. princ. philos. I, 11, p. 776. 

C4) Op. cit,^ V. I, p. 75. 

(5) CoGNETTi De Martiis, Socialismo antico^ (Torino, 1889) p. 465. 



furono piuttosto l'effetto da un lato delle virtù intrinse- 
che delle sue dottrine e del suo insegnamento, e dall' al- 
tro della disposizione e attitudine di quelle genti a in- 
tenderlo ed apprezzarlo. Poiché il misticismo ed ogni 
moto idealistico trovò sempre fra loro un generale e pron" 
to assenso e un gran numero di seguaci, sia nei tempi 
più antichi, sia durante il medio evo e nell' età moder- 
na (1). In queste attitudini dei popoli del mezzogiorno 
sta la ragione del rapido diffondersi delle dottrine pita- 
goriche, che furono accettate quasi universalmente : tanto 
che molti (2), i migliori per intelligenza e per elevatezza 
morale, presi d'ammirazione per la profonda scienza del 
Maestro, si accostarono a lui, e, desiderosi di penetrare 
più addentro nella conoscenza del suo sistema filosofico, 
di cui intravvidero ed intuirono la vastità e la compren- 
sione, si ridussero a poco a poco a vivere con lui, atti- 
rati nella sua orbita d'azione e di pensiero da quella 
spontanea simpatia che hanno sempre esercitata sugli al- 
tri tutti i grandi apostoli dell'umanità. 

Così fu formato il Sodalizio, del quale fu poi aperto 



(1) Così p. es. ridea religiosa di cui si fece poi paladino e ca- 
valiere S. Francesco, partì appunto dalla Calabria, con l'abate Gioac- 
chino da Fiore (V. Tocco L'Eresia nel M. E., lib. JI, eie II). 
Del resto il Pitagorismo si mantenne sempre vivo nell' Italia Me- 
ridionale, (di dove penetrò in Koma con Ennio) e vi sorse a nuo- 
vo splendore nei sec. XVI e XVII con la Scuola di Bernardino 
Telesio, dalla quale uscirono, fra gli altri, il Campanella e il Bru- 
no— Cfr. David Levi, Giordano Bruno^ Torino, 1888 pp. 124 sgg. 

(2) Porfirio op. cit.^ 20 sgg., racconta che più di duemila cit- 
tadini con le mogli e i tìgli si raccolsero nelP Homakoeion e vis- 
sero mettendo in comune i loro beni e reggendosi con statuti dati 
loro dal filosofo, che veneravano come un Dio. 






— 188 — 



— 189 — 



l'accesso a tutti i buoni — uomini e donne (1) — : e alla 
sua filosofica famiglia il Maestro diede quel medesimo or- 
dinamento che aveva forse visto attuato nelle scuole del- 
l' Oriente e dell'Egitto, nelle quali come s'è accennato, 
egli aveva probabilmente preso conoscenza dei Misteri. 
L'istituto divenne ad un tempo uu collegio d'educazione, 
un'accademia scientifica e una piccola città modello, sot- 
to la direzione d' un grande iniziato ; e per mezzo della 
teoria accompagnata dalla pratica, delle scienze unite alle 
arti, vi si giungeva lentamente a quella scienza delle 
scienze, a quell'armonia magica dell'anima e dell'intel- 
letto con l'universo, che i Pitagorici consideravano come 
l'arcano della filosofia e della religione. La scuola pita- 
gorica ha perciò un'importanza assai grande, perchè fu 
il piìi notevole tentativo ♦d' iniziazione laica : sintesi an- 
ticipata dell' ellenismo e del cristianesimo, essa innestò il 
frutto della scienza sull'albero della vita, e conobbe quin- 
di quell'attuazione interna e viva della verità che sola 
può dare la fede profonda; attuazione effìmera, ma d'im- 
portanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell' esempio (2). 

3. — Secondo che fu data maggiore importanza all'uno 
o all'altro degli elementi costitutivi della dottrina pita- 
gorica alle forme e agli effetti esteriori di essa, diverso 



(1) Sulle donne pitagoriche sarebbe opportuno e desiderabile uno 
studio, che darebbe certo gran luce su molti fatti. Ad esse era 
impartito un insegnamento particolare ed avevano iniziazioni pa- 
rallele, adattate ai doveri del loro sesso. Giamblico, op. cit, 267, 
dà i nomi di 17, tutte chiarissime— Cir . ihid. 30, 54, 132; Dioo. 
VITI, 41 sg. ; PoRF. i9 sg. ecc. — V. anche Schuré, op, cit. pa- 
gine 379 sgg. 

(2) ScHURÈ op. cit. p. 314. 



fu il criterio che gli studiosi portarono nel giudicare per 
quali intendimenti il filosofo avesse voluto creare questo 
Sodalizio. 

Alcuni non ne videro che l'intento politico'^ così, se- 
condo il Krische, « la società ebbe meramente lo scopo 
di restaurare, consolidare e accrescere il potere decaduto 
degli ottimati e, subordinati a questo, due altri scopi, uno 
morale e l'altro di coltura: di rendere cioè i suoi mem- 
bi'i buoni ed onesti, affinchè, se fossero chiamati al reg- 
gimento della cosa pubblica, non abusassero del loro po- 
tere con l'opprimere la plebe, e questa comprendendo 
che si provvedeva al suo benessere, stesse contenta al 
suo stato; e di far studiare la filosofia a coloro che si 
accingessero al governo dello Stato, perchè non si può 
aspettare un governo buono e sapiente se non da chi sia 
colto ed erudito » (1). Ora quanto sia incompiuta ed im- 
peifetta questa opinione del Krische apparirà dal seguito 
del nostro studio. Gli intenti del riformatore non furono 
politici soltanto, ma anche morali, filosofici e religiosi ; 
nò il suo insegnamento voleva mirare solo a Crotone, o 
alla Magna Grecia, sibbene dXVìiomo in generale ; il con- 
tenuto politico che esso poteva avere era quindi appena una 
parte, e neppure la principale, di un larghissimo sistema 
scientifico e filosofico, che abbracciava tutto lo scibile. 
Altrimenti, nota giustamente lo Zeller, non si spieghe- 



(1) l. e. p 101 — Cfr. il giudizio del Meiners, Hist. d, scienc. 
etc. v. li, p. J85 e quello molto strano del Mommsen, St. di Roma 
antica^ Roma-Torino 1903, v. I, p. 124 sg. : « Siffatte tendenze 
« oligarchiche informa^^ano la lega solidaria degli « Amici » (?), 
« fregiata del nome di Pitagora ; essa ingiungeva di venerare la 
« classe dominatrice come divina, di trattare come bestie quei 
« della classe servile ecc. » ! 



— 190 — 

rebbe l' indirizzo fisico e matematico della scienza pitago- 
rica, e il fatto che le testimonianze più antiche intorno 
a Pitagora ci mostrano in lui pii^i che V uomo di Stato, 
il teurgo, il profeta, il sapiente e il riformatore morale (1). 
In realtà egli mirava ad elevare nello spirito e nei costu- 
mi i suoi discepoli, sia impartendo loro una cultura e 
una scienza univ ersale, sia facendo ad essi praticare la 
più rigorosa disciplina dell'animo e delle passioni. Con 
questo egli otteneva anche lo scopo, eminentemente civile 
e umanitario, di migliorare via via sempre più facilmente 
e largamente i cittadini e gli uomini tutti, poiché ogni 
discepolo portava poi necessariamente fuori della scuola, 
nella sua vita domestica e pubblica, la moralità e la dot- 
trina in quella acquistata, diffondendola con la parola e 
con l'esempio tra i famigliari, i parenti, gli amici. E in 
conseguenza di ciò dovette compiersi a poco a poco un 
mutamento anche nel governo della città, per il fatto 
che i primi ad approfittare e a far tesoro delle nuove 
dottrine essendo stati probabilmente gli ottimati, questi 
direttamente, se ne facevano parte, o indirettamente, 
se erano privati cittadini, dovettero' portare nel governo 
un nuovo indirizzo razionale e una più rigorosa moralità. 
L' alleanza quindi fra il Pitagorismo e l'aristocrazia, come 
osserva ancora lo Zeller, fu non la ragione, ma l' effetto 
dell'indirizzo generale della scuola che chiamava a sé i 
migliori ; e se la tradizione ci rappresenta il Sodalizio co- 
me un' as.^ociazione politica, ciò è vero a patto che non 
vogliamo anche affermare che il suo indirizzo religioso, 
etico e scientifico sia stato una conseguenza della posi- 



ci) Y. Eraclito pr. "Dioo. Vili, 6; Erodotu TY, 05 — Zeller, D. 
Phil, d. Qriech. I^ p. 328. 



- 191 — 

zione che i pitagorici presero nel campo politico ; perchè 
invece fu proprio il contrario. 

Assai diversamente giudicò la natura della società pi- 
tagorica il Grote (]), che la disse di carattere religioso 
ed esclusivo, e ad un tempo attivo e spadroneggiante, 
poiché i suoi membri attivi avevano appunto 1' ufficio di 
influire nel governo e sul governo, mentre i contempla- 
tivi attendevano agli studi; proprio come nella organizza- 
zione dei Gesuiti coi quali, dice, i Pitagorici presentano 
una notevole somiglianza. Secondo lui insomma i seguaci 
del filosofo non furono che « un privato e scelto nucleo 
d' uomini, di fratelli^ che abbracciarono le fantasie reli- 
giose del Maestro, il suo canone etico, i suoi germi (?!) 
d' una idea scientifica e manifestarono la loro adesione 
con particolari osservanze e riti ». In tutto questo vi é 
appena qualche ombra di vero; V esagerazione ha tolto la 
mano all'autore. Il concetto religioso ci fu senza dubbio 
in Pitagora, esso costituiva anzi il pernio di tutto V in- 
segnamento esoterico, e il punto di partenza della mera- 
vigliosa dottrina dei numeri che lo simboleggiava; ma non 
si trattò punto di fantasie più o meno strane e irrazio- 
nali ch'egli volesse dare ad intendere ai suoi seguaci, sì 
bene di quella stessa dottrina religiosa che in Egitto, in 
Oriente e in 'Grecia si insegnava nei Misteri e nelle scuole 
filosofiche, unica nella sua sostanza — benché diversa 
nelle forme e nei simboli esteriori — perché dovunque 
derivata dalla stessa tradizione, e, per quanto mistica, 
fondata tuttavia saldamente sopra una verace e controlla- 
bile esperienza. Il paragonare poi il sodalizio stesso alla 



(1) HisL of. Oreece^ T. lY, p. 544; cfr. Rittek, Gesch. d, Phi- 
los. I, p. 365 sgg. 



— 192 — 



— 193 — 



setta gesuitica, è un errore, che dimostra in chi ha po- 
tuto fare simile raffronto ben poca penetrazione nello spi- 
rito che informava queir antichisshno istituto ; è un giu- 
dicarlo dalle sole apparenze esteriori, un disconoscerne 
gV intenti non settarii, ma profondamente umani, uno svi- 
sare infine l'opera di uno dei piìi grandi pensatori e apo- 
stoli che r umanità abbia avuto. 

Più vicino al vero è il giudizio del Lenormant, in quan- 
to egli seppe vedere sotto le forme della religione V in- 
tendimento onorale di Pitagora (1); ma ancora più giusto 
e compiuto, perchè rispondente a tutti i dati di fatto la- 
sciatici dalla tradizione, ò quello che del Sodalizio diede 
uno storico italiano, il Centofanti, col definirlo una So- 
« cietà modello, la quale, se intendeva a migliorare le 
« condizioni della civiltà comune e aspirava ad occupare 
« una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa 
€ pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo 
« morale e religioso e promoveva ogni buona arte a per- 
« fezionamento del vivere secondo un^ idea tanto larga 
« quanto è la virtualità deW nmana natnra » (2). Con 
lui si accordarono press' a poco lo Chaignet (3) e lo Zel- 
ler (4), per il quale la scuola si distingueva da tutte le 
associazioni analoghe « per il suo indirizzo morale » pog- 
giato su motivi religiosi e guidato da sani metodi d'edu- 
cazione e di istruzione scientifica. Il Duncker quindi scris- 
se con molta verità che Pitagora fu <^ non solo il Maestro 
« d'una nuova sapienza, ma altresì il predicatore di una 



(1) Op. di. I, p. 83. 

(2) Studi sopra Pitagora, nel voi. La Letteratura greca i Fi- 
renze, Le Monnier), Opere^ p. 401 sg. 

(3) Pythagore et la philos. pythag. I, p. 98. 

(4) Die Philos. der Grieehen P p. 328. 



« nuova vita, il fondatore di un culto nuovo e il bandi- 
« tore d'una nuova fede » (1). Soltanto tale novità, va 
intesa come relativa ai luoghi e ai tempi: poiché, come 
ho detto sopra, il fondo esoterico della dottrina aveva ori- 
gini assai remote. 

4. — Se tale era dunque T intento della Società pita- 
gorica, se al di sopra di ogni altra considerazione il grande 
di Samo pose quella di riformare interior piente gli uomini 
e con ciò di modificare anche — necessariamente — le 
condizioni esterne della vita individuale e sociale, se egli 
mirò a costituire una religione fondata sul sentimento in- 
teriore e non sulle pratiche esterne del culto, alle quali 
ben raramente ed in pochi corrisponde un'adeguata cono- 
scenza e persuasione, e che perciò acquistano un valore 
di mera superstizione e di vuoto formalismo dogmatico, 
era troppo naturale che la nuova istituzione dovesse su- 
scitare i timori degli elementi conservatori della società 
crotonese ed italiota, e sopra tutto le ire di quegli ari- 
stocratici ignoranti che ne erano stati esclusi per deficien- 
za intellettuale e morale, e dei sacerdoti che vedevano 
allontanarsi dalla religione tradizionale e quindi sfuggire 
al loro dominio tanta parte — la parte migliore — della 
gioventù. E le calunnie che tutti costoro seppero sparge- 
re, dovevano purtroppo trovare, come sempre, facile cre- 
dulità nel volgo e pronto aiuto in tutti coloro che dalle 
nuove idee vedevano lesi o minacciati i loro interessi per- 
sonali; tanto più che -- come accade in ogni nuovo mo- 
vimento d'idee che tocchi e trasformi l'assetto politi- 
co e sociale, -^ delie incertezze, degli errori, delle de- 



(5) Qesch. d. Alter. VI, p. 636. 



13. 



— 194 — 

bolezze, della violenza partigiana di qualcuno fra gli adepti 
e fautori della Società avranno ben tosto cercato di trarre 
partito, mettendole in rilievo, gli avversari delle nuove 
dottrine. Ma di questo non ò fatto ricordo da nessun au- 
tore. E fatto invece espresso ricordo di un tal Cilone, 
aristocratico, che per la sua crassa ignoranza o per la sua 
inettitudine non potò essere ammesso a far parte del So- 
dalizio interno, e che « pien d' ira e di corruccio » co- 
minciò a brigare fra i malcontenti, a spargere voci calun- 
niose, a mettere in cattiva luce le cerimonie e V azione 
segreta della Società, continuando la lotta con quell'a- 
sprezza e quella tenacia che gli veniva dalForgoglio gra- 
vemente offeso e dalla certezza di essere spalleggiato da 
molti. Egli in questo modo, favorito coir^' era anche dalla 
sua elevata condizione sociale e dalle idee democratiche, 
allora penetrate nella Magna Grecia da cui seppe abil- 
mente trarre vantaggio, potò creare nel Consiglio Sovrano 
dei Mille una forte opposizione, che, allargandosi e diffon- 
dendosi fra il popolo, facilmente ingannato dalle apparen- 
ze esteriori sotto alle quali non vedeva altro che mistero, 
dette poi luogo ad una vera e propria sommossa contro 
il filosofo ed i suoi seguaci (500 a. C circa). Così che, se 
il moto fu effettivamente moto di popolo contro il reggi- 
mento aristocratico, l'ispirazione tuttavia venne dalla parte 
meno buona dell' aristocrazia e dal sacerdozio ufficiale (1). 
Un decreto di proscrizione bandì senz' altro Pitagora, che, 
dopo aver cercato inviano ospitalità a Caulonia ed a Locri, 
fu accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo do- 
po ; ed una fiera persecuzione fu iniziata contro i pitago- 



(1) V. in proposito ciò che dice con molta verità il Centofanti, 
op. cit. p. 4l(> sgg. 



— 195 — 

rici, parte uccisi e parte cacciati anch' essi in bando e 
profughi nelle terre vicine. 

La durata del Sodalizio fu dunque assai breve, di non 
più che quarant' anni : tuttavia 1' efficacia dell' insegna- 
mento pitagorico durò per lungo tempo attraverso i se- 
coli (1) e la sua fiamma non si spense mai, conservata 
religiosamente e religiosamente trasmessa di generazione 
in generazione dagli eletti a cui fu affidato via via il sa- 
cro deposito (2) ; cosicché il fondo delle dottrine esoteri- 
che si mantenne, e i tempi successivi in grande o in pic- 
cola parte poterono conoscerle. 



5. — Nel sodalizio si distinguevano due classi di adepti; 
quella degli ammessi ad un grado di iniziazione (disce- 
poli genuini o famigliari) e quella dei novizi o semplici 
uditori (acustici o pitagoristi); ai primi, distinti alla loro 
volta in varie classi, forse in corrispondenza coi diversi 
gradi, (pitagorici, pitagorei, fisici, matematici, sebastici) e 
discepoli diretti del Maestro, era fatto l'insegnamento eso- 
terico segreto; gli altri potevano assistere solo alle le- 
zioni esoteriche, di contenuto essenzialmente morale (3), e 



(1) Aristotile ci fa sapere {Polii. V, lO) che le sissitie italiche, 
anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; certo 
per la congiunzione loro coi posteriori istituti pitagorici. V, Cen- 
tofanti, op. cit, p. 383 e cfr. Cognetti De Martiis, op. cit. p. 466. 

(2) Il Pitagorismo appare nel mondo romano e nell' Italia me- 
dioevale e moderna in tutti i periodi di risorgimento filosofico. La 
repubblica utopistica di Platone come quella del Campanella ripro- 
ducono molto da vicino l' ideale di vita che fu realmente praticato 
neir istituto Crotonese. 

(3) V. Clem. Stromat. V. 575 D ; Ippol. Eefut. I, 2, p. 8, 14 ; 
PoRF. 37 ; GiAMBL. 72, 80 sg., 87 sg.; Gell. I, 9, Cfr. anche Vil- 
loison, Aneed, II, 216. - - Secondo uno scrittore dal quale attinse 



— 196 — 



non erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come 
dice la tradizione, lo sentivano, talvolta, parlare da die- 
tro un velar io che lo nascondeva ai loro occhi. 

Prima di ottenere Tammissione non solo ai gradi d'i- 
niziazione, ma anche al noviziato, bisognava subire prove 
ed esami rigorosissimi, poiché, diceva Pitagora, « non 
ogni legno era adatto per farne un Mercurio »; anzitut- 
to, come ci narra Aulo Gollio (1), un esame fisionomico 
che attestasse della buona disposizione morale e delle 
attitudini intellettuali del candidato (2); se questo esame 
era favorevole e se le informazioni procurate intorno alla 
moralità e vita anteriore erano soddisfacenti, egli era 
aininesso senz'altro e gli era prescritto un determinato 
periodo di silenzio [ecliemythia), che variava, secondo gli 
iuihvidui, dai due ai cinque anni, durante i quali non 
gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da altri, 
senza mai chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In 
questo come nel lungo meditare e nella più rigorosa e 
severa disciplina delle passioni e dei desideri praticata 
per mezzo di prove assai difficili, prese dalT iniziazione 
egiziana, consisteva il noviziato (paraslcevé). a cui erano 



FozTO {Cod. 349), gli adepti erano distinti in Sebastici, politici, 
matematici, Pitagorici, Pitagorei e pitagoristi ; e lo stesso scrittore 
aggiungo che i discepoli diretti di Pitagora erano chiamati pitago- 
rici, i discepoH di questi pitagorei e i discepoli essoterici o novizi 
pitagoristi. Dal che il Roeth (II, pag. 455 sg., 756 sg., 823 sg., 
966; b 104) deduce che i membri della piccola scuola pitagorica 
erano chiamati pitagorici e quelli della grande pitagorei ; ed a ra- 
gione, purché non si identifichino questi ultimi con i pitagoristi o 
discepoh essoterici, ma bensì si considerino come gli iniziati di pri- 
mo grado. 

(1) Noci. AH. I, 9. 

(2) Origine fa Pitagora inventore della « fisionomica ». 



— 197 — 

sottoposti gli acustici. Costoro appena avevano imparato, 
col lungo tirocinio, le due cose più difficili, cioè T ascol- 
tare e il tacere, erano ammessi fra i matematici (1) e 
allora soltanto potevano parlare e domandare, ed anche 
scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo liberamen- 
te la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad 
accrescere la potenza delle loro facoltà psichiche, la loro 
sapienza si faceva a grado a grado pii^i elevata e più va- 
sta, sino a giungere all'intelligenza ào^W Essere assoluto, 
immanente nell'universo e nell'uomo: chi arrivava a 
questa che era la più alta cima della speculazione filo- 
sotìca, e che segnava latine di tutto l'insegnamento eso- 
terico, otteneva il titolo corrispondente a questa inizia- 
zione epoptica, cioè il titolo di perfetto (teleios) e di ve- 
nerabile {sebastiMs) ; oppure chiama vasi per eccellenza 

UOUìO. 

L' obbligo essenziale che si imponeva agli adepti era 
quello del silenzio (2) e della segretezza verso gli altri, 
senza eccezione per parenti o per amici. Tanto che per- 
sino i già iniziati, se avessero lasciato trapelare qualche 
cosa agli estranei, erano espulsi come indegni di appar- 
tenere alla Società e considerati come morti dagli altri 
confratelli, che innalzavano ad essi nell' interno dell' isti- 



(Ij 'Così chiamati dalle discipline che professavano, cioè la geo- 
metrìa^ la gnomonica j la medicina^ la musica ed altro d' ordine 
superiore, per mezzo delle quali si elevavano allo più sublimi ed 
eccelse vette della scienza umana e divina. - Sulla medicina v. E- 
LiANO, Vor. Hist. IX, 22. 

(2, V. Tauro pr. Gellio, /. e; Diog. YIII, 10; Apul. Fior. II, 
15; Clem. Strom. Y, 580 A; Ippol. Rcfut. I, 2, p. 8, 14; Giamrl. 
71 sg., 94; cfr. 21 sg.; Filop. De an. D 5 b; Luciano, Vii. auct, 
3; Plut. De curios. p. 309. 



— 198 



- 199 — 



tuto un cenotafio (1). E rimasta famosa e proverbiale 
quindi la fermezza con la quale i Pitagorici sapevano cu- 
stodire il segreto su tutto ciò che riguardava la scuola (2). 
Allo stesso modo era considerato come morto chi, pur 
avendo dato buone speranze di sé e della sua elevatezza 
spirituale, finiva col mostrarsi inferiore al concetto che 
aveva fatto nascere dalla sua capacità. Tali casi però, ò 
bene notarlo, dovettero essere assai rari, poiché la lun- 
ghezza del tempo di prova che precedeva il passaggio da 
un grado a un altro aveva appunto lo scopo di rendere 
impossibili di limitare al minimo gringanni e le de- 
lusioni. 

L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la ricevuta 
iniziazione non obbligava per Jiulla alla vita cenobitica. 
Molti anzi, o per la loro condizione sociale o perchè non 
sapessero rinunziare interamente al mondo o per altre 



(1) A questo proposito sappiamo da Clemente (*S^row. V, 574 D), 
che riferisce una tradizione ben nota, come Ipparco, a causa ap- 
punto dell' avere fatto conoscere la dottrina segreta del Maestro 
con un suo famoso scritto in tre libri, del quale ci parlano anche 
Diogene Laebzio (Vili, 15) e Giamblico (199), fu cacciato dalia 
Scuola. Cfr. OrictIne, Contra Celstmi III, p. 142 e II, p. 67 Can- 
tab.; GuMBL. 17; Th. Canterus, Var. Lect, I, 2. 

(2) V. Plut. Numa, 22; Aristocle p. Euseb. pr. ev, XI, 3, 1; 
PSEUDO LisiDE pr. GiAMBL. 75 sg. e Diocr. VII! 42; Giambl. 226 sg., 
246 sg. (ViLLOisoN, Anecd. II, p. 216); Porf. 58; un anonimo pr. 
Menagio in DioG. Vili, 50. Cfr. Platon., Ep. II, 314, l'afferma- 
zione di Neante su Empedocle e Filolao, e il racconto dello stesso 
scrittore e di Ippoboto (pr. Giambl. 189 sg.) secondo il quale Myl- 
lia e Timycha sopportarono i più crudeli tormenti e 1' ultima si 
tagliò la lingua, piuttosto che rivolare a Dionigi il vecchio la ra- 
gione dell'astinenza dalle fave. Così Timeo (pr. Diog. YIII, 54j af- 
ferma che Empedocle e Platone furono esclusi dall' insegnamento 
pitagorico, perchè accusati di « logoklopia ». 






ragioni, continuavano la loro vita ordinaria, che natural- 
mente informavano ai principii morali e alle conoscenze 
acquisite, diffondendo così con la prafica e con la parola 
il bene a cui l'insegnamento appunto mirava. Erano 
questi i membri attivi^ di cui ci parlano alcune testimo- 
nianze; gli altri invece, gli speculativi^ vivevano sempre 
neir Istituto, dove, in perfetto accordo con tutte le altre 
pratiche e leggi dell'Istituto stesso, le quali miravano so- 
pratutto a far scomparire ogni forma di egoismo e di 
orgoglio individuale^ era praticata un'assoluta comunione 
di beni. E non è poi così strano da doversene negare la 
verità (1), che uomini dati a speculazioni filosofiche e re- 
ligiose e a pratiche morali, e che vivevano insieme per 
uno scopo unico, mettessero in comune i loro beni, per 
il vantaggio delF insegnamento e per la diffusione delle 
loro idee. Che cosa poteva trattenere i discepoli interni^ 
non legati più dai vincoli del mondo, da questa comu- 
nione di beni ? E quanto agli esterni, non è naturale 
pensare che, per la virtìi della fratellanza e delF amore 
acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse 
spontaneamente tutte le sue sostanze, anzi tutto se me- 



(1) Secondo lo Zeller le testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr. 
Diog. X, 11 e di Timeo di Taurom. ibid., Vili, 10) che fa anche, 
secondo Fozio {Lex. s. v. Koinà) introdurre da Pitagora la comu- 
rità dei beni fra gli abitanti della Magna Grecia sono troppo re- 
centi. Ma cfr. anche gli Sehol. in Plat. Phaedr. p. 312 Bekk., e 
le testimonianze che troviamo in Diou. Vili, 10; Gell. I, 9; Ippol. 
Refut. I, 2 p. 12; Porf. 20; Giambl. 30, 72, 168, 257 ecc. — Il 
Kriscue {l. e. p. 27) crede che fonte di questa tradizione sia stata 
una falsa (?) interpretazione della nota massima « le cose degli 
mnici sono comuni »; il che mi pare ben poco fondato, se si pensi 
che non è neppur certo che questa massima appartenesse in modo 
particolare ai pitagorici (Aristot. Eth. Nie. IX, 8, 1168 b 6). 



'à 



' ' I 



- 200 — 

desimo a disposizione dei suoi confratelli? (1). Ed infatti 
noi sappiamo che i Pitagorici usavano particolari sej:^ni 
di riconoscimento (2) - come il pentagono (3) e lo gno- 
mone (4), incisi sulle loro tessere, e la forma caratteri- 
stica del saluto (5) — dei quali dovevano servirsi sia per 
conoscersi ed aiutarsi subito a vicenda nei loro bisogni 
sia per essere accolti, fuori di Crotone, dagli adepti di 
altre scuole consimili, numerose così nella Magna Grecia 
come nella Grecia e neirOriente (6). 

La vita che si conduceva neir istituto da quei disce- 
poli che vi rimanevano in permanenza ci è sufficiente- 
mente nota per le narrazioni dei neo-pitagorici e per le 
notizie sparse qua e là nelle opere dei piìi antichi autori. 
Tutto era ordinato con norme precise che nessuno tra- 
sgrediva mai (7); il che si intende facilmente, se si pen- 
si che ognuna di esse aveva la sua giustificazione razio- 
nale e che, salvo alcune rigorosamente prescritte, erano 






(1) V. DiOD. Siculo Excerpt. Val. Wess. p. 554; Diog. VITI, 21. 

(2) GiAMBL. 238. 

(3) V. gli Schol, alle Nuvole di Aristofane Oli, 1, 249 Diiui. 

(4) Krische /. e. p. 44. 

(5) Luciano, De Salut., e. 5. 

(6) Per questo, e forse per altre analogie (come quella delle a- 
dunanze notturne di cui ci parla Diog. Vili, 15) si è paragonato 
da alcuno V Istituto pitagorico con altre società segrete dei nostri 
tempi. V. su questo proposito un cenno fuggevole nel Dict. de 
biogr, génér., Firmin-Didot, Paris, 1862, t. 41, col. 243-244: « Les 
souvenirs de collège formaien^ sans doute pour les pythagoricions 
ce lien sacre qu' on a depuis voulu assimiler à je ne sais quello 
société de Rosecroioc ou de Franes-ma^oì?^ ». 

(7) PoRF. 20, 22 sg. che cita Nicomaco e Diogene (autore d' un 
libro sui prodigi); Giambl. 68 sg., 96 sg., 1H5, 256. 



201 



date più in forma di regola o di consiglio, che di vero 
e proprio comando (1). 

Di buon mattino, dopo la levata del sole, i cenobiti 
si alzavano e passeggiavano per luoghi tranquilli e silen- 
ziosi, li'H templi e boschetti, senza parlare ad alcuno pri- 
ma di avere ben disposto il loro animo con la medita- 
zione ed il raccoglimento. Poi si adunavano nei templi 
o in luoghi simili, ad imparare e ad insegnare — poi- 
ché ciascuno era e maestro e discepolo (2) — e pratica- 
vano continuamente particolari esercizi per acquistare la 
padronanza delle passioni e il dominio dei sensi, svilup- 
pando in modo speciale la volontà e la memoria e le fa- 
coltà superiori e più riposte dello spirito. Non si trat- 
tava peraltro nò di mortificazione della carne e rinun- 
zia forzata ed obbligatoria ai piaceri normali della vita, 
né di altre simili aberrazioni fratesche e conventuali: Pi- 
tagora voleva 'soltanto che ognuno si mettesse in grado 
di assoggettare il corpo allo spirito, per modo che que- 
sto fosse libero nelle sue operazioni e nel suo svolgi- 
mento interiore : ma il corpo doveva essere mantenuto 
sano e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno stru- 
mento perfetto quant' era possìbile : onde gli esercizi gin- 
nastici d'ogni genere fatti alf aria aperta, e le prescri- 
zioni minuziose intorno all' igiene e specialmente ai cibi 
e alle bevande. In generale i pasti erano assai parchi, 



(1) Il rispetto alla libertà individuale era una delle caratteristi- 
che, e forse la più bella del metodo pedagogico pitagoreo. V, su 
tale metodo F. Ckamek, Pffthay. quomodo educaverit aique insti- 
stuerit (1833). 

(2) Anche questa era una sapiente o razionale disposiziono, abi- 
tuando i discepoli alia vulù attiva. 



I 



— 202 — 



— 203 



!J 



ridotti al puro necessario, eliniiuando tutto ciò che potes- 
se offuscare la serena funzione dello spirito ed aggravare 
inutilmente lo stomaco. Pane e miele al mattino, erbe 
cotte e crude, poca caj-ne e solo di determinate qualità 
ed animali, raramente il pesce e pochissimo vino la sera 
durante il secondo pasto (1), il quale doveva essere ter- 
minato prima del tramonto, ed era preceduto da passeg- 
giate, non più solitarie, ma a gruppi di due o tre, e dal 
bagno. Terminato il pranzo, i commensali, riuniti intorno 
alle tavole in numero di dieci o meno, si trattenevano a 
discorrere piacevolmente, a leggere ciò che il piìi anzia- 
no prescriveva, di poesia e di prosa, e ad ascoltare della 
buona musica che disponeva gli animi alla gioia e ad 
una dolce armonia interiore. Poiché « la musica, onde 
tutte le parti del corpo sono composte a costante unità 
di vigore, e anche un metodo d'igiene intellettuale e mo- 
rale, e però compieva i suoi effetti nell'anima perfetta- 



(1) La tradizione più dilfusa ci parla di assoluta astinenza dalle 
carni, dal vino e dalle favo. Pitagora forse era un puro vegetaria- 
no, come ci attestano Eudosso pr. Porf. 7 ed Onesicreto (scc. IV 
a. C.) pr. Strab. XV. 1, 65 p. 716 Gas. Ma non possiamo affer- 
mare che tale dieta fosse assolutamente obbligatoria per tutti : al- 
trimenti non potremmo spiegarci come mai alcune testimonianze 
parlino di certe qualità di carne rigorosamente proibite. Probabil- 
mente l'astinenza dalle carni e dal vino (quella delle fave pare 
fosse prescritta nel modo più formale e categorico) fu un semplice 
uso, derivante dal bisogno o dal desiderio di mantener sempre sve- 
glio lo spirito e di renderò meno tirannico — pur conservandolo 
sano — il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina della 
trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto ; 
poiché essa aveva un significato e un valore assai diverso da quel- 
lo normalmente attribuitole^ secondo la comune credenza della sua 
derivazione dall' Egitto. 



mente disciplinata di ciascun pitagorico » (1). Non man- 
cavano intìne, durante la giornata, alcune semplici ceri- 
monie religiose, pivi precisamente simboliche, che servi- 
vano a mantenere sempre vivo e presente in ognuno il 
culto ed il rispetto di quell'Essenza da cui emanava e a 
cui doveva tornare — secondo la dottrina mistica del 
Maestro — il principio animico e sostanziale di ciascun 
individuo umano. 

Altre testimonianze ci parlano di astensione dalla cac- 
cia, dell'uso di vesti bianche (2) e di capelli lunghi (3). 
Quanto alV obbligo del celibato di cui parla lo Zeller, 
non solo non ò dato da alcuna testimonianza (4), ma ò 
contrario anzi a quelle molte che ci parlano di Teano, 
moglie di Pitagora, dalla quale questi avrebbe avuto più 
figli (5) ed alle altre ove sono determinate le norme ri- 



(1) Centofanti, op. cit. p. 390. 

(2) GiAMBL. 100, 149 che desunse forse la notizia da Nicomaco 
cfr. RoHDE, Eh. Mus. XXVI, 3 5 sg., 47). Akistosseno, da cui e 
forse presa — mediatamente — la notizia contenuta nel § lOO, non 
parlava che dei Pitagorici del suo tempo. V. Apul. De Magia e. 56; 
FiLOSTK. Apollon, I, 32, 2; Eliano; V. Hist. XII, 32. 

(3) FlLOSTR. /. C. 

(4) Egli cita veramente Clem. Strom. Ili, 435 C e Diog. Vili, 
19 ; ma nel primo di questi luoghi ò detto solo che da alcuni si 
affermava che i Pitagorei « si tenevano lontani dall' amore carna- 
le »; ciò che non significa punto ciie l'amore stesso fosse loro 
proibito : anche qui probabilmente si trattava di una semplice pra- 
tica liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo luogo ci- 
tato è detto semplicemente che Pitagora « non si seppe mai che si 
abbandonasse a pratiche sessuali ». 

(5) Ermesianatte pr. Ateneo Xlll, 599 a; Diog. Vili, 42; Porf. 
19; GiAMBL. 132, 146, 265; Clem. Paedacj. II, e. iO, p. 204; 
Strom. I, 309, IV, 522 D.; Plut. Coniiig, praec. 31, p. i42 ; Stob. 
EcL I, 302; Fiorii. 74, 32, 53, 55; Fiorii Monac. 26b 270 (Stob. 
Fior. ed. Mein. IV, 289 sg.); Teodoreto, Sen/i. 12. 



! 



— 204 — 

guardo al tempo più opportuno per dedicarsi all'amore (1); 
e contrario poi — ciò che è piìi importante — allo spirito 
della dottrina del filosofo, per il quale la famiglia era sa- 
cra, e i doveri ad essa inerenti erano indicati con molta 
precisione ed accuratezza, massime nell'insegnamento fatto 
alle donne. Anche il celibato insomma non dovette essere 
che una pratica dei più ferventi discepoli, i quali, dediti 
interamente alle speculazioni filosofiche ed agli studi, cre- 
dettero forse di trovare nei vincoli di famiglia un osta- 
colo alla libertà dei loro studi e delle loro meditazioni. 



6. — Queste, in breve le notizie che ci restano della 
storia esterna dell'Istituto e del suo ordinamento interno. 
Per quello che riguarda in particolare l'insegnamento, ab- 
biamo dunque veduto che esso era duplice e che per 
essere ammessi a quello chiuso o segreto era necessario 
aver dimostrato, con lunghi anni di prova, di esserne de- 
gni e di avere tutte le attitudini necessarie a riceverlo. 
Chi non dava tali garanzie poteva usufruire soltanto del- 
l' insegnamento esoterico o comune, privo di ogni sim- 
bolismo e alla portata di tutti, di carattere essenzialmente 
morale. Abbiamo anche accennato che i discepoli esote- 
rici erano iniziati gradatamente a forme sempre più ele- 
vate di conoscenze — teoriche e pratiche — , nascoste 
sotto il velo di particolari formule simboliche, facili da 
ricordare e schematiche, le quali avevano il vantaggio 
che, conosciute dai profani, non rivelavano per nulla il 
loro senso riposto e metaforico (2). Con ciò si voleva evi- 



(1) DioG. VIIL 9. 

(2) L' Arte Mnemonica di Raimondo Lullo (sec. XllI-XlV), uno 
dei precursori del Bruno e maestro di Gioacchino da Fiore, di Cor- 



— 205 — . 

tare il pericolo che conoscenze d'ordine superiore fossero 
date in balia a menti inette a comprenderle, le quali, 
appunto per questo, le divulgassero poi con restrizioni, 
limitazioni e imperfezioni derivanti dalla loro intelligenza 
inadeguata e così nascesse il discredito e il ridicolo sulle 
dottrine fondamentali e su tutto l'insegnamento. Il cri- 
terio usato neir impartirle era dunque che « non si do- 
vesse dir tutto a tutti » e tale criterio — aristocratico 
nel senso più ampio e più bello della parola — del pro- 
porzionare le conoscenze alla capacità individuale, non 
può certo reputarsi illogico o segno di vana superbia e 
di orgoglio intellettuale: anzitutto è accaduto in ogni 
tempo che dottrine intrinsecamente buone abbiano via via 
perduto, col troppo diffondersi, gran parte della loro per- 
fezione primitiva ed abbiano finito o con l'andare sog- 
gette ad ogni sorta di travestimenti e di inquinamenti od 
anche col perdere affatto il loro contenuto sostanziale, 
pur conservando le manifestazioni esterne e i segni for- 
mali di esso ; in secondo luogo non essendo mai chiesto 
all'individuo più di quello che le sue facoltà naturali e 
le sue conoscenze effettive potessero comportare, e lo svol- 
gimento delle facoltà stesse procedendo secondo quella 
progressione che la natura pone nell' esplicarle e secondo 
i gradi della superiorità loro nell'ordinata ed armonica 
conformazione della persona umana, non veniva ad esse- 
re turbato in nessun momento quell' equilibrio, nel quale 
si contemperano in armonia perfetta le varie attitudini di 
ciascuno, e ne nasceva per l' individuo stesso una pace 
indisturbata e una fiducia in sé medesimo, che non dava 



nelio Agrippa, del Paracelso ecc., ebbe Io stesso carattere di una 
sÌ7nholica unitwrsale, intelligibile ai soli iniziati. 



— 206.— 



mai luogo allo scoraggiamento e allo sconforto. Tutta la 
vita era quindi sottoposta alia legge d'un' educazione si- 
stematica e continua, e dello attitudini individuali face- 
vano uno studio diligente, coscienzioso ed incessante quelli 
che erano piìi in alto nelf ascesa verso la perfezione. 

Nei rapporti degli adepti fra loro e con gli altri uomi- 
ni era legge suprema 1' amore, e questo infatti regnava 
sovrano tra quelle anime, avide soltanto di bene e desi- 
derose di attuare quant' è possibile in questa vita quel- 
l'ideale di giustizia che è, attraverso i secoli, la perenne 
aspirazione di tutti i buoni. Nella scuola e nelT insegna- 
mento invece era il principio autoritario che prevaleva ; 
principio razionale e giusto quando corrisponda a una 
vera gradazione di merito e di valore individuale, e per 
nulla insopportabile, quando T insegnamento sia animato 
e vivificato dall' amore reciproco fra discepoli e maestri, 
e quelli abbiano in questi fiducia e stima illimitata. Chi 
si avvia per la stiada del sapere e vuole arrivare all'ac- 
quisto di un qualsiasi sistema di conoscenze ha sempre 
nozione imperfetta e inadeguata delle verità che impara, 
tinche non sia giunto a comprenderne per intero l'ordine 
necessario; e le verità stesse, imparate che siano, non 
sono mai sufficienti a costituire il sapere, se non vi si 
unisca l'esperienza positiva della loro realtà. Ma poiché 
non tutte le nozioni, come si è già detto, potevano es- 
sere intese da tutti pienamente e ciò non di meno era 
necessaria la loro conoscenza, anteriore a quella delle lo- 
ro ragioni intiinseche ed ideali, non era possibile l'inse- 
gnamento di esse senza il principio d'autorità. E d'altro 
lato, non potendo questa medesima autorità essere tolle- 
rata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non si fosse 
accompagnata anche la persuasione, nata dal riconosci- 



— 207 — 

mento sperimentale di altre verità prima soltanto apprese, 
era giustissimo il principio di coordinare T insegnamento 
teorico ed il pratico. Ond' è che gli adepti accettavano 
volentieri e senza discutere le dottrine che gli iniziati 
superiori insegnavano in forma di precetti brevi, sempli- 
ci, facili, simbolici, sia perchè erano rafforzate dall'auto- 
rità suprema del Maestro da cui derivavano, sia perchè 
g]"adatamente era anche insegnato a ciascuno il metodo 
per verificarle praticamente da se medesimo. Uipse dixit 
era pertanto, come dice benissimo il Centofanti (1), « la 
parola dell'autorità razionale verso la classe non ancora 
condizionata alla visione delle verità più alte e non par- 
tecipante al sacramento della Società », mentre poi il 
vedere in volto Pitagora « valeva appunto la meritata ini- 
ziazione air arcano della Società e della scienza ». 



7. — Resterebbe ora da dire in che cosa consisteva 
l'insegnamento impartito con un metodo così rigoroso e 
prudente, quale era la nuova parola che Pitagora portò 
fra quelle popolazioni, così piena di fascino da persuadere 
tante nobili intelligenze ed ammaliare tanti cuori, e a 
quale spirito era informato un sistema educativo, che non 
solo sui giovani, ma anche sugli uomini aveva tanto po- 
tere da trasformarne la natura morale e tutta la costitu- 
zione psichica. Ma poiché questa esposizione della dottri- 
na pitagorica è già stata fatta da molti (2), basti qui il 
dire che essa, riprendendo ed ampliando il pensiero reli- 



(1) Op. eit. p 405. 

(2) Puoi vederla esposta assai bene nei citati lavori del Cento- 
fanti e dello SciiURK ; per quanto a quest' ultimo manchi in parte 
il necessario corredo di provo e di testimonianze. 



— 208 — 



gioso che la tradizione leggendaria personificò in Orfeo, 
coordinava le ispirazioni orfiche in un sistema vasto e 
compiuto, e che, essendo fondata su un sapere sperimeu- 
tale e accompagnata da un ordinamento razionale di tutta 
la vita, mirava a perfezionare gli individui, non solo con 
Tapprofondirue e Testenderne le conoscenza teoriche, ma 
anche essenzialmente con l'accrescerne a grado a grado 
la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo — ot- 
tenuto con lunghe e pazienti pratiche (1) — delle facoltà 
latenti del riposto ef/o divino, principio sostanzialo di ogni 
attività deir uomo. 



(1) Erano pratiche magicho che si uRavano dol resto in tutto lo 
scnoìo mistiche o elio non eceedovano, se non apparentemento e 
solo per i profani, i limiti della natura ; e chi abbia una eonc- 
soenza anche superficiale di questi studi sa bene che la nia^^ia non 
era altro che un'arte, che si acquistava con cognizioni ed esercizi 
particolari e segreti. Per le testimonianze suU' uso di questo pra- 
tiche V. PiATT. Numa 8, Apul. De Magia 8i ; Porf. 23 s^g., ?A 
sg.; GiAMBL. 3tì, 60 sgg., 142, dove si parla di « antichi scrittori 
degni di fede ». Cfr. anche Ippol. Re/ut. I, 2, p. 10, Euseb. pr. 
ev, X, 3, 4; Aristot. p. Eliano II, 26 e IV. 17 ecc. 



NDICE DEL VOLUME 



Prefazione 

Introduzione 

Capitolo primo : Inìzii leggeudarii e storici 



» 



secondo : Quinto Ennio e i suoi tempi . 

terzo : Sette e scuole pitagoriche in Roma nel 

I secolo a. C 

» quarto : Pitagora e le sue dottrine negli scrit * 
tori latini del primo secolo a. C. 

I. — Lucrezio e il poema « Della Natura » 

IL — Frammenti della dottrina di Pitagora de- 
sunti dalle opere di M. Terenzio Varrone . 

III. — Appio Claudio Palerò — Cicerone e il 
« Somnium Scipionis » . . . . 

IV. — Mimi — Q. Orazio Fiacco — P. Virgilio 
Marone . . . . . 

V. — Pitagora e le sue dottrine nella poesia 
di Ovidio ,....•. 

Appendici 

I. — Euphorbos ........ 

IL — Il Sodalizio pitagorico di Crotone 



Pag. 


VII 


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