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AUTHOR:
GIANOLA, ALBERTO
TITLE:
LA FORTUNA DI
PITAGORA PRESSO
PLACE:
CATANIA
DA TE:
1921
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COLUMBIA ÙNIVERSrrY LIBRARIES
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Gianola, Alberto.
. La fortuna di Pitagora presso i Romani dalle origini
fino al tempo di Augusto. Catania, F. Battiato, 192l!
viii, 208 p., 2 I. 20^™. (0« ..z..r; Biblioteca di filologia classica. tl5,)
Bibliographical foot-notes.
ì. Pythagoras and Pythagorean school. 2. Philosophv Anrienf ^ T h..
S.'^'"'^^^"^"-^^"^' -d Latin, i LiteratuSSV^^^^^^
Library of Congress
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BIBLIOTECA DI FILOLOGIA CLASSICA
DIRETTA DA
CARLO PASCAL
PROFESSORE NELL'UNIVERSITÀ DI PAVIA
ALBERTO GIANOLA
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LA
FORTUNA DI PITAGORA
PRESSO I ROMANI
dalle origini fino al tenijio iì Angasl«
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ALBERTO GIANOLA
LA
FORTUNA DI PITAGORA
PRESSO I ROMANI
dalle origini fino al tempo di Angn^to
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CATANIA
FRANCESCO B ATTUTO — Editorr
1921
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PROPRICTX T.ETTERAKIA
GIORGIO E GUSTAVO DEL VECCHIO
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La filosofia di Pitagora, che è qemralmente conosciuta
appetm m alcuni dei suoi punti fondamentali, come la
metempsicosi, V armonia delle sfere, la scienza dei mi.
meri, l'astensione dai cibi carnei e dalle fave, era in
realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine,
iin vero e proprio sistema di speculazione e di morale]
la cui conoscenza ci è tuttavia possibile soltanto in pic-
cola parte, sì per la scarsità dei documenti scritti ori-
(finali, dovuta alla nota tradizione della segretezza cke
i più dei suoi cultori osservarono scrupolosamente, sì
per le amplificazioni, le falsificazioni e le invenzioni
che partorirono le fantasie di tardi seguaci, di pseudo-
eruditi e di mistificatori. È però indubbio che tale filo-
sofia fu non dilettantismo di mistici fanatici, ma vera
e ragionata speculazione, a cui si accompagnò, parallela,
mia conseguente e logica ragione di vita, sì che, men-
tre da un lato potè attrarre, sedmendole col fascino
delle verità da essa chiarite e con Varmonica bellezza
de% suoi insegnamenti, le anime di molti cui pungeva
l'assillante aculeo della conoscenza, incontrò dall'altro
— YI —
ostacoli e derisioni da parie di aristocraxie interessate
di volgili igjtobili e sciocchi.
Divulgata.^ se non creata iìiteraìnente ex novo, nel se-
colo sesto a, C. per opera di Pitagora, del qaale^ come
di Ornerò^ alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa^
fu coltivata^ prima che altrove, sulle rive delV lonio^ nella
Magìia Grecia e in Sicilia.^ di dove si diffuse, sebbene
osteggiata.^ nella Grecia ed in Roma. Bieca., com'essa
era. di prineipii che oggi si direbbero idealistici e tra-
scendentali.^ ed accompagnandosi^ come ho detto., a una
sua particolare armonica concexione della vita indivi-
duale e collettiva^ teorica insomma e pratica nello stesso
tempo^ essa era ben atta ad informare di sé religione
e scienza, politica e morale, consuetudini e leggi.
Essa fu da molti connessa non pure con aìiteriori an-
tichissime dottrine della Grecia, delVEgitto, delVIndia
e per fin della Cina^ dalle quali sarebbe in tutto o in
parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di
somiglianza, ma altresì con la posteriore filosofia di Pla-
tone., in molte parti ricalcata sulle sue orme. Coìiservata
poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e tra-
mandata^ senza il sussidio della scrittura., nel segreto
delle scuole^ essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filo-
sofi alessandrini, quando^ inalveatesi nel suo letto altre
correnti di pensiero., alimentò le speculazioni della teo-
sofia neoplatonica e neopitagorica di Plotino^ di Porf-
rio e di altri molti., e diede origine a molteplici scrit-
ture., quali più quali meno profonde ed attendibili^ in-
torno alla vita ed ai primi insegnaìuenti delV antico
maestro. Da essa infine trassero ispirazione alcuni filo-
sofi, della rinascenza, e qualche sua derivazione può
dirsi non del tatto spenta anche oggi.
— VII —
Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque, massime
per noi Italiani, lo studiare la storia di questa dottri-
na e il ricereavìie e ftarrarne le vicende nei vari tempi
e nei vari paesi: poiché, sebbene molti abbiano fatto stu-
di e ricerche in proposito — basterà ricordare, fra tanti,
i lavori dei Bitter (1), dello Zeller (2), del Qomperx (3)'
dello Chaignet (4) e del Mullach (5), e, in Italia, del Ca-
pellina (6), del Centofanti (7), del Cof/netti De Martiis (8),
del Ferrari (9), del Ferri (10) - e benché da tutti
(1) Heinrich Ritter, Gesekichte der PyOmgor. Philosophie, Ham-
burg. 1826. .
(2) Eduard Zeller, Pythagoras und die Pythagorassage, in Vor-
triige und Abhandlungen gesehichtlichen Inhalts, Leipzig, 1865 e
Die l'hilosophie der Oriecken ecc., voi. P pp. 279 e segg.
(3) Theod. Gompeez, Les penseurs de la Grece, trad. de la 2»
ed. allem. par A. Reymond, Paris, Alcan, 1904.
(4) A. E. Chaig.vet, Pythagore et la philosophie pythagor., Pa-
ris, l873.
(5) Fr. G. a. M[jllach, De Pythagora eiusque discipulis et suc-
eessoribus, in Fragmenta philosoph\ graeeor. v. II, Paris 1881
pp. I-LVII. ' ' '
(6) Domenico Capellina, Delle dottrine dell'antica scuola pitago-
rica contenute nei Versi d'oro, in Memorie della R. Accad. di
Scienxe di loririo, serie II, t. XVI (1857), pp. 37-109.
(7) Silvestro Centofanti, Studi sopra Pitagora (1846) nel volu-
me La letteratura greca. Firenze, Le Mounier, UlO {Opere voi. I
pp. 359 e segg). ' ' '
(8) CoGNETTi De Martiis, L'Istituto Pitagorico, in Atti della R,
Accad. delle Scienxe di Torino, 24 ',1888-89) e nel volume Socia-
lismo antico, Torino, Bocca, 1889, pp. 459-496.
(9) Sante Ferrari, La scuola e la filosofia pitagorica, in Rivi-
sta Hai. di filosofia, 1890, I e II.
(10) L. Ferri, Sguardo retrospettivo alle opi?iioni degl'Italiani
intor?io alle origini del pitagorismo, in Atti della R. Accade?rna
dei Lincei, Rendiconti, serie 4, 6, 1890, 1 pp. 532-547.
— vili —
qtusti e da altri studiosi non solo si siano raccolte molte
notizie^ ma si siano anche esaminate e discusse quistio-
ni importantissime, pure troppe cose ancora rimangono
da chiarire e da risolvere della storia ch'io chiaraerò
esterna fìeì Pitagorismo; e fors'anche^ riprendendone in
esame il contenuto^ ossia tenendo l'occhio (dia sua sto-
ria inlerìia, che è poi, ppr la filosofìa, la sola importan-
te^ qualche verità, io penso^ già acquisita e insegnala
dalVantico saggio, potrebbe dimostrarsi anche oggi vali-
dameìite fondata e tale da poter resistere agli assalti del
nostro pih acato rritlcismo.
Gli studi raccolti in questo volume furono già da me
in gran parte pubblicati, dal 1904 in poi, o in opuscoli
tu Ririste: ma poiché ho dovuto, nel corso delle mie
ricerche, modifìcare alcune delle conclusioìU alle quali
ero giunto, e uuovi fatti ho potuto chiarire, mi sono
indotto, anche per aderire al desiderio e alle sollecita'
xioni di benevoli amici, a rista tuparli tutti insieme.
Spero che il tenue contributo ch'io porto alla storia
che or ora dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno
a dimostrare che intorno a queste imporfautissime dot-
trine non si è detto ancora lutto e cht inolio ancora si^
può indagare e scoprire.
INTRODUZIONE
Da diverse tradizioni furono connessi i più antichi istituti
religiosi e politici di molte città dell'Italia meridionale con
il Pitagorismo (1) ; né fa meraviglia che alle dottrine di
Pitagora si facessero risalire anche le prime istituzioni e
le più antiche leggi di Roma : Numa, il sacro legislatore
della città capitolina, fu ritenuto scolaro di Pitagora, e le
stesse leggi delle dodici tavole, copiate dalle legislazioni
della Magna Grecia e della Sicilia, che alla loro volta
traevano ispirazione, se non origine, dal Pitagorismo, fu-
rono altresì ricongiunte con questo.
Sarebbe indubbiamente assai utile e interessante poter
determinare in che consistessero questi legami di dipen-
denza e stabilire con precisione quali furono gl'influssi
dell'antica sapienza italica sulla formazione delle credenze
e degli istituti religiosi e della fondamentale legislazione
(1) Seneca, per esempio, {Epist. ad Luoilium, 90) sull'autorità
di Posidonio, dice, parlando dei glandi legislatori delTItalia: «Hi
non in foro, nec in eo7isultorum atrio, sed in Pythagorae ilio
sanctoque secessu didieerimt jura, quae fiorenti lune Siciliae et
per Italiani Graeciae ponerent ».
1.
■ Bni i wi i iiw i . i BL. p j i jm mmi
romana; ma purtroppo, sebbene qualche lieve tentativo si
sia fatto in proposito, non è, per ora, possibile una deter-
minazione neppure approssimativa.
Ma insieme con questa azione, da alcuni ritenuta sol-
tanto leggendaria, su ciò che costituì l'anima della vita
civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un ulteriore in-
flusso, det^^rmiuando nel corso dei secoli, attraverso le
vicende della sua storia vasta e complessa, una corrente
di pensiero sua propria, continua o interrotta, palese o
recondita ?
Di vera e propria tradizione scritta non ci resiano trac-
ce, se non frammentarie; di una tradizione orale abbiamo
invece meno scarsi indizi e con certezza sappiamo di non
pochi seguaci che la dottrina pitagorica ebbe in Roma.
Anzi noi possiamo rilevare tin d'ora, anticipando in parte
le conclusioni di (jueste nostre ricerche, che questi inna-
morati cultori di una così riposta e difficile sapienza non
furono già uomini oscuri né poeti o scrittori di second'or-
dine, ma cittadini illustri, grandi poeti e celebii letterati,
pensatori insigni e grandi uomini politici; cosicché la filo-
sofìa pitagorica, non morta nella scrittura o negli insegna-
menti orali, ma viva e operante nelle menti di magistrati
famosi, come Appio Claudio e il maggiore Scipione, nelle
fantasie di poeti eccellenti, come Ennio e Virgilio, nei
cuori di cittadini nobilissimi, come Figulo, Varrone e i
Sestii, accompagnò in certo modo passo per passo il pro-
gredire della potenza e della grandezza di Roma; tinche
poi, sopra la sua efficienza pratica e la sua virtù fattiva
prevalendo Telemento speculativo, che, data la natura e
r indole dei Romani, era il meno idoneo ad allettarli, e
all'antica razionalità delle dottrine sovrapponendosi da un
lato fantasticherie e aberrazioni come quelle di un Apol-
3 —
Ionio di Tiana, e dall'altro frammischiandosi elementi ete-
rogenei di origine greca, orientale e forse anche cristiana,
essa si ritirò di nuovo nel silenzio e nella segretezza di
qualche scuola, illuminò appena la vita e lo spirito di
qualche solitario amante della verità e del sapere, e finì
per disperdersi e dileguare nelle acque torbide delle spe-
culazioni di un Macrobio o di un Eulogio.
Se io mi sono indotto pertanto a raccogliere con la
maggior diligenza possibile i ricordi, le testimonianze, le
tracce, o palesi o recondite, o tenui o larghe, che di sé
ha lasciato il pensiero pitagorico nella storia e nella let-
teratura dell'antica Roma, gli é che altri lavori e studi
esaurienti intorno al mio tema non mi é accaduto di tro-
vare, Brevi cenni riassuntivi si trovano bensì nelle opere
dello Zeller, dello Chaignet, del Mullach, nella Storia di
Roma del Rais, e in storie generali e particolari della
letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare lun-
ghe e pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse
qua e là un po' dappertutto. L'importanza e il valore delle
mie ricerche non consistono dunque nella novità dei ri-
sultati, ma piuttosto nello svolgimento dato a un tema fin
qui appena malamente sfiorato da qualche erudito, nella
quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che ne
ho fatto, seguendo l'ordine cronologico; e qualche que-
stione spero anche di avere maggiormente chiarita, seb-
bene, per la scarsità dei dati sui quali era concesso co-
struire, non sempre abbia potuto giungere a conclusioni
definitive.
CAPITOLO PRIMO
Inizi leggendari e storici
i
1. II Pitagt»rismo e le più antiche istituzioni di Roma. — 2. Testi-
monianze e prove. — 3. I carmina convivalia. — 4. Numa e
Pitagora. - f>. Le leggi delle XII tavole nei loro rapporti col
Pitagorismo. — 6. Il carme pitagorico di A. Claudio Cieco.
1. — Che molte delle antiche istituzioni di Roma fossero
d'^^rivate dalla filosofìa pitagorica fu riconosciuto ed ara-
messo esplicitamente da Cicerone, il quale nel principio
del quarto libro delle Tmculane (§§ 2-4) lasciò scritto:
« Pythagorae doctrina cum longe lateque flueret^ pernia-
navisse mihi videtur in hane civitatem, idque cum coniec-
tura probabile est, tum quibusdam ctiam vestigiis indica-
tur » . A conforto dunque della sua opinione egli addusse
due argomenti, uno congetturale e uno di fatto : « Quis
enim est qui putet^ — così egli continua — cum fiorerei in
Italia Oraecia potentissimis et maximis urbibus, ea quae
Magna dieta est, in eisqne primum ipsins Pythagorae^
deinde postea Pythagoreorttni tantum nomen esset, nostro-
rum hominum ad eorum doctissimas voces aures clamas
l
1
— 6 —
fiiissef Qiiin etiayn arbitrar propter Pythagoreonun admi'
rationem Kumam quoque regem pytagoreum a posteriori-
bus existimatum, Nam cuni Pythagorae discìplinam et
instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapiens
tiam a maiorìbus suis accepissent, aefates aiitem et tem
pora ignorarent propter vetustatem^ eum, qui sapientia
ejceUeref. Pythagorae aucUtorem erediderunt fuisse». E
questa è la congettura ; la constatazione di fatto poi è,
che nelle istituzioni romane e in alcune antiche scritture
vi sono molte non indubbie tracce di Pitagorismo. Quanto
alle istituzioni, egli trova materia di raffronto nell'uso dei
canti e della musica : « Vestigia auteni Pythagoreorum,
qnamqnam multa oolligi possunt, paucis tamcn utemur,,,.
Nuììi cum carminibus soliti UH esse dicantur et praecepta
quaedam occultius tradere et mentes suas a cogitationum
intentionc cantu fidibusque ad tranquillitatem traducere,
grarissimufi auctor in Originibus dixit Cato morem apud
maiores hunc epularum fuìsse^ ut deinceps, qui accubarent,
canerent ad tibiam clarorum virorum laiides atque virtù-
tes. Ex quo perspicuum est et cantus tum fuisse discriptos
vocum sonis et carmina. Quamquam id quidem etiam XII
tabnlae dcclarant, eondi iam tum solitum esse carmen ;
quod ne liceret fieri ad alterius iniuriam^ lege sanxerunt.
Nec vero illud non eruditorum temporum argumentum est,
quod et deorum puhinaribus et epulis magistratnum fides
praecinunt, quod proprium eius fuit, de qua loquor, di-
sciplinae ». E quanto alle antiche scritture egli ricorda un
carme di Appio Cieco, che a lui pare pitagoreo : « Mihi
quidem etiam Appii Cacci Carmen^ quod valde Panaetius
laudai episiula quadanif quae est ad Q. Tuberonem^ Py-
thagoreum videtur». E finalmente conclude: <^ Multa etiam
sunt in nostris institutis ducta ab illis ; quae pr aetereo,
ne ea, quae repperisse ipsi putamur, aliunde didicisse vi-
deamur», È davvero un peccato che Cicerone, per senti-
mento di orgoglio nazionale — che non doveva peraltro
essere soltanto suo — e forse anche per ragioni, se non
di Stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e di
utilità pubblica, abbia creduto necessario di tacere intorno
a queste molte altre derivazioni d'istituti romani dal Pita-
gorismo, alle quali, come si è visto, accenna per ben due
volte; tanto più che egli, e per le cariche da lui coperte,
e per la conoscenza che aveva della scienza augurale e
sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda
cultura storica, letteraria e filosofica, era bene in grado
di fornirci in proposito notizie, documenti e prove certo
assai interessanti. Ci è forza dunque accontentarci di que-
sta sua affermazione categorica, per quanto generica, e
vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano va-
lidi e, in secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò
contro la sua tesi.
2. ~ Che in verità il Pitagorismo importato nella Magna
Grecia nel sesto secolo avanti Cristo, « temporilms isdem
— corno dice lo stesso Cicerone — quibus L. Brutus pa-
ir iam liberavit » (1) e propagatosi in tutta l'Italia meri-
dionale, dove si conservò poi per molti secoli, non dovesse
rimanere ignoto ai Romani e dovesse esercitare su di loro,
presto tardi, qualche influsso notevole, ò ovvio, e le
presenti ricerche dimostrano appunto la cosa alla luce dei
fatti. Ma la questione è ora di vedere se tale influsso si
possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei
(1) Ibid. § 2. Cfr. I, 16, 8, dove è detto ohe Pitagora venne in
Italia « Superbo regnante ». .
\
I
— 8 —
suoi primi seguaci, come Cicerone credette, oppure, come
credette Livio e con Un gli storici moderni, se esso si sia
fatto sentire soltanto, per opera di neo-pitagorici, dopo la
conquista della Campania e della Magna Grecia, che fu
interamente compiuta nel 265 a. C. ; e, d'altra parte, se
questa azione sia stata così larga e profonda da dover
lasciare molte tracce di sé negli istituti politici e religiosi
di Roma, o se si sia esercitata solo sulle prime manife-
stazioni dell'arte musicale e letteraria e sulle prime spe-
culazioni filosofico-religiose.
Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me che dimo-
strino, anzitutto, come già parecchie generazioni prima
delI'Arpinate, e precisamente fin dal secolo quarto a. C,
cioè prima della conquista dell'Italia meridionale, dovette
essere convinzione di molti in Roma che a Pitagora, alla
sua dottrina e alle sue leggi fosse debitrice di molto la
città. 11 primo di questi fatti è che durante la guerra
sannitica fu innalzata a Pitagora ai lati del Comizio in
Roma, per volere di Apollo, una statua, che vi rimase
poi sino ai tempi di Siila (1). Ora la guerra contro i San-
niti si combattè in tre periodi, l'ultimo dei quali va dal
298 al 290 a. C. : e il Pais crede che la cosa si debba
ritenere avvenuta appunto in questi anni; ma in realtà
non vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire an-
che ad uno dei due periodi precedenti. L'altro fatto, un
poco posteriore, è che dopo la presa di Turis, di Eraclea
(1) La cosa ci è atte-stata da Plinio, il quale pero non cita la
fonte da cui ha attinto la notizia. Dice egli infatti {N. H. XXXIV,
26): Invento et Pythagorae et Alcibiadi in cornibus Comitii positas
(statiias), Clini hello Samniti Apollo Pijthius iussisset fortissimo
Oraiae gentil et alteri sapientissimo simulacra celebri luco dicari» .
Cfr. Plctikco, Xuma, Vili.
e di Taranto (272 a. C.) e con Tarrivo nella città di Livio
Andronico, che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale,
furono dichiarati cittadini romani, Pitagora e il suo alunno
Zaieuco (1). Ora perchè mai sarebbero stati concessi a Pi-
tagora due onori cosi distinti e di carattere pubblico, se
non si fossero riconosciute le sue benemerenze verso la
città? Evidentemente in quei tempi più antichi l'orgoglio
nazionale non aveva ancora oscurato, come più tardi, il
senso della verità storica ! Ciò premesso, veniamo ad esa-
minare la possibilità degl'influssi pitagorici sulla più antica
civiltà capitolina, secondo le prove che ce ne dà Cicerone.
3. — I carmina convivalia, che, ormai disusati nell'età
ciceroniana, erano invece ancora in uso al tempo della
seconda guerra punica (218-202 a. C.) e che risalivano,
come affermò Catone, a molte generazioni prima di lui,
furono certamente anteriori alla legislazione decemvirale,
che è della metà del secolo quinto: Cicerone infatti, per
dimostrare l'esistenza di canti accompagnati da strumenti
musicali, e quindi di una civiltà abbastanza evoluta nei
tempi più antichi di Roma, ricorda nel passo citato, in-
sieme con la testimonianza di Catone, il fatto che le leggi
delle dodici tavole comminavano gravi pene a chi avesse
usato quei canti « ad alteriiis iniurlam » (2). Senonchè
Cicerone, come appare da un altro passo dei suoi scritti.
I
(1) Vedasi il framm. 5 nei Fragm. Hist. Graec.^ II, p. 273 e
Bymm. ep. X, 25.
(2) Cfr. De rep. IV, fr, 12 : « Nostrae duodeeim tabulae, quum
perpaucas res capite sanxissent, in his kanc quoque sanciendam
putaverunt^ si quis occentavisset sive carmen condidisset qiiod in-
famiani faceret ftagitiumve alteri » e vedi anche Plinio, Nat, Hist.
XXVm, 2, 10-17.
- 10 -
audò anche più oltre, ritenendoli già esistenti al tempo
del re Niima (1). Se cosi è, non avrebbe dunque dovuto
valere anche per essi l'obiezione che TArpinate moveva,
come si è veduto, alla leggenda che il re Numa fosse
stato scolaro di Pitagora? Neppure di questi antichissimi
canti egli poteva logicamente ammettere la derivazione
dall'analoga costumanza dei Pitagorici, se Numa che li
istituì visse, secondo la cronologia ufficiale, a cui il nostro
autore credeva, più di cento anni innanzi la venuta del
filosofo di Samo. Cosicché o il raffronto istituito da Cice-
rone e la analogia da lui messa in rilievo non ha alcun
valore storico — e così dovrebbe ritenersi senz'altro, se
fosse indiscutibilmente fondata la cronologia della più an-
tica storia di Roma -', oppure — come è più probabile,
in conformità dei risultati generali e particolari a cui è
giunta la critica storica nell'esame delle primitive leggende
romane — l'ipotesi della derivazione dei canti dal Pitago-
rismo ha un fondamento di vero, e in tal caso ò da rite-
nere che fosse errata la tradizione cronologica, in quanto
faceva risalire al secolo ottavo un'usanza che dovette essere
posteriore al seste secolo a. C. Quanto poi all'analogia
considerata in sé, in che consisteva essa? Semplicemente
(ì) De orai. 111,51, 197: «Nikil est autem tam cognatuin mentibiis
nostris quavì mimcri atqttc voces : qìiihus et cxcitamur et incendi-
mur et leniìnur et langiiescimus et ad hilaritatem et ad tristitiavi
saepe deducimur : quorìiru illa summa vis cat minibus est apiior
et cantibus, n,on neglecta, ni mihi ridetur^ a Numn regc doctissiytto
maioribusque 7iostris, ut epularum sollernnùmf ftdes ac tibiae ò'a-
liorumqiie versus indieant ; ìnaxime autem a Or (tee la vdere cele-
brata ». Di questi canti poi Cicerone parla anche altrove, e cioè
nel Brutus, 19, 75 e nelle Tusculane I, 2, 3. Si vedano anche
Tacito, Ann, III, 5, Val. Massimo II, 1, 10, Nonio ad assa voce
ed ivi Tarrone, de vita pop. rom.., fr. Il, 20, Kettner.
— Il —
neiruso comune del canto e della musica in occasione di
feste religiose e di banchetti pubblici, non già nel conte-
nuto dei canti stessi, che gii uni. cioè i Pitagorici, ado-
perarono come mezzo terapeutico e di insegnamento eso-
terico, e gli altri invece, cioè i Romani, per esaltare la
memoria degli antichi eroi; come i Pitagorici erano soliti
tramandare sotto il vincolo della segretezza certi insegna-
menti in forma di canzoni e riposare per mezzo di canti
accompagnati dalla lira le menti afiaticate dalla lunga
meditazione, così gli antichi Romani solevano, al principio
dei banchetti, cantare al suono delle tibie le lodi e le virtù
degli eroi, ed ebbero anche Tusanza di far precedere tanto
alle mense in onore degli dei, quanto ai banchetti dei ma-
gistrati, il suono delle lire, il che fu pure caratteristico
dei Pitagorici. Insomma, le piìi antiche manifestazioni del-
l'arte musicale in Roma si ebbero per T influsso diretto
del Pitagorismo.
4. — A quei modo che si e dimostrata la possibilità che
siano derivate dal Pitagorismo queste antichissime mani-
festazioni dell'arte musicale, si potrebbe anche riconoscere
come verisimile — contrariamente a ciò che ne pensava
Cicerone — la notizia dei rapporti fra Numa e Pitagora.
La notizia che il re Numa sia stato scolaro di Pitagora
è probabilmente anteriore al terzo secolo a. C. ; anzi il
Pais afferma (1) che essa si deve forse far risalire ad Ari-
stosseno. Ma in tal caso sarebbe necessario credere che
questi conoscesse una cronologia della storia romana di-
versa da quella che fu poi consacrata dalla storiografìa
ufficiale, secondo i computi della quale l'esistenza di Nu-
(1) Storia di Eorna^ I^, p. 19 e 387.
1*
lì ;1
12
ma fu anteriore di oltre un r.ecolo a quella di Pitagora.
Tanto è vero che quasi tutti gli scrittori presso i quali
troviamo ricordata tale notizia — Cicerone, Dionigi d'Ali-
carnasso, Diedero Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio —
notano e discutono variamente questa inconciliabilità cro-
nologica, concludendo tutti press *a poco come fa Manilio
nel De re publica di Cicerone, che dice la storia di queste
relazioni non sufficientemente provata dai pubblici annali
e quindi da ritenersi « un errore inveterato > (1). Ora che
dal punto di vista romano o di scrittori romanizzanti così
dovesse concludersi, è troppo naturale: data la indiscuti-
bile verità della tradizione e della relativa cronologia, non
poteva esservi dubbio per loro sulla impossibilità per parte
di Numa di essere stato alunno di Pitagora. Ma tale im-
possibilita non esiste per noi, che sappiamo come la stona
delle origini di Roma sia di formazione relativamente assai
tarda, come ì computi cronologici che a quella si riferi-
scono siano il risultato di una lunga elaborazione tradi-
zionale, quasi interamente destituita d'ogni fondamento di
verità, e infine come mi ►Ite figure della leggenda siano
soltantn dei simboli nippresentativi di un complesso di
fatti di istituzioni appartenenti talvolta a tempi succes-
sivi e diversi. Tolto dunque Tostacolo cronologico che, se
era validissimo per i contemporanei di Cicerone, non sus-
siste più oggi che la critica storica ha demolito Tantichis-
sima cronologia di Roma, non rimane altra obiezione che
riì Cf . De re pubi. II, 15, 28: « Inveteratus howinuìii error "».
Cfr DiON. Halic, II, 59; Diod. Sic. Vili, 14 {Exc. de viri et vii.
p. 549) ; Livio i, 18 e XL, 29 ; Plut. Awma I, 3 ; VriI, 5 sgg.;
Plinio, Nat. Bist . XIII, 27. —Quanto alla testimonianza di Ovidio
si veda più innanzi, al cap. IX.
— 13 —
quella sollevata da Livio, il quale ritenne impossibile ogni
lapporto fra Numa e Pitagora anche per ragioni di di-
stanza e di lingua. Dice egli infatti : « Auctorem (ìocirinae
« eius [i. e. Numae], quia non exstat alius^ falso tSamium
« Pythagoram edunt^ quem Servio Tullio regnante Bomae^
« centum ampliìis post annos^ in ultima Italiae ora circa
« Metapontìim Heracleamgue et Crotona iuvenum aemu-
« lantium studia coetus habuisse constai. Ex quibus locìs,
« etsi eiusdem aetatis fuisset^ quae fama in Sabinos ?
« ant quo linguae commercio quemquam ad cupiditatem
« discendi exeivisset f quove praesidio unus per tot gentes
« dissonas sermone morihiisque pervenisset f suopte igitur
« ingenio temperatum animum virtutibus fuisse opinor
« magis instructumque non tam peregrinis artibus quam
« disciplina tetrica ac tristi veternm Sabinornm^ quo gè-
« nere nullum quondam incorruptius fuit » (1). Ma nel
campo della storia, come giustamente osserva il De Mar-
chi (2), è forse detta l'ultima parola sui rapporti che lega-
rono in antico la civiltà della Magna Grecia con le più
barbare popolazioni italiche del centro? E d'altra parte
la esistenza ammessa da Livio di una « disciplina tetrica
ac tristis » presso i Sabini dell'ottavo secolo a. C. non è
cosa molto più problematica di quello che non sia pro-
babile l'andata di qualche sabino o romano nella Magna
Grecia nel secolo sesto? La leggenda dei rapporti fra
Numa e Pitagora dovrebbe dunque, a parer nostro, accet-
tarsi come rispondente a verisimiglianza, e il regno di
Numa^ se questi è realmente esistito, o, in ogni modo.
(1) Livio, I, 18.
(2) Passi scelti da Tito Livio ad illustrare le istituxioni religiose.^
'politiche e militari di Roma antica, Milano, Yallardi, 1907 p. 65.
— 14
15 —
il foriiìarsi di tutti quegli istituti di carattere religioso che
la tradizione riportava a lui, dovrebbe ritenersi posteriore
almeno al tempo di Pitagora, ossia posteriore al secolo
sesto, appunto perchè dalla tradizione era tenuto in stretto
rapporto di dipendenza dal Pitagorismo. In tal modo non
sarebbe più necessario, come fa il Pais, di ritenere inven-
tata da Aristosseno Taltra notizia, che risale appunto a
questo filosofo del quarto secolo, che parla genericamente
di Romani :ieeorsi ad ascoltar Pitagora (1), e più facil-
mente si comprenderebbero alcuni dati della leggenda di
Numa, la scoperta dei famosi libri pitagorici di questo re,
e il fatto che qualche scrittore, per esempio Ovidio, am-
metta la realtà dei rapporti, senza neppure discuterla.
Raccontava ancora la tradizione che Numa ebbe tanta
venerazione per il suo maestro Pitagora, che volle dare
a un proprio figlio il nome di Mamerco, in onore deiromo-
nirao tìglio del tìlosofo (2). Che significato può avere questo
nuovo particolare? Alcuni hanno creduto di scorgere in
esso un tentativo da parte degli Emili Mamertini di far
risalire in tal modo le proprie origini al tempo di Numa.
Se così fosse, noi dovremmo allora ammettere che quando
il particolare fu inserito nella leggenda, la cronologia di
questa non era ancora quella ufficiale: altrimenti il tenta-
tivo sarabbe stato puerile. Ma così veramente non è, come
fu giustamente osservato dal Muller(3); probabilmente il
(1) npoaf^XO-ov 5'a'jT(p (cioè Pitagora), &<; cpyjatv 'Aptaxójsvo^, xal
Asuxavol xal MsaaàTctGt xal risuxsxtot xal 'Pco[jLaIou Così dìc-^. Por-
firio nel CHp. 22 della Vita di Pitagora; e il medesimo aft'ermaiio,
senza citare Aristosseno, Diogene Laerzio (Vili, 14) e Gjamblico
[Vita Pythag. 241). Quanto al Pus, vedasi St. di Roma I'-^,
p. 678-679 n. e altrove.
(2) Plutarco, Numa Vili, 11; P. Emilio I.
(3) Q, Enmus, Pietrob. 1884, p. 162 n.
particolare non ebbe altro ufficio che di avvalorare con
un indizio di più la leggenda. Un'altra notizia, a propo-
sito della quale non è veramente fatta menzione alcuna
di Pitagora, è quella che si riferisce alla Musa Tacita, per
la quale Numa ebbe particolare venei-azione (1). Allude
forse essa alla pratica del silenzio e della segretezza, di
cui parla costantemente la tradizione pitagorica? È pos-
sibile. E il miracolo della mensa carica di ricco vasellame,
che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli occhi di co-
loro che dubitavano delle sue facoltà soprannaturali (2),
non ricorda le analoghe facoltà magiche attribuite a Pita-
gora dalla tradizione? Veramente queste due notizie, per
il loro carattere favoloso, potrebbero indurci a credere
l'austera e quasi mistica figura di Numa una proiezione
storica immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del
saggio di Samo. Ma un altro fatto, sulla cui verità storica
non è possibile il dubbio, sembra indurci a conclusione
diversa ; voglio alludere al fatto della scoperta dei famosi
libri di Numa, avvenuta nel 191 a. C, in occasione di
uno scavo sul Gianicolo. Ora data la realtà della scoperta
e la inverosimiglianza, come vedremo nel capitolo seguente,
di una falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la tra-
dizione, che questi libri fossero veramente antichi. Siano
poi essi stati opera del saggio Numa — la cui esistenza,
come s'è già detto, dovrebbe necessariamente porsi in
un'epoca posteriore al sesto secolo — o di qualche altro
sapiente imbevuto di sapienza greco-italica, essi starebbero
sempre a dimosti-are che effettivamente il Pitagorismo eser-
citò una qualche azione suirantica civiltà capitolina.
(1) Plutarco, Numa^ Vili.
(2; DiON. Halic, II, 60.
i
16 —
17
Dal complesso di queste notizie e di questi fatti noi
possiamo dunque inferire che non solo la leggenda dei
rapporti fra i due legislatori dovette essere assai diti usa
ed antica, ma che altresì essa ha un certo fondamento di
vero : di guisa che se Cicerone la disse « inveteratus ho-
m'niiim errar » noi possiamo senz'altro accettarne la vetu-
stà; e quanto all'erroneità, essa fu probabilmente soltanto
un desiderio di uomini di stato e di eruditi animati da
un eccessivo orgoglio nazionale. Per la qual cosa Ovidio,
che pure scrisse dopo che diversi storici avevano mosso
alia leggenda le critiche accennate, potò ben accettarla
senza discuterla affatto come una cosa ovvia e risaputa (1)
e fare in certo modo dipendere le istituzioni religiose at-
tribuite a Numa (2), persino la sua riforma del calenda-
rio (3), dalla educazione pitagorica da lui ricevuta.
5. — Anche alcune disposizioni legislative delle dodici ta^
vole — che appartengono alla metà del quinto secolo a. C. —
furono messe in relazione col Pitagorismo; cosa ben natu-
rale, se si pensi alla loro origine: non erano esse infatti
ricalcate sulle orme delle legislazioni deUa Magna Grecia,
che, alla lor volta, com'è ben noto, si informavano ai prin-
cipi! di quella dottrina? Ora questa, che sarebbe, per dirla
con Cicerone, semplice con'ìeciura, ha poi la sua ripi'ova
nel contenuto delle leggi stesse, quale può desumersi dai
frammenti che ce ne rimangono. Infatti il dii'itto punitivo
in esse sancito s'ispirava a! principio del taglione: ^ Si
(1) Metani, XV, 1-8, 479-484; Fast. UI, 151-154; Poìit, III,
3, 41-46.
(2) Metam. XY, 479-484.
(3) Fast, 1. e.
memhrum rup{s)it, ni cum eo paeit, talio està », dice il
secondo frammento della ottava tavola, e questo principio
che, come attesta Demostene, ebbe largo svolgimento nelle
leggi di Zaleuco (1), era indubitatamente tolto dai Pitago-
rici, i quali lo ricollegavano alla dottrina dei numeri. Dice
infatti Aristotile (2) che la giustizia era da loro conside-
rata come ràvTtJieTcov^óg; perchè consisteva in una pro-
porzione — non inversa, ma diretta, come notò bene lo
Zeller (3) — fra l'offeso, l'offensore e il giudice; nel che
essi applicarono, secondo la critica aristotelica, i criteri
della giustizia commutativa ad un ordine in cui non può
aver luogo che la distributiva. Ora, dice il Chiappelli in
un suo breve studio (4), in qual modo si determinasse dal
Pitagorismo e quali applicazioni avesse questa teorica del
taglione non possiamo dire, né possiamo quindi sapere
quali elementi di essa penetrassero nelle dodici tavole e
a quali trasformazioni andasse soggetta in Roma. Un punto
tuttavia è possibile stabilire, sebbene solo in modo nega-
tivo. Alla legge generale, nelle dodici tavole, seguivano
le leggi speciali: la prima di esse riguardava la diversa
(1) Timocr. 744 : « Svxo^ yàp a^xóD-t vófiou, éàv Tt^ dcp^aX|jiòv
éxxócj^y^, àvT£xxóc];ai 7rapaa)(stv tòv éauToO xal oh xpY^fxàKov TtfX7{-
asa)^ ouesjiLag, àitsa^aaC iig ^éysTai Ix-^pòg Ix^pcp §va Ix^v^t ò^O-aX-
|iòv 5x1 aùxoO lxxóc|>et xoOxov xòv iva ». Le medesime parole si
ritrovano in quelli che V autore della Grande Morale ci riferisce
dei Pitagorici, il che è una riprova del rapporto storico fra questi
e Zaleuco.
(2) Eth. Nic. y, 8, 1132 b. 1 (ed. Susemihl) : « Soxsi 5é xtai
xal xò àvxtTisTiovO'òc; slvat àTiXwg dCxatov waTisp o\ nuO-ayópetot
Icpaaav. ùìpl'Qo^zo yàp àTiXwc xò aCxaiov xò àvxiTxsTiova-ò^ dcXXq) y>
(3) [*, 360.
(4) Sopra alcuni frammenti delle XII tavole nelle loro relazioni
con Eraclito e Pitagora, in Arch. giurid. voi. XXXY.
— 18 —
misura della pena per T ingiuria recata a un libero o ad
uno schiavo (1). Ora i Pitagorici non pare che avessero
fatta questa distinzione^ se l'autore della Grande Morale
combatte la dottrina pitagorica del taglione, come quella
che non si può applicare incondizionatamente al servo o
al libero, poiché di quanto quello cede a questo, di tanto,
se gii abbia fatto ingiuria, deve accrescersi la pena cor-
rispondente (2). E in verità siffatta distinzione era bensì
impossibile nel sistema dei Pitagorici, per i quali il corpo
era come il carcere dell'anima, che vaga in una perenne
trasmigrazione, e il più alto precetto etico era l'imitazione
degli dei per via della virtù, l'osservanza delle leggi e il
rispetto verso tutti gli uomini; ma era invece possibilis-
sima, anzi necessaria, nella legislazione di Roma, dove così
netto era il distacco fra cittadini liberi e schiavi.
6. — Abbiamo anche veduto come a Cicerone paresse
ispirato ai principii della filosofia pitagorica il poemetto di
Appio Claudio Cieco, che, censore nel 3P2 e console nel
307 e nel 296 a. C, fu indubbiamente uno dei personaggi
storici più importanti e, se non il primo, certo uno dei
piimi lapprf'sentanti di una larga cultura. Orbene, che il
giudizio di Cicerone non t'osse errato parrebbero dimostrare
a sufBcienza i pochi frammenti che di quella poesia ci sono
rimasti. E in verità la famosa sentenza « fahrum esse siiae
quemqiie fortiinae » non potrebbe esprimere megho il fon-
damento della dottrina morale di Pitagora; e l'altra, altis-
(1) Si veda il fr. 3 della stessa tav. YIII ; « Manu fustive si os
fregit libero GCC, [si] servo CL poenam subito ».
(2) Magn. Mor. I, 34, 1194, a. 35: « xò bri toioOtov oux èaxt
Tipo; acrcavTa?:-0'j yàp èait Stxaiov oìy.STr^ r.pòg èXcuO-spóv TaÒTÓv» etc-
— 19
sima, come dice il Pascoli (1), se fosse certa la lezione e
l'interpretazione: «amicum cwn vides ohliscere miserias;
ìnimicus sies; commentus nec libens aeque [idem tamen
tenetoj »^ che il Pascoli stesso traduce: «tu dimentichi
la tua miseria quando vedi un amico; ora sia tuo nemico
quello che tu vedi: ebbene, pensatamente, e non volen-
tieri come con l'amico, tieni lo stesso contegno, tuttavia »,
è pure strettamente conforme alla dottrina pitagorica, che
insegnava amore e fratellanza ; il terzo infine « sui quem-
que oportet animi compotem esse semper nequid fraiidis
stuprique ferocia pariat » , non è certo disforme dalle pra-
tiche e dagli esercizi spirituali degli adepti al Pitagorismo,
che dovevano acquistare padronanza assoluta non pure del
proprio corpo, ma anche delle proprie attività interiori,
per dirigerle al bene.
Non si apponeva dunque male Cicerone. Senonchè an-
che intorno all'autenticità di questo antico poema, che
sarebbe una delle prime manifestazioni letterarie di Roma,
si sono sollevati dei dubbi. Il fatto che la notizia di esso
era data da Panezio in una sua lettera a Quinto Tuberone
ha indotto per esempio il Pais (2) a pensare che si tratti
di una falsificazione posteriore, « da collegarsi con le altre
falsità che andavano sotto il nome di Aristosseno intorno
ai Romani scolari di Pitagora e su Pitagora cittadino di
Roma » . Ma come è ciò possibile, se Aristosseno e Appio
furono contemporanei? E se Appio visse, come è certo,
nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lu-
cania, che ragione c'è per negare che egli abbia potuto
conoscere quelle dottrine e da esse trarre ispirazione per
(1) Lyra romana, Livorno, 1895, p. XXXII.
(2) St, di Roma I, 2, p. 671 n.
- 20 —
il suo poemetto? E poi come dubitare con qualche fon-
damento dell'autenticità dell'opera che un Panezio e un
Cicerone, a distanza di tempo relativamente breve, attri-
buirono ad Appio stesso, tanto più che il medesimo Pais
riconosce che Tefflcacia della filosofìa tarentina si esercitò
sopra gli uomini di stato romani « dal tempo di Appio e
di Pirro :» ? L' ipotesi di una falsificazione, della quale poi
non si vedrebbe neppiir chiaramente la ragione, non ci
sembra dunque per nulla fondata; sì che noi possiamo
conchiudere che la dottrina del filosofo di Samo, in con-
formità dei dati tradizionali, esercitò una qualche azione
tanto sulla più antica civiltà di Roma, a partire dal sesto
secolo a. C, quanto sui primi prodotti del pensiero e
deli' arte.
CAPITOLO SECONDO
Quinto Eiiiiio e i suoi tempi
1. Ennio e Catone. —2. Ennio in Eoma e il circolo degli Scipioni. —
3. Il sogno degli Annali. —4. Sua importanza per la diffusione
delle dottrine pitagoriche in Roma. —5. L' « Epicharmus ». —
6. Ennio e il razionalismo. — 7. I libri di Numa. — 8. Culti
Bacchici e sette orfiche in Italia nel principio del sec. II a. C. —
9. Stazio Cecilie e Marco Pacuvio. — 10. 1 comici. — 11. Caio
Lucilio.
1.— Chi, pi il d'ogni altro, contribuì a diffondere in Roma
la conoscenza delle dottrine di Pitagora fa senza dubbio
il poeta Ennio (239-169 a. C), il grande padre della cul-
tura e della letteratura romana. Nativo di Rudie, paese
fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, egli aveva
studiato in quest'ultima città, che era il centro italico, in
cui si conservavano più pure le tradizioni pitagoriche.
Versato nel greco, neirosco e nel latino^ egli diceva scher-
zando di avere tre cuori (1). Nel 204 si trovò a militare
in Sardegna fra gli ausiliari che Taranto aveva mandato
(1) Gellio, N, a., XYIII, 17.
— 22 —
ai Komani, e quivi da Marco Perciò Catone, che era più
giovane di lui di cinque anni, fu invitato a recarsi a Roma.
Come si spiega tale invito ? Quali \incoli si stabilirono fra
questi due giovani, destinati a sì grandi cose, che si incon-
trarono fra gli orrori di una guerra di conquista? Furono
vincoli di simpatia e di amicizia creati dalla comune gran-
dezza d'animo e da comuni aspirazioni? si erano essi
già conosciuti cinque anni prima, nel 209, quando Catone
quindicenne fu in Taranto ospite del pitagorico Nearco?(l).
Questo mi sembra più probabile. D'altra parte la profonda
scienza e il forte intelletto dei Kudino dovettero certo
colpire r animo eletto e la mente aperta di Catone, che
alle qualità pratiche del futuro uomo di stato univa le
attitudini del poeta e deirartista, del pensatore e del filo-
sofo, hi virtù della sua sapienza Ennio dovette apparire
al nobile cittadino di Roma come assai atto a cantare le
antiche gesta della città; ed è forse per questo che Ca-
tone, ragionando con lui delle istorie primitive della patria
e delle relazioni che essa ebbe con la Magna Grecia, dovette
suggerirgli Tidea del poema, che quegli poi realmente
scrisse, e per la composizione di esso offrirsi di agevolar-
gli la conoscenza dei documenti e d^^i materiali storici e
promettergli tutto il suo aiuto ; il quale, e per la condi-
zione e per l'ingegno dell'offerente, non poteva non ap-
parire ad Ennio prezioso e inestimabile. Al poeta d'altro
lato, piena i anima doll'antica sapienza della sua terra, di
quella sapienza che nessuno
in somnis vidit priu' quam sam diacere coepit (2)
(1) Plutarco, Gaio maior, 4-5. —Cicerone, Cato maior, 12, 39;
21, 78.
(2) Annales^ VII. fr. 124 (Yalmaogi).
— 23 —
dovette balenare come in uno splendore radioso l'idea di
ilìustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al
tempo stesso, di farsi banditore di una sapienza scono-
sciuta alla città che forse il suo spirito veggente presagiva
sarebbe stata nuova fucina di cultura e di sapere e maestra
di nuova civiltà alle più lontane generazioni!
2. — Venuto in Roma, Ennio vi passò quasi per intero
l'altra metà della sua vita, dedicandosi totalmente agli
studi e alla poesia e a diffondere fra la gioventù colta
della città l'amore del sapere. Egli chiamò intorno a sé,
a formare un circolo di studiosi, i più influenti e noti
cittadini e da essi seppe farsi amare ed onorare per le
cognizioni vaste e profonde, per la nobiltà dell'animo e
l'integrità del carattere, per la modestia della vita e dei
costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascol-
tarlo accorsero fra gli altri Scipione Africano, Scipione
Nasica, Aulo Postumio Albino (1), Marco e Quinto Fulvio
Nobiliore, e con tali amicizie egli seppe vivere sempre
poverissimo e pur sempre sereno, mostrando così con l'ef-
ficacia dell'esempio, che le verità da lui insegnate e pra-
ticate erano realmente le più atte a dare la felicità e la
pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio
Elio Stilone soleva dire che Ennio fece il ritratto di se
medesimo nei seguenti versi degli Annali, che descrivono
il vero amico:
Haece locutus vocat, quocum bene saepe libenter
mensam sermonesque suos rerumque suarum
comiter inpartit, magnam cum lassus diei
partem trivisset de summis rebus regiindis
•M
(1) Fu « decemvir sacrorum * nel 173 a. C. (Lmo, XLII, 10).
275
280
285
24
Consilio indù foro lato sanctoque senatu ;
quo res audacter magnas parvasque iocumque
eloqueretur cuncta [simul] malaque et bona dictu
evomeret, si qui vellet, tutoque locaret ;
quocum multa volup [et] gaudia clanique palamquo,
ingenium quoi uulla maliim sententia suadet
ut faceret facinus levis aut iiialus ; doctus, fidelis,
suavis homo, facundus, suo contentus, beatus,
scitus, secunda loquens in tempore, commodus, verbum
paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas
quem facit et mores vetoresquc novosque tenentem
multorum veterum leges divomqae hominumque,
prudenter qui dieta loquive tacereve posset(l).
In questo ritratto tu vedi l'immagine del vero sapiente
pitagorico, che sa trattare le faccende pubbliche e racco-
gliersi nella meditazione, che sa parhire con piacevolezza
e con facondia e tacere a tempo opportuno, che non com-
mette mai il male, neppure per leggerezza, fedele neira-
micizia e servizievole, contento del suo, felice, che infine
sa niolte cose profonde e recondite, ma le tiene ermeti-
camente chiuse nel fondo della sua anima, per non darle
in balia di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri atto
ad intenderle.
E anche possibile, come osserva acutamente il Pascal (2),
che in questi versi Ennio abbia voluto altresì rappresen-
tare i suoi rapporti col grande Scipione, del quale si po-
trebbe dire assai più convenientemente quello che Macro-
bio scrisse deir Emiliano, che cioè fosse <i vir non minus
(1) Gellio, N, a. XII, 47: * L. ielium Stilonem dicere solitum
fenint, Q. Ennium de semet ipso haec scripsisse pioturamque istam
morum et ingenii ipsius Q. Enni factam esse =>. I versi sono se-
condo il testo dato dal Valmaggi {= vv. 294 ss. MiJLLEE = fr. 194
Baehrens).
(2) Antologia latina^ Milano, 1899, p. 16.
— 25 —
philosophia quam virtute praecellens » (1); e l'ipotesi tanto
più è accettabile se pensiamo che Scipione fu forse il mi-
gliore dei discepoli del poeta, il quale lo ebbe in tanta
considerazione da comporre intorno a lui un poemetto
— Scipio — e da fargli dire :
A Sole exoriente supra Maeotis paludes
nemo est qui factis me aequiperare queat.
Si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est,
mi soli caeli maxima porta patet (2).
E Cicerone stesso, appunto per la sua sapienza, oltre
che per la fama delle sue imprese, non lo scelse come
protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De
Republica?
- Di Ennio fu notissimo ai Romani il sogno col quale
incominciavano gli Aanales e di cui ci sono rimasti ap-
pena alcuni frammenti (3) insieme con le testimonianze di
Lucrezio, di Cicerone, di Orazio, di Persio e di altri (4).
{\) In Somnium Seipionis, I, 3.
(2) Cicerone, Tusc. V, 49; Seneca, ep., lOS e altri. Seneca poi,
nellVp. 86, dice, parlando appunto di Scipione : ♦ animus eius in
eaeluììi^ ex quo erai^ rediisse persucufeo mi hi ».
(3) Vedili in V. J. Vahlen F?in. poes. rei., Lipsiae, 2^ ediz. 1902,
pp. 4-6; L. Ml ELLER, Q. Enni carvi, rei., Petrop. MDCCCLXXXY,
pp. 3-5, e nei Frag. poet. rovi, coli. Baehren:5, Lipsiae, 1886. Vedi
anche le osservazioni del Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, 1884,
p. 139 e seg. e lo studio del Valmaggt pubblicato nel Bollettino di
filol. classica, III, 259 e seg.
(4; Lucrezio, I, 112-126; Cicerone, Somn. Scip., 1, 10; Acad. 11,
16, 51; 27, 88; Orazio, Ep. Il, 1, 52-54; Persio, proL 2 sg.,
sai. VI, 10-11; Schol. in Pers. prol. 2; VI, 9; Schol. Gruq. in
Horat,, Ep, II, 1, 52; Frontone, ep, IV, 12, p. 74 Nab.; Sergio,
ad Aen., II, 274, ecc.
26
Questo sogno che « levò grande rumore nel mondo ro-
mano e di cui spesso si parlava, ora con serietà filosofica,
ora per ischerzo, tanto che divenne quasi proverbiale » (1),
doveva essere abbastanza lungo. Al poeta addormentato
sarebbe apparso sul monte Parnasso (2) il fantasma pian-
gente (3) di Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno
alTordine dell'universo (4), alle trasmigiazioni di ogni ani-
ma umana attraverso iii] proprio ciclo di vite (5) e alla
sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una forma
iììtermedia fra Tanima e il corpo (6) e a ricordargli le
mutazioni della propria anima, trasformatasi, dopo la morte
dpl corpo, in un pavone (7) e rinata appunto in lui, il
(1) A. Pasdera, // sogno di Seipione, Torino, Loescher, 1890,-
p. 4 nota.
(2) Persio, Frol l 3 : « Nec fonte lahra prolui caballino Nec in
bicipiti sommasse Parnasso Memini, ut repente sic poeta prodi-
rem », e Sckol. ad v. 21 * ia^igit Ennium, qui dicit se vidisse
sommando in Parnaso Homeruìn sibi dicentem quod eius anima
in suo esset corpore » .
(3) La ragione di questo pianto non è detta. Era forse pianto di
gioia per il momentaneo ritorno a contatto con un essere terreno ?
(4) Lucrezio, I, 126: <^ rerum naturam expandere dictis ».
(5) Lucrezio, I, 113: « an contra naseentibus insinuetiir (ani-
ma) * e 116 : « a/i pecudes alias insimiet se ».
(6) Lucrezio, I, 120-123 : ^ Etsi praeterea famen esse Acherusia
tempia Enntus aeternis exponit versibus eidem Quo ncque pernia-
neanianimae ncque corpora nostra, Sed quaedam simulacra modis
p a Ile ntia yn iris ».
(7) Persio, ^at. VI, 10 sg. : « Cor iubet hoc Enni, postquaìn
destertuit esse Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo ». Tertul-
liano, de an., e. 33: « pavum se meminit Homerìis Ennio som-
mante ^\ ibid.^ e. 34: « per inde in pavo retunderetur Homerus.^
sicut in Pyfhngora Euphorbus >\ cfr. eiiisd. de resurrectione, I,
e. 1, e AcRON. in carm. I, 28, 10; Persio, VI, 9, e schol. ; Lat-
tanzio in Tkeb. Ili, 484.
— 27 —
discendente del re Messapo (1), il poeta rudino. Tale,
press'a poco, il contenuto di questo sogno, notevolissimo
non solo per l'esposizione delle dottrine filosofiche, ma
altresì per l' accenno alle trasformazioni e incarnazioni
deir anima di Omero, e per V affermata parentela spiri-
tuale dei due poeti.
Che il pavone poi, importato, come sembra, nel secolo
sesto a. C. dall' Oriente in Samo, la patria di Pitagora,
avesse nella filosofia mistica di questo iniziato un'impor-
tanza considerevole, è certo (2): e poiché era anche —
per la colorazione delie penne — simbolo del cielo stel-
lato, al quale salivano dopo ogni morte corporea le anime
umane (onde l'espressione per me simbolica del fieri pa-
vom usata da Ennio) (3), opportunamente fu scelto dal
poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere la-
nima di Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora.
4. — Il fatto che il grande poema storico degli Amiales^
il quale ebbe da parte dei Romani un culto analogo a
quello che noi tributiamo alla Divina Commedia, incomin-
ciava con tale sogno, ebbe grande importanza per la dif-
fusione e conoscenza del pensiero pitagorico in Roma ;
poiché, appunto per lo studio che del poema si fece, fin
(1) Servio, ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII, 393.
(2) Mueller, Q. Ennius, p. 143 sg. Cfr. Hehn, Kulturp flange 7i
und Hausthiere, 2* ediz., p. 309.
(3) DaU'interpretazione letterale data a tale espressione o ad altre
consimili nacque forse presso gli antichi - uno dei primi fu Seno-
fane, contemporaneo di Pitagora, nei versi citati da Diogene Laer-
xio (VII, 36) i quali peraltro hanno un' intonazione scherzosa, se
non satirica — l'opinione che Pitagora credesse nella metempsicosi
anche animale.
-^ 28 -^
dal secondo secolo a. C. nelle scuole di grammatica e di
rettorica (1) e per le pubbliche letture di esso, ancora in
uso nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo (2), si
dovette necessariamente mantenere viva in Roma stessa
e in Italia la conoscenza di quella parte della dottrina di
Pitagora, che nel sogno si ricordava e che era poi una
delle principali di detto sistema. Difatti sono assai fre-
quenti nella letteratura posteriore — e noi le vedremo —
le allusioni alla teoria della metempsicosi; la quale del
resto fu forse introdotta in iionia anche per altro tramite,
sia cioè pei' mezzo dei Clisteri, nei quali si insegnavano
appunto dottrine per molti rispetti somiglianti alle pita-
goriche, sia per mezzo della filosofìa jìhitonica e stoica,
che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e anteriore
air apparire del neo-pitagorismo, era derivata almeno in
qualche parte fondamentale, dalle dottrine pitagoriche
stesse.
5. — Se nel poema di Ennio vi fossero altri accenni
alla filosofia pitagorica non ci è dato conoscere dagli scarsi
e slegati frammenti che ce ne restano : ma non è impro-
babile che, a proposito di Numa, fossero non solo notate
incidentalmente, ma fors'anche illustrate con una certa
ampiezza le somiglianze fra le sue leggi ed istituzioni e
quelle del filosofo di Samo. In tal caso da PJnnio per la
prima volta sarebbe stata inserita in un'opera storica e
letteraria latina la notizia desunta dalla tradizione orale an-
teriore, che il gran re avesse avuto a maestro Pitagora (3).
29
In altro scritto invece noi sappiamo con certezza che
Ennio trattò ancora delle dottrine pitagoriche: e precisa-
mente nelVJEpicharmus^ un poemetto così intitolato dal
nome del filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei piti
valenti seguaci della scuola italica (1). Anche in questo
lavoro poetico, il nostro scrittore finse un sogno:
Nani videbar somniare nied ego esse mortuum (2)
e che il poeta comico Epicarmo gli comunicasse, nelle
i'egioni infernali, dottrine di filosofia naturale suirorigine
e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri, è il verso
nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo il
noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco :
. . . terra corpus est, et mentis ignis est (3).
Al qual proposito Varrone, citando un altro verso dello
stesso Ennio, scriveva: « animalium semen ignis qui anima
ac mens: qui caldor e caelo^ quod hinc innumerabiles et
immortales ignes. Itaque Upicharmus de mente umana dicit:
istic est de sole sumptus isque totus mentis est (4).
(1) SvETONio, de gramm. 2.
(2) Noctes Atiicae, XVI, 6, 1, e XVIII, 5.
(3> MuELLER, Q. Ennius^ p. 161 sg.
(1) Vahlen, 0. e, p. XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt, Quaesti
epich. p. 53. Vedasi anche lo studio del Pascal, Le opere spurie
di Epicarmo e V Epieharìnus di Ennio in Eiv. di filoL e di istrux.
classica, a. XLVll, f. 1^ genn. I9l9 pagg. G6 sgg.
(2) Cicerone, Aead. pr., II, 16, 51.
(3) Prisciano, vii, p. 764 P. (I, p. 335 K.). Cfr. gh scolii al-
l'Eneide, VI, 724-732.
(4) De lingua latina, V, 39. Cfr. Muellkr, op. cit., p. Ili sg.
Sul pitagorismo del poeta v. a pag. 70. Un'altra sentenza pitago-
rica è quella che ricorda Cicerone {de divin., II, 62, i27) a pro-
posito dei sogni : « aliquot soninia vera, inquit Ennius, sed omnia
noenum n«cesse est ».
'^''wSKSSw^ii^^^ttS." T, "^^Z-TZ^i^T.
-»^ 30 —
6. — Ma oltre che alle opere letterarie, le quali, come
si è detto, ebbero efficacia fino al secondo secolo dopo
Cristo, Ennio rivolse l'attività dell'ingegno, trasfondendovi
i tesori della sua sapienza, all'insegnamento orale; senza
dire poi che l'esempio della sua vita iutemerata spronò
air esercizio costante della virtù tutti quelli fra i nobili
cittadini di Roma che accostandolo ramarono. Egli si stu-
diò di volgere le loro menti ad una libertà di pensiero e
ad una concezione individuale delle cose, alla quale non
erano certo avvezzi i Romani, educati sotto una disciplina
ferrea. Abituando le loro intelligenze aDe bellezze ed alle
sottigliezze della cultura greca, insegnando in privato le
dottrine di l^itagora, combattendo nel nome di Evemero
le superstiziose credenze popolari, e deridendo i sacerdoti
ignoranti, predicando infine che l'uomo ha da trovare in
se stesso, nelle profondità deir anima, il fondamento del
proprio valore, della propria libertà e della propria feli-
cità, diede impulso a una vera rivoluzione razionalistica
nello spìrito romano (1): sì che fra quei valorosi soldati
e pratici legislatori cominciò ad essere tenuta in conto la
cultura, ad esercitarsi la libera attività del pensiero anche
in fatto di fede, e a formarsi un'aristocrazia vera e legit-
tima, fondata su ciò che l'uomo ha di più sostanziale e
di proprio, cioè su l'intelligenza e sullo spirito.
Non è improbabile che appunto per questo Catone, il
quale, sopra tutto e innanzi tutto, vedeva l'interesse e il
bene dello Stato, osteggiasse il movimento a cui aveva
dato egli stesso involontario impulso e perseguitasse l'A-
- 31 -
fricano (1); tanto che questi, avendo suscitato contro di sé
molte ire violente e molte accuse politiche, si ritirò sde-
gnosamente nella sua villa di Literno, nella Campania,
dove morì nel 183 (2).
7. Proprio in questi anni, facendosi uno scavo, furono
scoperti i famosi libri di JSTuma, i quali, per un caso assai
strano, venivano molto opportunamente a confermare gli
insegnamenti pitagorici di Ennio (3). La notizia della sco-
perta risale, per quel che ci è noto, all'annalista Cassio
Emina, il quale, secondo ci riferisce Plinio (4), narrava
come un impiegato di nome Cneo Terenzio, facendo dei
lavori in un suo podere sul Gianicolo, avesse scoperta e
(1) GrussANi, Letterat. romana, Milano, Vallardi, p. 90. Si veda
anche su Ennio il saggio critico del Lenchantin De Gubernatis (To-
rino, Bocca, 1915).
(1) V. Livio, XXXYIII, 54.
2) SuU'esiHo e sulla morte di Scipione Africano Maggiore vedi
C. Pascal, Fatti e leggende di Roma antica, p. 85-96.
^3) Si veda, intorno a questi libri, lo studio del Lasaulx, Ueher
die Buecher des Numa, negli Atti dell' Accademia di Monaco del
1849.
(4) Nat, Hist. XIII, Mr=Hist. Rom. rell. I, p. 106-107 Peter:
« Cassiiis Eemina, vetustissimus auctor annalium, quarto eorum
Ì(ibro prodidit, Cn. Terentium scribam agrum suum in lanieido
tepastinanteìn offendisse arca?n in qua Numa qui Romae regna-
vii situs fuisset. In eadern libros eius reprrtos P. Cornelio L. f,
Gethego, Af. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad quos a regno Numae
colliguntur aìini DXXXV, et ìios fuisse a charta, maiore etiam-
nuni miraculo quod tot infossi duraverimt annis. Quapropter in
re tanta ipsius Herninae verba ponam; mirabantur ahi quoìnodo
UH libri durare potuissent, ille ita rationern reddebat : « Lapidem
fuisse quadratimi circiter in medio arde vinctum cundelis quoquo
versus. In eo lapide insuper libros inpositos fuisse, propterea ar-
bitrarier tineas non tetigisse: in his libris seripta e?'ani pkiloso-
phiae Pythagoricae : eosque combustos a Q. Petilio praetore quia
philosophlae scripta essent ».
— 32 —
33
scavata la tomba del re Nama, che conteneva i libri di
lui ; e, cosa di cui molti si meravigliarono, cotesti libri di
carta s'erano perfettamente conservati ; ma, come spiegava
lo stesso Terenzio, tale conservazione era dovuta al fatto
che, essendo posti sopra una pietra quadrata che si trovò
quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni dal-
Tumidità, ed essendo spalmati di cedro, le tignole non li
avevano rosi. T libri stessi poi contenevano scritti di iìlo-
sofia pitagorica, per la qual ragione furono poco dopo
bruciati dal pretore Quinto Fetillio. Lo stesso racconto
fece pure l'annalista L. Calpurnio Pisoue Censorio Frit-
gì (1), secondo il ([uale però dotti libri erano sett(^ di di-
ritto pontificio e altrettanti pitagorici. Quattordici erano
pure, secondo V annalista C. Sempronio Tuditano (2) e
contenenti i decreti di Numa. Secondo Valerio Anziate
infine (3) essi erano invece ventiquattro, dodici pontificali
scritti in latino e dodici di filosofia scritti in greco, e non
si sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa, ma in
un'arca adiacente.
Se il racconto è vario nei particolari, tuttavia questi
(1) Plinio, /. r. = H. R. veli. T, p. 12:M23, P. : « Hitc idem
tradii C. Pìso eensorius primo coni meni ariorum^ sed lìbros septem
iuris pontificii totidemque Pytkagorlcos fuisse ».
(2) Plinio /. e. = H. li. veli L p. 142-'143 P : <' Tuditanus
decimo tertio Ntimae decretoriim fuisse ».
(3) Plinio Le: « ìihros XII fuisse ipse Varrò Humanarum
antiquiiatuni septimo. Antias secundo libros fuisse XII ponti fi-
cales latinos^ ioiident graeeos praecepf a philosophiae contine?) les -^ .
Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, H =: H. R. rell. T,
p. 240-241 P. Si noti però che il Peter crede (/. e, p. CO.) che
Livio abbia citato per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio
Pisone.
ed altri autori (1) sono concordi nell'affermare sia la sco-
perta dei libri, durante il consolato di P. Cornelio Cetego
e di M. Bebio Panfilo (191 a. C), sia la loro pronta di-
struzione per opera del pretore Petillio. Cosicché non è
possibile dubitare che il fatto sia avvenuto. Senonchè la
critica più recente si è aifrettata ad affermare che essi
dovettero essere un'abile falsificazione di qualche scrittore,
fanatico delle nuove idee pitagoriche, in quegli anni ap-
punto diffuse in Roma dal grande Ennio, e accettate da
Scipione Africano e da altri illustri cittadini. Ma ad una
grossolana falsificazione fatta in quei tempi medesimi noi
non vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la
tradizione pitagorica che base dell' insegnamento di questa
dottrina era la segretezza e il mistero? E proprio un
pitagorico avrebbe divulgato le dottrine della sua scuola,
in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno stratagemma
così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che già
la tradizione ammetteva la filiazione degli istituti e delle
leggi religiose di Numa dal Pitagorismo ? Ed è poi possi-
bile che fra i senatori romani^ i quali decretarono, su parere
del pretore, l'abbruciamento dei libri così miracolosamente
scoperti, non vi fosse alcuno in grado di comprendere una
così grossolana mistificazione? Poiché non c'è dubbio che
i libri furono bruciati con la convinzione che essi fossero
realmente quelli del re sapiente (2), e perchè contenevano.
(1) V. ancora le testimonianze di Yarrone, conservataci da S. A-
gostino {De civ. dei, VII, 34), di Livio (XL, 29, da cui ha desunto
la sua narrazione Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I, 1,
12), di Pesto (p. 173 M. = p. 182 Thewr.), di Plutarco {Numa,
22) e del de vir. ili, 3.
(2) Livio osserva che questa convinzione derivò dall' opinione
diffusa che Numa fosse stato discepolo di Pitagora, opinione che
— 34 —
secondo la testimonianza di Varrone^ la spiegazione degli
stituiti religiosi di Numa (cur quidqiie in sacris fiierit
institutum) ^ fondati, come quelli di tutte le religioni, su
ragioni fisiche e filosofiche e sopra una concezione parti-
colare della natura.
Ora, dice assai giustamente lo Chaigriet (1), questa inter-
pretazione razionale ed umana delle credenze e delle isti-
tuzioni religiose, togliendo ad esse un' origine e un fon-
damento sovrannaturale, avrebbe certo, divulgandosi, tolta
ogni consistenza a quella religione « di stato » che, come
tutte le religioni dogmatiche, si esauriva per i più nelle
pratiche del culto (le « religiones » di cui parla Livio)
esigendo, come condizione della propria esistenza, la fede
cieca e T ignoranza superstiziosa. E proprio a questo pen-
sarono il pretore urbano e il Senato, che si affrettarono
a far scomparire sul rogo i pericolosi libri, nei quali era
filosoficamente provata ed attestata V origine del diritto
pontificale romano, cardine e fondamento primo dello Stato,
dall'occultismo pitagorico (2); se pure il motivo di tale di-
struzione non fu quello stesso per il quale^ come abbiamo
già veduto, Cicerone non volle troppo approfondire la ri-
cerca e la dimostrazione dei rapporti fra il Pitagorismo e
i pili antichi istituti di Roma. Stando al racconto di Plu-
egli, certo per ragioni cronologiche, chiama uu « mendacio »
(XL, 29).
(1) Pythag, et la philos. pythag.^ Parigi, Didier, 1874, v. I, p. 136.
(2) È interessantissimo a questo proposito il passo di S. Ago-
stino (De civit. dei Yll, 34), il quale spiega per quali ragioni
« demoniache » Xuma compose i suoi libri e poi li fece seppeUire
nella sua tomba, e il Senato li fece abbruciare. Nò meno interes-
sante è il capitolo seguente (35j, in cui si parla delle arti « idro-
mantiche » e delle evocazioni di Numa.
— 35 —
tarco, infine, questi libri erano stati scritti da Numa stesso
e per ordine suo sepolti con lui; e ciò perchè, secondo
la massima pitagorica, non era bene affidare la conser-
vazione d'una dottrina segreta a caratteri senza vita, an-
ziché alla sola memoria di quelli che ne erano degni. E,
forse, per questa medesima ragione i Pitagorici romani
non dovettero fare molta opposizione alla proposta di
distruggere i libri stessi, gelosi come erano' delle loro
dottrine, allora, come sempre, facilmente suscettibili di
scherno e di riso, se male interpretate o fraintese (1).
8. — Nel tempo in cui Ennio si adoperò così efficace-
mente per introdurre in Roma V antica sapienza della
Magna Grecia, di qui si diffondevano per l'Italia e pe-
netravano nella grande metropoli anche i culti bacchici
e le sette orfiche, intimamente legate con le pitagoriche
per gli stretti rapporti che vi erano fra le due dottrine
segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicarono senato-
consulti (2) e si istituirono tribunali fquaestiones de Bac-
chanalibus saerisqtie nocturnis extra ordinem)^ che ne di-
(1) Uno scrittore israelita del secolo XYII, il Selden, nell'intro-
duzione dell'opera De jure naturali et gentium iuxta disciplinam
Hebraeorum stampata a Londra nel 1610, volendo sostenere che
ogni sapienza viene dagli Ebrei o piuttosto dalla rivelazione tre
volte rinnovata, di cui gh Ebrei erano i depositari, afferma invece
che Numa Pompilio era in segreto un adoratore del vero Dio, che
i libri da lui lasciati e scoperti solo parecchi secoli dopo la sua
morte erano la giustificazione della sua fede e la glorificazione del
Dio d'Israele, e che appunto per questo il Senato ne ordinò la
distruzione, perchè racchiudevano la condanna della religione di Stato.
(2) Nel 186 se ne pubblicò per tutta l'Italia uno (scoperto nel
1692 in Calabria) che ordinava, fra le altre cose: ^ Bacas vir ne-
quis adiese velet ceivis romanus neve nominus latini » .
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WMIT'W
36 —
— 37 —
mostrano la diffusione e la forza: e Livio ci riferisce il
violento discorso che il pretore Lucio Postumio Tempsano
pronunciò nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei mal-
vagi culti forestieri : « cantra pravis et externis religio-'
nibus captas mentes » (1). E ben vero che queste asso-
ciazioni misteriose — clandestinae coniurationes ^ come dice
Livio (2) — e questi culti sempre perseguitati dall' orto-
dossia romana venivano in parte dall' Etruria e dalla Cam-
pania, ma le ricerche giudiziarie ne fecero scoprire diversi
focolari nell'Apulia, in tutta l'Italia meridionale, e spe-
cialmente a Taranto, che come si è già visto, era uno dei
centri d'origine del Pitagorismo (8).
Così delle tavolette d' oro, scoperte recentemente in
tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica Thurium e
che risalgono alcune al secolo IV e altre al principio del
sec. Ili a. C. (4), ci conservano l' eco di versi orfici che
sino ad ora non si conoscevano per altro che per una cita-
zione di Proclo, neo-pitagorico del quinto secolo (5): « Io
(1) Livio, XXXIX, 15.
(2) XXXIX, 9, 18, 41 ; XL, 19.
(3) Livio XXXIX, 41 : « L. Postumius praetor^ cui Tarentum
provincia evenerat^ reliquias Bacchanaliitm quaestionis cimi omni
exsecutus est cura » g XL, 19 : « L. Duronio praetori^ cui pro-
vincia Apulia evenerat^ adiecta de Bacchanalihus quaestio est :
cuius residua quaedam velut semina ex priori bus malis iam priore
anno adparuerant ».
(4) Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et Italiae n. 638-642.
Alcuni testi da lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie degli
scavi, 1880, p. 15f> e nel Journal of Hellenic Studies III, p. 114 sg.
Cfr. anche Comparetti Laminette orfiche edite ed illustrate^ Fi-
renze I9l0.
(5) Framm. 224 Abel: «ótitióts S'àvO-pWTrog tdpoXCtttj cpAog V/sXtoto »
quasi uguale al fr. n. 642, 1 : « àXX' ÓTióxafi '^xì^ri npo'kln'Q cpàog
sono sfuggita al cerchio delle pene e delle tristezze (1) »,
grida in uno slancio di speranza ranima che ha « subita
tutta intera la pena delle sue azioni inique » e che ora
« implorando il suo soccorso » , s' avanza verso la regina
dei luoghi sotterranei, la santa Persefone, e verso le altre
divinità dell'Ade ; essa si vanta di appartenere alla loro
« razza felice », e domanda ad esse che la mandino ora
nelle « dimore degiinnocenti » e attende da esse la pa-
rola di salvezza : « Tu sarai dea e non più mortale ! »
In questi brani poetici, dice il Gomperz, bisogna vedere
redazioni diverse d'un testo comune più antico. Parecchie
altre tavole, che risalgono in parte alla stessa epoca, sono
state trovate nelle stesse località ; altre sono state scoperte
nell'isola di Creta (2) e datano dall'epoca romana poste-
riore: tutte prescrivono all'anima la sua strada nel mondo
sotterraneo (3). Ora è notevole il fatto che il cap. 125 del
« Libro dei Morti » egiziano contiene una confessione ne-
gativa dei peccati, che sembra V amplificazione di quello
che le tre tavole di Turio condensavano in poche parole (4).
In queste, come in quello, l'anima del defunto proclama
con enfasi la sua « purezza » e solo su questa purezza
VjsXCó\o » . Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino, 1890, p. 87) ha
richiamato 1' attenzione su r^ueste ed altre coincidenze. Y. anche
H. DiELS, nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, 1902, p. 1 sg.
(1) Cioè alla serie delle rinascite e delle esistenze terrestri.
Y. Gomperz, Les penseurs de la Orèce^ Paris, Alcan, 1904, v. I,
pag. 141 sg.
(2) Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à V Orphisme^ Bull,
de corr. héll. XYII, 121-124.
(3) Y. qualche parallelo buddico in Rhys Davids, Buddhism,
p. 161.
(4) Cfr. Maspéro, Bibl. Egyptol. II, 469 sg. e BrucxSCH, Steinin-
schrift und Bibelwort. Y. anche Maspéro, Hist. ancienne^ p. 191.
38 —
fonda la sua speranza in una felice immortalità. Se l'a-
nima deir Orfico pretende di avere espiato « le azioni
inique ^ e quindi si sa liberata dalla sozzura che ne de-
riva, l'anima dell'Egiziano enumera tutte le colpe che ha
saputo evitare nel suo pellegrinaggio terrestre. Pochi fatti,
dice il Gomperz, nella storia della religione e dei costu-
mi sono tali da meravigliarci più del contenuto di que-
st'antica confessione, in cui si vedono accanto alle colpe
rituali, e ai precetti di morale civile accolte da tutte le
comunità incivilite, l'espressione d'un sentimento morale
non comune e che ci può persino sorprendere per la sua
squisita delicatezza: « Io non ho oppresso la vedova! Non
ho allontanato il latte dalla bocca del lattante !... Non ho
reso il povero più povero!... Non ho trattenuto l'operaio
ai suo lavoro più del tempo stabilito nel contratto !... Non
sono stato negligente! Non sono stato fiacco!... Non ho^
messo lo schiavo in cattivo aspetto presso il suo padro-
ne!... Non ho fatto versare lacrime a nessuno!.... » Ma
la morale che scaturisce da questa confessione non si è
contentata di proibire il male; ha anche prescritto degli
atti di beneficenza positiva : « Dappertutto, grida il morto,
ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva fame, dissetato
chi aveva sete, vestito chi era nudo ! Ho dato una barca
al viaggiatore in pericolo di arrivar tardi! » E l'anima
giusta, dopo aver subito innumerevoli prove, arriva final-
mente nel coro degli dei. « La mia impurità, grida piena
di gioia, mi è tolta, e il peccato che mi stava addosso
l'ho gettato. Giungo in questa regione degli eletti glo-
riosi.... » « Voi che mi state dinanzi^ aggiunge rivolta agli
dei già nominati, tendetemi le braccia...., sono anch'io
uno dei vostri ! »
— 39 —
Nessuna meraviglia quindi che gli scrittori del tempo
di Ennio, quasi tutti venuti a Roma dal mezzogiorno,
fossero più o meno imbevuti di così fatte dottrine.
Di un grande poeta comico, Stazio Cechjo, morto nel
168, che fece parte del eollegium poetarum dell'Aventino
e abitò in Roma nella stessa casa con Ennio, ci restano
troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir nulla del
contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però
r intimità sua col poeta di Rudie dovette esercitare un
qualche influsso sulla formazione del suo gusto e della
sua arte.
Con Ennio visse pure in Roma, sino alla più tarda età,
frequentando anch'egli il circolo degli Scipioni^ il nipote
Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi nel 220, si ritirò poi
a Taranto dopo il 14-0 e vi mori novantenne. Che egli
dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre
che l'esplicita dichiarazione di Pompilio :
Pacvi dìscipulus dicor ; porro is fuit Enni^
Eanius Musarum^ Pompilius clueor^
i due frammenti del suo Chryses^ nel primo dei quali
mostra la stessa libertà di spirito e di parola, rispetto ai
falsi sacerdoti, che già abbiamo notata in Ennio:
.... nam istis^ qui linguam avium intellegunt,
plusque ex alieno iecorc sapiunt. quam ex sito^
magis aiidiendum quam ausoultandum censeo (1) ;
(lì pr. Cic. de div. I, 57, 181 ; il terzo verso anche pr. Nonio
246, 9. Si confrontino i versi di Ennio : « Sed superstitiosi vates
impudentesque arioli^ Aut inertes aut insani aut quibus egestas
imperat, Qui sibi semitam non sapiunt^ alteri monstrant viam^
Quibus divitias pollioentur^ ab eis dracumam ipsi petunt », e gli
— 40 —
e^ nel secondo esprime intorno all'etere un concetto affatto
pitagorico, che troveremo anche in Virgilio:
hoc vide, circum supraque quod complexu continet
terrani,.,,
solisque exortu capessii candorem, occaau nigref,
id quod nostri caelum memorant. Orai perhibent aethera :
qiiidquid est hoc, omnia anirnat, format, alit, auget, creai,
sepelìt recipitque in sese omnia omniumque idem est pater,
indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem occidunt.
mater est terra; ea parit corpus, animam, aether adiugat (1).
Istie est is lupiter quem dico, quern Qraeci vocant
aerem: qui ventus est et niibcs; imber postea,
atque ex imbre frtgus : ventus post fìt, aer denuo,
haece propter luppiter sunt ista quae dico tibi,
quia mortalis aeque furbas beluasque omiies iuvat.
II passo, dice il Pascal {Antol. latina. Milano, 1899, p, 30 n.)
era libera traduzione del Crisippo euripideo, del quale è rimasto il
ir. 836 Nanck2; e trovò altro traduttore in Lucrezio II, 991-1005.
Se il pensiero esposto da Euripide del Cielo o Giove nostro padre
e della Terra madre risale al suo maestro Anassagora (500-430
circa), fu peraltro indubbiamente abbastanza comune fra i mistici.
10. — Questi ver^i od alcuni altri (2), se sono per sé poca
cosa, tuttavia, tenuto conto della scarsità dei frammenti
superstiti di questi primi poeti di Roma, mostrano una
certa continuità di pensiero, che non può sfuggire neppure
ad un esame superficiale. Così, per lasciare in disparte i
altri : « Qui sui quaestus eausa ftctas suscitane sententias » e
« Oìììììts dant consilium vanum atque ad voluptatem omnia*.
(1) Congiunse così questi versi (citati in diversi luoghi da Var-
RONE, Cicerone e Nonio) lo Scaligero. Questo concetto dell'aria poi
ricorda i versi MV Epicharmus di Ennio:
(2) Y. per es. i ir. 46 e 52 del Pascal (p. 30 e 35).
— 41 —
versi di Accio, che ritornano sullo stesso concetto, e che
si possono anche spiegare con la dipendenza dai tragici
greci (1), nonché il suo concetto della virtù (2), come non
pensare alle dottrine pitagoriche — diretto o indiretto ne
sia stato r influsso — , quando leggiamo sentenze come
queste di Sesto Turpilio (morto nel 103 a. C), Tuna che
ci afferma la felicità consistere nella limitazione dei de-
sidera :
Profecto ut quisque miìiimo contentus fuit,
ita fortunatarn vitam vixit maxime,
ut philosophi aiunt isti, quibus quidvis sai est (3).
e Taltra che così definisce la difficoltà del sapere:
Ita est: veruni haut facile est venire ilio ubi sita est sapientia.
Spissum est iter: apisci haut possis nisi cum magna miseria? {4:}
E se i grammatici che ci hanno conservato i frammenti
di questo poeta (200 versi appena), avessero badato più
al pensiero che alla forma e quindi ci avessero dato una
raccolta di sentenze, piuttosto che un catalogo di arcaismi
(1) Y. i fr. 60 e 61 del Pascal (p. 41- e le note.
(2) Pascal (p. 42) : « . . . . nam si a me regnum Fortuna atque
opes Eripere quivit, at virtutem non quiit » e « Scin ut quem"
cumque iribuit fortmia ordinem, Numquam ulta humilitas inge-
nium inflrmat bonum ? »
(3) pr. Prisciano III, 425 Keil. 11 Pascal ;p. Q7) sl philosophi,,.
isti annota : « i Cinici ?» Io credo piuttosto che qui il poeta, imi-
tatore di Monandro, abbia alluso ai Pitagorici, dei quali sappiamo
quanto si siano burlati i comici ateniesi della commedia di mezzo,
di cui Gellio (N. a. IY, 11) potè scrivere: mediae comoediae pro-
prium argumentum fuit Pythagoreorum exagitatio ».
(4) pr. Nonio 392, 26 (Pascal, p. 67). Si notilo spissum.. iter,
che foi*se può intendersi in senso proprio, non traslato.
m
— 42 —
e di idiotismi, potremmo forse citare altri passi ugual-
mente notevoli e significativi.
Così veramente notevoli sono lo sentenze di comici
ignoti citate dal Pascal (i), che certo non sarebbero fuor
di luogo nei carmina aurea pitagorici e che riprendono
motivi etici, già da noi accennati, proprii tanto del Pita-
gorismo quanto di altri sistemi posteriori:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Sui quique mores fingmit forktnam homi ni bus. (2)
Non est beatus^ esse se qui non putat. (3)
Is miniìno egei rnortaiis, qui minimum cupit.
Quod vult habet^ qui velie quod satis est potest. (4)
In nullum avarus bonus est^ in se pcssimus. (5).
Ab alio expectes alteri quod feceris. (6)
Beneficia in volgus cum largiri institueris
perdenda sunt multa^ ut semel ponas bene. (7)
.... quid ? tu non intellegis
tantum te adimere gratiae quantum morae
adieis? (8)
(1) pag. 68 sg.
(2) pr. Cic, Farad. 5, 35, che lo riferisce ad un sapiens poeta;
esso ricorda la sentenza di A. Claudio su citata. Secondo alcuni si
tratterebbe di un altro verso, che il Lachmann ricompone così :
suts fingitur fortuna tuique moribus. V. anche pr. Nepote, Vita
Att, li, 6 ed altri, di cui il Eibbeck, Com. Fragrn.^ p. 147.
(3) pr. Seneca, epist. 9, 21. Che la felicità e l' infelicità, come
dice questa sentenza, siano proiezioni subbiettivo dello spirito e non
l'effetto di cause esterne, è verità che i Pitagorici affermarono ripe-
tutamente Cfr. PuBL. Siro I, 56, Q, 7 Meyer.
(4) Questa e la precedente pr. Seneca, epist. 108, li. Cfr. la
prima sentenza di Tiirpilio su citata.
(5) pr. Seneca, epist. 108, 9.
(6) pr. Lattanzio, div. inst. 1, 16, lO. Cfr. pr. Lamprid. Alex,
Sever. 51 : « quod libi fieri non vis^ alteri ne feceris » e nei Garm.
epigr. lat. 192, 3 Buecheler: <^ aò alio speres., alteri quod feceris f>.
(7) pr. Seneca, de benef. I, 2 ; cfr, Ennio pr. Cic. de off. 18, 62:
^benefacta male locata tnalefacta arbitror ».
(8) pr. Seneca, de benef, li, 5, 2.
1.
2.
3.
— 43 —
Così pure degni di nota sono i seguenti frammenti:
Felicitas est quam vocant sapientiam. (1)
Tutare amici causam, polis es, suseipe.
Obicitur crimen capitis^ purga fortiter.
In amici causa es, immo c^rte potior es. .2)
Iniuriarum remedium est oblivio. (3)
Ma queste sono quisquilie, che, se pur dimostrano una
certa diffusione del pensiero pitagorico in Roma, non pos-
sono tuttavia essere prese per se come indizi di una vera
e propria tradizione locale. Poiché per le dipendenze della
poesia e della letteratura latina dalla greca è da credere
che anche gli accenni, spesso accidentali, a quelle dottrine
filosofiche, fossero presi di sana pianta dalle opere che gli
scrittori latini, massime i comici, o imitavano o traduce-
vano. Il fatto tuttavia di trovarli frequenti anche in opere
prettamente romane dimostra che le dottrine stesse ave-
vano un contenuto ideale — morale specialmente — con-
sono allo spirito e ai bisogni del popolo romano, il quale,
sopra ogni cosa, ebbe un profondo senso del giusto, che
poi attuò nel suo mirabile sistema di leggi.
11. — Infine, anche dalle poesie satiriche di Caio Lucilio
(180-103 a. C.) noi potremmo certo aver notizia del Pita-
gorismo, quale egli potè osservarlo praticato e seguito in
Roma al tempo suo, se ci restassero, dei suoi trenta libri
di satire, i libri XXVIII e XXIX, nei quali pare che sì
occupasse principalmente di mettere in parodia e in deri-
sione, ed anche di sottoporre a critica seria, sì pel conte-
li) QuiNTiL. YI, 3, 97.
(2) Charis. V, p. 253 P.
(3) Seneca, epist.., 94, 28.
■'
nuto che per la forma, i filosofi, le loro opere e i loro
sistemi. Ma disgraziatamente anche di questo poeta poco
nulla ci resta. Anch'egli, bensì, come Ennio, ebbe mente
libera dai pregiudizi volgari :
Ut puerì infantes credunt signa omnia ahena
vivere et esse hoìnines^ sie ist somnia fida
vera putant^ credunt signis eor inesse in ahenis (1)
sono versi del 1. XV delle Satire. E un altro bellissimo
frammento, forse del libro IV, ci dimostra quanto alto e
nobile fosse il concetto ch'egli ebbe della virtù:
Virtus, Albine, est pretium persolvere verum
quis in versanmr^ quis vivimus rebus potesse,
virtus est homini scire id quod quaeque valet res ;
virtus scire homini rectum^ utile quid sit^ honestum.^
quae bona, quae mala item, quid inutile^ turpe, inhonestum ;
virtus^ quaerendae finem^ rei scire modumque ;
virtus^ divitiis pretium persolvere posse ;
virtus^ id dare^ quod re ipsa dehétur honorì ;
hostem esse atque inimicum hominum morumqiie malonitn,
contra defensorem hominum morumque bonorum,
magnificare hos, his bene velle^ his vivere amlcum ;
commoda pr aeterea patriai prima putare^
deinde par entum^ tertia iam postrernaque nostra. \1)
(1) fr. 354 del Bahrens = Lattanzio. I, 22, 13.
(1) fr. 119 del Bahr. = Latt, VI, 5, 2.
CAPITOLO TERZO
Sette e scuole pitagoriche in Roma nei I secolo a. C,
1. I Oenethliaci. — 2. P. Nigidio Piguìo e la sua scuola segreta. —
3. La scuola dei Sestii.
1. — Da Saut'Agostino (1) ci è stato conservato, del-
l'opera Varroniana De gente populi romani^ un passo per
noi importantissimo: « Genethliaei quidam scripserunt esse
in renascendis hominihus qnam appellant TcaXtyysveatav
Oraeci ; hanc scripserunt confici in annis numero CJDXL^
ut idem corpus et eadem anima, quae fuerint comuncta>
in corpore aliquando, eadem rursus redeant in coniun-
ctionem » . Chi erano mai questi scrittori, i quali credevano
nella risurrezione dell'anima e della carne e ne fissavano
persino il compimento nello spazio di quattrocento e qua-
ranta anni? Essi erano studiosi di discipline magiche ed
astrologiche, a cui si davano anche i nomi di magi, di
caldei e di matematici. Abbastanza numerosi in Roma nel
li e I secolo a. C, col decadere dei culti ufficiali e Tin-
{[) De civitate dei, XXII, 28.
- 46 —
filtrarsi di riti stranieri, massimamente dalF Egitto e dal-
l'Asia, divennero a grado a grado così potenti da trovarsi
persino ad essere qualche volta arbitri delle sorti dello
stato. Poiché, come dice il Pascal in un suo geniale e
interessante studio (1), svolgendo in particolare la dottrina
della resurrezione dei morti (filiazione diretta della metem-
psicosi pitagorica) la fecero entrare in un sistema di loro
particolari teorie, la congiunsero con predizioni contenute
nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero anche di co-
noscere dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi
umani. Essi non partivano, come gli aruspici e gl'indovini,
dal concetto che gli dei manifestassero la volontà loro per
mezzo di segni particolari, ma dal concetto, razionalmente
svolto, « che tutto fosse armonico e regolato da leggi e da
rapporti immutabili nell'universo e che quindi, all'apparire
di determinati fiitti o fenomeni dovesse normalmente se-
guire l'avverarsi di determinati eventi umani » . Era dunque,
aggiunge il Pascal, « un tentativo di giustificazione scien-
tifica, tratta dal fondo della dottrina pitagorica e platonica,
della credenza popolare che la vita di ciascun uomo fosse
regolata dall' astro che lo aveva visto nascere » . Strani
davvero questi scienziati-filosofi che si sforzano di ribadire
con argomenti razionali e di ridurre a ragioni scientifiche
le superstiziose credenze del volgo! e che riescono tanto
bene nel loro proposito da far sentire a Favorino (li sec.
d. C.) il bisogno di abbattere con una confutazione siste-
matica il loro edifizio logico (2), ancora saldo sulle sue basi
(1) La resurrexione della carne nel mondo pagaìio, in Atene e
Roma del marzo 1901 e in Fatti e leggende di Roma antica, Fi-
renze, 1903 pp. i86 e segg.
(2) AULO Gellio, Noci. Att. XVI, 1, riporta quasi testualmente
il discorso di Favorino.
47 —
a più di due secoli di distanza ! Io in verità non posso
acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo mon-
dano computato a quattro secoli di 110 anni ciascuno
venisse ai Genetliaci dalla tradizione popolare: gli argo-
menti che il Pascal porta a sostegno della sua affermazione
mi inducono piuttosto a credere il contrario, e cioè che
l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica greco-
italico-romana (1) e del questa passasse poi al volgo per
mezzo dei responsi sibillini (2) e dei poeti che l'accolsero
e la diffusero per il popolo (3). Di più, un'altra credenza
notevolissima fu propria e del Sibillismo e dei Genetliaci :
la credenza cfoò che ultimo dio del ciclo mondano dovesse
essere il Sole od Apollo (4) che avrebbe bruciato l'uni-
verso e riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini
rinnovati alla vita; quell'Apollo che pure Orazio (Carm.
I, 2) invocò perchè venisse a redimere l'umanità dal
peccato :
Tandem venias^ precamw\
huhe candentes timer os amictiis
Augur Apollo.
(1) Così Cicerone ci parla nel De dimn. II, 46, 97 di un' altra
scuola di astrologi per la quale V estensione di tempo era molto
maggiore, e cioè di 470000 anni !
(2) pr. Proho a Virg. Ed. IV, 4 : « La Sibilla cumana ha pre-
detto che dopo quattro secoli sarebbe avvenuta la palingenesi ».
(3) Orazio, I, 2, v. 29 e sg. ; Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI,
748-751; Ovidio, Metam. I, 89 sgg.; Persio, Sat. V, 47 sg.
(4) Servio nel commento al v. 10 della IV ed. di Virgilio riporta
il seguente passo del quarto libro de diis di P. Nigidio Figulo :
s « Quidam deos et eorum genera temporibus et aetatibus (distin-
guuntj, inter quos et Orpheus ; primum regnum Saturni, deinde
loi'is, tmn Neptuni, inde Plutonis ; nonnuUi etiam, ut ma.id, aiunt
Apollinis fore regnum, in quo videndum est, ne ardorem sive illa
ecpyrosis adpellaìida est, dicant * . Vedasi anche il Lobeck, Aglao-
phamus, pag. 791 sgg.
L-:-^--:sKK.^ji5..af:Lj::
i
— 48 —
La rigenerazione degli uomini e la conflagrazione del-
l'universo per virtù di Apollo — conflagrazione probabil-
mente simbolica e che tuttavia potè essere aspettata da
alcuno come reale ed effettiva (1^ — furono dunque due
concetti paralleli ed uniti anche nel dogma pagano, e più
precisamente in quelle dottrine mistiche, nelle quali sap-
piamo quanta parte e che profonda significazione avesse
il mito apollineo e solare, E come può tutto questo essere
stato creazione popolare ? Veramente forse un po' troppo,
e non solo in fatto di mitologia e di credenze, si vuole
attribuire al popolo, a questo essere impersonale, così im-
maginoso e così balordo^ così ricco di fantasia e così cre-
denzone! Non è assai più verosimile pensare a una genesi
più elevata e razionale, a una creazione veramente intel-
lettuale e filosofica, che, passando dai dotti agli indotti,
dai sapienti agi' ignoranti, si materializza e degenera dal-
l'essenza primitiva, o, meglio ancora, acquista con moto
parallelo e continuo, nuovi aspetti e nuove significazioni
realistiche e concrete?
In ogni modo siamo così arrivati alle più grossolane
deformazioni che il pensiero pitagorico dovette subire in
Roma, uscendo dal segreto sacrario delle scuole dei saggi
e mescolandosi, in mezzo al popolo, a credenze d'altra
derivazione. Non ò quindi meraviglia che siffatte credenze,
aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo, fossero,
come vedremo più innanzi; oggetto di riso nel teatro po-
polare, e d'altra parte si spiega assai bene come i seguaci
del Pitagorismo dell'antica maniera, per sottrarre le loro
(1) Y. il passo dei Garm. Sib. .IV, 175 sgg., forso dell'Sl od 82
d. C, citato dal Pascal e che questi crede composto da qualche
terapeuta od esseno.
■ •m ^ mt t w i^w
■w i iig ii yMi i |.mii»
— 49 —
dottrine al ridicolo cui venivano esposte nei loro contatti
col popolo, sentissero il bisogno di raccogliersi nuovamente
in segreto, nel silenzio delle loro case e delle loro scuole,
per meditare, lontano dal profanum vulgus, V antica sa-
pienza loro tramandata attraverso tante generazioni.
2. — Chi sopra ogni altro si curò di far rivivere la filo-
sofia di Pitagora, che, in un certo senso, poteva dirsi ormai
estinta come complesso di teorie e d' insegnamenti pratici
ben distinti da quelli di altre scuole, fu un grande sapiente,
del quale in verità ben poco sappiamo, contemporaneo e
amicissimo di Cicerone. Il quale appunto nel proemio dei
Timaeus seu de Universo lasciò scritto parlando di P,
Nigidio Figlilo: « Fuìt vir ille cum ceteris artibus, quae
« quidem dignae Ubèro essente ornatus omnibus^ tum acer
« investigator et diligens earum rerum quae a natura invo-
« lutae videntur». E poi continuava: «JDenique sic ludico
« post illos nobiles Pythagoreos^ quorum disciplina exstincta
« est quodam modo, hunc extitisse qui illam renovaret » .
Nato forse verso il 105, già senatore nel 63, pretoro
nel 59, legato in Asia nel 52 (l), e infine esiliato da C.
Giulio Cesare, forse non soltanto, come ora vedremo, per
aver seguita la causa di Pompeo, morì in esilio nel 45 (2).
(1) Cicerone nel Timeo fr. 1, t. Vili p. 131 Bait. ci dà notizia
di questa sua legazione con le parole : « qui (Nigidius), eum me
in Gilieiam proficiscentem Ephesi expectavisset, Romarn ex lega-
tione ipse decedens etc. ».
(2) SvETONio fr. 85 = Hieron. ad Euseb. chron. olìmp. 183,4 = 45
a. C. : « Nigidius Figulus Pythagorlcus et magus in exsilio mo-
ritur ». Si noti che ancora una volta vediamo qui congiunti, come
nella tradizione che si riferisce a Numa e come, del resto, sempre,
il Pitagorismo e la magia. S. Agostino (De civ. dei Y, 3) parlando
di Nigidio, lo chiama « matkematicus ».
4.
— 50 —
Per il suo sapere fu giudicato secondo al solo Yarrone,
e benché non ci restino che pochi e scuciti frammenti
dei suoi scritti (1), pure sappiamo che egli scrisse molto e
con profondità di ricerche « che arrivava fino all'astruse-
ria », come dice il Gidssani (2), cioè oltrepassava quel limite
al di là del quale gli equilibrati uomini comuni non ve-
dono che nebbie e fantasmi,. immaginazioni e utopie. Sam-
MONico, come ci riferisce Macrobio (II, 12) lo disse « maxi-
miis rerum naturalium indayator » ^ e lo stesso Macrobio
{Sai. YI, 8) lo dice « homo omnium bonarum artiiim di-
scipUnis egregiuH », e così pure Cicerone, come s'è visto,
lo giudicò acuto e diligente studioso dei più involuti feno-
meni naturali, e precisamente di quelle ricerche e di quegli
studi, che furono la cura di pochi solitari d' ogni tempo,
quasi sempre, forse a torto, misconosciuti dai più. Sant'A-
gostino lo disse ' matematico ' e Svetonio ' pitagorico e
mago '. Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse ritenuto
mago, dimostrano anche altre testimonianze e dello stesso
Svetonio e di Apuleio e di Dione Cassio. Il primo racconta
come cosa nota a tutti che il giorno in cui Ottaviano nac-
que, discutendosi in Senato intorno alla congiura di Cati-
lina, ed Ottavio, per causa appunto della moglie partoriente,
essendo arrivato un po' in ritardo, Publio Nigidio, cono-
sciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa del parto, affermò
che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la ter-
ra (3). Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto
— Si-
che di essa fa, con qualche leggera variante, Dionbs Cassio
(l. XLY, cap. I), alle elucubrazioni astrologiche di Nigi-
dio. Apuleio a sua volta (1) riferisce di aver letto in
Yarrtoe che un certo Fabio, avendo smarrito una forte
somma di denaro, andò da Nigidio per consultarlo e questi,
per mezzo di fanciulli eccitati (instinctos) con sortilegi ed
incantesimi (carmine)^ ossia, coma oggi si direbbe, ipno-
tizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire dov'era
stata sepolta, la borsa con una parte delle monete, che le
altre erano state distribuite, e che una ne aveva anche
il filosofo Catone; ciò che fu pienamente confermato dai
fatti. E dove mai aveva acquistate il nostro filosofo siffatte
conoscenze magiche ed astrologiche? Forse durante un
viaggio in oriente, fatto in gioventù ? Non sappiamo, seb-
bene d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella
Grecia imparò che la terra si muove con la velocità della
ruota di un vasaio (2).
(1) Cfr. NiGiDii FiGULi operum reliquiae eollegit A. Swoboda, 1889.
(2) Storia della Ietterai, romana, VaUardi, 1902, p. 230.
(3) SvKTON., Aug. 94: <iquo natus est die^ cum de Catilìnae co-
niuratione ageretur in Curia et Octaviiis oh uxoris puerperiuìu
serius adfuissetf nota ac vulgata est res P. Nigidimn comperta
morae causa, ut horam quoque parfus acceperit» ad/ir masse domi'
num terrarum orbi natum ».
(1) De magia 42, p. 53, 9 Krueo. « Memini me apud Varrò-
nem philosophum, virum. accuratissime doctum atque eruditum,
cum alia eiusmodi, tum. hoc etiam legere... itemque Fabium^ cum
quingenios denarium perdidisset^ ad Nigidium consultum venisse;
ab eo pueros Carmine instinctos indicafnsse^ uhi locorum defossa
esset crumena cum parte eorum, celeri ut forent distributi', unum
etiain denarium ex eo numero hahere Catonem philosophum., quem
se a pedissequo in stipem Apolliìiis nccepisse Calo confessus est ».
(2) Ciò si desume da una nota del Gommentum, sl Lucano (I, 639),
dove è detto che Nigidio ebbe il soprannome di Figulo perchè « re-
gressus a Gr accia dixit se didicisse orhem ad celeritatem rotae
figuli torqueri »• Dei soprannome aUri davano una ragione un po'
diversa, in rapporto con la famosa obiezione dei due geraeUi cosi
spesso fatta agli astrologi e di cui fanno ricordo, fra gli altri, lo
■^1^ ■ i» ■ » -.*■
imtmfmmmsip ismsi ^s isssa^^
52 —
— 53 —
Quanto alle opere di JSfigidio, del quale sappiamo ancora
che usava una dieta assai parca (1), possiamo dire che
furono molte e di varia natura: egli scrisse di filosofia,
di astrologia e anche di filologia (2). Di lui si riiorda
un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel quarto
dei quali, per esempio, trattava dei vari regni ed età degli
dei, secondo Orfeo e i Magi, e nel sesto e nel decimo
accennava alla teoria etrusca delle quattro specie di dei
penati : quelli di Giove, quelli di Nettuno, quelli degl'In-
feri e quelli degli uomini (3), cioè, probabilmente, gli spi-
riti celesti, acquatici, terrestri (gli elementari dell' oc-
cultismo medievale) ed umani. Perchè di quest'opera ci
restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il gram-
matico Servio in una nota aìVJEneide (X, 175): ^Nigidius
solus est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theo-
logia, Me in commimibiis litteris, nani uterqiie utrumque
scripsertmt » . La luce di Varrone dunque oscurò quella
di Nigidio, i cui libri intorno agli dei erano letti soltanto,
come dice lo Swoboda (4), dagli investigatori della dottrina
stoico Diogene presso CicerOxVe (De divinai. II, 43, 90), Gellio,
N. A. XIV, 1, 26, lo PsKUDO Quintiliano ^Declam. Vili, 12) e 8.
A SOSTINO !.. e.
(1) IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigidius : nos ipsi ieiunia ien-
iaculi s levibus solvimus.
(2) Egli sostenne, come ci attesta Gkllio A^. A., X, 4, che il
linguaggio è d'origine naturale e non convenzionale.
(3) Arnob. adv. nai. Ili, 40, p. 138, 5 seg. Reiff : « idem (Ni-
gidius) rursus in libro VI exponii et X, discìplinas etruscas se-
quenSy genera esse Penatium guai fuor et esse lovis ex his alios^
alios Neptuni.^ inferorurn tertios, mortalium hominum. quartos^
inexplicable nescio quid dieens » .
(4) P. NiGiDii FiauLi operum reliquiae coli, emend. enarr. quae-
stiones nigidianas praemisit Ani. Swoboda, Vindob., 1889, p. 25.
più recondita, come, ad esempio, quel Cornelio Labeone,
uomo assai dotto, che visse nel terzo secolo d. C. (1). Di
Nigidio sono ricordati anche tre scritti intorno alla divi-
nazione per mezzo delle viscere (2) e intorno ai sogni (3),
una Sphaera graecanica (4) e una Sphaera barbarica (5),
un libro intorno agli animali ed altri, interamente o quasi
interamente perduti.
Un'altra causa di questa perdita è spiegata in parte da
Gellio (N: a. XIX, 14, 3) il quale ci fa sapere precisa-
mente che mentre le opere di Varrone erano lette e co-
nosciute da tutti € Nigidianae commentationes non proinde
in vulgus exibant et obscuritas subtilitasque earum tam
quam parum titilis derelicta est » . Dunque gli scritti di
Nigidio avevano un carattere piuttosto riservato e segreto,
erano poco intellegibili ai piìi per la loro sottigliezza. E
che significa cotesta oscurità e sottigliezza che è poi ab-
bandonata perchè poco utile? e da chi fu abbandonata?
dai lettori o dagli scrittori in genere o dai cultori di quelle
stesse dottrine filosofiche? Se noi pensiamo alla diffusione
delle conoscenze pitagoriche, sempre maggiore dal tempo
della morte di Figulo a quello in cui Gellio scriveva (se-
colo II d. C.) e air infinito numero di profezie, di predi-
zioni, di oracoli che sempre più chiaramente annunziavano
l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ; se pen-
siamo che fu questa appunto l'età nella quale, pochi de-
(1) Si veda, intorno a lui, Kettner, Cornelius Labeo^ Progr. Port,
dell'anno 1877.
(2) Gellio, .V. A. XVI, 6, 12.
(3) Giov. LoR. Lido, de ostentis e. 45 p. 95, 14 — 96, 3 Wachsm.
(4) Serv. ad Georg. I, 43 e I, 2l8.
(5) Serv. ad Oeory. I, 19.
- 54 -
cenni dopo il Cristo apparso in oriente a dare la nuova
parola divina agli uomini, in Roma fece la sua apparizione
la strana figura di Apollonio di Tyana, il Pitagora redi-
vivo, che ebbe immagini e culto divino da parte degl'im-
peratori, non può esservi alcun dubbio : se Figulo fu
costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli amici
le conoscenze clie aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze
nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ebbe molte
noie); se lo stesso dovettero fare, dopo di lui, come or ora
vedremo, i Sestii, die furono ugualmente perseguitati; le
vecchie dottrine di Pitagora andarono tuttavia sempre più
diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior libertà
di parola e d'azione ai loro seguaci, che poterono final-
mente abbandonare in gran parte la segretezza e il mi-
stero in cui si chiudevano e il simbolismo oscuro di cui
si servivano prima.
Lucano nella sua Farsaglia (I, 639 seg.) riferisce una
oscura predizione di Nigidio, che, com'egli dice, si studiò
di conoscere gli dei e i segreti del cielo e in queste co-
noscenze astrologiche fu superiore ai sapienti dell'Egizia
Menti ;
At FiguluSy cui cura deos secretaque oaeli
nosse filiti quem non stellarum Aegyptia Memphis
aequaret visti numerisque nioventihus astrn^
aut hic errata ait, ulla sine lege per aevum
mundus et incerto discurrunt sidera ìnotu :
aut, si fata movent, orbi gencrique paratur
humano matura lues
Egli predisse dunque alla terra e agli uomini un vicino
flagello, proprio come, prima di lui, avevano fatto e con
lui facevano i Genetliaci. Ora, dobbiamo noi veramente
pensare; a proposito di siffatte predizioni, che si tratti di
— 55 —
semplici manifestazioni sentimentali del desiderio di tempi
migliori? Certo le condizioni dei cittadini romani e del
mondo, su cui l'aquila di Roma andava stendendo e allar-
gando sempre piti le sue ali insanguinate, erano assai tristi;
ma d'altra parte le predizioni sono troppe e troppo precise
talvolta e troppo vicine alla manifestazione del Cristiane-
simo, per non dover pensare a qualche relazione, misteriosa
senza dubbio e in parte inesplicabile, ma pure innegabil-
mente certa.
Comunque sia, poiché, secondo le parole surriferite di
Cicerone, con Nigidio Figulo si iniziò in Roma un vero
e proprio risveglio delle dottrine pitagoriche, vediamo ora
in qual guisa egli tentasse questo rinnovamento dell'an-
tica disciplina italica.
Noi possiamo desumerlo da altre testimonianze, le quali
non solamente accennano a una vera e propria scuola, a
un sodalicium, a una factio, ma vi accennano in modo,
che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio
stesso abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse
tenuto da chi, forse troppo tenero e non disinteressato
amico del nuovo ordine di cose creato in Roma dal trionfo
di Cesare, accoglieva, senza approfondirle né vagliarle trop-
po, accuse vaghe e imprecise formulate contro i fa'Utori
dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli
scolii bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio (1)
queste notevolissime notizie : « Fuit autem ilUs temporibus
« Nigidius quidam^ vir doctrina et eruditione studioruni
« praestantisslmus^ ad quìnii plurimi eonveniebant. Haec
« ab obtrectatoribus veluti factio niiaus probabilis iacti-
« tabatur, qaanivis ipsi Pythagorae sectatores existimari
(1) V. tomo y, part. 2, p. 317 dell'Orelli.
— 5^ -
»
« vellent », e altrove (1) si dice di un tale che « ahiit
« in sodalicinui saerile^ii Xi^qdiani ». In casa sua dunque
Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai
misteri della filosofia pitagorica e forse anche vi si dedi-
cavano a pratiche mistiche, come ci persuade la ciarlata-
neria di quel Yatinio, che, volendo farsi credere pitagorico
e dottissimo, faceva evocazioni di morti e si abbandonava
a nefandità d'ogni genere (2). E questi convegni finirono
col suscitar dicerie, maldicenze, sospetti, calunnie, e vi
furono degli obtrectatores, i quali andavano sussurrando
qua e là che quella era una setta riprovevole e sacrilega;
le quali calunnie, credute tanto più facilmente quanto mi-
nore era il numero degli onesti in quei tempi così torbidi,
furono forse un ottimo pretesto per legittimare T allonta-
namento da Roma e l'esilio di un uomo d'antica tempra
repubblicana. Che poi il tentativo di Nigidio avesse un
carattere anche politico e che egli vagheggiasse, nella rico-
stituzione del sodalizio pitagorico e quindi nella eguaglianza
sociale e nella comunanza dei beni, il sogno della nuova
felicità umana, è cosa piii che probabile, ma non certis-
sima (3). E così il sapientissimo mago, il maestro pitago-
(1) PsEUD. CicER. in Sali. resp. 5, 14.
(2) « Tu qui te Pythagoricum soles dicere et hominis doctissimi
nomen tuis immanibus et harbaris moribics praetendere..., cum
inaudita ac nefaria sacra susceperis^ cum inferorum animas eli-
cere, cum puerorum extis Deos manes mactare soleas » Cicero.ve,
in Vatinium 6, 14. Dal che si può vedere, sia detto incidental-
mente, che lo spiritismo non è un'invenzione moderna!
(3) V. quanto afforma a proposito di lui e dei Sestii il Pascal :
Il rinnovamento umano negli scrittori di Roma aJitica (Riv. d'I-
talia, gennaio 1902. p. 98, poi nel voi. Fatti e leggende, Firenze,
Le Monnier, 1903;.
« ■■^.. m»n»t,mar.d^ Mf^we wnHW'jtw ' ' jMtw — »?sr^iia?MBi:a Pa iiii JJ l
-- 57 -
rico, il matematico P. Nigidio morì nell'esilio, nel tempo
stesso che ìp Roma intercedeva per lui, allo scopo di otte-
nerne il richiamo in patria, l'amico Cicerone. Ma doveva
essere davvero tenuto per uomo assai pericoloso il sacri-
lego Pigulo, se, non ostante che i famigliari di Cesare e
quelli ch'egli avea più cari ne parlassero con ammirazione
e ne avessero alta stima, il divo lulio non si lasciò troppo
commuovere, a favore del fiero repubblicano ! Gli è che
in verità in quel momento di trapasso dalla repubblica
(o meglio dall'anarchia) all'assolutismo l'interesse dello
Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di fronte
agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori.
Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente con-
servataci, nella quale Cicerone, dando notizia all'esiliato
delle pratiche ch'egli faceva indirettamente presso Cesare
e delle speranze che aveva di poter presto riuscire a otte-
nergli il perdono, dice cose così interessanti e adopera
espressioni di così alta stima, che metterebbe conto davvero
che la riferissimo per intero (1). Basti accennare tut-
tavia che egli si rivolge a lui come ad uomo « uni
omnium doctissimo et sanctissirno et maxima quondam
gratta » e suo amicissimo, e che accingendosi a censo-
V
(1) E la lettera 13^ del quarto libro Ad familiares, dell'anno 46
a. C. In essa dice bensì Cicerone : « Videor mihi prospicere pri-
mum' ipsius animum, qui plurimum. potest, propensum ad salutem.
tuam », ma questa era la semplice illusione, creata in lui dall' a-
micizia che aveva per Figulo e dal desiderio che sentiva del suo
ritorno; poiché in realtà il povero filosofo fu lasciato morire in
esilio. E sì che — come aggiungo ancora Cicerone — « familiares
eius (cioè di Cesare), et ii quidem, qui UH iucundissimi sunt,
mirabiliter de te et loquuntur et sentiunt » e di più « accedit eodem
vulgi voluntas vel potius consensus omnium i> !
— 58 —
Jarlo crede opportuno di premettere : « ai ea quidem fa-
cultas vel ttii vel alterms consolandi in te summa est^ si
nmquaìn in ulto fuit » ; cosicché « eam partein, quae ab
exqulsita qiiadam ratiorw et doctrina proficiscitur, non
attingam: tibi totani reUnquam »; e conchiudendo termina
col pregarlo « animo ut maximo sis nec ea soliim memi-
neris, quae ab aliis magnis niris accepisti, sed illa etiam,
quae ipse ingenio studiisqiie peperistL Quae si colliges, et
sperabis omnia optime et quae aecident, qualiacumque erunt,
sapienter feres. Sed haee tu melius vel optime omnium».
Ora se insieme con queste eloquenti e perspicue parole
si ricordano i versi citati della Farsaglia e se si pensa
ancora al contenuto dei frammenti che di queste sapiente
ci sono rimasti e ai titoli delle opere ch'egli scrisse, pos-
siamo formarci un' idea approssimativa del genere di dot-
trina e di conoscenze che ebbe e di cui si fece maestro:
il misticismo pitagorico, la dottrina dei numeri, la divina-
zione (quella che oggi si direbbe chiaroveggenza) in tutte
le sue forme, Tastrologia; il tutto espresso e significato in
un modo oscuro e involuto, forse per via di simboli, che
fu poi una delle cause maggiori, se non la maggiore di
tutte, per la quale le opere di lui furono poco lette e a
poco a poco caddero neiroblio.
3. — E dopo la morte del maestro, che ne fu dei suoi
seguaci? Pfobabilmente non si dispersero e continuarono
a riunirsi ; tanto piii che non mancava certo fra loro chi
potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e la
sua dottrina. In quegli stessi anni infatti, o poco dopo,
ci fu m Roma un'altra setta, ch'io non dubito punto fosse
continuazione di quella di Nigidio, o certo frutto dei suoi
insegnamenti: voglio alludere alla <^ Sextiorum nova et
59
romani roboris secta » , la quale però « Inter initia sua,
quum magno impetu coeplsset, extinota est » (1). Decisa-
mente i tempi non erano favorevoli alla fi.losofia, anzi a
certa filosofia! E in verità non potevano essere molti quelli
che, in Roma, desiderassero di attendere sul serio alle
speculazioni filosofiche: le ricchezze e la potenza della
nuova Roma imperiale offrivano troppi svaghi, troppi di-
vertimenti, troppe orgie, perchè vi fosse tempo e voglia
di dedicarsi a meditazioni gravi ed ingrate ! Cosicché gli
sforzi di quei pochi, i quali avrebbero pur voluto richia-
mare i concittadini alla serietà d'una vita meno fatua e
più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire effetti poco
duraturi.
Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna Seneca? Le
notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma suffi-
cienti tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corru-
zione, come uomini desiderosi più delle gioie del pensiero
che di quelle dei sensi, amanti più della verità e della
scienza che delle ricchezze e degli onori; come uomini
infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù, quanto
maggiori intorno si addensano lo tenebre del vizio.
Del primo di essi, di nome Quinto^ parla specialmente,
e sempre con parole di profonda e sentita ammirazione,
il più grande dei moralisti romani, Seneca, in quelle sue
mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta filosofica sapienza
e così degne d'essere studiate e meditate più che non
siano! In una di queste, la novantottesima, volendo egli
provare al suo alunno che spesso molti disprezzarono quei
beni che i più desiderano come fonti di felicità, cita gli
esempi di Fabrizio e di Tuberone, e poi aggiunge che il
(1) Seneca, Quaest, nat. cap. ultimo.
- 60 -
padre Sestio, pur essendo nato in tali condizioni da dovere
un giorno governare la cosa pubblica, rifiutò persino la
carica di senatore, offertagli da Giulio Cesare ; poiché egli
non annetteva aJcuna importanza ai pubblici onori, rite-
nendoli, come sono, troppo incerti e transitori (1). Una
rinunzia di questo genere non era certamente cosa che
tutti sapessero e volessero fare in quei tempi di sfrenate
ambizioni; e tanto meno poi per ragioni filosofiche! Ma
tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua persona altro
ornamento che non fosse il laticlavio: ornamento meno
visibile e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero,
che fosse conquista della sua intelligenza e della sua virtù,
che nessuno potesse riprendergli e che egli potesse libe-
ramente trasmettere senza pericolo di manomissioni o di
latrocinii, Tornamento insomma della sapienza; per la quale
fu acceso di tanto amore, che non facendo, in sul principio,
progressi sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo desi-
derio, fu sul punto, un giorno, di suicidarsi (2).
Come degli onori, ei non fu avido neppure doUe ric-
chezze; anzi si racconta di lui che, trovandosi in Atene,
ripetè quanto aveva già fatto il filosofo Democrito, il quale,
avendo previsto da certi segni astrologici una carestia d'olio,
prima dell'epoca del raccolto — che la bellezza delle olive
faceva sperare sarebbe stato abbondante — comperò a buon
(1) « Eonores repulìt pater Sextius, qui, ita natus ut rcmpu-
hlieam deberet eapessere, ìatum clavum, divo Tulio dante, non re-
eepit; intelligehat enim, qtiod davi posset, et eripi posse >.
(2) PLUtARCo, « Del modo di conoscere i propri progressi nella
virtù », § 5: « KaeàTiep i^aal Ségxióv te tòv 'Pcoiialov àcpsixóia xà^
iv z-fi nàXei zi\iòc<; xal àpxà^ 5ià cptXoaocp(av èv 5è Tcp cptXoaocpelv
au TcàXtv Suor.at'fo'jvxa xal xpwP'Svov 1$ AÓytp xaXsTio)^ za nptbzow,
òXCyou 5£f;wai xaiagaXstv éauTòv Ix xivo^ 5ty]poug ».
— 61
mercato tutto l'olio del paese, e poi, sopravvenuta real-
mente la carestia, restituì ai primi proprietari! la merce
acquistata, appagandosi d'aver provato così che gli sarebbe
stato facile arricchirsi quando lo avesse ^^oluto (1).
Ma che uomo era Sestio ! Che scrittore vigoroso e ardito,
e come diverso da tanti filosofi che scrivendo siedono in
cattedra, discutono, cavillano, e non danno all'anima alcun
vigore perchè non ne hanno ! A leggere Sestio — son pa-
role di Seneca -- si sente ch'è pieno di vita e di vigore,
uno spirito libero e superiore, uno che ha virtù d'ispirarti
sempre una gran fiducia in te stesso ! In qualunque stato
d'animo, quando si legge il suo libro, si sfiderebbe la
fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro qualsiasi
ostacolo! Poiché egli ha questo grande merito, che, pur
mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non
ti fa disperare di raggiungerla: egli la mette bensì molto
in alto, ma in luogo accessibile a chi la voglia conqui-
stare, sì che ammirandola tu speri (2). Quale piii alta lode
(1) Plinio, Naturaìis Bistorta, XYIII, 68, 9-10 : <x Ferun
Democritumy qui primus intellexit ostenditque eum terris caeli
societatem, spernentihus hanc curam eius opulentissimis civiuni,
praevista olei caritate ex futuro Vergiliarum ortu.... magna tum
vintale propter spem olivae, coemisse in loto tractu om,ne oleum,
mirantibus qui paupertatem et quietem doctrinarum ei seiebant
in primis cordi esse. Atqiie ut apparuit causa, et ingens divitia-
rum cursus, restituisse mercem anxiae et avidae dominorum. poe-
nitentiae, contentum ita probasse opes sibi in facili, quum vellet,
fore. Hoc postea Sextius e romanis sapientiae adsectatoribu^ Athenis
fecit eadem rat ione ».
(2) Seneca, Epistola LXIY : « Lectus est deinde liber Quinti
Sextii patris ; m,agni, si quid miki credisj viri, et, lìeet neget.
Stoici. Quantus in ilio, Dii boni, vigor est, quantum animi! Hoc
non in omnibus philosophis invenies. Quorumdam scripta clarum
62 —
63
per un uomo, di questa entusiastica esaltazione fatta da
Seneca ?
E i suoi insegnamenti })()i quanto erano sentiti e pro-
fondi, altrettanto erano semplici ed efficaci. Vuoi tu persua-
dere un uomo della bruttezza dell'ira ? egli ammaestrava:
portalo, mentr'è adirato, inuauzi a uno specchio e fa che
vi si veda riflesso ; poi fagli intendere che s'ei vedesse a
quel modo auche l'orridezza dell' anima sua sconvolta ed
agitata ne sarebbe atterrito (1). Della onestà e 'della virtù
egli ebbe così alto e giusto concetto che sostenne l'uomo
hahent tantum nomen, cetera exsanguia sunt. Instituunt, dispu-
tante eavillantur: non faciunt animum, quia non hahent. Quum
legeris Sextium, dices: Vivit, viger, liber est, supra hominem est,
dimittit me plenum ingentis fiduciae. In quacumque positionc
mentis sÌ7n; quum hune lego, fatebor Uhi, lihet omnes casus pro-
vocare, Uhet exclamare : Quid cessas, Fortuna? congredere! para-
tum vides. Illius animum induo, qui quaerit ubi se experiatuv,
ubi virtutem suam ostendat,
Spumantemque duri pecora inter inertia votis
Optat aprum, aut fulvum descendere inonte leonem,
Ltbet aliquid hahere, quod vincavi, cuius patientia exercear.
Nam hoc quoque egregium Sextius hahct, quod et ostendet libi
beatae vitae magnitudinem, et desperationem eius non faciet. Scies
illam esse in excelso, sed volenti penetrabilem. Hoc idem virtus
Ubi ipsa praestabit, ut Ulani admireris, et tamen speres * .
(1) Seneca, De ira, lib. Il, eap. 36: « Quibusdam, ut ait
Sextius, iratis profuit aspexisse sptculum; perturbava illos tanta
mutatio sui: velut in rem praesentem adducti non agnoverunt se,
et quantiilum ex vera deformitate imar/o illa speculo repercussa
reddebat ? animus si ostendi, et si in ulta maferia perlucere pos-
set, intuentes nos confunderet, ater maculosusque, aestuans, et
distortus, et tumidus. Nunc quoque tanta deformitas eitcs est per
ossa carnesque, et tot impedimenta, effiuentis : quid si nudus o-
stcnderetur? etc.
onesto non per altro essere inferiore al sommo Giove, che
per avere una virtù meno stabile e duratura ; ma per tutto
il tempo in cui si conservi onesto essere altrettanto felice
quanto Giove, non essendovi tra la perfezione e quindi
la felicità umana e la divina differenza se non di durata.
Ond'è che egli potè veramente additare ai volonterosi il
bel cammino della virtù ed esclamare : « Di qui si monta
alle stelle! di qui: seguendo frugalità, temperanza^ for-
tezza y^ — e non già (par quasi sottintendere) per decreto di
popolo di senato ! — e potè confortare anche all'ascesa,
persuadendo che gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi
la mano. ... (1).
(1) Seneca, Epistola LXXIII: « Solebat Sextius dicere , <k lovem
plus non posse, quam bonum virum » . Plura lupiter habet, quae
praestet hominibus; sed inter duos bonos non est melior, qui lo»
cupletior : non rnagis, quatn inter duos, quihus par scientia re-
gendi gubernaculum est, melior cm dixeris, cui maius speciosiusque
navigium est. lupiter quo anteceda virum bonum! Diutius bonus
est. Sapiens nihilo se minor is aestimat, quod virtutes eius spatio
breviore clauduntur, Quemadmodum ex duobus sapientibus, qui
senior decessit, non est beatior eo, cuius intra pauciores aìinos
terminata virtus est : sic Deus non vincit sapientem felicitate,
etiani si vincit aetate. Non est virtus maior, quae longior. lupi-
ter omnia habet', sed nempe aliis tradidit habenda. Ad ipsum Me
imus usus pertinet, quod utendi omnibus causa est: sapiens tam
aequo omnia apud alios videi contemnitque, quam lupiter, et hoc
se magis suspicit, quod lupiter uti illlis non potest, sapiens non
rult, Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et
clamanti : « Hae ifur ad astra ! hac, secundum frugalitatem; hac^
secundum fortitudinem ! » Non sunt Dii fastidiosi, non invidi ;
admittuntj et ascendentibus manum porrigunt. Miraris hominem
ad deos ire? Deus ad hoìuines venit\ imìno, quod propius est, in
homines venit. Nulla sine Deo mens bona est. Semina in corpo -
ribus humanis divina dispersa sunt-, quae si bonus cultor excipit,^
) '
1
i"!
— 64 —
Questa sicura fede, questa virile forza di pensiero susci-
tatrice di virtù, era la nota caratteristica degli scritti di
Sestìo, di quest'uomo profondo, che filosofava scrivendo
in greco con gravità romana, e che paragonava l'uomo
sapiente, cinto di tutte le buone energie del suo animo,
a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto e
pronto alla battaglia (1).
Ed esercitando sui migliori uomini di Roma, come per
esempio quel Lucio Crassizio di cui parla Svetonio (2),
similia origini prodeunt; et paria hiSj ex quihus orla sunt^ sur-
gunt: si malus^ non aliter quam humus sterilis ac palustris^ ne-
cai, ac deinde creai purgamenta prò fì^ugihus ».
(1) Seneca, Epistola LIX : « Sextium ecce quam maxime lego^
vira iti aerem^ graecis verhis^ romanis moribus philosophantem.
Movit me imago ab ilio posila : ire quadrato agmine exerciturn^
ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae paratum. Idem^
inquit^ sapiens facete debet; omnes virtutes suas undique expan-
dat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur, ìllic parata praesidia
sini^ et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. Quod in
exercitibus his^ quos imperatores magni ordinante fieri videmus^
ut imperium ducis sirm^l omnes copiae sentiant^ sic dispositae,
ut signum ab uno datum, peditem simul equitemque percurrat ;
hoc aliquanto magis necessarium esse nobis Sextius ait. UH enim
saepe hostem timuere sine causa ; tutissimumque UH iter, quod
siispeetissimum fuit. Nihil siultitia pacai um h ibet ; tam superne
UH metus est, quam infra ; utrumque trepidai latus ; sequuntur
pericula^ et occurrunt; ad omnia pavel ; imparata est^ et ipsis
lerretur auxiliis. Sapiens autem^ ad omnem incursum munitus
est et inlentus: non si paupertas^ non si luctuSy non si ignomi-
7iia, non si dolor impetum faciale pedem referet. Interri tus et
contra illa ibit^ et inter illa. Nos multa alligante multa debilitante
diu in istis vitiis iacuimus ; elui difficile est : non enim inquinati
sumus^ sed mfecti ».
(2) Nel De illustr. grammat.^ § 18, rammenta di lui che « ad
Q. Sextii philosophi sedani transiisse dicitura. AUuni codici
però invece di Q. Sextii leggono Q. Septimii.
— 65 —
questa sua efficace robustezza di pensiero, e affascinandoli
col vigore della sua persuasione e con la nobiltà della sua
vita, sdegnosa d'ogni viltà e d'ogni bassezza, potè far sor-
gere quella « romani roboris seda » , di cui abbiamo fatto
già cenno e che, se fa subito soffocata, ebbe tuttavia dei
seguaci e prosecutori isolati, come Sozione di Alessandria,
che fu maestro anche di Seneca (1), Cornelio Celso (2),
(1) Di lui parla Lattanzio, Divin. institut. lib. VI, § 24.
Vedi anche Gellio, «V. A,. I, 8. Nella interessante epistola 108^
Seneca, parlando di so al suo Lucilio, gli dice come oltre al-
l'avere imparato ad astenersi per sempre dalle ostriche, dai fun-
ghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e ad usar materassi duri,
aveva anche incominciato, da giovane, ad astenersi dalla carne, e
ciò per gli insegnamenti di Soxione^ che dimostrava la inutilità e
i danni di questo cibo, valendosi, oltre che degli argomenti di Pi-
tagora e di Sestio, anche di ragioni proprie. Riporto quasi per in-
tero il passo di Seneca, che suona cosi: « Quoniam coepi libi ex-
poìiere quaìitum maior impelli ad philosophiam iuvenis accesse-
rim^ quam senex pergam^ non pudebit fateri^ quem mihi amorem
Pythagorae iniecerit Solion. Docebat^ quare ille animalibus ab-
stinuisset^ quae postea Sextius. Dissimilis utriqiie causa erat^ sed
utrique magnifica, Hic etc,.,. At Pythagoras Haec quum ex-
posuisset Sottoìi et implesset argumentis suis: Non credis^ inquity
animas in alia corpora atque alia describi^ et migratioìiem esse
quam dicimus mortem'^ Non credis in his pecudibus ferisve aut
aqua mersis illum quondam hominis animum morari? Non cre-
dis nihil perire in hoc ìnundo, sed mutare regionem? nec tantum,
caelcstia per eertos circuitus ver ti, sed ammalia quoque per vices
ire^ et anitnos per orbem agi ? Magni ista crediderunt viri. Ita-
que iudicium quidem tuum sustine: ceterum Oìnnia tibi integra
serva. Si vera sunt ista., abstinuisse animalibus innocentia est^
si falsa frugali tas est, Quod istic credulitatis tuae damnum est ?
Alimenta tibi leonum et culiurum eripio. His instinctus abstinere
animalibus coepi .^ et anno pera do non tantum facilis erat mihi
consuetudo^ sed dulcis... »
(2) Quintiliano, Lib. X, 1, 124 : « Scripsit non parum multa
Cornelius CeUus., Sextios secutus^ non sine cultu ac nitore ».
».
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l
— 66 -
Papirio Fabiano (1), Moderato di Cadice (2) ed altri.
I Sestii dei quali abbiamo notizia furono due: il primo
quello di cui si è parlato finora, che sarebbe vissuto al
tempo di Augusto e anche di Cesare, se, come dice ^^-
neca, rifiutò il laticlavio « divo lidio dante » (3), e avrebbe
pure, secondo il surriferito passo di Plinio (4) dimorato,
non sappiamo quando né per quanto tempo, in Atene;
l'altro, suo figlio, anch'esso di prenome Quinto, che pro-
seguì Tinsegnamento paterno, che fu ritenuto, sebbene a
torto, autore delle sentenze filosofiche note sotto il nome
di Sesto pitagorico (5j, della cui vita infine non sappiamo
assolutamente nulla.
Ora, di qual dottrina furono maestri questi filosofi, solitari
ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di tristi?
(1) Seneca, Epist. C; cf. Seneca il retore al hb. II delle Con-
troversie^ prefaz.
(2) Questo filosofo pitagorico visse al tempo di Nerone, fu famo-
so per i suoi insegnamenti intorno alla scienza simbolica dei nu-
meri, fu maestro di Lucio Etrusco (v. Plutarco, Quaest. Conviv.
YIII, 7) e scrisse un'opera voluminosa intorno alla dottrina pita-
gorica (V. Porfirio, Vita di Pitay, p. 33 ed. Nauck; Stefano Bi-
ZANTiNO e SuiDA, sotto la voce ràastpa}. Cfr. pure Porfirio, Vita di
Plotino e. 20 e S. Gerolamo, Adv. Eufinum III.
(3) Epist. XCYIII già citata. Di un Sestio, filosofo pitagorico,
che fiorì ai tempi d'Augusto, parla Eusebio (Chro?i,, all'olimpiade
195. 1 = 1 d. C.}. Dobbiamo dunque ritenere il nostro Sestio vis-
suto press'a poco fra il 70 a. C. e il 5 d. C.
(4) Natur. Eist., XVIII, 68, 10.
(5) Vedile nella collezione del Mììllach, Fragrnenta philosopho-
rum graecorum, Parigi, Firmin-Didot, voi. 1 (1875) p. 522 e
voi. II (1881) pp. 116-117, e leggi, a proposito della paternità di
esse, oltre a ciò che ne dice lo stesso Mullach v. II, pp. XXXI sg.),
anche l'esauriente discussione che fa lo Zeller, Die Philosophie
der Qriechen, voi. IV, III ediz. (Leipzg 1880), pp. 679 e 681 nota.
— 67 —
Essi ebbero intanto una propria dottrina psicologica, se,
come riferisce Claudiano Mamerte (1) spiegarono che l'a-
nima è « una certa forza incorporea, illocale e inafferra-
« bile, che, essendo capace senza spazio, assorbe e contiene
« il corpo » . Ma questo evidentemente è troppo poco per
determinare a che scuola essi appartennero. È ben vero
che Seneca^ come abbiamo già veduto riferisce (nella Epi-
stola LXIV) che « volere o no » (licet neget), il padre Sestio
era uno stoico; ma quel « volere o no » ci fa compren-
dere che in realtà Sestio non si professava stoico. E infatti
qualche altra testimonianza lo dice pitagorico (2), e tale lo
proverebbero non solo le sue conoscenze astrologiche, dimo-
strate dalla famosa esperienza dell'olio, ma altresì alcune
abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di ogni
giorno l'esame di coscienza (3) e quella di astenersi dai
cibi carnei (4), l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei
seguaci del Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima
è da notare che Sestio non la giustificava, come Pitagora,
(1) De statu animae, II, 8 : « ... Romanos etiam.^ eosdemque
pkilosophos testes citamus^ apud quos Sextius pater .^ Sextius filius
propenso in exercitium sapientiae studio apprime philosophati
sunt^ atque hanc super omni anima attulere sententiam. Incor-
poralis, inquilini^ oìnnis est anima et illocalis atque indeprehensa
vis quaedatu ] quae sine spatio capax corpus kaurit et contifiet *.
(2) V. pag. preced., nota 3.
(3) Seneca, De ira^ lib. Ili, e. XXXVI, 2: « Faciehat hoc
Sextius ut consunnnato die^ quum se ad nocturnam quietem re-
cepisset^ interrogaret animum suum : Quod hodie malum tuum
sanasti ? cui vitio ohstitisti ? qua parte melior es? y> .
(4) A questo proposito, oltre alla Ep, CVIII di Seneca riportata
nella nota seguente, si suol citare il passo, conservatoci da Orige-
ne, « {contra Celsum », lib. Vili, p. 397 ed. di Cambridge), che
suona: « Il cibarsi di carni è indifferente, ma l'astenersene è più
conforme a ragione ». Tale sentenza però è di Sesto pitagorico; non
già del nostro Sestio.
""••••■S***»^-"^^^!!? ".M*
— 68 —
con la dottrina della metempsicosi, ma con argomenti che
ai Romani dovettero parer più ragionevoli, perchè meno
astrusi : « gli uomini, egli infatti insegnava, hanno altri
«alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e poi ci
« si abitua alla crudeltà provando piacere nel divorar della
«carne; si deve duuqu3 ridurre al minimo ciò che può
« alimentar la lussuria » e concludeva dicendo che « la
« varietà dei cibi è contraria alla salute e innaturale per
« i nostri corpi » (l).
Ci sembra quindi lecito di potv.r affermare che i Sestii
non furono ne stoici ne pitagorici, ma ebbero un proprio
sistema, eclettico quasi senza dubbio, con prevalenza di
elementi pitagorici ; e che questo loro sistema non fu né
inorganico, né dubitoso (come quello degli accademici del-
l'ultima maniera) né materialista (come Tepicureo), sibbene
avvivato da una profonda fede, illuminato da una chiara
luce spirituale e fondato su convinzioni ben salde e su
opinioni precise e indubitabili; un sistema d'idee insomma,
che non era una piìi o meno piacevole distrazione o un'o-
ziosa occupazione dell'intelletto, ma una vera e propria
forza organizzatrice e ordinatrice della vita, e per ciò ap-
punto destinato a raccogliere pochi 'seguaci e a vivere per
tempo assai breve, in quella sentina di ambizioni, di cor-
ruzioni, di violenze, di immoralità, che era divenuta la
grande Roma nel trapasso dalla repubblica all'Impero.
(1) Seneca, Epist. CYIII : « kic {Sextius) homini satis alimen-
torum citra sanguinem esse credebat, et crudelitatis consuetudi-
nera fieri, ubi in voluptatetn esset adiucta laceratio. Adiciebat
eontrahendam materiam esse luxuriae, colligebat bonae valetudini
contraria esse alimenta varia et nostris aliena corporibus ».
\
CAPITOLO QUARTO
Pitagora e le sue dottrine ne^li scrittori latini
del primo secolo avanti Cristo.
I.
Lucrezio e il poema « Della Natura »
1. Lucrezio e il poema Della Natura. —2. Epicuro coutro Pitagora
a proposito di immortalità dell'anima e di metempsicosi. - 3. Ac-
cenni alla metempsicosi nel proemio del primu canto. Il sogno di
Ennio. —4. Polemiche intorno all'anima nel terzo canto: la dot-
trina dell' anima-armonia. — 5. Argomenti epicurei contro la
preesistenza dell'anima e la metempsicosi. —6. Insussistenza del
timore della morte nell'ipotesi della reincarnazione. — Riassunto
e conclusione.
V
1. — Poiché si è visto come, dopo Nigidio, i Sestii cerca-
rono di restaurare in Roma il culto del Pitagorismo, non
sarà certo inutile indagare quali tracce esso aveva lasciato di
sé nella letteratura romana del primo secolo avanti Cristo,
siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche o sem-
plici notizie incidentali: così infatti potremo non solo farci
un'idea del giudizio che ne fecero gli scrittori di quel
— 70 —
71 —
tempo, ma ci si offrirà anche il modo di esporne e chia-
rirne qualcuno dei punti più importanti o di metterne in
luce gli aspetti più notevoli.
Certo, in un'età nella quale le più svariate credenze
religiose e i più diversi sistemi di filosofia affluendo in
Eoma da ogni parte del mondo, e specialmente dalla Grecia
e dall'Asia, vennero a poco uniformandosi per vicendevole
influsso e preparando così il terreno che doveva di lì a
non molto accogliere e far germogliare il seme della nuova
fede cristiana, non è facile sceverare e seguire uno per
uno i vari indirizzi di pensiero; massime poi quelli che,
come la filosofia pitagorica, essendo molto antichi e avendo
avuto larga ditfusione e gran numero di seguaci, trasmi-
sero parte dei loro principii alle speculazioni filosofiche
posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci per-
metterà almeno di raccogliere tutti quei passi di scrittori
latini dell'ultimo periodo repubblicano nei quali si fa espli-
cita menzione di Pitagora, e di esaminare altresì quei
luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a dottrine
e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per
concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di
Samo.
Incominceremo pertanto dal poema di Lucrezio, che
fu, come tutti sanno, il più mirabile tentativo di elabora-
zione poetica in lingua latina di un sistema filosofico greco,
e precisamente del sistema epicureo. Altri felici tentativi
di esporre in versi dottrine di filosofi greci erano bensì
stati fatti da Appio Claudio, da Ennio, da qualche altro,
ma per brevi trattazioni ; sì che Lucrezio — pur conscio
della grandezza del cantore degli Annales — potè ben affer-
mare con legittimo orgoglio di essere il primo a tentare
di esprimere poeticamente, nella lingua del Lazio e del-
li
V Italia romana, non ancora assueta alle sottigliezze, alla
profondità, alla precisione del linguaggio filosofico, le
speculazioni dei Greci.
Il poema Bella Natura infatti non solo espone con
ordine sistematico la complessa dottrina di Epicuro intor-
no all' essere delle cose in generale, all' infinità dell'uni-
verso, ai moti e alle forme atomiche, alla natura, com-
posizione e mortalità dell' anima, alle cause delle sensa-
zioni e delle funzioni fisiologiche, alle origini del mondo
e della vita vegetale e animale, alle cause dei fenomeni
meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè abbiano
più sicuro fondamento i principii della dottrina epicurea,
le opposte e diverse dottrine di altre scuole filosofiche, e
combatte le argomentazioni contrarie e le obiezioni pos-
sibili degli avversari.
Di questa opera dunque, costruttiva in quanto elabora
su fondamenti nuovi, e polemica in quanto combatte e
distrugge principii vecchi o diversi, è ben naturale che
noi dobbiamo tener presente soprattutto la parte polemica,
per vedere se e quanto in essa il poeta — e prima di lui
Epicuro — abbia tenuto conto delle dottrine di Pitagora.
2. — Ora, su due punti essenzialmente il poeta discute
e lotta ad oltranza contro indirizzi di pensiero diversi dal
suo : sulla teoria atomica e sulla teoria dell' anima. E a
proposito della prima combatte e confuta esplicitamente,
nominandoli, Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del filosofo
di Samo invece non fa il nome neppure una volta, né
qui né in altra parte dei poema; ma ciò non toglie che
un attento esame del poema stesso non ci permetta di
scoprire dove e quando, pur senza dirlo, il poeta pensi
a combattere i principii della filosofia pitagorica.
— 72 —
- 73 —
E ben nota, in verità, la disistima che Epicuro ebbe
per la matematica; il che parrebbe che dovesse farci esclu-
dere senza altro qualsiasi considerazione, da parte diluì,
per un sistema che aveva studiato e rappresentato sotto
l'aspetto numerico il mondo, e nel quale le ricerche ma-
tematico-musicali avevano tanta parte. In realtà però pos-
siamo escludere a priori soltanto questo: che Epicuro te-
nesse presenti in qualche modo le dottrine della scuola
italica nella parte fisica del suo sistema. E infatti lo stu-
dio del poema di Lucrezio conferma senz' altro questa
induzione; tanto nella parte teorica che in quella polemica
dei primi due canti, che contengono T esposizione e lo
svolgimento dei principii epicurei intorno al mondo e alla
materia, e la teoria atomica, manca affatto qualsiasi ac-
cenno, anche indiretto e lontano, alle dottrine pitagoriche.
Ma queste, oltre al mondo fisico, governato dal numero
e dall' armonia, abbracciavano anche il metafisico (anima
e dei), e quanto all'anima, pur considerando anche di
questa l'aspetto numerico e musicale, sviluppavano so-
prattutto il concetto della sua eternità : non mai nata,
perchè esistente ab aeterno^ essa vive, perenne e immor-
tale, attraverso un ciclo indefinito di vite terrene (me-
tempsicosi). Sotto questo aspetto pertanto la filosofia di
Pitagora dovette pure essere tenuta in qualche conside-
razione da Epicuro, se scopo fondamentale della sua spe-
culazione fu di combattere i due grandi timori onde nasce
r intelicità umana, cioè il timore della morte e quello
degli dei, e se, per vincere il primo, difese con tutte le
armi della logica il principio 'della materialità e della
mortalità deir anima. Non risalivano forse in gran parte
alla filosofia pitagorica la dottrina platonica e le specu-
lazioni stoiche intorno alla origine divina e alllmmortali-
tà dell' anima ? E la filosofia pitagorica non si uniformava
forse, spiegandole e chiarendole, alle più inveterate su-
perstizioni, alle pili profonde convinzioni, alle più diffuse
credenze religiose degli uomini ?
Se Epicuro avesse avuto solo lo scopo della costruzione
teorica del suo sistema, sarebbe stato sufficiente che, ac-
cettata da Democrito la teoria atomica e fattane V appli-
cazione al mondo fisico, l' estendesse, come fece realmente,
al mondo psichico (per lui V anima constava infatti d' un
aggregato d'atomi sensiferi), per trarne la conseguenza
della mortalità dell' anima o, più precisamente, del ne-
cessario dissolversi dei suoi atomi alla morte del corpo.
Ma, giova ripeterlo, egli volle anche soprattutto combat-
tere il timore della morte, il quale nasce, secondo lui,
dal pensiero — alimentato dalle superstizioni religiose, e
dalle favole dei poeti e dei vati — che, morto il corpo,
l'anima sopravviva. Ora, fra le varie forme di tale cre-
denza una ve n' era — largamente diffusa dalla religione,
dai misteri, da oscure predizioni sibilline, da filosofi e da
poeti — secondo la quale 1' anima non solo continuava
ad esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi
corpi e ritessere più d' una volta la trama della vita ter-
rena : insomma l'antichissima credenza nella metempsi-
cosi. E per di più questa credenza, anche nei termini
strettamente epicurei, poteva in un certo senso (come ve-
dremo) apparire ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità
del tempo e nel perpetuo dissolversi e ricomporsi degli
atomi materiali, era ben lecito ammettere come possibile
il ricostituirsi dell' identico conglomerato atomico che ri-
creasse di nuovo il medesimo corpo e la medesima ani-
ma. Data dunque questa possibilità teorica, si comprende
che Epicuro o i suoi seguaci dovessero esaminarla anche
I
74
al lume della logica interna del loro sistema, per dedurne
le loro conseguenze in rapporto alle due questioni del-
Feternità deiranima e del timore della morte.
Tanto ciò è yero, che Lucrezio svolge appunto in mo-
do ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale discussione
polemica, là dove vuol dimostrare la mortalità dell'anima
e la vanità del temere la morte.
3. Ma prima di esaminare ed analizzare questa parte
del poema che si riallaccia così strettamente con la dot-
trina pitagorica, è necessario premettere che già al prin-
cipio del primo libro, in quel mirabile e tormentato proe-
mio dove il poeta espone le ragioni, l' ordine e la materia
della sua trattazione, è fatto cenno delle varie credenze
e opinioni intorno air anima e dell' importanza capitale
che la soluzione del problema psicologico ha, nel sistema
epicureo, in ordine alla necessità di sradicare dair animo
umano il timore della morte.
E questo cenno, sia in sé stesso, sia per il ricordo che
ad esso si collega del famoso sogno di Ennio, ha pure
importanza per il nostro tema.
Per rassicurare infatti Memmio — al quale il poema è
dedicato — che potrebbe dubitare, accettando la dottrina
epicurea, di commettere atto di scellerata empietà, Lu-
crezio dimostra che anzi la religione fu causa che gli
uomini commettessero delitti nefandi, come il sacrificio
d'Ifigenia in Aulide (vv. 80-101). E poi soggiunge che,
vinto anche il timore degli dei, può tuttavia rimaner
sempre queir altro timore, che è alimentato dalle spaven-
tose favole dei poeti sulla vita d' oltretomba, da sogni e
da apparizioni, e trova la sua ragion d'essere nelP igno-
ranza umana intorno alla vera natura dell' anima (vv. 102-
— 75 —
126). Di qui pertanto la necessità di studiare — insieme
con la natura delle cose celesti, degli dei e della mate-
ria — anche il problema dell' essenza dell' anima e della
natura dei sogni e delle visioni (vv. 127-135).
E precisamente nei versi 112-126 si accenna in par-
ticolare alle varie dottrine intorno all'origine dell'anima e
intorno alla sorte che le tocca quando muore il corpo:
112 Ignoratur enim quae sii natura animai,
nata sit^ an cantra nascentibus insinuetur^
et simul intereat nohiscum morte direm/pta,
115 an tenehras Orci visat vastasque lacunas^
an pecudes alias divinitus insìnuet se^
Ennius ut noster cecinit^ qui primus amoeno
detulit ex Helicone perenni fronde coronam,
per gentis Italas kominum quae darà clueret ;
120 etsi pr aeterea twmen esse Acherusia tempia
Ennius aefernis exponit versihus edens^
quo ncque permanent (1) animae ncque corpora nostra^
sed quaedam simiilacra modis pallcntia miris ;
unde sibi exortam semper fiorentis Homeri
125 commemorai specian laerimas effundere salsas
coepisse et rerum naturam expandere dictis (2).
Quanto all' origine dell' anima, Epicuro sosteneva che
essa era nativa {nata)-^ ma altri invece la credeva entrata
già fatta nel corpo aL momento della nascita (an contra
(1) Mi pare qui perfettamente accettabile la lezione già proposta
dal GoBEL (permanent è cong. pres. da permanare), che è la più
ragionevole correzione del permaneant dato dai codici. Ne so ve-
dere in qual modo tale correzione urti, come dice il Giussani, con-
tro il senso di permanare.
(2) In questi versi, come in quelli che citerò più innanzi, mi
attengo alla lezione e alla grafia data dal Giussani (De rerum na-
tura^ Torino, Loescher, 1896-I898j.
— 76
— 77 —
nascentlbiis insinuetur). Quanto alla sorte che V aspettava
al morire del corpo le opinioni invece erano tre: Tepicu-
rea, che V anima si dissolvesse col dissolversi degli atomi
corporei (siìnnl intereat nohisciim morte dirempta) ; la
popolare, che scendesse all'Orco, o Ade o Averno [te-
nehras Orci visat vastasqne lacunas) ; la pitagorica, che
passasse per virtù divina nel corpo di altri animali (pe-
cudts alias divinitiis insimiet se). Le due ultime però
non erano in contraddizione fra loro ; tanto è vero ap-
punto che Ennio, nel sogno famoso degli Annali, pur
esponendo la teoria pitagorica, ammise altresì l'esistenza
dell'Ade e dei templi Acherontei, ai quali però discen-
deva non già l'anima (questa passava — subito? — in
altri corpi), ma nn' ombra, come a dire un doppio, del-
l'anima stessa, di mirabile pallore: come quella precisa-
mente che egli narrava gli fosse apparsa nel sogno —
doppio dell' anima del divino Omero — che, piangendo a-
mare lagrime, gli svelò l'essere delle cose.
E dunque evidente, per questo accenno alla dottrina
psicologica epicurea in contrapposizione con quella di altri
filosofi ed anche di Pitagora, che nel terzo libro di
Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo — e
lo è infatti esaurientemente — la teoria pitagorica della
metempsicosi (1).
•4. Ma non v' è forse cenno d' un' altra concezione che
fu propria di Pitagora e dei suoi seguaci ; voglio dire
della concezione dell' anima - armonia?
E un fatto che il poeta, nel terzo canto, prima di ac-
cingersi a determinare la natura materiale - atomica del-
l' anima nelle sue due distinzioni di animus ed anima^
confuta una dottrina — certo ancor diffusa ai suoi gior-
ni — che negava 1' esistenza dell' anima, o meglio le ne-
gava una consistenza sua propria, non pure extracorporea,
ma nel corpo stesso, concependola soltanto come una spe-
cie di armonia delle funzioni organiche:
r
98 sensum animi certa non esse in parte locatuni^
rerum habitum quendam vitalem corporis esse^
100 harmoniaìn Orai quam dieunt^ quod faciat nos
vivere cum sensu^ nulla cuìu in parte siet mens :
ut bona saepe valeiudo cum dicitur esse
corporis j et non est tamen haec pars ulta valentis,
sic animi sensum non certa parte reponunt.
Ora chi, prima di Epicuro, aveva svolto cosiffatta dot-
trina, che anche ai tempi di Platone e di Aristotile era
tanto diffusa da far sentire all' uno e air altro (1) la ne-
cessità di confutarla ? Pitagora e i suoi seguaci, e spe-
cialmente, fra questi, Filolao (2), avevano bensì accettato
e svolto il concetto dell' anima-armonia; ma che però tale
concetto non potesse avere pei Pitagorici il senso datogli
(1) La cosa, del resto, è tanto più evidente se si pensi elio Lu-
crezio compose verosimilnìente questa parte del proemio del primo
libro, quando già aveva composto il terxo. Si veda in proposito
la paziente e lucida analisi del Giussani voi. II, pag. 4-5).
(1) Platone, Fedone, e. XXXVI e XLI - XLY; Aristotile, DeU
Vanima, I, 4. Dopo Aristotile la svolsero ancora, accettandola e
difendendola, Aristosseno talentino (Cicerone, Tusculane^ I, 19) e
DicEARCo di Messina (Cicerone, ibidem, I, 20).
(2) La si fa risalire veramente a Parmenide e a Zenone d' Elea
(Dioti. Laerzio IX, 29); ma che debba riconoscersi anche come
propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel suo
Philolaos, (p. 177); tanto è ciò vero che nel dialogo platonico chi
la espone è Simmia, discepolo di Filolao, ed Echecrate pitagoreo
la riconosce per propria dottrina {Fedone, e. XXXVIII).
— 78 —
— 79 —
il
I
\
qui da T ucrezio e neppure quello datogli da Simmia nel
dialogo di Platone, è appena necessario di dire, se esso
si accordava — nel sistema di quella scuola — con l'altro
della metempsicocji, ossia con il concetto della preesistenza
e immortalità dell' anima stessa. L'ironia lucreziana dun-
que dei versi 131-135:
... 7'edde harinoniai
Tìomen^ ad organicos alto delatuin Heliconi
— sive aliunde ipsi porro traxere et in illarn
trastiilerunt^ proprio quae tum res nomine egehat —
quidquid id est habeant. .
— come le argomentazioni di Socrate nel Fedone — era-
no volte non contro la teoria di Pitagora, ma contro
quella interpretazione e limitazione materialistica di essa,
per cui r anima era ridotta a semplice fiuizione del corpo.
Ed è ben naturale che - così limitata e interpretata — la
combattessero, insieme con gl'idealisti platonici, anche i
materialisti epicurei : poiché per gli uni rappresentava la
negazione della essenza individuale e quindi della immor-
talità dello spirito, e per gli altri, significava l' inesisten-
za di quella quarta sostanza atomica (la sostanza senso-
riale) onde essi concepivano costituita (insieme con le altre
tre sostanze elementari aria, freddo e caldo) 1' anima u-
mana (1). Si comprende quindi che Lucrezio, prima di
(1) Per Epicuro V anima è beusì nativa e mortale, ma è però,
fin che vive il corpo, sostanziata di materia atomica ed è parte
dell' essere umano — ne più nò meno di quel che ne siano parte
le mani, i piedi, gli occhi, ecc. (Lucr. Ili, 94-97) — e localizzata
nel petto, di dove si diffonde per tutto il corpo, è adibita alla re-
cezione dei moti e delle immagini sensoriali e alle funzioni intel-
lettuali : sì che ammettendo la teoria delTanima-armonia veniva a
cadere tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle iin-
accingersi alla esposizione della teoria psicologica, confu-
tasse questa dottrina, che non solo negava all' anima una
sua localizzazione nel corpo, ma veniva in ultima analisi
a negarne V esistenza (1).
5. Dimostrata la materialità dell'animo (vv. 94-416), Lu-
crezio passa a dar le prove — ventotto in tutto — della
sua mortalità. Ora vi è un gruppo di queste che combat-
tono il concetto della immortalità sotto V aspetto non già
del persistere dell' anima dopo la morte, ma del suo pree-
sistere alla nascita del corpo e della possibile pluralità
delle sue esistenze terrene (vv. 668-710, 711-738, 739-766,
774-781).
Qui siamo evidentemente nel campo della metempsicosi,
e occorrerà quindi esaminare quest' altro centinaio di versi.
Veramente non soltanto i Pitagorici — con la dottrina
della metempsicosi — ammisero, fra gli antichi, un' esi-
stenza pre-terrena dell' anima, ma anche Platone e gli
Stoici; e inoltre, come ho già osservato piìi volte, tale
dottrina non fu che la elaborazione filosofica d' una cre-
denza largamente difi'asa nelle leggende popolari, nella
poesia, neir arte, e rafforzata se non derivata, dagli in-
magini, dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni (anche queste
vere immagini materiali^ che V anima riceve dal di fuori, ma non
produce essa stessa.
(1) Cicerone infatti, parlando di Aristosseno e di Dicearco, dice
appunto che essi con la loro teoria venivano a dimostrare « nikil
esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum ùiane^ frustraque
ammalia et animantes appellati, neque in homine inesse animum
vel animam nec in bestia » {Tuse,, I, 21), e più esplicitamente
più sotto (31): « Dicearchus quidem et Aristoxenus. .., nullum
omnino animum esse dixerunt ».
\
_ 80 —
segnamentì religiosi che s' impartivano nei Misteri. Sì che
gii argomenti di Lucrezio — possiamo affermarlo con si-
curezza — non sono escìimvamente contro i Pitagorici.
Ma poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e fra
il popolo tale credenza, e se pure la derivò, come vo-
gliono, dall'Egitto, fu veramente il primo che le diede
veste filosofica, e su di essa fondò il suo sistema dottri-
nario, dal quale mossero, dopo di lui, e Platone e gli
altri, così dobbiamo pur esaminare le ragioni del poeta
epicureo, che venivano, in sostanza, a battere in breccia
ed a scalzare uno dei capisaldi della filosofia pitagorica.
Gli argomenti che Lucrezio adduce contro V opinione
della preesistenza dell'anima sono quattro, svolti in quattro
successivi e continui gruppi di versi, e rincalzati poi —
dopo conchiusa questa parte fondamentale della sua trat-
tazione — nella meravigliosa invettiva contro il timore
della morte.
a) Il primo argomento (vv. 668-676) è desunto dalla
mancanza in noi di ogni ricordo dell' esistenza anteriore
alla nascita (1): se la nostra anima è esistita un'altra volta
e quindi ò entrata nel corpo al momento della nascita (2),
perchè non siamo assolutamente in grado di ricordarci
del tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri-
fi) C è bisogno di rammentare clie appunto dalla rorJtà di tale
ricordanza -- rappresentata non già dalla reminiscenza di parti-
colari di una anteriore vita terrena, ma dalla inoppugnabile e in-
controvertibile esistenza delle idee innate nella mente di ciascun
uomo — Piatone deduceva la necessità d'un 'anteriore esistenza
dell'anima e quindi della sua immortalità? ^^Vedansi nel Fedone
i capitoli 18-22).
2) È, come si vede, io svolgimento di quel che ha accennato
nel verso 113 del proemio al primo cauto.
— 81
membranza delle nostre azioni passate? Dunque l'anima
ha mutato così da potere perdere interamente la facoltà
di ricordare le proprie vicende ? Se così è, questo non
differisce molto dalla morte ; bisogna quindi concludere
che r anima di prima è morta e che quella che abbiamo
in questa vita è stata creata proprio in questa vita (1).
Ora si noti che il poeta non trae, dalla mancanza della
memoria del passato, la conclusione che sembrerebbe le-
gittima : « dunque 1' anima non è preesistita » ; ma dice
soltanto che — dato pure che potesse essere material-
mente esistita — il fatto di non serbar coscienza del
passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità
(personalità infatti non è altro che persistere di una me-
desima coscienza), cioè che è morta da quella che era, per
diventare un'altra.
670
675
Praeterea si immortalis natura animai
constai et in corpus naseentihus insinuaiur,
cur super ante actam aetateni meminisse nequimus
nec vestigia (jestarum rerum ulta tenemus ?
nani si tanto operest animi mutata potestas,
omnis ut actarum exciderit retinentia rerum,
non, ut opinor, id a leto iam longiter errat;
quapropter fateare necessest quae fuii ante
interasse j et quae nune est nunc esse creatam.
Insomma in questi versi non si nega la possibilità che
siano preesistiti, e quindi che esistano in eterno i com-
ponenti materiali dell' anima, ma bensì si nega il persi-
fi) Su questo argomento della mancanza di ogni ricordo, come
vedremo fra poco, Lucrezio ritorna ancora, prima con un semplice
cenno (al v. 766) e poi più innanzi (vv. 845 e seguenti) accennan-
do alla possibilità della rinascita dell'anima e del corpo.
Q
: »
— 82 —
stere in eterno delJa coscienza, che, per Epicuro, deriva
dai moti atomici dei quattro componenti dell'anima.
D'altra parte, continua il poeta, se 1' energia vitale del-
Tanima entra in noi quando, formato il corpo, usciamo
alla luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa —
che si vede che è cresciuta col corpo e con le membra
immedesimandosi nel sangue, — ma dovrebbe, non fusa
col corpo, vivere a se come in una prigione. Ora, poiché
avviene proprio il contrario -- e cioè l'anima è diffusa
per tutto il corpo, sì che ogni parte di esso sente, e cre-
sce e si sviluppa col corpo stesso — segno è che non è
en tralci in esso perfetta, e che, i)artecipando delle vicende
del corpo, nasce (e quindi anche muore) con esso. E am-
messo pure che, perfetta e in se raccolta air atto di en-
trare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogui sua parte
appena entrata, questo equivari'ebbe a uno scomporsi e
dissolversi per cambiar natura: insomma equivarrebbe a
un morire per rinascere tosto altra da quella di prima
(vv. 677-7] 0).
b) Un altro argomento pare al poeta di poter trarre
dal fatto del formarsi dei vermi onde pullula il cadavere
in putrefazione. Se Tanima che li avviva non è costitui-
ta, come pensava Epicuro, da residui frammentari dell'ani-
ma primitiva, (il che dimostra che fan ima stessa, potendo
frazionarsi, è peritura e mortale) bisognerebbe ammette-
re — ed eccoci ancora alla metempsicosi — che nei vermi
si incarnino animo preesistenti; nel (jual caso, lasciando
pure a parte la stranezza che mille subentrino là di dove
una è partita, o esse stesse si formano il pi'oprio corpo
dalla materia putrescente, o lo trovano già fatto e vi en-
trano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè,
piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontanea-
— 83 —
mente a rinchiudersi in un carcere corporeo, dove neces-
sariamente dovranno soffrire; nella seconda varrebbe il
ragionamento fatto precedentemente che un' anima non
può entrare, intrecciarsi ed espandersi in un corpo già
formato senza snaturarsi (vv. 711-738).
720 quod si forte anintas extrinseeus insinuari
verìnihus et privas in corpora posse venire
credis, nec reputas cur nhilia multa animarum
conveìiiant unde una recesserii, hoc tamen est ut
quaerenduìn vldeaiur et in discrinien agendu7n,
725 utru7ìi tandem animae venentur semina quaeque
vermiculoriim ipsaeque stbi fabricentur uhi sint,
an quasi corporibus perfectis insinuentur.
at neque cur faciant ipsae quareve laborent
dicere suppeditat, ncque enim, sine corpore cum sunt,
730 sollicitae iwlitani morbis alguque fameque :
corpus tnim magis his vitiis adfine laborat,
et mala multa animtts contage fungitur eius.
sed tamen his esto quamvis facere utile corpus
■ cui subeant: at qua possint via nulla videtur,
735 haut igitur faciunt animae sibi corpora et artus,
nec tamen est utqui perfectis insinuentur
corporibus: ncque enim poterunt suptiliter esse
conexae, ìieque consensus contagia flent.
c) In terzo luogo, se veramente ci fosse la metem-
psicosi, perchè non dovrebbe, nelle sue peregilnazioni,
un'anima di leone, per esempio, capitare in un cervo o
quella d'un avoltoio in una colomba, e viceversa, per
modo che ne nascessero leoni e avoltoi timidi, cervi e
colombe feroci ? Invece i caratteri' psichici delle singole
specie si ereditano e sono costanti in esse al pari dei
caratteri tisici. Se l'anima immortale mutasse solo i corpi,
questa costanza non vi sarebbe o, almeno, soffrirebbe
molte eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima che, mu-
84 —
— 85 —
tando corpo, muta carattere, allora vuol dire che essa non
rimane la stessa, che cambia natura, insomma che muore
per rinascere un'altra (vv. 739-751):
Denique cur acris violentia triste leonuni
740 seminium sequiiur, volpes dolus, et fuga cervis
a patribus da tur et patribus pavor incitat artuSy
et iam cetera de genere hoc, cur omnia membris
ex ineunte aevo generascunt ingenioqiiey
si non, certa suo quia semine seminioque
745 vis animi par'iter crescit cum corpore tato ?
qiiod si immortalis foret et ìnutare solerci
cof'pora, pennixtis anivtantes moribus essent,
effugeret canis Hgrcano de semitie saepe
cornigeri incursum cervi, tremeretque per auras
750 a'éris accipiter fugicns veniente coluuiba,
desiperentque homines, saper ent fera saecla ferarum.
illud enim falsa fertur ratione, quod aiìint
immortale?n anìmam mutato corpore flecti :
quod ìnutatur enim dissolvitur, interit ergo.
Se poi si volesse invece sostenere la metempsicosi solo
entro i limiti di ciascuna specie, e dire che un' anima
umana non s'incarna successivamente in altro che in uomi-
ni (1), allora si potrebbe sempre chiedere: perchè può, di
(1) Così, a mio avviso, svolse il concetto delle trasmigrazioni
deir anima la scuoia pitagorica: limitandolo cioè entro i contini
della specie umana. Che se quasi tutte le testimonianze attribui-
scono ai seguaci di Pitagora 1' interpretazione più lata a cui Lu-
crezio accenna nei versi or ora citati, tali testimonianze si può
dimostrare che o sono esagerate per amor di polemica o di satira,
sono errate per confusione delia metempsicosi pitagorica con
quella egiziana od orientale in genere, o, in qualche caso, possono
spiegarsi dando un signitivato simbolico uì passaggio dell'ani-
ma nel corpo di un animale. In tale categoria rientra, per me, la
testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato degli Annali, fa-
saggia che era, diventare sciocca, dal momento che non
s' è mai visto un fanciullo assennato né un piccolo pu-
ledro esperto come un robusto cavallo ? Forse che la men-
te in un corpo tenero, si fa tenera anch' essa ? Allora
dunque non è immortale se, trasmutando corpo, perde in
tal modo la vita e il sentimento di prima (vv. 758-766):
760
762
765
Sin animas hominum dicent in corpora semper
ire humana, taìnen quaeram cur e sapienti
stulta qiteat fieri, nec prudeus sii puer ullus,
nec taiìi doctus equae pullus quam fortis equi vis ?
scilicet, in tenero tenerascere corpore mentem
confugient, quod si iam fit, falcare necessest
mortalem esse animam, quoniarn mutata per artus
tanto opere amittit vitarn sensumque priorem.
d) Infine — e siamo così aUa chiusa, di sapore
umoristico, di questa serie di argomentazioni contro la
preesistenza e la metempsicosi — non è cosa oltremodo
ridicola, dice il poeta, che ad ogni accoppiamento e ad
ogni parto di animali stiano lì pronte delle anime, e, in
numero innumerevole, immortali aspettino membra mor-
tali, e lottino e gareggino a chi prima e di preferenza
riesca a penetrare ? Se pure non e' è fra le anime il patto
che chi prima arriva a volo entri per prima e così non
ci sia fra loro nessuna lotta violenta (vv. 774-781) :
775
Denique conubia ad Veneris partusque ferarum
esse animas praesto deridiculum esse videtur,
expectare immortalis mortalia membra
innumero numero, certareque praeproperanter
cendo esporre dall' anima di Omero la dottrina di Pitagora, le fa
anche dire d'essere divenuta un pavone (< pavone » qui significa
« cielo »). Perciò credo prettamente pitagorica, e non stoica, la
dottrina della metempsicosi che svolge Virgilio nel sesto dell'Eneide.
il
1
780
86
Inter se quae prima potissimaque insinuetur ;
si non forte ita sunt ani mar um foedera pacta^
ut, quae prima volans advenerit, insinuetur
prima, neque inter se contendant virihus hilum.
6. Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle cre-
denze e dottrine pitagoriche: ma poiché subito dopo, in
quella parte di questo stesso terzo canto in cui si dimo-
stra la vanità del timore della morte, è formulata V ipo-
tesi della resurrezione delia medesima anima nel mede-
simo corpo, e tale ipotesi è stata da qualcuno identificata
con 1' analoga dottrina pitagorico-stoica della palingenesi,
dobbiamo esaminare anche questo passo.
Continuata e compiuta dunque la dimostrazione della
mortalità dell'anima, il poeta ne trae subito la legittima
conseguenza che la morte non ci riguarda per nulla (v. 828-
829). Come non abbiamo sentito niente di ciò che è acca-
duto prima della nostra nascita ([>erchò V anima nostra
non esisteva), cosi non sentiremo nulla dopo morti, per-
chè una volta avvenuto il distacco fra corpo ed anima
(e la conseguente dissoluzione di questa) noi, che esistia-
mo solo per r intima unione di entrambi, non esisteremo
e quindi non sentiremo più (vv. 830-840). E giunto a
questo punto conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi,
come infatti, sembra, si fermò in una prinia redazione
del poema, nella quale seguivano a questa dimostrazione
i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piì^i tardi,
tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui ò formulata la
suddetta ipotesi, che dobbiamo appunto esaminare (1).
(1) Accetto senz' altro le conclusioni del Giussani, sì por 1' in-
terpretazione dei vv. 860-867, sì per la composizione di tutto que-
sto interessante brano. Rimando perciò il lettore all'opera già ci-
tata, voi. Ili, pp. 106-107.
j
..?
- 87 -
•
Poiché in essa è detto anzitutto che se pure, dopo
avvenuta la separazione, l'anima avesse facoltà di sentire,
anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi,
che siamo solo in quanto anima e corpo sono stretti in
un'esistenza unica (vv. 841-844).
La quale ipotesi peraltro (che V anima senta staccata
dal corpo) s'intende bene da tutto quel che il poeta ha
detto precedentemente, che non era assolutamente ammis-
sibile (1), perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste,
consistendo la morte, per lui, nel rompersi del legame
tra corpo ed anima e nell'immediato dissiparsi degli ato-
mi di questa, appena rimasta priva del suo coibente.
Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di più
poteva apparire ad alcuno n(m del tutto in contrasto —
come la precedente — con la dottrina epicurea; l'ipotesi
cioè di un possibile ricrearsi materialmente identico del
nostro essere, anima e corpo. Anche in questo caso però
la morte non ci riguarderebbe affatto per l' interruzione
della coscienza personale fra le due esistenze. ¥j tale ipo-
tesi appunto il poeta svolge nei versi 845 e seguenti, in
questo modo :
(l) Il Giussani ha creduto invece di poter sostenere che l'ipotesi,
per quanto strana, non è però in contraddiziono assoluta ~ in a-
stratto — con la teoria epicurea. Ora a me le sue ragioni non
sembrano buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio abbia
formulata un' ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina
d' Epicuro : come poteva infatti pensare che una qualsiasi persi-
stenza del sentire dell' anima fosse possibile, dopo il distacco dal
corpo, se per lui l'anima non poteva assolutamente esistere fuori
del corpo che la tiene unita ? Perchè dunque Lucrezio ha formulata
l'inverosimile ipotesi ? Forse unicamente come ipotesi di transizio-
ne alla successiva; se pure non si tratta qui di un'argomentazione
per absurdum.
i-:
— 88 —
«
845 Nec, si materiem nostrani colle gerii aetas
post obitum rursumque redegerit ut sita nane est,
atque iterum nohis fuerint data lumina vitae,
pertineat quicquarr? famen ad nos id quoque facttirn,
interrtipta' semel cunt sit repetentia ìiostri ;
850 et nunc nil ad nos de nohis attinet, ante
qui fuDNu^, ìieque iam de illis nos adficit angor,
nam cum r espia ias immensi temporis oìune
praeteritum spatium, tum motìts matcriai
mnltiìnodis quam sintj facile hoc adcredere possis,
855 semina saepe in eodem, ut nunc sunty ordine posta
haec eadem, quihus e nunc nos sumus, ante fuisse :
nec yneniori tamen id quimus reprehendere niente :
inter enim iectast vitai pausa, vageque
deerrarunt passim motus ab sensibus omnes.
Ora a prima vista questa ipotesi potrebbe apparire
identica a quella già formulata nei versi 668-676, dove
si fa pui cenno della interruzione della coscienza. Tanto
che si è voluto da alcuno vedere in questi versi un'allu-
sione alla dottrina dei Genetliaci, i quali credevano che
nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la mede-
sima anima rivivessero insieme (1) e ciò dipendentemente
dalla dottrina della palingenesi universale che era propria
dei Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità qui non si
tratta punto di questo, poiché mentre in quei versi si
parla del rinascere della medesima anima in nuovi corpi,
e nella dottrina dei Genetliaci si parla del ricongiungersi
dell'identica anima e dell'identico corpo (nel!' un caso e
neir altro però 1' anima non ha mai perduto la sua perso-
nalità), qui invece si considera il caso di una duplice
— 89 —
creazione ex novo per accozzamento degli stessi atomi,
cioè si considera la possibilità della rinascita d' un iden-
tico aggregato atomico corporeo-psichico nel rispetto della
teoria epicurea. Che poi ciò fosse legittimo e logico è
un'altra quistione (1); ma sta di fatto che Lucrezio for-
mula r ipotesi secondo la logica del sistema di Epicuro.
7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo ve-
duto che il nostro poeta accenna a quattro diverse opi-
nioni intorno all'anima: 1^) che essa non esiste a sé, ma
risulta dall' armonia delle funzioni organiche (teoria di
Aristosseno e Dicearco); 2^) che essa nasce e si distrug-
ge col corpo, ma ha una propria ubicazione neir organi-
smo umano (nel petto) e risulta di quattro elementi (moto,
caldo, freddo, sostanza atomica sensoriale) (teoria epicu-
rea); 3^) che essa sopravvive al corpo e scende nell'Ade,
donde può uscire per apparire agli uomini (credenza
popolare); 4*) che essa, non solo sopravvive al corpo, ma
è preesistita ad esso e può incarnarsi più volte. E abbia-
mo veduto come quest'ultima dottrina, della quale abbia-
mo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata in
modi diversi: a) l'anima immortale passa attraverso mol-
teplici esistenze, cambiando specie animale (teoria egiziana);
b) l'anima immortale passa attraverso molteplici esistenze,
ma entro i limiti della propria specie e conservando la
propria identità personale (teoria pitagorica-platonica-stoica);
e) l'anima può bensì rinascere, magari neiridentico corpo.
(1) Il primo a pensar questo è stato l'editore inglese di Lucre-
zio, il Munro, il quale cita il passo di S. Agostino {De civ. Dei
XXII, 28) che ho già riportato al principio del Gap. III.
(1) L'ha posta con molta sottigliezza il Giijssani (op. cit. pa-
gina 105-106). Ma si veda anche quello che osserva in proposito il
Pascal nel suo scritto « Morte e resurrezione in Lucrezio » pub-
blicata nella Riv. di Filologia classica dell'ottobre 1904 e ristam-
pato nel volume Or accia capta, pag. 67 e seguenti.
IH
— 90 —
senza però conservare la propria identità personale (ipo-
tesi (1) epicurea-lucreziana).
La teoria b poi alla sua volta fu diversamente svilup^
pata, poiché vi era chi sosteneva che l'anima potesse
bensì reincarnarsi, ma in corpi sempre nuovi; chi invece
che si reincarnasse nei medesimo corpo, e ciò in atti-
nenza a una- dottrina più generale, anzi universale, se-
condo la quale non pur T anima e il corpo umano anda-
vano soggetti a periodici ritorni aihi vita, ma tutto Tuni-
verso si distruggeva e si ricreava perfettamente identico
(pitagorici, stoici e genetliaci).
Con questa teoria però non veniva distrutta la credenza
nell'Ade o Averne come luogo di espiazione, poiché, se
anche ranima riviveva, scendeva all' Ade un suo doppio
(eidolon, simulacnwi) che poteva anche riuscirne (e ve-
rosimilmente si distruggeva neiratto che Fauima tornava
a nuova vita terrena) (Ennio).
Quanto alla teoria pitagorica in particolare, abbiamo
veduto che Lucrezio ne parla, in sostanza, in due luoghi:
1") nel proemio del i>rimo libro (vv. 112-126) ; 2'') nella
conuuazione deiripotesi delhi preesistenza dell'anima nel
terzo libro (vv. 668-676, 720-738, 739-757, 758-766, 774-
781); e che non debbono ritenersi affatto come riferi-
menti a Pitagora né il cenno alla dottrina dell' anima-
armunia (e. ili, v\. lKvL35j nò l'ipotesi della rinascita,
come ò formulata nei vv. 845-859 dello stesso libro.
(1) Ipotesi la credo, e non vera teoria di Epicuro; che, in so-
stanza, Luciezio la formula come tale, per potere opporrr 1' argo-
mento per ini capitale della interruzione della coscienza anche a
coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina, avessero
potuto pensare ad una eventuale rinascita deli' anima col medesi-
mo corpo.
l
(Wt
Mi
I *
i
II.
Frammenti deìhi dottrina di Pita2;ora desnnti dalle opere
di Marco Terenzio Varroue.
1. M. Terenzio Yarrone : suoi scritti pitagorici e sua conoscenza
del Pitagorismo. - 2. Frammenti della dottrina di Pitagora <ie-
sunti dalle opere di Varrone: a) La teoria dei numeri e sue ap-
plicazioni, b) Pitagora e i due fabbri, e) La teoria degli accordi
musicali, d) La stessa applicata al corso dei pianeti: l'armonia
delle sfere e del mondo, e) Sua curiosa estensione al decorso del
puerperio, f) l numeri e la musica in relazione con le pratiche
della vita. — 3. Altri accenni alla dottrina pitagorica: i quattro
aspetti delle cose e i quattro elementi ; magia ; metempsicosi; il
divieto di mangiar fave. — 4. Varrone e gli altri scrittori del
primo secolo av. Cristo.
1. _ Veri e propri trattati d' indole pitagorica sappia-
mo con certezza che compose Marco Terenzio Varro-
ne di Rieti, il quale, nato nel 116 av. Cr. , morì quasi
nonagenario nel 27. Eruditissimo in ogni campo del sa-
pere, fu, appunto per questo, incaricato da Giulio Cesare
di mettere insieme ed ordinare in Roma una grande bi-
blioteca, specialmente di opere latine e greche; ciò che
gli diede agio di allargare e approfondire ancor più le
sue conoscenze enciclopediche, delle quali si valse per
; - 92 -
comporre iunumerevoli opere, trattando dei più svariati
argomenti, occupandosi d'o^rni genere di ricerche, racco-
gliendo con cura particolare tutte le tradizioni sacre e
profane della patria, e dettando pure, a quel che ci ha
lasciato scritto Quintiliano, un'opera filosofica in versi
( praecepta sapientiae versibus tradidit) (1). Della sua
prodigiosa attività e di una ricchissima messe di opere
letterarie, storiche, filosofiche, scientifiche — si ricordano
di lui non meno di 74 opere in 620 libri — non ci re-
stano purtroppo che scarsi avanzi (poco più di nove li-
bri ) e numerose citazioni, massime dei Santi Padri, che
da Varrone attinsero largamente notizie d' ogni sorta. Sì
che siamo quasi air oscuro sul contenuto della maggior
parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci resta appena
appena il titolo. Così dei suoi famosi Logistorici, che era-
no in 76 libri, e contenevano discussioni di argomento
filosofico con miscela di notizie storiche, conosciamo i ti-
toli di alcuni, nei quali si doveva trattare più o meno
largamente di filosofia pitagorica : tali sono V Attico o dei
mimeri (Attieus sive de ìiumeris) il Tuberone o dell' ori-
gine umana (Tubero seu de origlile humana) il Gallo o
delle meraviglie (G alias de admirandis), il libro de sae-
mlis e r altro de philosophia; ma quale ne fosse preci-
samente il contenuto non sappiamo. Così, d' altra parte,
ci è rimasta notizia d' un' opera in nove libri intorno ai
principii dei numeri [de principiis numerorum), la quale,
messa accanto alf Attico già citato e alla testimonianza
(1) Intorno a Varrone si veda l'opera di Gaston Boissief, Elude
sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri Antiquitatum.
rerum, divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti Io studio
dall' Agahd nei Jahrbucher f. class, Philologie, 24ter Supplement-
band I Heft, Leipzig, 1898.
— 93 —
di Gelilo (Notti Attiche 3,10), che riferisce come Varrone
trattò in maniera oltremodo compiuta del numero sette-
nario ( Varrò de numero septenario scripsit adìuodum
eonquisite)^ prova che il grande reatino dovette conoscere
profondamente la teoria pitagorica e specialmente la dot-
trina fondamentale dei numeri (1).
2. — È veramente un peccato che di tali opere non
resti quasi nulla, giacche da esse avremmo forse potuto
trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina,
che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica
di Pitagora. Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto,
vale a dimostrarci che larghe e geniali applicazioni potè
avere per opera del Maestro e dei suoi seguaci la teoria
stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili scoperte
nel campo delle scienze sperimentali.
a) Poiché le investigazioni matematiche dei Pitago-
rici non furono soltanto rivolte alla ricerca delle proprie-
tà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell' aritmetica
e della geometria, trovarono le più nuove e più larghe
applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni na-
turali.
Una delle prime e forse la piìi importante scoperta di
Pitagora fu dovuta a una di quelle felici intuizioni che,
in ogni tempo, sono state il privilegio del genio; intendo
parlare della determinazione matematica degli accordi, che
poi dalla musica, applicata a particolari fatti della natura.
(1) Già il Rathoeber {Orossgriechenland und Pythagoras, Gotha
1855, p. 423) scrisse : « Dem M. Terentius Varrò aus Reato, der
aufgeìdàrt ilber Pythagoras war, bot sein Werk hebdomades Gele-
genheit zur Erwahnung dar ».
— 94 —
— 95
portò a molte curiose osservazioni come quelle che ri-
guardano le due diverse specie di parto (a termine e
settimino), e, applicata all' astronomia, portò alla teorica
deir armonia delle sfere e alla concezione dell' universo
come di un tutto perfettamente armonico (kósrnos).
h) Fu un caso che fece volgere la mente speculativa
di Pitagora alla ricerca della teoria matematica degli ac-
cordi musicali, la cui determinazione, prima di lui, era
affidata semplicemente all'orecchio degl'intenditori. Pas-
sando un giorno per istrada accanto a due fabbri che
martellavano alternatamente un ferro sopra l'incudine,
egli fu colpito dai suoni cadenzati e armonici dei mar-
telli : quelli acuti dell' uno rispondevano così giustamente
a quelli gravi dell' altro, che, entrando ritmicamente nel
suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo accordo.
Ebbe così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno
al quale già da qualche tempo lavorava col pensiero, e
non si lasciò sfuggire 1' occasione per chiarirlo. Avvici-
natosi ai fabbri, osserva più da presso il loro lavoro e
nota i suoni che erano prodotti dai colpi di ciascuno.
Credendo che la loro diversità di tono dipendesse dalla
diversa forza degli operai, fa che essi si scambino i mar-
telli : e si accorge che invece essa dipende da questi.
Allora volse tutta la sua attenzione a determinare con
esattezza i due pesi e la loro diflerenza, poi fece fare alti-i
martelli più o meno pesanti di quei due; ma dai loro colpi
nascevano suoni diversi da quei primi e per di più non
intonati.
e) In tal modo capì che l'accordo dei suoni doveva
nascere da un determinato rapporto matematico dei pesi,
che cercò subito di calcolare; trovati che ebbe tutti i nu-
meri che corrispondevano ai pesi dai quali nascevano suo-
ni intonati, passò dai martelli alle corde musicali : prese
alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale gros-
sezza e lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi
proporzionati a quelli di cui aveva fatto il computo e de-
terminato il rapporto coi martelli ; fattele risuonare per
mezzo della percussione, non solo trovò che le corde tese
da pesi uguali vibravano all'unisono al vibrare di una sola
di esse, ma ottenne altresì suoni armonici precisamente
dalle corde i cui pesi stavano in rapporto di 3 : 4 ( oca
T£aaàpo)v o ènl xplzov o saper tertium), di 2 : 3 (otà TiévTs)
e di 2 : 4 (Sia Tiaawv). Per averne poi un'altra riprova,
ripetè r esperienza con alcuni flauti, in questo modo: ne
fece preparare quattro di calibro uguale, ma di binghezza
diversa, il primo, poniamo, lungo 6 pollici, il secondo 8
il terzo 9 e il quarto 12 ; poi facendoli sonare a due a
due trovò che il primo e il secondo armonizzavano in
accordo diatessdron (6:8 = 3:4); il primo e il terzo in
accordo diapènte (6:9 = 2:3) e il primo e il quarto in
accordo diapason ( 6 : 12 zzz. 2:4) (1). In tal modo egli
riuscì molto genialmente alla determinazione matematica
degli accordi, ciò che permise in seguito di estendere e
perfezionare la teoria della musica. E il caso che lo con-
dusse alla scoperta non è molto dissimile da quello per
il quale il Galilei^ dall'osservazione dei movuiienti d'una
lampada in chiesa, fu tratto a investigare e scoprire le
leggi della oscillazione del pendolo^ o da quello in virtù
del quale Newton, per la caduta di un pomo, arrivò a
scoprire le leggi della gravitazione universale. Tanto è
(Ij Vedasi la narrazione, desunta da scritti varroniani, in Ma-
gro big, Oonnn. ad Som/fi ium Scìpionis, II, 1, 9 e Censorino, de
die natali 10,7.
lai** .
— 96
vero che il genio in ogni tempo e in ogni luogo sa trarre
partito dalle cose e dai fatti più semplici !
il) E una volta messosi su questa via, che mirabile
serie di investigazioni non seppe escogitare quella pro-
fonda mente speculativa, che, dall'osservazione di due
fabbri all'incudine arrivò non pure alle leggi dell'armonia
musicale, ma a scoprire 1' armonia dei cieli e di tutto
r universo ! Poiché applicando i suoi calcoli al corso e
alle distanze degli astri e dei pianeti vaganti fra il cielo
e la terra — dai quali, secondo lui, era regolato il corso
della vita e degli eventi umani — trovò che essi avevano
un moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai toni, e
suoni, proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accor-
do, da formare una dolcissima armonia, non però perce-
pibile da orecchio umano, per la sua forza che supera la
facoltà del nostro udito.
Calcolate infatti le distanze dalla Terra a ciascun pia-
neta in stadi italici di 625 piedi, trovò che dalla Terra
alla Luna ci sono circa 126000 stadi ; e questo rappre-
sentava per lui r intervallo di un tono; dalla Luna a Mer-
curio (Stilbon) calcolò una distanza uguale alla metà, ossia
un semitono; di qui a Venere, altrettanto; da Venere fino
al Sole, tre volte tanto, come a dire un tono e mezzo. Il
Sole quindi distava, secondo lui, dalla Terra tre toni e
mezzo, formando così con essa un accordo diapente e
dalla Luna due toni e mezzo, formando un accordo diates-
sdroìi. Dal Sole poi a Marte (Pyrois) stimava esserci e-
guale distanza che dalla Terra alla Luna, ossia un tono;
di qui a Giove (Phaéton), la metà, ossia un semitono; da
Giove a Saturno, altrettanto, cioè ancora un semitojio; di
qui finalmente al cielo delle stelle fisse, press' a poco un
mezzo tono ; e però da questo cielo al Sole poneva un
FIRMAMENTO
Orbita di
Orbita di
Orbita di
Orbita del
Orbita di
Orbita di
o
o
o
co
O
O
O
CO
«o
©
o
®
o
§
©
o
o
o
co
o
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— 98 —
intervallo diatessdron (di due toni e mezzo), e dallo stesso
cielo alla Terra un intervallo in accordo diapason (di sei
toni) (1).
e) Per queste osservazioni e scoperte è ben naturale
che Pitagora dovesse convincersi che nell' universo tutto
è regolato dal numero, ossia che nulla vi è di casuale, di
fortuito, di tumultuario, ma tutto procede da leggi divine
e da una determinata e determinabile proporzione (2). Sic-
ché dalla niusica e dair astronomia passando, per esempio,
alla fisiologia, trovava nel decorso del puerperio ancora
una riprova della regolarità matematica dei fenomeni na-
turali. Orbene, la curiosa applicazione che Pitagora fece
della dottrina dei numeri al piìi complesso e meraviglioso
dei processi fisiologici, cioè alla generazione, era appunto
spiegata in una delle opere varroniane su ricordate [Tu-
bero seti de origine humana),
Quell' acuto e profondo osservatore infatti avendo stu-
diato accuratamente il decorso delle due diverse specie di
parto, 1^mo di sette (settimino) e l'altro di dieci mesi
lunari (a termine) che avvengono rispettivamente 210 e
274 giorni dopo la concezione, e avendo determinato i
numeri corrispondenti ai giorni nei quali, per ognuno dei
due parti, si compiono i mutamenti piìi importanti — del
seme in sangue, del sangue in carne, della carne in for-
ma umana — trovò che il parto settimino è in rapporto
col numero 6 e quello a termine col numero 7; non solo,
ma che i numeri suddetti, tanto neir uno quanto nell'al-
tro, si trovano nello stesso rapporto degli accordi musi-
cali. Ed ecco in qua! modo.
(1) Censorino, de die natali^ cap. 13.
(2ì MICROBIO, Comm, in Somnium Sctp, II, 11, 7 e 4, 14.
'*4 ^«i
Nel parto di sette mesi, per i primi sei giorni dopo la
fecondazione, V umore che è contenuto nell' utero è di
aspetto lattiginoso ; nei successivi otto giorni è di aspetto
sanguigno. Il rapporto fra 6 e 8 è, come abbiamo veduto
più volte, quello precisamente che forma accordo diatessd-
ron (6 : 8 r- 3 : 4). Nel terzo stadio si hanno 9 giorni,
in cui comincia la trasformazione dell' umore sanguigno
in carne : e il 9 col 6 forma il secondo accordo diapènte
(6:9 = 2:3); finalmente nei 12 giorni seguenti si ot-
tiene il corpo gicà formato : e il rapporto di 12 con 6
forma il terzo accordo diapason (6 : 12 c= 1 : 2). Questi
quattro numeri 6, 8, 9, 12 sommati insieme formano 35
giorni, i quali moltiplicati per 6 danno appunto il nu-
mero totale dei giorni di durata della gestazione, ossia
210. Nel parto a termine invece, con analogo ragiona-
mento, il calcolo era basato sui numeri 7, 9 1/3, 10 1/2,
14, che sommati insieme danno 40 e una frazione; 40
moltiplicato per 7 dà 280, da cui detraendo 6 si ha 274.
Vale a dire che nel parto di dieci mesi il mutamento
del seme in umore latteo avviene in sette giorni anziché
in sei, e la formazione del corpo è già avvenuta <lopo
40 giorni interi, che moltiplicati per 7 danno 280, cioè
quaranta settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo
giorno dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei
giorni, onde ne restano 274. Tanto il 210 che il 274 so-
no veramente due numeri pari, laddove Pitagora dava
speciale importanza al numero dispari, tanto da ritenere —
in virtù delle sue molteplici osservazioni — che tutto è
regolato da esso (1): ciò non pertanto, osserva Censorino
(1) Macrobio, Saturnal. I, 13, 5; Solino, I, 89; Servio, ad
BueoL Vili, 75.
— iOO —
che riporta tutto questo passo Yarroniano, egli non era
qui in contraddizione con se stesso, perchè i due dispari
209 ^ 273 sono bensì compiuti, ma non si compie né il
210^ né il 274^ giorno in cui il parto avviene; in con-
formità precisamente di quanto ha fatto la natura sia ri-
guardo alla durata delF anno (365 giorni più una frazione)
che a quella del mese (29 giorni più una frazione) (1).
J^on è il caso di entrare qui in merito al valore in-
trinseco e alla veracità di siffatte osservazioni. Poiché
anche se errori vi sono, bisogna naturalmente tener
conto da un lato della diversità dei mozzi d'indagine e di
esperimento da oggi a ventisei secoli or sono, e pensare
dall' altro che molte delle applicazioni della teoria dei nu-
meri non dovettero neppure essere l' opera diretta di Pi-
tagora, ma il prodotto delle speculazioni dei suoi seguaci.
In ogni modo però risulta chiaro dal poco che si ò ve-
duto sin qui che le speculazioni stesse non rimanevano
campate nell'aria e nelle nebulosità della metafisica, ma
trovavano la loro base e la loro ragion d' essere nell' os-
servazione scientifica dei fatti naturali; sì che fu indub-
biamente merito di Pitagora e dei suoi discepoli quello di
aver dato un nuovo impulso alla scienza; e, fatta ragione
dei tempi, non fu merito piccolo.
f) Se la teoria dei numeri trovava così mirabili ri-
scontri nella natura e nei suoi fenomeni, è ben naturale
che ad essa dovesse pure conformarsi la vita pratica
degli uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai mi-
steri e alle profonde verità del Pitagorismo. Ond' è, per
esempio, che un'altra testimonianza varroniana ci ricorda
(1) Censobino, de die natali 9 e 11. Si confronti con questo il
passo di GjLUO, Notti attiche, III, 10, 7.
-- 101
la particolare considerazione in cui erano tenuti i così
detti numeri cubici, al punto che persino nello scrivere
i Pitagorici ne tenevano conto scrupolosamente badan-
do di comporre in una sola volta 216 righe o versi
(216::^ 6 X 6 X 6) e non mai più di tre volte tanto! (1).
Ora questo è uno di quei particolari che, presi a sé,
prestano facilmente il fianco al riso e alla satira; ma in
verità se noi non possiamo spiegarci la cosa in modo ra-
gionevole, ciò può dipendere dal fatto che non conosciamo
tutto il complesso della dottrina e della vita pitagorica ;
poiché è ben possibile che pratiche di questo genere rien-
trassero neir ambito del sistema per puro amor dell' ordi-
ne e dell'euritmia, al solo scopo di far sottostare a una
certa regola anche gli atti minimi e più insignificanti
della vita ; se pure non si tratta^ qui e in altri casi, di
esagerazioni dei seguaci o di degenerazioni dei primitivi
insegnamenti del Maestro.
Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte quisquilie, è
ben noto d'altra parte — ed è ancora Varrone che parla —
quanta parte avesse la musica nel sistema educativo di
Pitagora, e come egli medesimo se ne dilettasse al punto,
che ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina al
suo svegliarsi cantava, accompagnandosi con la cetra, per
meglio disporre 1' animo ai suoi pensieri divini (2).
3. — Oltre a queste notizie, che io, valendomi delle
indagini già fatte da altri (3)^ ho cercato di esporre si-
(1) ViTRUVio, De architectura V pr. p. 104, 1.
(2) Censorino, de die natali 12, 4.
(3) Si veda nell' opuscolo di A. Schmekel, De Ovidiana Pytka-
goreae doctrinae adumbratione (Gryphiswadensiae, MDCCCLXXXY)
l'appendice a pagina 76 « Varronis Pythagoreae doctrinae f rag-
menta continens »,
102 ~
stematicamente raggruppandole intorno alla dottrina dei
numeri, altre se ne trovavano nelle opere di Varrone,
intorno alla vita di Pitagora, intorno alla sua scuola e ai
suoi seguaci e intorno ai principii del suo sistema.
Così Tarrone poneva V esistenza di Pitagora al tempo
di Tarqiiinin Prisco (1) e quindi implicitamente non ac-
cettava la tradizione che ^'uiua fosse stato suo scolaro a
Crotone. A nell'egli attribuiva a Pitagora il merito di
essersi chiamato per primo filosofo, cioè amante del sa-
pere, e ricordandone il maestro Ferecide faceva risalire
già a questo 1' uso di pratiche magiche per indovinare il
futuro ; cume pure accennava altrove alla sua andata a
Turio (Sibari^ nella Calabria (2). E Sant'Agostino ci ha
conservato un altro passo nel quale Varrone, da vero
romano, esprimeva la sua ammirazione perchè V ultima
cosa che Pitagora insegnava ai suoi discepoli, quando già
fossero perfetti, sapienti e felici, era quella del governare
la cosa pubblica (3).
Appartiene al libro quinto deir opera intorno alla lin-
gua latina un brano in cui Varrone afferma che Pitagora
insegnava « due essere i principii d' ogni cosa, come ti-
« nito e infinito, bene e male, vita e morte, giorno e
« notte. E quindi parimenti due i modi di essere : stato
« e moto; ciò che sta fermo o si muove, corpo; il dove
<?: si muove, spazio; il quando si muove, tempo : ciò che
« vi è nei movimento, azione; e avvenire appunto perciò
« che quasi tutte le cose siano quadripaitite od eterne,
« poiché né può mai esservi stato tempo se non preco-
ci) S. Agostino, de civitate dei XVIII, 25.
(2) ibidem, XVIII, 37 e Vili, 4; Tertulliano, dean, 28; Apol. 46.
(3) S. Agostino, de ordine II. 20. n4.
— 103 —
« duto da moto, — se tempo è appunto T intervallo fra
« un moto e l'altro — ; né moto senza spazio e senza
« corpo, perchè Puno (il corpo) è ciò che si muove e
* r altro (lo spazio) il dove; ne può mancare Tazione dove
<^ e' è movimento; onde le due coppie di principii : spazio
« e corpo, tempo e azione » (1). Altrove ci ricorda Var-
rone un altro pensiero fondamentale di Pitagora, assunto
poi più tardi da Aristotile, quello cioè che V esistenza de-
gli animali e però anche delPuomo non ha mai avuto
principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti (2). E
parimenti faceva risalire a lui quella teoria dei quattro
elementi (terra, acqua, aria ed etere o fuoco) che comu-
nemente si suole invece attribuire ad Empedocle di Gir-
genti, vissuto un secolo dopo (3). Non mancava neppure
nelle opere varroniane qualche accenno alla teoria pita-
li) Varrò, de Lingua Latina, V, Il : « Pythagoras Samius aii
omnium re/rum initia esse hina^ ut fmitum et infinitum^ bonum
et malum, vitam et mortem, diem. et noctem. Quare item duo,
status et motus : quod stai aut agitatur^ corpus ; uhi agitatur
locus; dum agitatur, tempus; quod est in agitatu, actio; quare
fit^ ut ideo fere omnia sint quadripartita et e a aeterna ^ quod ne-
que unguam tefupus quin fuerit motus^ eius enÌ7n intervallum
tempus; ncque motus uhi non locus et corpus, quod. alterum est
quod movetur, alterum ubi; ncque ubi agitatur, 7ion actio ibi;
igitur initiorum quadrigae : locus et corpus, tempus et actio ».
(2) Varrò, de re rustica^ 1, 3 : « Sive enim aliquod fuit prin-
cipium generandi animalium, ut putavit Thales Milesius et Zeno
Gittieus : sive contra principium horum exstitit nullum, ut crC'
didit Pythagoras Samius et Aristoteles Stagirites., necesse est hu-
manae vitae a summa memoria gradatim descendisse » . Cfr. Cen-
soRiNO, de die natali, IV, 3.
(3) ViTRUVio, de architectura, V, 1; Servio, ad Aeneid. VI,
724; ad Geòrgie, IV, 219; Ovidio, Metamorfosi^ XV, 237 e seg.
E cfr. Diogene Laerzio, VIII, 25.
— 104 —
gorica deir eternità dell' anima (1) e alla sua dottrina della
metempsicosi (2), a conferma della quale ricordava persi-
no le sue vite anteriori, essendo stato prima un certo
Etalide, poi Euforbo, poi il pescatore Pirro e iìnalmente
Ermotimo (3). Altrove ancora Varrone accennava alle pra-
tiche di evocazioni dei morti, che del resto erano larga-
mente usate nell'antichità, come dimostra, fra le altre, la
rappresentazione di una scena di necromanzia dipinta in
un monumento cretese, scoperto da poco, che risale al
tempo pre-omerico (1500-1400 av. Or.) della così detta
civiltà micenea o minoica (4).
È finalmente quasi superfluo dire che Varrone non
mancò di parlare del famoso divieto pitagorico di man-
giar fave, connesso con la credenza nella metempsicosi
e con la concezione che Pitagora ebbe della vita post-
mortale (5).
(1) Symmaohus, Ep, I, 4.
(2) Varrò, Sai. Moùpp,, ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello,
p. 121, 26); Tertulliano, de an. 27 e 34; ad nat. I, 19; S. Ago-
stino, de civ, dei 18, 45; Sckolia in Lucan. p. 289, 11 e 304, 13.
(3) Tertclltano, de an. 28, 31 e 34; Sant'Agostino, Trinit. XII,
24.
(4) Sant'Agostino, de dv. dei VII, 35 « Quod genus divinatio-
nis idem Varrò e Persis dìcit aUatum, quo et ipsurn Numam^ et
postea Pythagonim philosuphum infuni fuisse contnieìnorat ; uhi
adhihifo sanguine etiam inferos perhibet sciscitari et nekyoman-
teìan graece dicit vocari » . Quanto allo rappresentazioni di scene
di necromanzia si veda, per esempio, Drerup, Omero (Bergamo
I9l0) a p. 176 e relativa tavola a colori; e si ricordi la famosa
Nekuia omerica del libro XI dell'Odissea.
(5) Tertulliano, ApoL 47 ; de anima, 33 ; Plinio, Nat. Hist,
XVIII, 118, XXXV, 160.
— 106 —
4. _ Tali a un di presso le notizie di contenuto pitago-
rico, che si possono far risalire a Varrone. Data Tesiguità
delle opere superstiti e la varietà degli autori da cui fu-
rono raccolte, esse sono slegate e frammentarie, ma tali
però da farci ancora una volta rimpiangere la perdita
quasi totale dell'enciclopedia varroniana, con la quale si
è certo perduto per sempre un ricco tesoro di notizie
utili e importanti per la storia del Pitagorismo neiranti-
chità classica.
Ma poiché del materiale già sistematicamente raccolto
da Varrone, come delle sue speculazioni e delle sue ri-
cerche storico-filosofiche debbono essersi serviti non poco
gli scrittori contemporanei o che vissero poco dopo di lui,
così, continuando a cercare le tracce di Pitagorismo ri-
maste nelle opere di altri scrittori di questo tempo, po-
tremo ricostruire e svolgere qualche altro punto della
dottrina di Pitagora e compiere così il quadro della co-
noscenza che ne ebbero i contemporanei di Cesare e di
Augusto.
III.
Appio Claudio Fulcro — Cicerone e il « Somiiium Scipioiùs ».
1. Appio Claudio Fulcro e la sdenxa augurale. — 2. Marco Tullio
Cicerone e la sua conoscenza dei Pitagorismo. — 3. Notixie
intorno a Pitagora e alle sue dottrine desunte dalle opere cice-
roniane, — 4. // « Sogno di Scipione » / a) Suo carattere
pitagorico e profetico; b) Contenuto e materia di esso: la via
lattea; vita e morte; il suicidio; le sfere celesti e la loro armonia;
la terra e le sue zone; la gloria terrena; anima e corpo; l'im-
mortalità dell' anima.
1. -- Fra gli amici di Marco Terenzio Varrone è degno
di essere ricordato queir Appio Claudio Fulcro, del quale
sappiamo che fu augure, pretore nel 57 a. C, console
nel 54, censore, governatore della Oilicia e legato in rap-
porti di amicizia anche con Cicerone, di cui ci restano
diverse lettere a lui indirizzate.
Convinto che la scienza augurale avesse il suo fonda-
mento non già uel desiderio o nel bisogno di gipvare
anche con T ausilio potentissimo della religione agli in-
teressi dello Stato — come la pensava V altro grande
augure 0. Claudio Marcello — ma che realmente fosse
un dono concesso dagli dei agli uomini, perchè questi
— lOS —
fossero in grado di meglio intendere la loro volontà e di
regolare, uniformandosi a questa, la propria condotta pub-
blica e privata (1), era solito far sortilegi, oroscopi, evo-
cazioni di morti (2); nò più né meno di quello che, secondo
la tradizione aveva fatto in antico il re Numa (3) e di
quel che avevano fatto il filosofo Ferecide di Siro, il suo
discepolo Pitagora, e Platone f4). Questa convinzione
suffragata dalle dette pratiche della divinazione artificiale
CUI era dedito, dovette appunto indurre Appio a scrivere
quel suo « Uber auguralis > , forse di carattere polemico
che dedicò air amico Cicerone (5). li quale fra l' interpre-
tazione utilitaria e razionalistica di quelli che la pensavano
come Marcello, e la fede ortodossa di coloro che la pen-
savano come Appio Claudio, ebbe un'opinione intermedia
m questo senso : che cioè una vera e propria scienza e' '
arte augurale fosse già esistita in antico, ma che di essa
pero uon fosse più depositario, al tempo suo, il collegio
degli auguri, poiché, per il lungo tempo trascorso e per
^abbandono e la negligenza in cui s' era lasciata, era,
(1) Cicerone, de dimnatione. L. IJ, 13, 32 : . sed est in eonleaio
vestro ^nter mreellun. et Appiurn, optin.os au.ures, maanldZ
sem.o <nam eorum ego in libros incidi;, Jon. àlterf^làZt
auspteza ^sta ad utilitutem esse reipublicae composita, alteri di
sctpltna vestra quasi divinare rideatur posse ,
(2) CiCEE Tusculane, I. I, 16, 37 : . inde ea, quae meus anueus
Appms nekyomanteia faciebat .. Cfr. de divinai. I, 10, 30 • 68
(4) CicER., Tuscul., 1, 16, 38; 17, 39.
E^tT ^^ ^'''^'^''''''^ ^' ^' ^> ^' 3, 11, 4; Vaebone, R.
— 109
secondo lui, svanita (1). Dichiarazione questa, che per
essere fatta da un augure di tanta autorità, non è certo
di lieve momento.
Sarebbe in verità molto interessante addentrarsi nella
ricerca di quel che fosse proprio questa mantica, come
la chiamavano i greci, o aruspicina, che tanta parte ebbe
nella vita privata e pubblica degli EUeni e degli antichi
Italici ; ma questa trattazione mi porterebbe troppo lon-
tano dal tema di cui ora sto occupandomi. E del resto
ricerche abbastanza ampie, se non proprio in tutto sod-
disfacenti ed esaurienti, sono già state fatte in proposito (2).
Basti dire pertanto che la mantica o arte divinatoria si
esercitava in forme e modi diversi — con V osservazione
del volo degli uccelli in un punto determinato del cielo
detto templum (onde trasse origine la parola contempla-
zione), con r esame dei visceri (cuore, polmone, fegato)
di animali sacrificati a questo scopo (hostiae consultato-
riae)^ con la interpretazione o ermeneutica dei sogni, con
la considerazione dei fenomeni celesti (tuono, lampo, ful-
mine, ecc.), cogli oracoli, coi pubblici e privati carmi
profetici — ; e che era pure praticata da Pitagora, il
quale vi annetteva anzi un particolarissimo valore, tanto
da voler essere ritenuto egli stesso augure (3) : il che
(1) CicER., de leglbus 1. II, 13, 33 : « Sed dtibiiim non esty
quin haee diseiplina et ars augurUìn evanuerit jam et vetustate
et neglegrntia. Ita neque illi (cioè Marcello) adsentior, qui negai
unquam in nostro conlegio fiiisse^ neque illi cioè Appio) qui esse
etiam nunc putat ». Cfr. de divinai. II, 33, 70.
(2) Si vedano, fra gli altri, i due importanti lavori del Buchsen-
scHUTZ, Sogni e cabala neW antichità, Berlino 1868, e del Cae-
tani-Lqvatelli, Sogni e ipnotismo nelV antichità, Roma 1889.
(3) Cicerone, de dìvinatione, L. I, 3, 5 « .... kuic rei (cioè
>^-^'alla divinazione) magnani auctoritatem Pythagoras,,. tribuit^ qui
— 110 —
— Ili
naturalmente non poteva pretendere senza dare qualche
prova di virtù profetica ; e^ secondo la tradizione, egli
ne diede infatti non poche.
2. — Altro amicissimo di Varrone fu, come è noto,
Marco Tullio Cicerone^ che visse dal 106 al 43 a. C.
Negli scritti che in gran numero ci restano di lui fre-
quentissimi sono gli accenni a Pitagora, alla sua scuola
e alla ^ua filosofia ; non però tali da farci pensare a una
elaborazione personale e originale, o all' approfondirnonto
di qualche parte delle dottrine pitagoriche. Seguace come
fu di un eclettismo che stava fra T accademismo e lo
stoicismo deir ultima maniera, iniziato ai misteri religiosi,
augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore
della filosofìa greca, della quale si fece divulgatore fra i
Romani, creando quasi rr novo per essi, dopo il mirabile
tentativo poetico di Lucrezio, la lingua filosofica, autore
anche di molte opere, nelle quali, con squisito senso di
arte, trattò dei più svariati argomenti sì metasitìci che
morali. Cicerone ebbe senza dubbio una conoscenza ab-
bastanza larga dell' antica filosofia italica, V unica forse
che avesse già avuto in Roma insigni ilivulgatori e se-
guaci, come Appio Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori
come Nigidio.
È anche indubitato che molto gli giovarono per tale
conoscenza — oltre che V assiduo studio dui filosofi gre-
ci — r amicizia di Varrone e dello stesso Nigidio Figulo,
e la lertui-a dei loro scritti, per noi perduti. Ma non per
etiam fuse auyur rellef esse ». Cfr. i, 39, 87 ed anchu 45, 1(^2:
« Neque salii m deorum poces Pfjthagorei ohservitaverunt, sed etiam
homlnuiu, quac vocant omina ».
questo possiamo dire che TArpinate avesse fatto parti-
colari studi intorno a quel sistema di dottrine, che, se
collimavano in parecchi punti con le sue convinzioni per-
sonali, tuttavia^ per il simbolismo onde erano involute,
si prestavano assai meno delle posteriori e più note filo-
sofie ad essere facilmente comprese dai profani e divulgate
artisticamente.
3. — In ogni modo, volendo raccogliere dalle sue opere
le notizie che si riferiscono a Pitagora e alla sua scuola,
dort-ei prendere le mosse da quel passo delle Tuscolane
(libro IV, 1-4) in cui Cicerone parla delle dottrine pita-
goriche, della loro diffusione in Italia e delle tracce che
esse lasciarono nelle istituzioni e nelle leggi dì Roma. Ma
poiché ne ho già discusso lungamente, rimando senz'altro
i lettori al primo capitolo di questo studio.
Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che fu disce-
polo di Perecide (1), specialmente per la sua dottrina
suir eternità dell' anima, in quanto egli insegnava V esi-
stenza di un' anima universale, compenetrante tutta la
natura e ciascuna delle sue manifestazioni, e la deriva-
zione da essa di ogni anima umana (2). E per ciò che
riguarda la natura di questa, Cicerone stesso accettò la
distinzione - fatta prima da Pitagora e poi da Platone —
(ì) De divinatione, I, 50, 112; Tusculane I. 16, 38: « Pherecides
Syrius priìnum dixit ani mas esse hominum sempitenios. .. Huìic
opinionem discipulus Pyth\goras maxime eonfirmarnt ».
(2/ De natura deorum, L li, 27: « Pythagoras eensuit ani-
mum esse per naturam rerum omnem intenturn et eonmeantem,
ex quo nostri aninii carperentur *. De senectute 21, 78: « Au-
diebam Pythagorarn Pytkagoreosque.... numquam dubitasse, quin
ex universa mente divina delibatos anlmos haberemus ».
— li^ —
113 —
deli' anima in due parti, V una ragionevole, in cui questi
filosofi ponevano la tranquillità, cioè una placida immu-
tabile costanza, e V altra irragionevole, onde traevano
origine i moti torbidi sì dell' ira come del desiderio (1).
Per la quale credenza V uiio e T altro ammisero la pos-
sibilità di accrescere le forze conoscitive dello spirito,
specialmente nel sonno, quando a questo Tuomo si fosse
disposto opportunamente con particolare dieta e con una
meditazione preparatoria (2); e credettero nella divinazione,
al punto che Pitagora, come ho già ricordato, pretendeva
di essere egli stesso profeta. Cicerone seppe anche dei
viaggi di quest' ultimo nelle terre più lontane (3), del suo
colloquio con Leonte, il capo dei Fliasii, in cui per la
prima volta si chiamò filosofo (4), della successiva venuta
in Italia, dei suoi studi di geometria e del sacrificio d'un
(1) Tuseulane, IV, 5, lO : « Vetereyn illam equidem Pythagorae
primuniy dein Platonis discriptiGnem sequar, qui animum in
duas partes dividunt, alteraìn rationis partinpem faciunt, alte-
rarti expertem : in participe rationis ponunt tranquillitatem, id
est placidam quietamque constantiam, in ilici altera motus turbi-
dos curri irae, timi cupiditatis, conirarios inimicosque rationi ».
Cfr. libro I, 17, 39.
(2) De divinatione, II, 58, 119: « PythcKjoras et Plato.,, quo
in somnis certiora videamuSy praeparatos quodani eultu atque
vietii profieisei ad dorniienduni jubent : faha quideni Pythagorei
utique abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur ».
Sulle meditazioQi serotine, ma di altro genere, vedasi De senectuie
11, 38: Ptfthagorii quid quoque die dixissent, audissent, egissent,
commemorabaHt resperi » ; e sulla astinenza dalle fave si con-
fronti de divinatione 1, 30, 62 e II, 58, 119.
(3) TuscuLy IV, 19, 44; 25, 55; de finihus Y, 19, 50; 29, 87.
(4) Tuscul.j V, 3, 8 e segg. Cfr. sopra e vedi Diogene Laerzio,
Proemio. 12, che desume la notizia da un libro di Eraclide pontico.
I
bue alle Muse per aver trovata la soluzione d'un teorema (1),
della sua dimora a Crotone (2) e a Taormina in Sicilia (3),
della sua operosa vecchiezza (4) e infine della sua dimora
e della morte a Metaponto (5).
Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto prin-
cipio autoritario dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a quello
che ho accennato or ora della natura dell' anima, Cicerone
ricorda la teoria dei numeri (7), T armonia del mondo e
il culto della musica (8), l'astinenza dai sacrificii cruenti
e il rispetto per gli animali, naturale e logica conseguenza
del concetto pitagorico della vita (9), il divieto d^l suici-
dio (10) e infine la bella concezione dell' amicizia, vera
comunanza di spiriti e di vita (11), che diede fra gli altri
il mirabile e notissimo esempio di Damone e Finzia (12);
oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri pitagorici,
(1) De nat. deorurn, UT, 36, 88. La cosa per altro non par cre-
dibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle sacrificare
una vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di sangue
un altare. E non ha torto.
(2) De re publica II, 15, 28; ad Attictmi IX, 19, 3.
(3) De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita Pythag . 122.
(4) De senectuie 7, 23.
(5) De finibus V, 2, 4.
(6) De nat. deor., I, 5, 10. Per la critica ed il valore di questo
principio autoritario si veda nell'Appendice « Il sodalixio pitago-
rico di Crotone ».
(7) Tuscul., I, 10, 20; Acad. pr. II, 37, 118 e Somnium Sci-
pionisy 12 e 18.
(8) De nat. deor., IH, 11, 28; Tuscul., Y, 39, 113.
^9) ibid., Ili, 36, 88: de re pubi., Ili, 11, 19.
(10) De senect,, 20, 73 ; prò Seauro, 4, 5.
(11) De officiis, I, 17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscid., V, 23, 66.
(12) Tuscul. V, 22, 63; de officiis, III, 10, 45; de finibus. II,
24-79; Cfr. Porfirio, F. P. 59.
8.
I
\
— 114 —
— 115
e cioè Filolao di Crotone e il suo discepolo Archita di
Taranto, Echecrate di Locri, Timeo ed Acrione contem-
poranei di Platone (1).
Di quest'ultimo poi egli dice esplicitamente che, dopo
la morte di Socrate, prima si recò in Egitto e poi in Italia
e in Sicilia per conoscere da vicino le verità scoperte da
Pitagora, e che stette molto con Archita e Timeo e potè
procurarsi ì commentarli di Filolao (che esponevano per
iscritto per la prima volta le dottrine del maestro, fino
allora trasmesse solo oralmente e sotto il vincolo della
segretezza) ; e poiché allora appunto era più che mai ce-
lebre nella Magna Grecia il nome di Pitagora, praticò
con Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che, pre-
diligendo egli Socrate sopra ogni altro e volendo rappre-
sentarlo adorno di ogni virtù e sapienza, fuse insieme la
piacevolezza e la sottigliezza socratica con V oscurità del
simbolismo pitagorico e nei suoi dialoghi fece parlare il
maestro in modo che, anche quando discuteva di morale
e di politica, si studiò di mescolarvi i numeri, la geometria
e r armonia, alla guisa di Pitagora (2). Dal quale poi
(1) De fiìilhus, V, 29, 87.
(2) De re pubi., I, 10, 16 : « In Platonis libris multis locis
ita loquitur SocrateSj ut etiarn cum de morìbus, de virtiUibus
denique de republìca disputet, numeros tamen et geometriam et
harynoniam siudeat Pythagorae ynore coniungere. Tum Scipio :
Sunt ista, ut dicis, sed audisse te credo. Tubero.^ Platonern, So-
crate mortuo, primiim in Aegypturn discendi causa, post in Ita-
liani et in Siciliam contendisse, ut Pythagorae inventa perdisceret,
eumque et cum Archyta Tarentinc et cum Timaeo Locro ìnultum
fuisse et Pìiilolai commentar ios esse nanctuìn, quumque eo tem-
pore in his locis Pythagorae nomen viger et, illuni se et hominibus
Pythagoreis et studiis illis dedisse. Itaque cuìn Socratem unire
dilexisset eique omnia trihuere voluisset , leporem Socraticum
i
tolse di peso la dottrina ferecidea sull'eternità dell'anima,
aggiungendovi però di suo una spiegazione razionale (1).
Un complesso dunque di notizie, o meglio di accenni,
superficiali e sconnessi, che rappresentano press'a poco
il grado di conoscenza che del Pitagorismo ebbero gli
uomini colti dell'età di Cicerone.
4. — Ma vi è un' opera di questo fecondo scrittore,
anzi un frammento della sua opera più importante, sul
quale dobbiamo fermare un poco più particolarmente la
nostra attenzione, per la molteplicità degli elementi pita-
gorici che contiene: voglio dire il Sogno di Scipione^
così famoso e di tanta importanza per la storia della mi-
stica, sia considerato in sé stesso sia per i commenti che
ebbe ; poiché intorno ad esso si affaticarono molti ingegni,
da Macrobio e da Eulogio, che ne fecero amplissima ana-
lisi nel quarto secolo (2), all'inglese Wynn Westcott, che
subtilìtatemque sermonis cum obscuritate Pythagorae et cum illa
plurimarum artimn gravitate contexuit » .
(1) Tuscul.y I, 17, 39 : « Platonem ferunt, ut Pythagoreos cogno-
scerety in Italiam venisse et didicisse Pythagorea omnia primumque
de animorum aeternitate non solum sensisse idem quod Pyiha-
goram sed rationeìn etiam attutisse » . Cfr. De amicitiay lY, 13 :
« Ncque enim, adsentior iis, qui nuper haec disserere coeperunt,
cum corporibus simul animos interire atque omnia morte deieri.
Plus apud 7ne antiquorum auctoritas valet, vel nostrorum majo-
rum vel eoruìn, qui in hac terra fuerunt magnamque Orae-
ciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat, institutis et
praeceptis suis erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraculo sapien-
tissimtis est iudicatus, qui non tum hoCy tum illud, ut in plerisque,
sed idem semper, animos hominum esse divinos, iisque, cutn ex
corpore excessissent, reditum in coelum patere optimoque et iu-
stissimo cuique expeditissimuìn. Quod idem Scipioni vìdebatur »
(2) AuRELTi Macrobii Ambrosii Theodosh v. ci. et inlustris Gom-
mentarius ex Cicerone in Somniuìn Scipionis libri duo. — Favonh
EuLOGii oratoris almae Karthaginis Disputatio de somnio Scipio-
nis, scripta Superio v. e. cos. Provinciae Bizacenae.
— 116
non molti anni addietro ne pubblicò una traduzione di-
cendolo senz'altro, (non so però con quale fondamento
che non sia una semplice presunzione ipotetica) un fram-
mento dei Misteri (1).
a) Mi preme tuttavia di mettere subito in chiaro che,
affermando pitagorico il contenuto di questo sogno, non
voglio con ciò asserire nò che Cicerone fosse un seguace
di quella filosofia, né che desumesse direttamente le idee
informative del sogno stesso da scritti pitagorici: poiché
so bene che studi fatti recentemente da valentissimi crì-
tici come il Gylden (2), il Corssen (3), il Pascal (4), hanno
messo in chiaro che fonti ciceroniane per la materia di
esso furono o poteroiio essere Platone, Posidonio ed Era-
tostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in esso
tutti quasi i concetti suesposti, che Cicerone stesso at-
tribuiva a Pitagora e ai suoi seguaci ; il che dimostra
ancora una volta, se pur ve ne fosse bisogno, che i filo-
sofi posteriori fecero proprie e tramandarono l'uno all'altro
molte delle idee e degli insegnamenti della scuola croto-
niate. L' idea poi di valersi d' un sogno per fare un'espo-
sizione di principi filosofici già era venuta, agli albori
della letteratura romana, a un grande scrittore e poeta,
pitagorico per giunta: voglio dire Ennio, del quale si è
già veduto nel capitolo secondo.
(1) Somnium Scipionis. The vision of Scipio considered as a
fragment of the Mysteries, London, 1899.
(2) Vestigia Platonis in Ciceronis Somnio Scipionis, 1848.
(3) De Posidonio Rhodio M. T. Ciceronis in l, I TuscuL disp,
et in Somnio Scipionìs auctore. Bonnae, 1878.
(4) Di una fonte greca del « Somnium Scipionìs » di Cicerone,
nei rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e belle
Arti di Napoli, 1902. Ripubblicato in « Graecia Capta », Firenze,
Le Monnier, 1905.
117
Sicché possiamo ben dire pitagorica V ispirazione di
questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto piii che
abbiamo sentito or ora, per bocca dello stesso Cicerone,
che opinione Pitagora e i suoi avessero intorno al sonno
e alle forze conoscitive dello spirito nel riposo e nella
quiete del corpo.
Questo sogno, poi, secondo le osservazioni di Macrobio,
partecipava contemporaneamente di tutte e tre le forme
principali o profetiche dei fenomeni del sonno, oracolo
visione e sogno: oracolo {oraciilum =: xp'yìl^axtafxó^), in
quanto apparvero a Scipione addormentato il padre Lucio
Emilio Paolo e il padre adottivo Scipione Africano Mag-
giore, uomini venerandi, che avevano anche coperto ca-
riche sacerdotali, e gli predissero quello che egli avrebbe
fatto come generale e come magistrato e la sua morte a
56 anni ; visione {visio = opafjia), in quanto durante il
sonno parve all' Emiliano di essere trasportato in cielo e
più precisamente nella via lattea, — dove avrebbe poi
dovuto tornare dopo morto a godervi la felicità concessa
da Dio ai buoni reggitori degli Stati — e di lassìi con-
templare r universo e i pianeti e la terra stessa divisa
nelle sue cinque zone ; sogno propriamente detto {som-
niitm = ovetpo^), perchè la profonda verità delle cose a
lui dette dalla grande anima di Scipione non poteva essere
svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica (1).
Tanto è vero che il commento .interpretativo di Macrobio
è di gran lunga più esteso che tutti i sei libri della Re-
pubblica, e non meno lunga è la dissertazione di Eulogio,
che verte specialmente intorno alle qualità mistiche dei
numeri e alla musica delle stelle.
(1) Macrobio, 1. I, o. 3.
118
- 119 —
b) Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi uomini
che si resero benemeriti della patria e mostrare quale
premio, dopo la morte, fosse dato alle loro virtù, quello
cioè di ritornare alla loro patria celeste, immaginò che
uno degli interlocutori dei dialoglii intorno alla Repub-
blica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narrasse agli
altri interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo
tribuno in Africa, fu ospite del re Massinissa, grande
amico di Scipione il Maggiore.
Uscita dal corpo durante il sonno, V anima dell' Emi-
liano si trova trasportata, a un tratto, nella via lattea,
dove, giusta le credenze dei Pitagorici, avevano loro sede
le anime degli eroi, tanto prima di scendere in terra a
vestirsi d' umana carne, come dopo aver fatto il loro pel-
legrinaggio quaggiù (1).
Ascoltata dall' Africano la predizione delle sue imprese
e della sua- morte, che sarebbe avvenuta quando la sua
(1) Somnium 5, 13 : « Oìnnibus qui patriam conserv aver ini,
adluverint, auxerint, certuìu esse in caelo definitum locutrij ubi
beati aevo sempiterno fruantur Harum rectores et conservatores
hinc profecti huc revertuntur ». Al qual proposito osserva il Cors-
SEN (op. cit. p. 46) che l' idea è forse presa dai Pitagorici. Infatti
a proposito dei versi 12-13 del 1. XXIV della Odissea, in cui ò
detto che le anime dei Proci guidate da Hermes « andavano alle
porte del Sole e al popolo dei Sogni e poi giunsero nel prato degli
asfodeli, dove abitano le anime, ombre dei trapassati » scrisse Por-
firio (de antro ISynipharum^ e. 28) che il popolo dei sogni non
sono altro che, secondo Pitagora, le anime che dicono raccogliersi
nel cerchio della via lattea. Poiché il prato degli asfodeli i Pitago-
rici appunto lo immaginarono in quel cerchio. Anche Plutarco (de
facie in orbe liin,, p. 943 G.) scrisse che le anime dei buoni si
indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla del cielo
che chiamavano prati dell' Ade.
età avesse percorso « uno spazio di otto volte sette giri
e rivoluzioni del sole e questi due numeri (ognuno dei
quali, per ragioni proprie a ciascuno di essi, era ritenuto
perfetto) avessero compiuto col naturale succedersi degli
anni la somma a lui predestinata » (1), e saputo — quasi
a conforto del suo triste destino — che egli pure sarebbe
salito lassii, dove si trovava anche suo padre Paolo,
« dunque, chiede, siete vivi tu e mio padre e gli altri
che crediamo estinti ?» « E come ! gli risponde Scipione,
anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai legami
corporei come da un carcere siamo veramente vivi ; la
vosti-a, che si chiama vita, è morte ». E riveduta, con
intensa commozione, V anima del padre, chiede ad essa :
« Perchè dunque, se questa è la vera vita, debbo in-
dugiarmi e vivere ancora sulla terra? » « Perchè, gli
viene risposto, se quel Dio a cui appartiene tutto V uni-
verso non ti ha prima liberato dal carcere corporeo, non
ti può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli uomini
sono stati creati per dimorare sulla terra, che occupa
il centro del creato, ed è stato dato ad essi l'animo,
originario di quei fuochi eterni che chiamate costellazioni
e stelle e che, di forma sferica e circolare, animati da
menti divine, fanno i loro giri e descrivono le orbite loro
con prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gli uomini pii
dovete trattenere l'animo vostro nei legami corporei e
non disertare, contro la volontà di chi ve l'ha data,
dalla vita d' uomini, perchè non sembri che voi vogliate
(1) Somnium 4, 12. Della pienezza o perfezione dei due nume-
ri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli V e VI, adducendone
partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le teorie e
le speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di Eulogio,
I
s
— 120 —
— 121
sottrarvi al compito umano assegnatovi da Dio (1) ». Perciò
il padre lo esorta ad essere giusto ed a coltivare la pietà,
perchè così vivendo si aprirà la via per ritornare al cielo
fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora se-
parate dalla materia corporea, abitano la via lattea (2).
Dalla quale poi V Emiliano contempla estatico lo spettacolo
deir universo stellato e il roteare dei nove cerchi o meglio
globi, di cui il più esterno, che abbraccia gli altri, è
quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso dio su-
premo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gii altri,
cioè i cieli di Saturno, di Giove, di Marte, del Sole, di
Venere, di Mercurio, della Luna, nel mezzo dei quali sta,
immobile, la Terra (3). E mentre osserva i cieli roteanti,
ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce, quella cioè
che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro per-
cuotere neir aria, onde si producono suoni acuti e gravi,
che insieme formano i sette accordi della lira (4) : proprio
secondo la dottrina pitagorica, che ho già chiarita nel
capitolo precedente. L' ammirazione per la grandezza e
la novità delle cose che vede e ode non fa però che
Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano
ì) Sornnium, 7, 15. Cfr. il luogo già ricordato del /)e senectute
(20, 73) dove è detto esplicitumente che questo concetto è di Pi-
tagora : « vetat Pythagoras iniussu imperatoris, id est dei, de
praesidio et statione vitae decedere ».
(2) Somninììiy 8, 16.
(3) Tutta questa concezione della terra immobile nel centro di
un ambiente sferico, intorno al quale s'aggirano col firmamento i
sette cieli planetarii, è prettamente pitagorica ; e tale fu puro, se-
condo il Martini, la scoperta della direzione del corso dei pianeti
e della eclittica. Vedasi il Gìjnther, Oeschickte der antiken Natur-
wissensckaft m Muller's Handbuch V, 1.
(4) Somnium 10, 18-19. Cfr. QuintiliAxVo, Instit, oratoria, I, 10, J2.
gliene mostra parte a parte i circoli, le zone, le acque
e conclude che essa è campo ben ristretto per la gloria
degli uomini : onde la vanità della gloria 'stessa, la quale
non può neppur durare lo spazio di uno solo dei grandi
anni mondani (1). « Se tu dunque, conchiude la grande
anima, vorrai mirare in alto e tenere volto lo sguardo a
questa dimora eterna, non curarti dei discorsi del volgo
né porre la speranza delle tue azioni nei premi degli
uomini : bisogna che la virtù per se stessa con le sue
blandizie ti tragga alla vera gloria » (2). Esaltato dallo
spettacolo delle cose viste e dalle promesse, dalle predi-
zioni, dai consigli uditi, V Emiliano promette di adope-
rarsi con tutta r anima per il bene della patria e T avo
lo conferma nel suo proposito dichiarandogli V immorta-
lità dell' anima. « Ricordati che non tu, ma il tuo corpo
è mortale ; e che tu non sei quello che codesta forma
corporea fa apparire: ciascuno è ciò che ò T anima sua,
non quella parvenza che può mostrarsi a dito. Sappi che
tu sei DiO; se divina è quella forza che anima, che sente,
che ricorda, che prevede, che regge e modera e muove
questo corpo, a cui è preposta, così come il sommo Dio
regge, modera, muove il mondo; e come lo stesso Dio
eterno muove il mondo per qualche rispetto mortale, così
il fragile corpo è mosso dall' animo sempiterno » (3).
(1; Della durata di circa 12000 anni comuni, secondo lo dottrine
dei Genetliaci, dei quali ho accennato nel capitolo terzo.
(2) Somnium j 17, 25.
(3) Somniumy 18, 26 : ^ Tu vero enitere et sic habeto, non esse
te mortalem sed corpus hoc; nec enirn tu is es^ quem forma ista
declarat : sed mens cuiusqiie is est quisque, non ea figura, quae
digito denionstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est
deusy qui viget, qui sentita qui meminit, qui providet, qui tam
f- -i*
— 122 —
« Tu esercita questo nelle più nobili cure : e nobilissime
sono le cure spese per il bene della patria (1); onde
Tanirao che in esse si adopera e si esercita volerà più
velocemente in questa sede e dimora sua. Anzi tanto più
presto vi verrà se, fin da quanto è chiuso nel corpo saprà
uscirne e, contemplando quel che è fuori di esso, stac-
carsene il pili possibile. Perchè gli animi di quelli che
si abbandonano ai piaceri dei corpo e si rendouo quasi
schiavi di essi e, sotto l'impulso dei desideri obbedienti
ai piaceri, violano i diritti divini e umani, usciti dal corpo
vacuo svoicizzaudo intorno alla terra e non ritornano a
questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne agi-
tazione molti secoli » (2). E con 1' enunciazione di questi
concetti pitagorico-platonici il magnifico sogno finisce.
regit et moderatur et ynovet id corpus, cui praepositus est quam
kunc mundum ille princeps deus ; et ut mundum ex quadani
parte mortalem ipse deus aeternus, sic fragile corpus aìiimus
sempiternus ynovet » .
(1) Anche questo, è bene ricordarlo, era un concetto pitagorico;
tanto è vero che Pitagora, serbava come insegnamento ultimo ai
suoi discepoH quello relativo all' esercizio dei pubbhci poteri. V.
S. Agostino, de ordine II, 24, 54.
(2) Somnium, 21, 29 : « liane tu exerce optimis in rebus : sunt
autem optimae curae de salute patriae, qulbiis agitatus et exer-
citatus animus velocius in hanc sedem et domani suam. pervolabit.
Idque ocius faciet, si jam tum, cum erit inclusus in corpore,
eminebit foras et ea, quae extra erunt, conteniplans quam maxime
se a corpore abstrahet. Namque eorum animi, qui se corporis
voluptatihìis dedlderunt earumque se quasi ministros praebuerunt
impulsuque libidinum voluptatibus oboedientlum deorum et homi-
num iura violaverunt, corporibus elapsi circum terram ipsam
volutantiir nee hunc in locum nisi multis exagitati saeculis rever^
t untar »,
I
IV.
Mimi — Q. Orazio Placco — P. Virgilio Marone.
l. Riflessi pitagorici nel teatro popolare. — 2. Pitagora nella poe-
sia oraziana : fave, metempsicosi, Euforbo. — 3. Virgilio e la
filosofìa. — 4. La quarta ecloga. — 5. Le Georgiche. — 6. La
« storia deir anima » nel sesto libro dell' Eneide. - 7. Ragioni
artistiche di essa e suo valore per la determinazione del pensiero
filosofico virgiliano.
1. _ Nel tempo del quale ci stiamo occupando non
è a credere che la conoscenza del Pitagorismo avesse i
suoi riflessi soltanto negli scritti di prosa e di poesia del
genere di quelli che abbiamo già visti, destinati a un
pubblico eletto e relativamente limitato ; che anzi l' inse-
gnamento fondamentale della dottrina di Pitagora, cioè
la metempsicosi, e il precetto dietetico deirastinenza dalle
fave erano così entrati, come oggi si direbbe, nel domi-
nio pubblico, da essere oggetto di satira e di riso nel
teatro popolare. Fra quelle specie di farse infatti che fu-
rono i mimi è ricordata una Nekijomanthia (Evocazione
di morti) di Decimo Laherio, che fu contemporaneo di
Cicerone (105-43 a. C.) e del quale Tertulliano ricorda
una satirica interpretazione della metempsicosi : « Insom-
— 124 -
ma, se qualche filosofo affermasse, come dice Laberio
secondo V opinione di Pitagora, die V uomo si fa dal mulo
e la serpe dalla donna, e in tavore di questa opinione
volgesse, con parola efficace, tutti gli argomenti possibili,
non incontrerebbe V approvazione di tutti e non indur-
rebbe forse anche a credere che ci si debba perciò aste-
nere dalle carni animali? Chi potrebbe esser sicuro di
non comperare eventualmente del manzo di qualche suo
antenato ? » (1). Laberio dunque avrà tirato scherzosa-
mente in ballo in qualche farsa, della quale nulla peraltro
sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è neppur difficile
pensare che gliene abbia data occasione una situazione
comica in cui fossero in contrasto l'ostinata cocciutag-
gine d' un uomo e la velenosa malizia d' una donna. Il
commento e le deduzioni ironiche circa Tasten^ione dalle
carni che aggiunge Tertulliano ricordano quella che è
forse la prima testimonianza, in ordine di tempo, che ci
rimanga intorno alla metempsicosi pitagorica ; voglio dire
i noti versi di un'elegia di Senofane (contemporaneo di
Pitagora, ma un po' più giovane di lui) :
E dicon eh' egli un giorno, vedendo un eagnuol maltrattato,
Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò :
« Cessa, ne bastonarlo, poiché vive in lui d' un amico
r anima, ohe ravvisai, quando T ho udita guair » (2).
(1) Tertulliano, Apologia, 48: « Aye jam, si qui pkilosophus
adfirmet, ut ait Laberius de sententia Pythagorae, hominem fieri
ex mulo, coluhram ex muliere, et in eam opinionem omnia argu-
meìita eloquii virtute distorserit, nonne consensum movehìt et (idem
infiget etiam ab animalibus abstinendi propterea ? persuasum qttis
habeat, ne forte bubulam de aliquo proavo suo obsonet ? »
(2) I versi ci furono conservati da Diogene Laerzio (Vili, 36)
— 125 —
Anche in questi versi infatti, come nel commento dì
Tertulliano, attribuendosi a Pitagora la metempsicosi an-
che animale (per una falsa estensione però, come ho già
detto), se ne mette scherzosamente in mostra il lato ri-
dicolo.
Di un altro mimo dello stesso autore, intitolato Cancer,
è rimasto uno spunto di verso, in cui si accenna a un
«dogma pitagorico)^, che molto probabilmente possiamo
ritenere che fosse la stessa metempsicosi (1). Finalmente
Cicerone e Seneca ci hanno conservato il ricordo di un
terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato Faba (2),
del quale sarà forse stato argomento la satira dello stesso
dogma di Pitagora e dei precetti riguardanti il vitto e
r astensione dalle fave (3). Nò ò davvero il caso di me-
e prendendoli da lui, li ha citati anche Suida (sotto la voce Xeno-
phanes). Si veda a proposito di essi e delle altre antiche testimo-
nianze pitagoriche che risalgono ad Eraclito, Empedocle, Ione, ecc.
ciò che ha scritto lo Zeller nei Siixungsber . d. preuss. Akad,
1889, n. 45, pag. 985. Si è recentemente messo in dubbio che
questi versi si riferiscano a Pitagora ; ma tali dubbi sembrano al
Gompebz {Penseurs de la Orèee, p. 135 nota) infondati. Ed ha per-
fettamente ragione.
(1) Prisciano. vi, 2, pag. 679 P. e Anon. Been. negli Anal.
Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33 e 109, 3 : « nee pythagoreani
dogmam doctus ».
(2j Cicerone, ad Att. XYI, 13: « videsne consulatum illuni no-
strum, queni Curio antea apotheosin voeabat, si hi e factus erit,
fabam mimum futuruni ? * e Seneca Apoeoloc, 9 : <» olini magna
res erat deum fieri, iani fabam mimum feclstis » . Debbo tuttavia
notare che da qualcuno si è proposto di leggere -O-aOiia in luogo
del primo fabam,, e famam in luogo del secondo. V. in proposito
la Eiv, di filol. class, del gennaio 1913, pag. 75-76.
(3) D. Capocasale in un suo breve lavoro {Il mimo romano,
Mouteleone, 1903, pag. 49) pensa che « forse vi si dovea mettere
— 126 —
ravigliarsene, solo che si consideri con che argomenti
piccini e con che sciocche ragioni si cercava di persua-
dere della necessità di tale astensione (1).
2. — Del resto anche Orazio (65-8 a. C.) si prese
amabilmente gioco di questi due stessi punti della dot-
trina pitagorica. Che se in una delle sue satire rievocava
con vivo senso di nostalgia le parche cenette di campa-
gna fatte di fa 70 e di erbaggi conditi col lardo, è evi-
dente che egli — da buon epicureo — si infischiava del
precetto del filosofo; non solo, ma lo prendeva anche un
po' in giro, facendo addirittura la fava « consaguinea di
Pitagora » (2).
E la prima parte della famosa ode d'Archita non pare,
per dirla col Pascoli, « un attacco ai sistemi filosofici
in azione la parentela che esiste ~ secondo Pitagora — tra la fava
e r uomo, ed il passaggio dell' anima in una fava ». Ora queste,
più che opinioni del severo filosofo, furono certo stramberie di
begli spiriti, che gliele attribuirono per burlarsi meglio di lui e
delle suo idee, come fece Orazio, per esempio.
(1) Si veda, per esempio, il capitolo 43 della vita di Porfirione.
(2) Orazio. Sat. II, 6, 63-64 :
quando faha Pythagorae cognata simulque
Uncta satis pingui poneniur oluscula lardo ?
Un' altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli inter-
preti d' Orazio nel v. 2l della XII Epist. del libro I {verum seu
pisces seu porrun et caepe trucidas)^ dove riferendosi il verbo tru-
cidare non solo ai pesci, ma anche ai porri e alle cipolle (quasi
che anche in queste, come nella fava, si trovassero anime dei
morti) verrebbe a prendersi un po' in giro 1' amico Iccio — che
s' occupava di filosofìa — e con lui la dottrina pitagorica della
metempsicosi, alla quale verrebbe data una ben larga estensione.
Qualcuno peraltro (per es. il Ritter) nega ogni allusione.
— 127 —
che ammettono la sopravvivenza dello spirito, sistemi
quasi personificati in Archytas, per opera del quale il
Pythagorismo entrò nelle dottrine di Platone ? » (1). Dice
infatti il poeta : « Te, o Archita, che misuravi il mare e
la terra e T innumerabile arena, tiene ora fermo presso
il lido di Matinata lo scarso dono di poca sabbia, e nulla
ti giova aver esplorato V aria, dove altri che l'uomo abita,
e aver corso per la volta del cielo con l'animo destinato
a morire. E morto anche il padre di Pelope, che pur
banchettava con gli dei, e Titone, che fu tolto alla terra
e sollevato nell' aria, e Minosse, che fu ammesso agli ar-
cani di Giove, e il regno dei morti tiene anche il figlio
di Panto (Euforbo), che scese all' Orco un' altra volta
(dopo la sua nuova incarnazione in Pitagora), sebbene,
con lo scudo che fece staccare (dalla parete del tempio
di Giunone argiva in Micene) data testimonianza del
tempo della guerra trojana, non avesse concesso alla nera
morte (così affermava lui) niente piìi che i nervi e la
pelle (2); e tu (che eri un grande pitagoreo), splendido
mallevadore della verace scienza del tutto lo sai bene.
Ma tutti ne attende un' uguale notte senza fine e tutti
dobbiamo calcare una volta sola (e non più, come tu credi)
la via che conduce sotterra. Le furie offrono alcuno gra-
fi) Pascoli, Lyra romana, Livorno, Giusti, 1895, p. 163. Per
altri modi d' intendere quest' ode, che è la 28^ del lib. I, si veda
il commento dell' Ussani, Le Uriche di Orazio, Torino, Loescher,
1900, voi. I, pag. 119-122, e in particolare 1' opuscolo dello stesso
autore L'ode d' Archita. Roma, 1893.
(2)
hahentque
Tartara Panthoiden iteruni Orco
Demissum, quamtns clipeo Trojana refixo
Tempora testatus nihil ultra
Nervos atque cutem morti concesserat atrae.
— 128 —
129
dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro
di morte ai naviganti ; si susseguono senza posa i fune-
rali sì dei vecchi che dei giovani, l'implacabile Proserpina
non ebbe mai rispetto ad alcun capo ^,
E evidente che qui Orazio, affermando recisamente che
tutti, senza distinzione, subiremo un-egual destino mor-
tale, e contrapponendo in particolare la sua affermazione
al ricordo « di Pitagora redivivo », come lo chiama altra
volta (1), fa dcir ironia bella e buona alle spese del « fi-
gliuolo di Panto ».
3. — E Virgilio (15 ott. 70-21 sett. 19 a. C.j in qual
conto tenne le dottrine pitagoriche ? Esercitarono esse
qualche influsso sul suo pensiero e lasciarono traccie vi-
sibili neir opera sua, dal momento che sappiamo — per
quello che ce ne dice egli stesso e per quello che ci
hanno tramandato i suoi biografi e commentatori — che
egli ebbe grande inclinazione agli studi filosofici e che
desiderio di tutta la sua vita fu quello di poter visi de-
dicare di proposito ?
Nel tempo in cui Figulo e i Sestii tentarono di far
rivivere in Roma la filosofia pitagorica, ò possibile pen-
sare che uno spirito come quello di Virgilio, colto, cu-
rioso e naturalmente portato alle speculazioni filosofiche,
non ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo non
v'è argomento di dubbio, ma credo di poter dire anche
(1) In uno degli Epodi (XV, 21) Orazio accenna eincora alle
varie vite di Pitagora nel verso « 7iee te Pythagorac fallant
arcaìia renati », dove è da notare anche l'allusione al carat-
tere segreto e misterioso della dottrina (arcana) Nelle Satire no-
mina una volta (IL 4, 3) Pitagora con Socrate e con Platone e
nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di Ennio (II, 1, 52).
di più. Cicerone, come ho già mo strato nelle precedenti
ricerche, credette di ravvisare nelle pratiche e nei prin-
cipi del Pitagorismo Torigine di molte delle piìi antiche
istituzioni romane, e con Cicerone lo avranno creduto na-
turalmente anche altri. Orbene Virgilio, che con V opera
sua maggiore mirò a rappresentare in un meraviglioso
quadro d' insieme le origini e lo svolgersi della potenza
di Roma (1) e che perciò fece lunghi studi intorno alle
leggende e alle antichità romane, dovette proprio in modo
particolare rivolgere la sua attenzione alla filosofia pita-
gorica, la quale per di più aveva già ispirato anche il
grande Ennio^ la cui opera degli Annali fu uno dei mo-
delli sui quali fu condotta V Eneide. Questo mi par che
si possa affermare con certezza, anche indipendentemente
da un esame analitico dell' opera poetica di Virgilio ; che
se poi procediamo a questo esame — ancorché molto
sommario — non solo sarà confermata a posteriori la
nostra induzione, ma dovremo senz'altro assentire al giu-
dizio che di lui fece il Pontano, quando Jo disse esplici-
tamente « poeia augurale e profondo conoscitore della
dottrina di Pitagora » (2).
Come tutti sanno, agli studi filosofici Virgilio attese
fin dalla prima giovinezza e fu avviato in essi da un
maestro epicureo, dal gran Sirene, com' egli lo chiama.
E per amore dei « docta dieta > di lui egli avrebbe
(1) Servio, ad Aen. VI, 752: « Qui bene eonsideret imeniet
omnem romanam historiam ab Aencae adventu usque ad sua
tempora summatim celebrasse Virgilium, quod ideo latet quia
con f US US est or do, etc. ».
(2) « Poeta auguralis pythagoricaeque doctrinae peritissimus » ,
come ò detto in una nota al Commento di Macrobio al Somnium
Scipionis, nella edizione di Lione del 1670, pag. 66.
».
I
— 130
anche rinunziato in gran parte alle « dolci Muse » !
Vano proposito ! che queste tennero sotto la loro amabile
tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu poeta prima che filo-
sofo. Filosofia fu in lui solo in potenza : i germi latenti
nel suo pensiero — che pur si delinea abbastanza chia-
ramente a chi ne mediti V opera poetica — sarebbero
certo cresciuti in fioritura d^ arte, se fosse vissuto più a
lungo, sì che, condotta a perfezione T Eneide, egli avesse
potuto fiual mente appagare il desiderio ^~ lungamente
maturato e pii:i volte espresso — di poter attendere alla
poesia filosofica : così noi avremmo forse, accanto al poema
di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del juaterialismo
epicureo, un poema virgiliano informato ai principi del-
l' idealismo pitagorico-stoico.
L'avviamento epicureo ch'egli ebbe da Sirene, e l'am-
mirazione che sentì per la grande arte di Lucrezio la-
sciarono bensì qualche traccia, e non soltanto formale,
nell'opera sua giovanile, nei poemetti bucolici e nelle
Georgiche ; ma in queste stesse poesie già si manifesta
abbastanza chiaramente un indirizzo filosofico affatto op-
posto. Sulla concezione epicurea, ma con molta libertà e
larghezza di movenze, è foggiata quella specie di teoria
suirorigine del mondo che Sileno espone nella sesta ecloga
(vv. 31 e seguenti); ma dobbiamo ben guardarci dal darie
un'importanza maggiore di quella che essa ha realmente,
col trasferirla da Sileno a Virgilio e col dedurne perciò
che questi fosse epicureo ; poiché nel campo dell' arte e
della poesia sono possibili ben altre finzioni, e 1' artista
fa parìare i personaggi che sono figli della sua fantasia
secondo criteri e leggi lor proprie. Non solo, ma alla
stessa stregua allora altri potrebbe ritenere specchio delle
idee e concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu scritta
— 131 —
poco prima della sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ra-
gione, anzitutto perchè in essa il poeta canta in persona
propria, in secondo luogo perchè il concetto che V informa
tornerà insistente e sempre più preciso negli scritti po-
steriori. Ma in verità il pensiero di Virgilio non doveva
in quegli anni essere ancora definitivamente orientato e
formato.
4. — La quarta ecloga fu composta quando il poeta
aveva ventinove anni, e precisamente alla fine del 41 a.
C, allorché stava per entrare in carica Asinio PoUione,
console designato per V anno successivo (1). Sulla inter-
pretazione di questo carme, così stranamente suggestivo,
s' è tanto discusso, che non si sente davvero il bisogno
d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai
commentatori cristiani si credette di poter vedere in que-
st' ecloga, scritta in tempi così vicini all' apparizione del
Cristo, qualche accenno alla imminente venuta del Messia;
anzi il fanciullo di cui si celebra la nascita fu addirittura
identificato col Nazareno. Non e' è da meravigliarsene,
che r intuizione artistica — nei grandi — giunge tal-
volta a tali profondità e 1' espressione poetica acquista
tal forza di significazione e un tale carattere di univer-
salità, che essa par quasi attingere inesauribilmente, dalle
(1) Generalmente si ritiene composta al principio dei 40, anziché
alla fine del 41; ma essendo la pace di Brindisi stata conchiusa
sul finire del 41, ed essendo avvenuta pure in quello scorcio di
anno la nascita del figlio di Pollioue, Asinio Gallo (che, secondo
Servio, nacque appunto PoUione consule designato)^ mi pare che
non possa esservi ragione di incertezza ; tanto più che in tal modo
meglio s' intende il futuro inibii che accompagna il te consule dei
v. 11,
— 132 —
— 138 —
disposizioni deiraiiimo e dagli atteggiamenti del pensiero
di chi legge, aspetti e valori sempre nuovi. Ma che poi
proprio Virgilio abbia consapevolmente profetizzato la
venuta di Cristo per conoscenza che avesse delle predi-
zioni messianiche, questa è un' altra quistione, risoluta
dai critici in senso non del tutto negativo (1).
Certo è che, in occasione della nascita d' un fanciullo
— che si ritiene generalmente sia stato Asinio Gallo, figlio
di PoUione, a cui è dedicata Tecloga — il poeta affermava
ormai venuta V ultima età (quella di Apollo) predetta dal-
l'oracolo in versi della Sibilla di Cuma, e sul punto di
iniziarsi da capo, incominciando dall' anno del consolato
di Pollione (40 a. C), una nuova serie di generazioni
umane^ un nuovo anno mondano, col quale sarebbe tor-
nata sulla terra la vergine Astrea (la giustizia) e sareb-
bero tornati i beati tempi del regno di Saturno (ossia
r età dell' oro) e « dall' alto cielo sarebbe fatta scendere
(1) Il Mancini p. es., nel suo commento alle Bucoliche (Sandron,
1903) ha scritto (p. 48,i : « Non si può appunto escludere assolu-
« tamente (sebbene io non lo creda necessario) che Virgilio avesse
« in qualche modo conoscenza delle profezie messianiche certo
* pervenuta a Roma, e che ne traesse qualcosa per tratteggiare
« il suo puer, che di questa conoscenza sentisse insomma gli of-
€ fetti l'economia del carme ». Per la rinomanza che Virgilio si
acquistò fra i Cristiani con questa ecloga, per la quale fu sollevato
alla dignità dei profeti che predissero la venuta di Cristo, si veda
il CoMPARETTi, Virgilio nel Medio Evo (Firenze, 1896, I, p. 133
e seg.) e gli scritti ivi citati. L' interpretazione cristiana di questa
poesia era già molto in voga presso gli scrittori del quarto secolo.
Si vedano anche i lavori di C Pascal : // eulto d' Apollo in Roma
nel secolo di Augusto e La questione dell Ecloga IV di Virgilio
(Torino, 1888), ristampati nel volume Commentationes vergilianae
^Palermo, R. Sandron, 1903).
una nuova progenie d' uomini » (v. 7 : jam ìiova prò-
genies caelo demittitur alto). Sì che il fanciullo, allora
nascente, avrebbe visto scomparire del tutto la « gens
ferrea >> e crescere insieme con lui la « gens aurea »
e « ricevendo la vita degli dei » avrebbe veduto sulla
terra dei ed eroi e anch' egli si sarebbe mescolato con
loro: nella giovinezza avrebbe veduto ancora — residui
delle colpe delle età trascorse (e in pari tempo condizione
necessaria al ripetersi delle vicende umane) — nuove
spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove guerre,
come la trojana, finché poi nella maturità avrebbe goduto
a pieno la felice pace della nuova età, della quale già
si allietavano e cielo e terra e mare.
Come si vede da questo accenno, siamo lontani le
mille miglia da Epicuro ! E che cos' è poi questa conce-
zione d' una palingenesi che Virgilio tratta con sì pro-
fondo entusiasmo poetico ? Pura finzione del suo spirito?
No, senza dubbio. Una predizione dei carmi sibillini pro-
metteva certo con V età d' Apollo — 1' ultimo dei grandi
periodi della vita universale — il rinnovamento del mondo
e il ritorno dell' età dell' oro ; non solo, ma teorie filoso-
fiche allora correnti e che ho già avuto occasione di ri-
cordare, ammettevano anch' esse il rinnovarsi periodico
dell' universo e il ripetersi perfettamente identico dei me-
desimi eventi e il ritorno alla vita degli stessi corpi e
delle stesse anime (teoria pitagorico-stoica e dei genetliaci).
Pensò dunque Virgilio, nel fingere che proprio col co-
minciare dell' anno 40 si iniziasse T ultima età mondana
designata dai carmi sibillini, a queste teorie ? A me pare
che non se ne possa dubitare. Solo ci si potrà chiedere
se queir « altro Tifi » , quell' « altra nave Argo che tra-
sporterà ancora gli eroici compagni », « le altre guerre >
— 134 —
che si rinnoveranno e « il grande Achille » , che ancora
« sarà mandato a Troja», indichino l'identico ripetersi
di tali eventi, il ritorno al medesimo punto della vita
universale, oppure indichino soltanto una generica legge
dei ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur così vi-
cino ai tempi del poeta, non seppe decidere: potendo
quei nomi simboleggiare genericamente il ritorno di eventi
simili, ma non proprio gli stessi. 'Certo però che, asse-
gnando Virgilio alla seconda età dell' oro già imminente
quei medesimi, identici caratteri che la tradizione dotta
e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto in-
dotti ad ammettere V ipotesi che il poeta abbia raffigurato
e rappresentato in atto, coi colori smaglianti della sua
arte divina, l' avverarsi della teoria pitagorico-stoica della
palingenesi. E ancora : parlando della « nova progenies »,
la quale « caelo demittitur alto », a che cosa ebbe pre-
cisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla sua
immaginazione come un flusso di anime emananti dal-
l'anima universale all' inizio del nuovo anno o periodo
mondano posto sotto T egida di Apollo ? (1).
L'anima del fanciullo — nel pensiero del poeta — non
v'ha dubbio che appartenesse a questa nuova progenie
spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato « cara deum
suholeSj magnuni lovis incrementìun » (v. 49), non par-
rebbe che si dovesse intendere altrimenti che la sua anima
è emanata pura e semplice direttamente da Giove, e
Giove starebbe qui a indicare, più che il supremo dio
dell'Olimpo pagano, quel principio divino che ò 1' anima
(1) Mi pare, non ostante il diverso parere di qualche commen-
tatore (p. es. del Pestalozza), che si debba precisamente dare al-
l' espressione il suo senso proprio e letterale.
— 135 —
dell' universo, secondo la teoria che Virgilio doveva an-
cora riprendere più tardi, nel secondo delle Georgiche, e
che doveva svolgere più compiutamente là dove, dall'ani-
ma di Anchise, fa esporre ad Enea, giù negli Elisii, la
famosa « storia dell' anima » .
Vero è che, come ho già rilevato, bisogna andar molto
cauti nella interpretazione di siffatti motivi poetici e nel-
r inferire da essi il pensiero filosofico animatore operante
nell'artista; che questi può, indipendentemente dai pro-
cessi logici normali, assurgere per pura intuizione alla
visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso nostro
il poeta; prendendo bensì lo spunto da un fatto reale
com'era la predizione sibillina, ha forse raccolto intorno
ad essa reminiscenze d'altra origine ed aggiunti elementi
nuovi di pura elaborazione fantastica; ed espressioni poe-
tiche di tale natura sono per sé indeterminate e male si
prestano ad essere analizzate e misurate con le rigide
seste della logica. Non potevamo però non tenerne conto,
almeno come indice di quella tendenza mistico-idealistica,
che ancora e meglio doveva rivelarsi più tardi, in suc-
cessivi n^omenti dell' attività poetica del nostro autore.
5. — Da ispirazioni così diverse e lontane come quelle
della sesta e quarta ecloga appar probabile dunque che
prima dei trent'anni Virgilio non avesse ancora definiti-
vamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse non
lo aveva neppure orientato definitivamente quando — dal
37 al 30 — compose le Georgiche ; poiché in queste si
osservano ancora da un lato somiglianze di pensiero e
di forma con il poema lucreziano, e dall'altro si incontrano
immagini e concetti stoico-pitagorici. Mi basti ricordare,
per questi ultimi, i bellissimi versi del quarto libro (219-
136 —
227), nei quali il poeta accenna, seìixa ancora accettarla
come propria, ma con evidente simpatia, la concezione
panteistica (che fu prima di Pitagora e poi di Platone e
degli stoici) secondo la quale V anima di tutti gli esseri
viventi non è che una parte, più o meno grande, dello
spirito divino clie, suscitando in mille forme la vita, per-
vade e penetra tutto V universo, e a cui tutto ritorna.
220
225
His quidam signis atque haec oxempla secati
esse apibiis partem divinae mentis et haustus
aetherios dixere : deum namque ire per omniay
terrasque tractuaqiie maris caelumque profundum.
Bine pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum^
quemque sihi tenues nas^entem areessere vitas ;
sdlicet huc reddi deinde ac resoluta referri
omnia j nec morti esse locum, sed viva volare
sideris in numerum atque alto succedere caelo.
Il filosofo, esponendo il pensiero come di altri (quidam...
dixere)^ fa ancora le sue riserve; ina il poeta evidente-
mente vi aderisce, e l'altezza dell'arte ci dice la profon-
dità dell' adesione sentimentale. Non solo ; ma il fatto
che uno di questi versi mirabili (il 222) non è nuovo,
ma Virgilio lo ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga
(v. 31), lega idealmente questa col passo delle Georgiche.
L' animo di Virgilio ha dunque ondeggiato certo a
lungo prima di aderire a quelle idee contro le quali ave-
vano combattuto la dottrina di Sirone e V arte di Lucrezio;
ma il suo temperamento prima e poi le convinzioni che
via via. si vennero elaborando in lui col maturare degli
anni e degli studi dovettero riportarvelo fatalmente ; sic-
ché quando, iniziati gli studi per T Eneide, immergendosi
tutto nelle ricerche intorno alle origini e alle antichità
romane, si trovò di fronte al Pitagorismo, che la leg-
— 137 —
genda collegava colla sacra figura del re Numa, che
aveva ispirato anche V arte di Ennio e che aveva in que-
gli anni cultori come Nigidio e come i Sestii, egli do-
vette sentirsi preso tutto quanto da quelle idee e assimi-
larle ancora più profondamente, tanto che ad esse volle
poi dare anche piii precisa e piìi degna espressione là pro-
prio dove il poema attinge la piii alta romanità e acquista
nel medesimo tempo carattere di universalità.
6. -- Al principio del sesto libro dell'Eneide, che si
riteneva generalmente dagli antichi contenesse la più pro-
fonda dottrina virgiliana, Servio credette di dover premet-
tere queste parole: « Tutto Virgilio è pieno di scienza,
nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui la
parte principale è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del
canto XI deir Odissea). Alcune cose sono dette semplice-
mente (cioè senza allegoria), molte sono prese dalla storia,
molte provengono dall'alta sapienza dei filosofi e teologi
egizi ; talché parecchi hanno scritto interi trattati su cia-
scuna di tali cose che trovansi in questo libro » . Di que-
sti trattati peraltro a noi non ne è giunto alcuno, nemmeno
quello, certo assai interessante dal punto di vista del
nostro tema, che scrisse Macrobio, V erudito grammatico
del quinto secolo ; poiché dei suoi Saturnali, che pure
ci restano in buona parte, è andata perduta proprio quella
parte in cui si conteneva V esame del valore filosofico
dell' opera virgiliana (1). È un peccato, perchè Macrobio,
(1) Il compito di talo esame se l'era assunto, nei dialoghi dei
Saturnali, Eustaxio, filosofo per i suoi tempi assai erudito, come
ci fa sapere Macrobio stesso fi. I, e. V); anzi, per la superiorità
della filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni, 1' esposizione
di Eustazio era la prima di tutte, come appare da ciò che è detto
— 138 —
come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gli ele-
menti pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del
quale, per esempio, ricordando nel commento al Somnmm
Scipionis (I, 6, 44) il terque quaterque beati, riconosce
neir espressione la dottrina pitagorica dei numeri (1).
Non è certo il caso di andar cercando, come qualche
antico ha fatto (2), io ogni espressione, in ogni parola
di questo mirabile libro, al quale doveva ispirarsi Dante
Alighieri^ i sensi piìi reconditi, le più astruse allegorie,
e di immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel
comporlo. Ma sopra un punto in particolare, che ò come
la chiave di volta di questo canto e che indubbiamente
è di quelli che Servio ha detto provenire dall'alta sa-
pienza' dei filosofi e teologi egizi, noi fermeremo la nostra
attenzione.
Enea, con la scorta della Sibilla di Curaa è sceso al-
l' Inferno. Passata la palude Stigia sulla barca di Caronte,
attraversato Tanti-inferno o limbo (dove sono le anime
dei neouaii, dei condannati a morte ingiustamente, dei
suicidi) e ai campi dolorosi (dove sono i morti per causa
d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra il Tartaro
nel e. XXIY dello stesso 1. I. Senonchè il libro seguente è mu-
tilo ; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo dpgli scrittori cri-
stiani. si deve far risalire al tempo in cui questi tendevano ad
accentuare il carattere profetico-cristiano di Virgilio.
(1) Per Macrobio, Virgilio non solo ò dotto in ogni genere di
sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al Somnimn
lo dice nullius disciplinae expers (I, 6, 44) e disciplinaruyn orn-
7iuim pcritissimus (I, 15, 12); così nei Saturnali (I, 16, 12):
omnium disciplinar uni peritus.
(2) Per esempio Elio Donato, il quale attribuiva a Virgilio un
sapere straordinario e cercò nei suoi versi dottrine risposte e scopi
filosofici ai quali certamente non aveva pensato mai.
— 139 —
(dove subiscono le pene più orribili le anime di tutti co-
loro che in qualche modo hanno violato le leggi umane
e divine) ò giunto neir ampio Elisio, liete pianure che
sono il felicissimo regno dei beati
630
... locos laetos et amoena virecta
fortunatorum nemoruni sedesque beatas.
Quivi, in una luce perpetuamente serena e fiammante,
le anime dei beati (eroi morti per la patria, sacerdoti,
poeti, filosofi ed artisti, benemeriti della umanità) trascor-
rono la vita su colli ameni e per valli, in prati ed in bo-
schetti, sulle rive di ameni ruscelli, continuando le loro
abitudini ed occupazioni terrene : fra esse è Museo, al
quale Enea chiede notizie d' Anchise e che gli si offre
per guida. Il padre d' Enea stava in quel momento ad
osservare con attenzione le anime che si trovavano chiuse
nel fondo di una valle verdeggiante, destinate a ritornare
alla vita terrena, passando in rassegna fra esse quelle
che dovevano rincarnarsi nei suoi discendenti, per cono-
scerne il destino, le vicende, il carattere, le opere future.
At pater Anchises penitus convalle virenti
680 inclusas animas super umque ad lumen ituras
lustrabat studio recolens omne^nque suorum
forte recensebat numerum carosque nepotès
fataque fortunasque virum moresque manusque.
Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incon-
tro, dopo il quale Enea vede da un lato della valle un
bosco appartato e cespugli pieni di suoni e il fiume Lete
(il fiume dell' oblio) che lambisce quelle placide sedi e
intorno a questo una infinita moltitudine di anime svo-
lazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro sus-
— 140 —
surro, simile al ronzio che fanno pei prati, nei sereni
meriggi estivi, le api, quando si posano su ogni sorta di
fiori e si addensano intorno ai candidi gigli (1). L' eroe,
stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia
quello, e che uomini quelli che si affollano così nume-
rosi sulle sue rive. E il padre subito gli risponde : « Le
anime alle quali ò dovuto per destino un altro corpo^
bevono alle onde del fiume Lete le acque che sigilleranno
in loro per lungo tempo il ricordo degli affanni e della
vita trascorsa »:
715
anìmae, quìbus altera fato
corpora debentur, Lethaei ad fuminìs undam
securos latices et longa oblivia potant.
Queste anime appunto egli si accinge a mostrargli,
enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi di-
scendenti (i re Albani e gli eroi gloriosi di Roma da
Silvio a Marcello il giovane) perchè s' allieti con lui di
essere finalmente giunto alle spiaggie d' Italia. Ed Enea
subito gli chiede : « padre, si deve dunque credere
che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e ri-
tornino una seconda volta neir impaccio del corpo ? qual
mai assurdo desiderio della vita terrena hanno le infe-
lici ?» :
pater, anne aliquas ad caelum hine ire putandum est
720 sublimis animas iterumque ad tarda reverti
corpora ? quae lucis miserìs tam dira cupido ?
(1) Nella concezione orfica pare che le anime destinate alla {pa-
lingenesi fossero chiamate api; donde ia ragione della similitudine
iSabbadìni).
141 —
Ed ecco subito Anchise esporgli quella eh' io ho chia-
mata la storia deiranima :
« Anzitutto un' interiore forza spirituale anima il cielo,
la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle, e un' intelli-
genza infusa per tutte le sue parti agita e compenetra
la gran mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli ani-
mali che vivono sulla terra, che volano per V aria^ che
si muovono negli abissi del mare : essi, particelle dell'a-
nima universale disseminate nello spazio, hanno vigore
etereo e origine celeste ; ma, più o meno, li inceppa la
lue corporea e le membra terrene e periture li ottun-
dono. Ond' è che essi vanno soggetti a timori e desideri,
a gioie e dolori e, chiuse nelle tenebre e in cieco car-
cere, le anime disconoscono il cielo onde derivano. Tanto
che, anche quando nel dì del trapasso le abbandona la
vita, non si stacca tuttavia dalle infelici ogni male né
le lasciano interamente le sozzure corporee ; molte delle
quali anzi^ avendole profondamente intaccate, devono ne-
cessariamente crescere nel loro intimo per lungo tempo
in modi meravigliosi. Perciò sono sottoposte a pene e
pagano con supplizi il fio delle passate colpe : delle cui
infezioni alcune si purificano rimanendo sospese ed espo-
ste all' azione dei venti, altre immerse in un profondo
abisso d' acqua (negli abissi oceanici ?), altre bruciando
nel fuoco. Tutti subiamo da morti la nostra espiazione,
dopo la quale passiamo nell' ampio Elisio ; e pochi sol-
tanto restiamo nelle sue liete pianure, finché un lungo
volgere d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le
traccio d'ogni sozzura contratta nel corpo e lascia puro
il senso etereo e il fuoco della semplice aura. Tutte
queste invece, quando son volti mille anni, sono chiamate
da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè, immemori
£^3SKwdilfi;wK.ai£-;j» ^ .
- 142 —
del passato, rivedano la volta del cielo e comincino a
sentire di nuo^o la volontà di rincarnarsi nei corpi >/.
€ Princìpio caelum ac terras camposque liquentìs
725 lucentemque giobuin luriae Titaniaque astra
spiritus intus aiit totainque infusa per artus
mens agitat molem et magno se corpore miscet.
inde hoDiinum peoudumque genus vitaeque volantum
et quae marmoreo fert monstra sub aequore pontus.
730 ignens est ollis vigor et caelestis erigo
seminibus, quantum non noxia corpora tardant
terrenique hebetant artus moribundaque membra.
hinc motuunt cupiuntque, dolent gaudentque, ueque auras
dispiciunt clausae tenebris et carcere caeco.
735 quin et supremo cum lumi ne vita reliquit,
non tamen omne malum miseris nec funditus omnes
corporeae excedunt pestes, penitusque necesse est
multa diu concreta modis inolescere miris.
ergo exercentur poenis veterumque malorum
740 supplicia expeudunt. aliae panduntur inanes
suspensae ad ventos, aliis sub gurgite vasto
infectum elicitur scelus aut exuritur igni ;
quisque suos patimur manis ; exindo per am})lum
mittimur Elysium ; et pauci laeta arva tenemus,
745 donec longa dies, perfecto temporis orbe,
concretam exemit labem purumque relinquit
aotherium sensum atque aurai simplicis igneni.
has omnis, ubi mille rotam volvere per annos,
Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno,
750 scilicet immemores supera ut convexa revisant
rursus et incipiant in corpora velie reverti ».
Qui non siamo più di fronte evidentemente a concetti
vaghi e imprecisi, ma all' esposizione alta e solenne di
una teoria, nella quale ò riaffermato anzitutto (vv. 725-
729) il concetto di uno spirito immanente neir universo,
di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli esseri
— 143 —
animati — uomini e bruti — sono delle manifestazioni ;
cioè il medesimo concetto che abbiamo già veduto nel
quarto delle Georgiche, e perfettamente identico a quello
che Cicerone, come s' è visto, attribuiva a Ferecide, mae-
stro di Pitagora (1). Di più la forza spirituale, di origine
divina ed eterea, che è nell' uomo e negli animali, è
concepita in perfetta antitesi con la materia del loro
corpo, che è per l'anima un carcere, un peso, un impe-
dimento, e che è la causa degli errori, delle passioni,
delle colpe, dei traviamenti. Siccliè la vita è un male
(vv. 730-734). Anche questo concetto di un dualismo o
antagonismo fra spirito e materia non è nuovo ed ap-
partenne già anch'esso all' antica filosofìa pitagorica, come
s'è pure veduto (2). Ma se la vita è un male per tutti,
per i malvagi e per i buoni, tutti, dopo la morte, deb-
bono purificarsi delle infezioni corporee. La purificazione
infatti avviene per mezzo di pene e di tormenti, noìi
però eterni j che debbono subirsi per il tempo necessario
air espiazione perfetta.
Ne sono mezzi i tre elementi dell' aria, dell' acqua e
del fuoco (quelli stessi che si adoperavano appunto nelle
cerimonie simboliche dei misteri). Dopo l'espiazione pu-
rificatrice tutte le anime passano nell'Elisio, luogo di
beatitudine, dove alcune poche, quelle degli eletti che
furono in terra i migliori, rimangono a godere una serena
felicità, anche questa non eterna, ma che dura fintantoché
non sia compiuto il tempo prescritto — tempo assai
lungo, quanto è necessario perchè si esaurisca e scom-
paia da sé il loro attaccamento alla vita terrena e il ri-
Ci) De Natura Deorum 1, 11, 27 e Z)e Senectiite 21, 78.
(2) Cicerone, Somnium Scipionis, 7, lo e altrove.
— 144 —
cordo delle belle opere umane (1) — per riprendere poi
la primitiva natura eterea e spirituale e di nuovo dis-
solversi in seno ali' anima universale. Le altre invece, e
sono la gran maggioranza, trascorsi mille anni in una
delle convalli confinanti con V Elisio, vengono chiamate
da Dio a bere nelle acpue purificatrici del fiume Lete
r oblio della vita trascorsa e si incarnano in nuovi corpi.
Non s'intende peraltro, poicliè Anctiise non lo dice, se
queste ultime anime, destinate a nuova vita, quando ri-
torneranno poi ancora, dopo la seconda morte e conse-
guente espiazione negli elementi, air Elisio, vi resteranno
tutte in attesa di convertirsi in puro etere e spirito, o
se parte di esse dovrà ritornare nuovamente sulla terra.
Nel primo caso il numero delle esistenze terrene sarebbe
limitato ar! un massimo di due — una con prevalenza
del male e una del bene —, nel secondo sarebbe inde-
finito. Ma in un modo o nelP altro la teoria della resur-
rezione è assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal mo-
mento in cui r anima si stacca dallo spirito universale
fino al momento in cui si ricongiunge ad esso, è perfet-
tamente conchiuso ; il concetto panteistico e il processo
di involuzione ed evoluzione dello spirito, appena accen-
nati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti compiu-
tamente. Né si può dubitare che anche 1' ultima parte
che si riferisce alle pene e ai premi d'oltretomba (vv. 735-
747) e che espone la dottrina della metempsicosi (vv. 748-
751), sia, come le prime, foggiata secondo i principi del-
l' Urficismo e del Pitagorismo.
(1) Appunto per tale attaccamento, esse continuano noli' Elisio
le occupazioni a cui attendevano sulla terra.
— 145 —
7. — Sarebbe certo oltremodo interessante svolgere
questi principii fino alle ultime conseguenze logiche, e
chiederci, per esempio, se in tale concezione il processo
di emanazione delle anime dallo spirito universale avve-
nisse una volta tanto, o ad intervalli, o ininterrottamente.
Si vedrebbe allora che, non potendo avvenire né una
volta tanto (perchè in tal caso, col ritornare continuo
delle anime individuali in seno all' anima universa, ne
sarebbe seguita in un determinato momento la scom-
parsa della vita dalla terra), né ininterrottamente (perchè
in tal caso, essendo sempre infinitamente maggiore il
numero dei cattivi che non quello dei buoni, a un certo
punto sarebbe prevalso irrimediabilmente sulla terra il
male), ma dovendo considerarsi come avverantesi ad in-
tervalli, r idea di tale processo d'emanazione si ricolle-
gherebbe alla teoria già accennata dei grandi anni mon-
dani (1). Così ancora, poiché dall' anima universale ema-
nano non solo quelle degli uomini, ma anche quelle dei
bruti, ci si potrebbe chiedere che cosa dovesse avvenire
di queste, alla morte dei loro corpi. E si vedrebbe come,
dal modo in cui dovette esser risolto questo problema da
qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi -- quasi
(1) Ognuno di questi anni o perìodi della vita universale era
diviso in dieci mesi (di mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto
il particolare influsso d' una delle divinità maggiori, concepita forse,
filosoficamente, come aspetto, manifestazione, atteggiamento, ema-
nazione particolare del dio universale. La durata però degli anni
stessi era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi se-
coli ; e in ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre
identico di emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e
si ripetevano gli stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto
più su (§ 4) parlando della quarta ecloga.
10.
— 146 —
unanimemente attribuita a Pitagora — d' una metempsi-
cosi anche animale (1).
]Ma prescindendo da queste considerazioni, che ci por-
terebbero al di là di quello che Virgilio ci lui voluto o
potuto dire, come si concilia questa storia dell'anima
con tutta la rappresentazione precedente dell' anti-inferno
e dol Tartaro ? È evidente che una contraddizione fon-
damentale esiste : che V esistenza delie anime nel prein-
ferno e le punizioni evidentemente eterne che subiscono
quelle dei malvagi nel Tartaro non si possono accordare
con le pene temporanee per mezzo dei tre elementi. Sic-
ché noi siamo indotti a pensare che iiella rappresentazione
virgiliana dell' oltre tomba si debba forse vedere un ten-
tativo mal riuscito — per la mancata elaborazione ultima
del poema, impedita dalla immatura morte di Virgilio —
di fondere insieme quella che era rappresentazione po-
polare e il concetto o rappresentazione filosofica del poeta.
E poiché, considerata in sé stessa, questa storia sug-
gestiva e profonda ha un senso compiuto e perfetto, e
d'altra parte sappiamo che Virgilio compose l'Eneide a
pezzi staccati, che poi collegava insieme, non verrebbe
la voglia di credere che essa sia stata scritta a parte,
fors' anello indipendentemente e in tempo anteriore a
quello della composizione del poema, e poi opportuna-
mente inserita in questo, allorché il poeta — artista, tì-
(1) Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le incarnazioni del-
l' anima fossero non tutte necessariamente in corpo umano, ma
anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei, secondo che
le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto clie nel-'
r altro elemento : e la vita animale avrebbe perciò rappresentato
uno stato di vita intermedio fra due vite umane.
147
losofo, cittadino nello stesso tempo - concepì l'idea di
valersi, per esaltare la grandezza della Patria e per la
rappresentazione dei grandi spiriti di Roma, della dot-
trina della metempsicosi, antichissima e largamente dif-
fusa e conforme alle credenze religiose dei suoi concit-
tadini e già consacrata dall' arte di Ennio ? Anzi non mi
parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse
proprio vedere in essa un brano di quei poema della
Natura al quale Virgilio già pensava quando finì il se-
condo canto delle Georgiche (vv. 475-494), e forse ad-
dirittura il principio del poema stesso o 1' idea madre
eh' esse avrebbe svolta : principio ed idea eh' egli certo
prese e imitò da Ennio, i cui Annali, come abbiamo ve-
duto, si iniziavano appunto con 1' esposizione della dot-
trina della metempsicosi (1). In tale ipotesi dunque la
teoria messa in bocca ad Anchise non sarebbe soltanto
una finzione poetica, un mezzo artisticamente perfetto
per ottenere una grande e suggestiva efficacia di rappre-
sentazione, ma esprimerebbe Ja genuina e schietta con-
cezione di Virgilio, il risultato ultimo di quel contrasto
(1) Molti raffronti fra Ennio e Virgilio fa Macrobto nel 1. VT
dei Saturnali; ma, per dire la verità, non vi è cenno alcuno di
rapporti formali o sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad Enea
e quella di Omero ad Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne
parlasse in quella parte dei Saturnali che ò andata perduta e nella
quale appunto si conteneva l' esame del valore filosofico dell'opera
virgiliana fatto da Eustazio. D' altra parte però è indubitabile una
effettiva somiglianza di contenuto fra i due squarci poetici, come
sono indubbie alcune analogie di pensiero fra i due poeti. E gli
arcaismi che si trovano in Virgilio (ollisj aurai) potrebbero essere
un altro indizio d' imitazione enniana. — Anche il Pascal (Coni-
mentat. vergilianae, p. 143 sgg.) ha dimostrato che Virgilio ha
derivato la sua esposizione dottrinale dal proemio degli Annales.
^.^. 148 —
a cui abbiamo accennato fra V idealismo pitagorico-stoico
e li materialismo epicureo, sarebbe insomma il suo testa-
mento filosofico. Mirabile testamento davvero, che la-
sciava in eredità alle più lontane generazioni T alta e
sublime espressione artistica d' una teoria che, sorta agli
albori del ponsiero nelle più remote età dell' uomo, tra-
smessa di generazione in generazione da una civiltà al-
l' altra, dall'Oriente al!' Occidente, custodita con cura
gelosa nel mistero dei santuari, insegnata come la verità
più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una volta,
come già nei miti immortali di Platone, alla luce della
poesia e dell' arte.
V.
Pitagora e h sue dottrine nella poesia di Ovidio.
i. La tradizione di Ninna scolaro di Pitagora in Ovidio. — 2. Na-
tura, ostensione, contenuto degli insegnamenti pitagorici secondo
il canto XV delle Metamorfosi : vegetarianismo ; metempsicosi ;
flusso universale della materia e trasformazioni cosmiche e so-
ciali; Pitagora profeta della grandezza di Roma e d'Augusto. —
3. Ovidio e il Pitagorismo. — 4. Fonti e valore storico della
esposizione ovidiana. — 5. Conclusione.
1. -— Ilo già parlato nel cap. I della tradizione, se-
condo la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato sco-
laro di Pitagora. Raccogliendo là tutte le testimonianze
di questa tradizione, ho anche accennato a quella che ne
fa Ovidio (43 a. C. - 17 d. C.) nel quindicesimo e ultimo
canto delle Metamorfosi (vv. 1-8, 479-484). Essa ha una
importanza specialissima e merita di essere studiata sepa-
ratamente dalle altre anche per questo, che della tradi-
zione stessa il poeta si vale per fare un'esposizione, se
non profonda, tuttavia molto estesa — la più estesa e la
più organica che ci rimanga nella letteratura romana —
— 150 —
della filosofia pitagorica, specialmente in attinenza a due
punti fondamentali di essa: Tastensione dai cibi carnei e
la metempsicosi.
Dice dunque Ovidio (vv. 1-8) che, scomparso Romolo,
si cercò subito chi potesse addossarsi un peso tanto grave
com'era il governo di Roma, succedendo a un tal re, e
che una fama non menzognera designò all'impero Numa,
già famoso per la sua giustizia, per la sua pietà, e, so-
pratutto, per la sua sapienza : che, non solo conosceva a
perfezione i riti della sua gente, la gente Sabina, ma,
abbracciando con la vasta anima più larghi concepimenti
ed essendo avido di scrutare i più ardui problemi della
natura, aveva abbandonato la nativa Curi e si era recato
a Ci'otone :
Quaeritur interea qui tantac pondera molis
Suistineatj tantoque queat succedere regi.
Destinai imperio cìarttni praenuntia veri
Fama Numaìn. Non ille satis eognosse Sahinac
5 Qentis hahet ritus: animo viaiora capaci
Goncipitj et quae sit rerwìn naiura requirit,
Huius amor curae^ patria Guribusque rclictisj
Fedi, ut Herculei penetrar et ad hospitis urbcm.
Quivi insegnava Pitagora — e segue appunto nei versi
60-478, l 'esposizione delle dottrine di questo filosofo, che
or ora esamineremo — e Numa ne ascoltò le lezioni; dopo
di che ritornò in patria e prese le redini del governo di
Roma, insegnando al popolo del Lazio i riti sacrificali e
le arti della pace:
480
Talibus atque aliis instructo pectore dictis
In patriam re^neasse ferunt^ ultroque petitwtn
Acoepisse Numam populi Latiaris habenas :
Coniuge qui felix nympha ducibusque Gamenis
— 151 —
Sacrificos docuit ritus, gentemquc feroci
\ Adsuetam bello pacis traduxit ad artes.
Come si vede — e l'ho già rilevato, — Ovidio non
solo accetta senza discuterla, come cosa ovvia e risaputa,
la tradizione che faceva di Numa un discepolo di Pita-
gora, ma vien pure in certo modo a mettere in connes-
sione di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a
Numa e l'educazione pitagorica da lui ricevuta; per
quanto con l'accennata collaborazione della ninfa Egeria
e delle Camene la leggenda abbia certamente voluto rap-
presentare la parte che ebbe l'elemento indigeno nella
creazione degl'istituti religiosi romani del più antico pe-
riodo regio (1). Il poeta pertanto, non tenendo conto dei
dubbi e delle critiche messe innanzi da qualche erudito,
preferì seguire senz'altro la tradizione leggendaria, che
pur Cicerone aveva chiamata inveteratns hominmn error;
e ciò non tanto perchè siffatta tradizione gli offriva mi-
rabilmente il modo di esporre quella dottrina della me-
tempsicosi ch'era la più naturale conclusione d'un poe-
ma come le Metamorfosi, quanto perchè, molto probabil-
mente, la tradizione era più che mai viva nella coscienza
dei contemporanei, per i quali il poeta scriveva (2), mas-
sime dopo la recente rinascita del Pitagorismo in Roma.
(1) Lo stesso Ovidio, in altro luogo (Fast. Ili, 151-154) accenna
alla possibilità che la riforma del calendario sia stata ispirata a
Numa dal filosofo di Samo : « Primus.,., Pompilius menses sen-
sit abesse duos Sive hoc a Samio doctus, qui posse renasci Nos
putat, Egeria sive monente sua ».
(2) Un ultimo accenno alla medesima tradizione si legge nella
terza elegia del terzo libro delle Fontiche, dove il poeta, immagi-
nando di parlare in sogno all' Amore di cui si professa maestro,
lo rimprovera di essersi comportato verso di lui ben altrimenti da
quello che fecero altri discepoli verso i loro maestri : Eumolpo
verso Orfeo, Achille verso Chirone, Numa verso Pitagora, ecc. :
/■
— 152 —
2. — In Crotone teneva dunque scuola Pitagora; :1
quale, nativo dell'isola di Samo, aveva abbandonato spon-
taneamente la patria, mal sopportando la tirannide ond3
ora governata, e s'eia dato a profondi studi di filosofia.
Per virtù di questi « egli potò elevarsi con la mente,
per quanto fossero lontani nella immensità dello spazio
celeste, fino agli dei e scrutare con gli occhi dell'intel-
letto ciò che la natura ha negato alla vista degli uomini »:
60 Vtr fuit hicy ortu Samius ; sed fugerat una
Et Samoìi et dominos^ odioque tyrannidis exul
Sponte erat, Isque^ licei caeli regione remotos^
Mente deos adiit et quae natura nogabat
Visibus hurnanis^ oeulis ea pectoris hausit.
Ecco subito, in questi magnifici versi, messo in evi-
denza Pitagora, e determinata con molta precisione e con
grande efficacia rappresentativa la natura del suo misti-
cismo, fondato sopra l'esercizio assiduo delF intelletto e
la profonda intensità del meditare, per giungere alla vi-
sioiie e alla comprensione delle pii^i alte verità.
65
70
Cumque animo et vigili perspexerat omnia eiira
In mediuìn discenda dahat, coetusquc silentuiu
Dictaqtie miranturn magni primordia mundi
Et rerum causas et, quid natura, docehat :
Quid deus, unde nives^ quae fulminis essct origo,
luppiter an venti discussa nube tonarent^
Quid quateret terras, qua sidcra legc mcarent,
Ed quodeumque latet.
Ai non Ghionides Eumolpus in Orphea talis ;
In Phryga nec satyrum talis Olympus erat ;
Praem,ia nec Chiron ab Achilli talia cepit,
Fythagor aeque ferunt non nocuisse Numam.
Nomina neu referam, longum collecia per aevum,
Discipulo perii soliis ab ipse meo.
— 153 —
e' in questi altri versi ecco parimenti accennata con
grande chiarezza la vastità e larghezza degl'insegnamenti,
che il filosofo impartiva all'attonita e silenziosa schiera
dei discepoli e che abbracciavano « le origini primordiali
dell' universo, le cause della materia e l'essenza della na-
tura e della divinità, l'origine delle nevi e del fulmine,
del tuono e del terremoto e le leggi onde è regolato il
corso degli astri: insomma, tutti i problemi più reconditi
della filosofia naturale e della scienza » (1).
Egli per primo, aggiunge ancora il poeta, vietò di ci-
barsi di carne, sconsigliando bensì tale astensione con
molta dottrina, ma senza riscuotere la meritata approva-
zione :
Primusque aniinalia mensis
Arguii imponi : primus quum talibun ora
Docla quidem solvit, sed non et eredita, vcrbis.
Ed ecco appunto il filosofo combattere, in prima per-
sona, l'uso delle carni (vv. 75-95) e descrivere l'età del-
l'oro, quando gli uomini non -conoscevano ancora tale
uso (vv. 96-142); e poi, ispirato dalla divinità, eccolo ac-
cingersi, con più alto afflato poetico, a trattare questioni
più ardue e a svelare più riposti misteri :
Et quoniam deus ora movet, sequar ora moventcm
Rite deum, Detphosque tneos ipsumque reoludam
145 Aethera et augustae rescrabo oraeula mentis.
Magna, nee ingeniis evestigala priorwn,
Quaeque din latuere, canam. luvat ire per alta
(1) I vv. 67-71, che riassumono la supposta fisica pitagorica,
sono manifestamente ispirati da Lucrezio, dico il Lafaye, Les mé-
iamorphoses d'Oride et leurs modèles grecs, Paris, Alcan, 1904,
p. 197; masi accordano pure benissimo coi principii dello stoicismo.
tWlBiTllilìillllT-li
I
150
— 154 —
Astra; iuoat terris et inerti sede relieta
Nube vehiy validique umeris insistere Atlantis,
Palantesque koniines passim ac rationis egcntes
Despectare procul^ trepidosque obitumque timentes
Sic exkortarì, seriemque evolvere fati.
« E polche sento di parlarvi per ispirazione divina,
seguirò gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il
rito, e vi svelerò i miei arcaui e lo stesso etere e vi
schiuderò gli oracoli fin qui nascosti nel profondo della
mia mente. Vi canterò cose grandi, né mai scrutate dalle
menti dei padri, e che per lungo tempo restarono occulto.
Mi piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace abban-
donata la terra e questa inerte dimora, lasciarmi traspor-
tare da una nube e poggiare sulle spalle del vigoroso
Atlante e guardare da lontano gli uomini sparsi qua e
là e ancora irragionevoli, e ad essi, che aspettano con
trepido timore la morte, infondere coraggio e schiudere
la visione del loro destino con queste parole... »
Siamo alla rivelazione della metempsicosi, la cui cono-
scenza appunto deve distruggere negli uomini il timore
della morte :
155
genus attonituni gelidae formidine mortis !
Quid Stygaj quid tenebras et noìnina vana timetis,
Materiem vatum, falsique perieula ìnuìidi? (1)
Cor por a ^ sive rogus fiamma ^ seu tabe vetustas
Abstulerit^ mala posse pati non ulta putetis.
Morte carent animae; semperque priore relieta
Sede novis domibits vivunt habitantque receptae.
(1) Cade ovvio a questo punto il raffroato coi famosi versi delle
Georgiche (II, 490-492) :
Felix, qui potuit rerum cognoscere caussaSy
Atque metus omnis et inexor abile fatum
Subiecit pedibus strepitumque Ackerontis avaria
ì
— 155 —
« schiatta attonita per lo spavento della fredda morte !
Che temete lo Stige, la tenebra e i suoi nomi vani, fan-
tasie di poeti e pericoli d'un mondo inesistente? Non
crediate che i corpi, o li abbia distrutti il rogo con la
sua fiamma, o il tempo con la putredine, possano soffrire
mali di sorta. E quanto alle anime, esse non muoiono : e
sempre, abbandonata una sede, vivono e abitano in di-
more che nuovamente le accolgono ».
E in prova di ciò Pitagora ricorda (vv. 160-164) d'es-
sere vissuto ancora, al tempo della guerra troiana, nel
corpo d' Euforbo. Poi segue, più specificatamente chiarita
ed espressa, la dottrina della metempsicosi animale, vol-
garmente attribuita a Pitagora :
165 Omnia mutaniur, nihil interit : errai et Mine
Huc venit, hinc illue, et quoslibet oempat artus
Sinritm; eque feris humana in coi-pora tramit,
Inque feras noster, nee tempore deperii ulto,
Vtque novis facilis signatur cera figtiris,
170 Nec manel ut fuerat, nee formas servai easdcm,
Sed lamen ipsa eadem est; animani sic sernper candem
Esse, sed in varias doceo migrare figuras.
« Tutto si trasmuta, niente muore. Lo spirito va er-
rando e si muove di là a qui, di qui a là, e s'incarna
nel corpo che si presceglie; e dalle fiere passa nei cor-
pi umani e viceversa, ne mai vien meno. E come la molle
che SI sogliono riferire ad Epicuro. Entrambi i filosofi dunque giun-
gevano alla medesima conseguenza pratica (inanità del timore della
morte) partendo da premesse assolutamente opposte : 1' uno, cioè
Pitagora, dimostrando che il morire è soltanto trasformazione, o
passaggio dell' anima d'una in altra forma di vita corporea; 1 al-
tro cioè Epicuro, dimostrando che il morire è annientamento to-
tale e definitivo della personalità per il disgregamento degli atomi
onde l'anima si compone.
jwM i iiiinri'ift i a w aM M
t'
— 156 —
cera si foggia in nuove figure, sì che, pur non restando
quale era prima e non conservando le stesse forme, tut-
tavia è sempre la stessa, così vi dico che l'anima è sem-
pre la medesima, senonchè passa sotto varii aspetti » (1).
Da ciò un nuovo argomento per astenersi dall'usar
carne (vv. 173-175).
A questo punto la trattazione di Pitagora si allarga, e
il filosofo passa a dimostrare V evoluzione perpetua e il
divenire incessante di tutto il creato :
Et quoniam ìnagno feror acquare plenaquc veìiiìs
Vela dedi : niliil est tato, quod perstet, m orbe.
Cimcta fluunty ornnisque vagans fonnahir imago,
« E poiché, aperte le vele al vento, navigo in alto
mare, sappiate che non vi è nulla di immobile in tutto
l'universo. Tutto fluisce, e si foggia incessantemente ogni
mutevole aspetto j^.
E questa nuova proposizione illustra con una lunga
serie di esempi, tratti dai fenomoiii celesti, dall' avvicen-
darsi delle stagioni, dalla vita dell'uomo e dalle vicissi-
tudini degli elementi (vv. 179-251).
Ma la natura non ci offre solo lo spettacolo di muta-
menti regolari, determinati da leggi immutabili ed uni-
versali; si compiono anche intorno a noi, nei corpi inor-
ganici e negli organici trasformazioni impreviste, che i
saggi osservano con curiosità, ma di cui essi ignorano
le cause : questi fenomeni straordiìiari — spesso elencati
e descritti nei periodo alessandrino, in opere intitolate
(1) Questa prima parte dell'esposizione ovidiana è molto proba-
bilmeote modellata sul « Sogno » degli Annali di Ennio di cui si
e già visto.
W
w
— 157 —
Paradoxa — Ovidio li fa esporre da Pitagora, non sen-
za qualche anacronismo, nei vv. 252-417 (i vv. 307-336
riguardano le proprietà di certi corsi d'acqua^ mirabilia
fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri (vv. 418-
452), che descrivono le rivoluzioni avvenute nelle società
umane, sino al glorioso principato d'Augusto, predetto
già da un oracolo fin dal tempo della caduta di Troia :
Nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romani^
Appenninigenae quae proxima Thyhridis undis
Mole sub ingenti rerum fundamina ponit.
Haec igitur far mani crescendo mutata et olini
435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates
Vaticinasque ferunt sortes : quantumque recordor,
Dixerat Aeneae^ cuni res Troiana labaret^
Priamides Helenus flenti dubioque salutis : (1)
« Nate dea^ si nota satis praesagia nostrae
440 Mentis habes^ non tota cadet te sospite Troia.
fiamma libi ferrumque dabunt iter: ibis, et una
Pergama rapta feres, donee Troiaeqiie tibique
Externum patria conlingat amicìus arvum,
Urbem etiam cerno Phrygios debere nepotes,
445 Quanta nec est nec erit nee visa prioribus annis.
Hanc aia proceres per saecula longa potentem,,
Sed dominam rerum de sanguine natus luli
Efficiet. Quo cum tellus erit usa, fruentur
Aetheriae sedes^ caelumque erit exitus UH ».
Haec Helenum cecinisse penatigero Aeneae
Mente memor refero, cognataque moenia laetor
Crescere, et utiliter Phry gibus vicisse Pelasgos.
Così Pitagora ò fatto profeta della divina e fatale po-
tenza d'Augusto, come con analogo procedimento, nel
(1) La sola predizione che troviamo accennata, a proposito di
Enea, nei poemi omerici, si legge nel e. XX àoiV Iliade (vv. 302,
30G-308), e fu riprodotta da Virgilio {Aen.^ Ili, 97-98).
i€«S
- 158 —
poema virgiliano la dottrina pitagorica della metempsicosi
è assunta quale mezzo artistico per la predizione della
futura grandezza di Rom^».
Nei pochi versi che seguono (453-478) Pitagora fiual-
raPììte ritorna al punto di partenza e conchiude : « Poi-
ché tutto cambia, poiché al termine della vita la nostra
anima passa in nuovi corpi, anche animali, non uccidia-
mo le bestie; chi può sapere se, uccidendole non faccia-
mo scorrere il sanirue di nostri congiunti ? » .
3. — Analizzato così il contenuto della esposizione
ovidiana, vien fatto naturalmente di chiedersi quale sia
stato r atteggiamento del poeta di fronte al Pitagorismo.
Ne fu egli per avventura un seguace ? A questa do-
manda noi possiamo rispondere negativamente senz'om-
bra di esitazione : la vita e l'operosità poetica di Ovidio,
anche nel periodo posteriore alla composizione delle Me-
tamorfosi, furono in antitesi troppo stridente con gl'inse-
gnamenti e la pratica pitagorica, per poter immaginare
pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a
quelle dottrine ; d' altra parte Ovidio non ebbe certo tem-
pra di filosofo né eccessivo amore per le ricerche e spe-
culazioni astruse. Che però una certa simpatia, o almeno
una certa insisten.za del suo pensiero su quella filosofia
ci sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua
maggiore le ha fatto così larga parte, con una esposizio-
ne quasi sistematica, ma altre volte ancora accenna ad
essa, come nel citato luogo dei Fasti e in alcuni versi
delle Tristezze (1).
— 159 —
E quasi certamente poi questa predilezione del poeta
si deve ritenere l'effetto della rinascita del Pitagorismo,
che era stata operata in Roma da Nigidio nella prima
metà del secolo (onde abbiamo già visto quante e quali
traccie se ne riscontrino nella letteratura dell'età di Ci-
cerone e di Varrone), e che al tempo stesso del poeta
fece sorgere la scuola dei Sestii : sì che Ovidio potè averne
notizia sia dalle opere degli scrittori che appartenevano
alla generazione precedente alla sua, sia dalla viva voce
e dagli scritti di qualcuno dei nuovi seguaci.
4; — Gli studiosi infatti che, proponendosi la questio-
ne delle fonti di quest'ampia trattazione ovidiana del Pi-
tagorismo, hanno cercato di risolverla, per poter quindi
determinare il valore storico della trattazione stessa, hanno
riconosciuto in sostanza che tali fonti debbono essere
state le opere varroniane (le Antniuitates rerum duri'
narum e sopratutto il dialogo Oalhis^ de admirandis)
(1) 'Irist., Ili, 3, 59-64:
Atque utinaw per ermi animae cuvi cor por e nosirae^
Effugiatque avidos pars mihi nulla rogoa.
Nam si morte carens vacua troiai altus in aura
SpirituSy et Samii sunt rata dieta senis,
Inter Sarmaticas Romana vagahitur umhras^
Perque [eros manes hospita semper erit.
Il poeta si augura che abbiano ragione coloro che « 1' anima col
corpo morta fanno » e che nessuna parte del suo essere sfugga
alle fiannne del rogo, poiché diversamente, egli dice, « se Io spi-
rito, immortale, vola alto nelle vuote regioni dell' aria e sono veri
gì' insegnamenti del vecchio di Samo, 1' ombra di un Romano sarà
costretta a vagare fra le ombre dei Sarmati e sarà sempre un'e-
stranea tra feroci anime di morti ». Il passo è importante, perchè
mostra che, di fronte al pensiero della morte, il poeta era in so-
stanza ancora incerto fra coloro che negavano e quelli che affer-
mavano la immortalità dell'anima.
^^ 160 _
oppure gli scritti di Nigidio, o dei Sestii, od anche dei
loro discepoli Papirio Fabiano e Sozione (1).
Sicché, qualunque si accetti delle ipotesi messe innanzi,
sta di fatto che le fonti a cui Ovidio ha attinto non sono
molto anteriori a lui.
D'altra parte, anche tenendo conto del fatto che Ovidio,
pili poeta che filosofo, non intese certo di trattar Targo-
mento con rigore di metodo scientifico e filosofico, atte-
nendosi scrupolosamente a questo o a quell'autore ; ma
che avrà usato di una certa libertà e indipendenza, e che
(pur valendosi, se si vuole di uno o piìi modelli, oltre
che dei ricordi e delle cognizioni sue personali) avrà se-
guito soprattutto il suo sentimento artistico, giovandosi
della materia dogmatica nella forma genuina soltanto
nei limiti atti a recare efficacia estetica air opera sua e
non poco forse aggiungendo, sopprimendo o modificando
di sua propria intenzione; si è riusciti tuttavia a mo-
strare, per esempio, che certe intrusioni nel sistema pi-
tagorico di principii appartenenti ad altri sistemi — come
a quelli di Eraclito e di Empedocle — non sono affatto
imputabili ad Ovidio, ma dovevano già essere avvenute
negli scrittori dai quali egli attinse (2). La sua esposi-
fl) Si vedano in proposito le opere seguenti : Hottingkr, T)e
Pythagora ovidiano (in Opusrula philologica, Leipzig 1817, pag.
100-107); A. ScHMEKEL, De ovidiaìia Pytkagoreae doctrinae adum-
bratione. Gryphiswad, 1885 e Die Philosophie der ìnittleren Stoa,
Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove sono modificata in parte le
conclusioni dell'opera precedente); G. Lafaye, op. cit., cap. X.
(2) Per Eraclito si veda C. Pascal, La dottrina pitagorica e la
eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova, 1909 ripubblicalo
nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920, p. 207 ; e
per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta, Firen-
ze, Le Mounier, 1904, pag. 129-151.
— 161 -
zione del sistema di Pitagora acquista pertanto il valore
di documento storico, in quanto che, supplendo in parte
alla deficienza delle nostre cognizioni in proposito, dovuta
alla perdita delle opere di Varrone, di Nigidio, dei Sestii,
ci mostra molto approssimativamente in che consistesse
il neo-pitagorismo romano del primo secolo avanti Cristo.
5. ,— L'esame che abbiamo così compiuto della lettera-
tura latina dalle origini fino a tutto il secolo della sua
maggior ficnitura ci ha dimostrato non solo che il Pita-
gorismo fu nelle varie età di Roma abbastanza largamente
conosciuto, ma che d'ispirazione pitagorica sono alcune
delle pii^i eloquenti pagine che quei tempi ci Hanuo tra-
mandate, come il sogno di Ennio, il sogno di Scipione
e il sesto canto dell' Eneide: sicché dobbiamo concludere
che nelle idee che quel sistema svolse era implicita una
grande e mirabile virtù di esaltazione poetica ed artistica .
Se riflettiamo d'altra parte che quelle idee esercitarono
notevole influsso nel sorgere delle più antiche istitu;5Ìoni
romane, e che contro di esse mossero guerra invano l'arte
titanica di Lucrezio, la satira maliziosa di Orazio, la forza
politica di Cesare e di Augusto (nella lotta contro il so-
dalizio di Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii), dobbiamo
tenere per certo che in esse fosse insita una grande forza
di resistenza e quella specie di. malìa fascinatrice che su-
scita le più alte energie morali. Se le idee tanto più val-
gono quanto maggiore è il sentimento, che le accompagna
e che le trasforma in forze vive cioè operanti nella vita
degli individui e dei popoli, le concezioni pitagoriche,
venute da sì lontane scaturigini e assurte a così varie,
molteplici, alte manifestazioni d'arte, di pensiero, di mo-
li.
— 162 —
ralità nel periodo della civiltà romana, ebbero certo valore
altissimo.
Che se poi, uscendo fuori dai limiti del nostro tema,
pensiamo, alla forza di resistenza che esse mostrarono, al
loro persistere attraverso i secoli e attraverso tante vicis-
situdini del pensiero, al loro successivo e alterno rina-
scere con sempre rinnovato vigore nei momenti di più
intensa attività spirituale — nella Magna Grecia con Pi-
tagora, in Atene con Platone, in Alessandria coi teosofi
neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio, in Co-
stantinopoli con l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ul-
timo rinascimento con Giordano Bruno — e se riflettiamo
che oggi ancora esse vivono nell' Oriente asiatico, ope-
ranti con la forza della fede in milioni di coscienze, e
che accennano per diversi segni, in questa nuova prima-
vera dell'idealismo, a risorgere anche nel mondo occiden-
tale (1), noi possiamo con sicurezza affermare che esse
non furono apparizione fugace ed effimera d'un pensiero
individuale, ma parole di quel linguaggio eterno che sgorga
perenne dalle più profonde radici dell'anima umana.
APPENDICI
I.
K UPHO H^OS.
(1) Si veda, per esempio, tanto per citare un magnifico libro di
scienza, l'opera di W. Mackenzie Alle fonti della vita (Genova,
Formiggini, 1912) e la recensione clie io ne feci nel Oiornale del
Mattino di Bologna del 7 marzo 1^12.
1. La figura di Euphorbos uell' Iliade,
di Euphorbos. -
Pitagora rincarnazione
3. Altre incarnazioni di Pitagora.
1' \
Pubblicato nella Rivista Ligure di Seienxe , Lettere ed Arti^
a. XXXIX, fase. 2 (inarzo-apiilu 1912) Genova.
• 1. — V'è forse alcuno per il quale, meglio che per
Euphorbos figlio di Panto, possa ripetersi il famoso ver-
so dell'antico commediografo, che il Leopardi tradusse
« muor giovane colui ch'ai cielo è caro » ? Poiché ve-
ramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli anni
sotto le mura della sua Troja per mano del divino Me-
nelao, dopo aver ferito^ primo fra i Trojani, il fortissimo
Patroclo, Euphorbos ebbe la ventura non solo di una
spiritual vita immortale ne la immortalità dell' Iliade, ma
di lasciare altresì il suo nome, come ora vedremo, legato
per sempre al ricordo di un grande pensiero e di ujia
più grande vita : al pensiero e alla vi+a di Pitagora.
Fusa nel vivo indistruttibile metallo della poesia d' 0-
mero, la figura del giovinetto eroe appare, nel racconto
dell' antica gesta, nel momento più acuto delF azione guer-
resca. Quando, per l'ostinato disdegno di Achille, più
grave è per i Greci il pericolo nella memoranda giornata
del combattimento presso alle navi, Patroclo, indossate le
armi dell'amico e ricondotti i Mirmidoni alla battaglia,
166
ì
verso Torà del tramonto si trova coi suoi di fronte ad
Ettore, che Apollo protegge : in tre assalti egli ha uccisi
« tre volte nove » nemici, ma al quarto assalto un colpo
del dio gli ha tolto Telmo, infranta la lancia, fatto cadere
lo scudo, slacciata la corazza:
II. XYI, 805 Smarrito il cor, fiaccate le valide membra, fermossi
e titubò. Di dietro allor con la punta de l'asta
infra le spalle, al dosso, lo colse da presso un trojano,
il Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli eguali
con la lancia e sul cocchio e al muover degli affili piedi,
ed anche allor, venuto appena sul carro, sbalzati
venti nemici avea, di guerra già prode campione.
Primo ei vibrò con 1' asta un colpo su Patroclo auriga ;
ne lo scrollò; poi corse indietro e tornò ne la mischia,
tratta fuor da le carni la lancia di frassino; incontro
Patroclo, ancor che ignudo, ei già non attese a TasRalto (1).
Patroclo allor, stordito dall'urto di Febo e da Tasta,
anco a 1' amiche schiere traeva, fuggendo la morte.
Ma com' Ettore vide dal ferro piagato ritrarsi
Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia,
presso gli venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse
sotto a r addome : fuori n' uscì da l'opposto la punta.
Quei con fragor giù cadde, e grave fu il lutto de' Danai.
810
815
820
■i'
■ k
r
Ai
(1)1 versi 814-'B15 trovo segnati come spurii nella quinta edi-
zione del DiNDORF, curata dallo Hentze (Lipsia, 1890), sulla quale
è stata condotta la presente traduzione. Ma non mi pare che sia
proprio necessario inquadrale fra parentesi i due versi, così ome-
rici pur nell'apparente disordine dei particolari accennati : prima
la pronta ritirata del giovinetto trojano, })0Ì il trarre dalle carni
di Patroclo Tasta; T idua preponderante per il poeta (cantore in-
nanzi a un pubblico di ascoltatori), dopo accennato T ardito colpo
del giovine, è <[uella del suo rapido sottrarsi alla vendetta di Pa-
troclo ; fermata questa, il poeta si riprende par aggiungere an-
cora un particolare descrittivo (lo sforzo dello strap[)aro dalla fe-
rita la lancia) p per nnoalzaru Tidea della fuga di fronte a Patroclo,
167
Suir eroe atterrato Ettore si vanta e lo schernisce, ma
il caduto ne rintuzza V orgoglio, affermando che la vitto-
ria non è stata merito suo, sì degli dei: che lo hanno
ucciso la Moira e il figlio di Latona « e, degli uomini,
Euphorbos »; e predettagli la fine imminente per mano
d'Achille, muore e rimane supino in mezzo al campo di
battaglia, mentre Ettore insegue Automedonte, che cerca
di portare in salvo il cocchio d'Achille.
A guardia del cadavere di Patroclo si fa innanzi l'A-
tride Menelao, armato di lucido bronzo, tenendo davanti
al morto, in sua difesa, la lancia e il rotondo scudo, fer-
mo d'uccidere chiunque osi accostarsi. Ed ecco ancora
Euphorbos, il cui intervento dà luogo ad uno dei più
begli episodi delia battaglia : .
IL XVII, 9 Pronto di Panto il figlio, esperto ne Tasta(l), s'avvide
ch'era atterrato Patroclo, e fattosi subito innanzi
V
che, pur ferito e spoglio della difesa delle armi, era sempre un
troppo temibile nemico, anche per un più esperto guerriero che
non fosse Euphorbos. Poiché Omero non ha voluto certo rappresen-
tare questa fuga come atto di viltà ! È tutt'altro che vile il figlio
di Panto, come dimostrerà fra poco nelT impari duello con Mene-
lao. Sicché non mi pare corrispondente né allo spirito né alle pa-
role del testo omerico la traduzione che dà il Monti di questo passo:
Anzi dal corpo ricovrando il ferro
Si fuggì pauroso j e nella turba
Si confuse il fellon, che di Patroclo
Benché piagato e già dell'armi ignudo
Non sostenne la vista. (//. XVI, 1146.1150)
(1) L'epiteto (eummelies) non é certo ozioso : infatti già il poeta
ha detto che Euphorbos primeggiava fra i coetanei « con la lancia »
iXVI, 809), e che « con Tasta acuta » ha ferito Patroclo (XVI, 806
e XVII, 15), come con Tasta dà un colpo iT ultimo !) nello scudo
di Menelao (XVII, 43-45).
— 168 —
Ili
15
20
25
30
35
40
disse al Aglio trAtreo, al prode guerrier Menelao :
« Menelao, divino germoglio, signor di gran genti,
vanne, abbandona il morto, qui lascia le spoglie cruento (1).
Prima di me nessuno, fra' Teucri o gì' illustri alleati,
giunse con V asta Patroclo, in mezzo al furor de la mischia:
lascia ch'io m' abbia dunque quest'inclito onor fra' Trojaiii,
che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro ».
Bieco d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo :
« Bello davver, gran Giove, con tanta insolenza vantarsi !
Certo mai fu sì grande '1 furor di pantera o leone
di cignal feroce, a cui nel fierissimo petto
gonfiasi il cor superbo, alter di sua grande possanza,
qual de* figli di Panto, esperti ne Tasta, è la boria !
Né ad Iperènor tuo, rettor di cavalli, già valse
di giovinezza il fiore, allor che sprezzante aifrontommi
e disse me fra' Danai il piii dispregevol guerriero !
Or ei non più, te '1 dico, da' suoi propri piedi portato,
ad allietar ritorna la cara consorte e i parenti !
Così la tua baldanza, se pur d'affrontarmi tu ardisci,
rintuzzerò. Ma io ancor ti consiglio a ritrarti
dov'è folta la turba. Chi è saggio prevede l'evento ».
Disse così, ma quello ne pur gli die retta e rispose :
« Or, Menelao divino, trar dunque dovrò gran vendetta
pel fratel eh' uccidesti - e ancor tu me 'l dici vantando -
e nel segreto talamo tu n'hai vedovata la sposa,
e i genitor nel lutto e in muto cordoglio gittasti !
Oh ! che per me dei miseri avrebbe il cordoglio una tregua,
se la tua testa io stesso e l'armi portandomi in Troja,
fra le man le gittassi a Panto e a la diva Frontide!
Ma non più a lungo, omai, s' indugi a far prova con l'armi
s' io m' abbia saldo il core o pieno di vile paura *.
Detto così, die un colpo nel tondo perfetto suo scudo,
ma non lo franse il ferro; bensì gii si torse la punta
nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con l' asta
(1) Le armi di Patroclo, sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo,
giacevano in terra poco lungi dal cadavere.
169 —
45
50
55
60
l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove padre,
e, mentre quei s'arretra, il coglie a la fossa del collo;
dentro spinge con forza calcando la mano pesante,
e dall' opposto n' esce pel tenero collo la punta.
Cadde, die un tonfo e V armi su lui con fragor risonare ;
s' insanguinar le chiome, che simili aveva a le Grazie, (1)
i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d' argento.
Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre
in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,
bello, pien di rigoglio, e poi, come 1' agita il soffio
di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, (2)
ma piombando improvviso un vento con turbine grande
dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte;
tale di Panto il figlio, esperto ne 1' asta, Eiiforbo
l'Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi.
Come — allor eh' un robusto leone cresciuto fra' monti
da pascolante gregge rapì la giovenca più bella,
(1) Cioè ricciute, come dice nel verso seguente, e non bionde^ co-
me ha interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse ricordando Pin-
daro New. 5 fine. Le Grazie furono sempre rappresentate con lun-
ghi ricci spioventi sì nelle arti plastiche e figurative, sì nella let-
teratura dei Greci (cfr. Omero, Inno ad Apollo, 194 sg. e Stesicoro,
fr. XIII neWAntoL della ìneltca greca di A. Taccone). —Si veda
in proposito quello che scherzosamente Luciano, nel Sogno, fa dire
a Micillo : questi, fra le altre cose dice al suo gullo-Pitagora: « e
« mi sembra che Omero per questo abbia detto le tue chiome si-
« mili alle Grazie, perchè « avvinte eran d'oro e d' argento »: in-
« trecciate infatti con 1' oro e rilucendo con esso apparivano, evi-
« dentemente, molto più pregevoli e desiderabili » (XIII).
(2) Accenna forse il poeta coi « soffi di tutti i venti * la sta-
gione di primavera, quando — fra il marzo e l' aprile — le pianto
s' incurvano bensì sotto i venti, ma si rivestono anche della loro
fioritura annuale ; anzi parmi che accenttf qui proprio alla prima
fioritura del bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo turbine schian-
ta, così come l'asta di Menelao, troncando la vita del giovinet-
to forte ed ardimentoso, fa cadere il serto di fiorite speranze che
già s' intesseva intorno al suo capo.
\
— 170
cui la cervice infranse tenendola forte co' denti,
poi, facendola a brani, le viscere ingolla col sangue —
intorno a lui, da lungo, si muovon con grande frastuono
65 cani, villan, pastori, ma farglisi presso ad alcuno
non regge il cor, che. tutti li fa scolorir la paura;
così nessun de' Teucri ha l'alma nel petto sì ardita,
eh' osi affrontar da presso la forza del gran Menelao.
E questi agevolmente porterebbe via le splendide armi
di Eiiphorbos, se non glielo impedisse Febo Apollo, il
quale, presentatosi ad Ettore sotto T aspetto di Mente, io
consiglia a desistere dall' inutile inseguimento dei cavalli
d'Achille e ad accorrere invece là dove
or Menelao frattanto, il figlio pugnace d'Atreo,
89 corso a difender Patroclo, uccise il miglior do' Trojani,
il Pantoide Euforbo e spento n' ha il valido ardire.
Ettore infatti, pronto, si fa largo tra le schiere, vede
r uno che toglie le magnifiche armi, 1' altro disteso in
terra e il sangue che sgorga dalla ferita, irrompe fulmi-
neo con orribili grida, e Menelao, riconosciutolo subito,
non osando da solo tenergli testa, lascia a malincuore il
corpo di Patroclo e si ritira verso i suoi, per chiamare
qualcuno in soccorso. Così egli non ha potuto neppure
portar via con sé sul suo cocchio la preziosa armatura ;
della quale tuttavia dovette certo impadronirsi più tardi,
quando i Trojani sconfitti furono costretti a rinchiudersi
entro le mura. E non sarà stato quello il meno glorioso
trofeo di guerra che avrà riportato con se a Micene.
2. — Ma Eiiphorbos, morto di così bella morte e glo-
rificato già dalla divina arte d' Omero, non rinacque per
avventura, dopo (]uattro secoli, a nuova vita e ad opere
non meno beile e gloriose?
171 —
Poiché alcune antiche testimonianze ci hanno traman-
dato che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola
italica, l'assertore più famoso della dottrina della metempsi-
cosi, « nel tempio di Hera Argiva, veduto uno scudo di
« bronzo, disse che quello portava e gli era stato tolto
« da Menelao quando era Euphorbos. E degli Argivi,
« staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome
« d'Euphorbos ». Così afferma uno scoliaste d'Omero
(//. XVII, 28) e così altri, fra gli antichi scrittori, ricor-
dano accennano la cosa. Chi non rammenta infatti, tanto
per citare i più noti, quella famosa ode d'Archita, dove
Orazio afferma appunto, non senza una sottile ironia, che
« il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto, sceso
« all'Orco un'altra volta, sebbene, con lo scudo, che fece
« staccare, data testimonianza dei tempi della guerra troja-
« na, non avesse concesso alla nera morte niente più che
« i nervi e la pelle? » (1) Il buon Orazio, tra scettico
ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella me-
tempsicosi e si burlò un poco di « Pitagora redivivo! » (2)
Anche Ovidio, che nell' ultimo canto delle Metamorfosi
fti esporre da Pitagora stesso le sue dottrine, lasciò espli-
cito ricordo della tradizione, facendo dire al filosofo :
Ben io — sì io rammento — nei dì della guerra di Troja
ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui stette nel petto
(1) Orazio, Carni. I, 28 vv. 9-13 :
habentque
Tartara Panthoiden iterum Orco
Demissura, quamvis clipeo Trojana refixo
Tempora testatus, nihil ultra
Nervos atque cutem morti concesserat atrae.
(2) Id. Epod. VI, 21: « nec te Pythagorae fallant arcana renati »*
— 172 —
la grave lancia infissa, per man del più giovine Atride,
Riconobbi lo scudo, che già la sinistra mia tenne,
or non è molto in Argo nel tempio sacrato di Giuno ». (1)
E aucora due secoli dopo il filosofo neo-platonico Por-
firio, raccogliendo in una breve biografia molte notizie
intorno a Pitagora, lasciò scritto che questi « ricordava
« a molti di quelli che si recavano da lui la precedente
« vita che V anima loro aveva vissuto già un tempo pri-
« ma di essere legata nel corpo d' allora. E di sé stesso
« rivelò con prove induhitahili d'essere stato Euphorbos
« figlio di Panto, E dei versi omerici cantava, accompa-
« gnandosi mirabilmente con la lira, quelli di preferenza:
50 s' insaguiniìr le chiome, che simili aveva a le Grazie,
i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d'argento.
Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre
in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,
bello, pien di rigoglio, e poi, come V agita il soffio
55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre,
ma piombando improvviso un vento con turbine grande
dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte ;
tale di Pauto il figlio, esperto ne 1' asta, Euforbo
r Atride Menelao uccise e spogliava de V armi.
« Poiché quel che si racconta dello scudo di questo
€ Euphorbos frigio, che si trovava in Micene, nel bottino
(1) Ovidio, Metamorpk, XV, vv. 160-164:
Ipse ego — nani memini — Trojani tempore belli
Fanthoi'des Euphorbus eram, cui pectore quondam
Haesit in ad verso gravis basta minoris Atridae.
Cognovi clipeum, ìaevae gestamina nostrae,
Nuper Abanteis tempio lunonis in Argis
— 173 —
« trojano dedicato a Giunone Argiva, lo passo sotto si-
« lenzio come cosa ben nota » (1).
La tradizione dunque era assai diffusa fra gli antichi.
Ora quale ne sarà stata T origine? Un'invenzione pura e
semplice ? Potrebbe anche essere; nel qual caso dovrem-
mo evidentemente pensare a qualche discepolo o seguace
del Maestro, il quale, per confermarne meglio la dottrina
della metempsicosi, avesse immaginato di sana pianta la
storiella, cercando poi di accrescerle autorità col farne
autore lo stesso Pitagora. V invenzione sarebbe nata da
quel che abbiamo udito or ora narrare da Porfirio, che
il filosofo, appassionato lettore d'Omero, recitava e can-
tava spesso i delicati e soavi versi della morte d' Euphor-
bos ? Anche questo é possibile. Ma a me pare molto più
semplice e forse più ovvio — senza andare vanamente fan-
tasticando in ipotesi — credere senz'altro alla concorde
testimonianza degli antichi. Vi ' é forse nella cosa alcun-
ché che trascenda i limiti della credibilità e della vero-
simiglianza? Pitagora non credeva davvero alla metempsi-
cosi, e non era anzi questo il pernio della sua psicologia
e della sua morale, e convinzione (non pura ipotesi spe-
culativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei suoi
seguaci ? Dunque è ben possibile che egli, il quale aveva
virtù taumaturgiche (tanto che nella sua vita il meravi-
glioso, anzi il miracoloso, ebbe gran parte)^ egli, che tante
profonde e misteriose cose aveva imparato nei suoi viaggi
in Egitto e nell' Oriente, esercitando quelle sue pratiche
magiche di vita, profondando lo spirito in quelle sue ma-
il) PoRPHYRii, Vita Pythagorae, 26, 27. Così presso Luciano nei
Dialoghi dei morti (20), quando Eaco presenta Pitagora a Menippo,
questi si rivolge subito a lui con le parole: « Salve, o Euphorbos ».
— 174
ditazioni *~ così intense, che erano quasi astrazioni dal
corpo ed estasi vere e proprie — , credesse di leggere
nel suo passato la storia della propria anima e ne desse
notizia — se non proprio alle turbe — agi' iniziati della
sua scuola, agi' intimi, ai più perfetti, da qualcuno dei
quali poi la cosa sarà stata divulgata. Insomma per me
r attribuire a Pitagora stesso, anziché allo spirito inven-
tivo di qualche zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite
anteriori non ha nulla di inammissibile e di men che
credibile : lo zelo dei seguaci avrà forse potuto aggiunge-
re qualcosa, inventare qualche nuovo particolare o ma-
gari immaginare qualche nuova esistenza, ma T origine
prima di siffatti racconti si può proprio far risalire allo
stesso Maestro. Il quale dunque potè realmente dire e
naturalmente anche credere — poiché non è ammissibile
la malafede in un uomo di tanta autorità, la cui vita fu
tutta un apostolato di verità e di bene — di essere stato
Eviphorbos.
Ma in tal modo — si potrebbe osservare — se noi
accettiamo per vero quello che l' antichità concorde ci ha
tramandato, che cioè Pitagora credette e diede a credere di
essere stato il giovinetto figlio di Panto, ne verrebbe di
conseguenza che egli avrebbe anche creduto nella realtà
storica A" Euphorbos, non già nato dalla feconda fantasia
d' Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che per que-
sto ? Chi mai dei Greci del sesto secolo avanti Cristo —
per non dire di quelli dei secoli posteriori -- non credette
nella realtà della guerra trojana, e dubitò della esistenza
di Agamennone, di Achille, di Menelao, di Ulisse, di
Ettore, di tutta la bella schiera degli eroi dell' Iliade e
dell' Odissea? Ne la critica storica demolitrice, nò la qui-
stione omerica erano nate ancora, e Federico Augusto
— 175 —
AVolf doveva tardare ancora ventiquattro secoli a nascere
e a lanciare pel mondo la stupefacente teutonica mostruo-
sità dei suoi Prolegomeni ad Omero ! (1)
3. — Di Pitagora gli antichi conobbero anche altre
incarnazioni, anteriori e posteriori. Soggiunge infatti Por-
tino, un poco pili innanzi : « Affermava di essere già vis-
« suto precedentemente, dicendo d' essere stato prima Eii-
phorbos, poi Etàhde, in terzo luogo Ermótimo, poi Pirro
e alloi-a Pitagora. Con che dimostrava che 1' anima è
immortale e riesce, in chi sia purificato, a ricordarsi
« dell'antica sua Vita » (2). Ma Diogene Laerzio ci ha
conservato in proposito una testimonianza — che risali-
rebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di Platone, Speu-
sippo ed Aristotile) — la quale differisce da quella di
Porfirio non solo perchè fa di Euphorbos la seconda in-
carnazione, essendo stata la prima quella di Etalide, ma
anche perchè riferisce ad Ermótimo (terza incarnazione),
anziché a Pitagora, V episodio dello scudo, che sarebbe
«
«
«
(1) Veramente si é incominciato già da qualche tempo — anche
in Germania — ad essere un po' meno radicali in fatto di nega-
zioni. E a quel modo che il Beloch, per esempio, ammise come
possibile che « fra gì' innumerevoli eroi venerati nelle diverse parti
del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà una volta si
mosse sulla terra in carne ed ossa » (I, p. 121), così il Drerl^p
{Omero, Bergamo, 1910) afferma d'esser « disposto a vedere in
Agamennone, Menelao, Nestore, Ajace, foise anche in Priamo e
in altre figure dell' epopea, reali persone storiche » (p. 226). Gli
rimangono però gravi dubbi sulla realtà storica della spedizione
contro Troja (p. 231 e seg.).
(2) /. e, 45. Della cosa discussero anche gli scrittori cristiani,
come Tertulliano (de anima 28, 31. 34), LattaxNzio {Epit, Institi
div. 36), Sant'Agostino {Irinit, XII, 24;»
— 176
— 177
inoltre stato appeso nel tempio di Apollo a Branchidas,
e non a Micene. Ma ecco senz'altro le parole di Laerzio:
« Dice Eradide Fon lieo che egli (Pitagora) affermava di
« sé d'esser già stato Etalide e ritenuto figlio di Her-
« mes (1). E che Hermes gli disse di scegliere quel che
« volesse, tranne V immortalità : onde egli chiese il dono
€ di conservare da vivo e da morto il ricordo di tutti
« gli eventi. Che pertanto in vita si ricordava di tutto,
« e dopo che fu morto conservò egualmente la memoria.
« Che in seguito rinacque Eùphorbos e fu ferito da Me-
r ìielao ; ed Eùphorbos diceva d' essere stato un tempo
« Etalide e di aver avuto da Hermes quel dono e ricor-
<< dava le trasformazioni dell'anima com'erano avvenute,
e e attraverso quali piante ed animali fosse passata, e
« che cosa l'anima avesse sofferto nelPAde, e qual sorte
« attenda le altre anime. E che quando Eùphorbos morì
« la sua anima passò in Krmòtimo, che alla sua volta,
€ volendo dare una prova dell'esser suo, andò a Bran-
« chidas ed entrato nel tempio iV Apollo mostrò lo scudo
« che Menelao vi aveva appeso, ormai imputridito, re-
« stando solo la parte esterna d\avorio (2). E che quan-
di) Dobbiamo forse in questa ipotetica discendenza da Hermes,
il dio dei misteri, vedere significata la iniziazione di Pitagora alle
dottrine ermetiche? Mi par probabile; se pure non dobbiamo vedere
in ciò, come neir altra comune tradizione che faceva di Pitagora
un « tìglio d'Apollo », delle espressioni del linguaggio mistico
fraintese.
(2) Pausania, nella descrizione che ci ha lasciata dell' Hcraion
di Micene, dice ben chiaro che nel i)ronao del tempio, a destra,
dov' era la statua della dea, vi era « anche appeso in voto uno
scudo, quello che Menelao già tolse ad Eùphorbos in Ilio ». {De-
scriptio Orneeìae II, 17, 3;. Ora. poiché sappiamo ciie Pausania
descrive neir opera sua proprio <iuel che ha visto coi suoi occhi
«
«
« do Ermótimo morì, rinacque Pirro pescatore di Delo ;
« e di nuovo si ricordava tutto : come fosse stato prima
« Etalide^ poi Eùphorbos, poi Ermótimo, poi Pirro. E
che quando Pirro morì, rinacque Pitagora e si ricorda-
va di tutto quel che s' ò detto » (1). Non solo, ma a
sentir Gelilo anzi i due filosofi Clearco e Dicearco — vis-
suti fra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo — avreb-
bero lasciato scritto che Pitagora rivisse ancora altre tre
volte, come Pirandro, come Calliclea e finalmente come
una bella etera chiamata Alce (2).
E così l'anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto volte
e avendo sperimentato, chiusa nel carcere corporeo, le
più varie condizioni d'esistenza, sarà essa — dopo aver
compiuto il ciclo assegnatole dal suo proprio destino —
tornata a dissolversi nel gran mare dell' anima univer-
sale ? (3) non avrà continuato ancora a vestirsi d'uma-
na carne, indefinitamente, secondo la favola di Luciano?
(tanto che una sua indicazione guidò lo Schliemann alla scoperta
delle famoso tombe dei re nel foro di Micene), avrà egli veduto
quell'antichissimo logoro avanzo, o una copia in bronzo fattane
fare di poi, o addirittura un qualunque scudo che i sacerdoti del
tempio vi abbiano appeso in tempi tardivi a ricordo e testimonianza
dell'antica notissima tradizione ? Pausania in ogni modo visse
nella 2* metà del secondo secolo dopo Cristo.
(1) Diogene Laerzio, Vili, 4-5.
(2) Gellio, Noctes JLiticae^ IV, 11 : «... . Pythagoram vero
« ipsum, sicut celebre est, Euphorbum primum fuisse, dictitasse; ita
« haec remotiora-sunt his, quae Glearchus et Dicaearchus memo-
« riae tradiderunt, fuisse eum postea Pyrandrum, deinde Callicleam,
« deinde feminam pulchra facie meretricem, cui uomen fuerat
« Alce ».
(3) Se, come è probabile, Platone ha desunto dal Pitagorismo i
principii a cui informa la teoria delle pene d' oltretomba nel De
republica (X, 615; — secondo la quale chi aveva commesso ingiu-
12.
w
\
1
— 178 -
« Lungo sarebbe a dire — così parla il suo gallo filo-
« sofo (Pitagora redivivo anche questo!) — in qual forma
« i' anima mia venisse via da Ajjollo volando, ed entrasse
« in corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal guisa...
« Mentre eh' io era Eiiphorbos combattei a Troja, e quivi
« ucciso da Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare
« in Pitagora; ma fra T un tempo e T altro non ebbi
e casa, aspettando che Mnesarco (1) mi apparecchiasse
« r abitazione..,. — Ma quando ti spogliasti di Pitagora
4 (domanda Micillo al suo gallo) di che ti vestisti? — Di
« Aspasia, femmina di mondo, di Mileto — . . . — E dopo
€ Aspasia qual uomo o qual nuova donna diventasti? —
« Grate, cinico. — figliuolo di Giove, qual differenza!
« Di femmina di mondo, filosofo ! — Poi re, poi un po-
« verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc-
« chic, e mille altre cose che non finirei mai a dirle tutte.
« Ma sopra tutto fui gallo spesso (vita da me sopra le
stizia verso un altro doveva subire dieci volte quella medesima
ingiustizia e occorreva quindi lo spazio di dieci vite per scontare
le colpe della prima — bisognerebbe veramente ammettere (s' in
tende bene, dal punto di vista di Pitagora e della sua dottrina)
almeno altre due vite. — Per il luogo platonico e le relazioni che
esso può avere avuto con il dogma cristiano della resurrezione si
veda ciò cbe lia scritto il Pascal nella Rassegna Contemporanea
del dicembre l9ll (ripubblicato in Credenxe d'oltretomba^ II, pa-
gina 199).
(1) Padre di Pitagora. Si noti poi che qui Luciano sorvola sul-
le altre note incarnazioni del filosofo. Ma altrove {Vera Historia^
II, 21) egh dice: « In quel tempo appunto ci venne (nella città di
« Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di Samo, che allora aveva
« finita la settima mutazione, vissuto le sette vite, compiuti i sette
« periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il lato destro. Fu de-
« ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva se chia-
* marlo Pitagora od Euforbo ».
— 179 -
e altre amatissima) servendo ad altri molti, a re, a pove-
« relli, a ricchi uomini; e finalmente vivo in tua compa-
« gnia, facendomi beffe cotidianamente di te, che ti que-
« reli della tua povertà, e piangi e ammiri i ricchi perchè
« non sai i mali che comportano... » (1).
E con l'amabile arguzia lucianea possiamo ben chiu-
dere questa singolare istoria d'Eiiphorbos figlio di Panto,
il quale fu veramente molto caro ai celesti.
(1) Luciano, Il Sogno o il Gallo (secondo la traduzione di Ga-
sparo Gozzi). Si legga tutto questo piacevolissimo dialogo. Il no-
stro autore del resto scherza in parecchi altri luoghi su Euphor-
bos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere un qualunque indice
delle opere di Luciano.
II.
11^ SODALT/^TCì PTXAGOF^TCO
r>I CROTONK.
1. Oggetto del prosente studio. — 2. Origine e formazione del So-
dalizio pitagorico. — - 3. Carattere e scopi di esso. — 4. Sua du-
rata. — 5. Suo ordinamento. — 6. Natura degl' insegnamenti
che vi ,si impartivano. — 7. Conclusione.
1
Edito nel 1904 dalla ditta Nicola Zanichelli di Bologna. Tradotto
e pubblicato in The Tkeosophical Review (Londra) voi. XX XVII,
n. 219-20 (nov.-dic. 1905).
1. — Una tradizione che fu diffusa e concorde nel-
r antichità anche prima dell' apparizione del neo-pitagori-
smo, narra che il filosofo di Samo, dopo aver viaggiato
nelle regioni d'Oriente — in Fenicia, nella Babilonia, in
Caldea, nella Persia, nell' India e in particolare nelF E-
gitto — e aver presa quivi conoscenza delle dottrine se-
grete che i saggi ed i sacerdoti vi professavano, proprio
nello stesso tempo in cui fiorivano nella Cina Lao-Tse
(604-520 a. C.) e nell'India Gotamo Buddho (560-480) (1)
venne a Crotone, una delle più fiorenti fra le città della
Magna Grecia, dove, acquistato subito largo seguito di
ammiratori, istituì un celebre Sodalizio, Di questo ap-
punto intendo ora di esporre le origini, la durata e la
costituzione, valendomi delle notizie abbastanza numerose
e particolareggiate, perchè possiamo farcene un' idea esatta,
(1) Cfr. le osservazioni contenute nel cap. I dello studio di G.
De Lorenzo sull' India e il Buddhismo antico (Bari, Laterza, 1904,
22 ediz. 1919).
ié
— 184 —
185
che ce ne hanno lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio (1),
Porfirio (2), Giamblico (3), Clemente Alessandrino (4),
nonché, incidentalmente, gli scrittori classici maggiori,
delle quali poi si servirono, in misura più o meno larga,
con criteri più o meno discutibili, gli storici moderni del-
la filosofia greca in generale e del movimento pitagorico
in particolare, come il Krische (5), lo Chaignet, il Cen-
tofanti, lo Zeller, il Cognetti de Martiis, lo Schuró (6)
ed altri.
2. — Quanto al roWgfme dell'Istituto, la tradizione con-
corde narra che verso la LXIP Olimpiade (530 a. C.) o
poco dopo (7) Pitagora, giunto a Crotone, forse accom-
pagnato da numerosi discepoli che ve lo seguirono da
Samo (8), cominciò a tenere in pubblico discorsi tali da
conquistare subito la simpatia degli uditori, accorrenti in
gran numero ad ascoltare la sua parola ispirata (9), che
(1) Vitae et piacila clarorum philosophorum I. Vili e. I.
(2) De vita Pythagorae.
(3) Z>e pythag erica vita.
(4) Stroììiat. libri, passim.
(5) De societatis a Pythagora in urbe Crotoniatarmn conditae
scopo politico commentatio^ Gòtting, l831.
(6) Les Grands Inities, Paris 1902, pp. 267 sgg. Ed. ital. (Bari,
Laterza, 1905). Per gli altri autori v. note a p. 186 e 192.
(7) Variano dal 529 al 540 le date proposte relativamente all' anno
della sua partenza da Samo; la prima data è ammessa dalI'UEBERWEo,
Qrundr. I, 16, 1' altra è in Bernhardy, Orundr. d. gr. Liti. p.
I, pag. 755. Il Lenormaxt (La Grande Grece) sta pel 532. Quanto
air arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che nel 540 Pitagora vi
si trovasse già.
(8) GlAMBL. 29.
(9) V. PoRi^iRio /. e. 20, che riferisce la notizia da Nicomaco e
cfr. GuMBL. /. e. 30.
predicava verità non mai udite prima d'allora in quella
regione e da quegli uomini. Accolto con molta deferenza
tanto dal popolo quanto dalla parte aristocratica, che al-
lora aveva nelle mani il governo, per V entusiasmo su-
scitato dalla sua predicazione, fu eretto dai suoi ammira-
tori un ampio edificio in marmo bianco — homakoeion
od uditorio comune (1) — nel quale egli potesse inse-
gnare comodamente le sue dottrine ed essi ridursi a vi-
vere sotto la sua guida. La tradizione, quale la troviamo
presso Giamblico e presso Porfirio, aggiunge altri parti-
colari: Pitagora, entrato nel ginnasio, avrebbe parlato ai
giovani che vi si trovavano suscitandone V ammirazione (2),
del che venuti a conoscenza i magistrati e i senatori
avrebbero manifestato il desiderio di sentirlo anch' essi ;
ed egli, venuto dinanzi al Consiglio dei Mille, vi ottenne
tale approvazione da essere invitato a rendere pubblico
il suo insegnamento^ al quale infatti molti accorsero pron-
tamente, mossi dalla fama, subito diffusa per tutto il
paese, della grande austerità d'aspetto, della dolce soavità
d'eloquio, della profonda novità di ragionamenti del fo-
restiero. Via via, la sua autorità crebbe in modo che egli
potè esercitare nella città una vera dittatura morale; poi
(1) Si noti che Clemente (Strom. I, 15) lo identifica con quella
che al suo tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa cristiana.
(2) V. in Giamblico op. cit. 37-57 un largo sunto di questo di-
scorso, che ci dà un' idea di quello che fosse V insegnamento esso-,
terico di Pitagora. La diversità notata a questo proposito dallo
Zeller fra il racconto di Giamblico e quello di Porfirio non mi pare
sufficiente per trarne, com' egli fa, l' induzione che il discorso ri-
ferito dal primo non può essere stato preso da Dicearco, citato dal
secondo ; ad ogni modo è fuori di dubbio che Dicearco stesso lo co-
nosceva, se potè dire che conteneva « molte belle cose ».
— 186 —
187 —
si allargò, dift'oudendosi nei paesi vicini della Magna Gre-
cia e nella Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Ca-
tania, ad Imera, a Girgenti; dalle colonie greche, dalle
tribù italiche dei Lucani, dei Peucezi, dei Messapii ed
anche da Roma (1) vennero a lui discepoli di ambo i
sessi ; e più celebri legislatori di quelle regioni, Zaleuco,
Caronda, Numa ed altri, V avrebbero avuto per maestro (2),
sì che per merito suo si sarebbero ristabiliti dovunque
l'ordine, la libertà, i costumi e le leggi (3). In questo
modo, dice il Lenormant (4), « egli potò giungere a rea-
lizzare l'ideale d'una Magna Grecia composta in limone
nazionale, sotto l'egemonia di Crotone, non ostante la
differenza di razze degli Elioni italioti » ; il che peraltro
è inesatto, poiché, come vedremo, l' intendimento di Pi-
tagora nella sua azione e nella sua predicazione non fu
politico nazionale, ma essenzialmente umano. Forse, ag-
giunge un altro scrittore (5)^ non fu estranea all'acco-
glienza avuta dal filosofo ed al successo da lui riportato,
una persona con la quale egli doveva essersi trovato in
rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre medico ero-
tonese Democede. Ma senza dubbio, più che a conoscenze
personali, l'approvazione ottenuta da Pitagora in Crotone
e l'entusiasmo da lui suscitato in tutta la Magna Grecia
(1) DioG. Vili, 15; PoRF. 22 ecc.
(2) V. Seneca, 90, 6 che cita Posidoniu ; Diog. Vili, 16; Forf.
21; GiAMBL. 33, 104, 130, -172; Eliano, Var. llist, IIJ, 17; Diod.
XII, 20.
(3) V. Diog. VIII, 3; Porf. 21 sg., 54; Giambl. 33, 50, 132,
214; Cic. Tuse. V, 4, 10; Diod. hrag^n, p. 554; Giustino XX, 4;
Dione Crisost. or. 49, p. 249 ; Plut. c. princ. philos. I, 11, p. 776.
C4) Op. cit,^ V. I, p. 75.
(5) CoGNETTi De Martiis, Socialismo antico^ (Torino, 1889) p. 465.
furono piuttosto l'effetto da un lato delle virtù intrinse-
che delle sue dottrine e del suo insegnamento, e dall' al-
tro della disposizione e attitudine di quelle genti a in-
tenderlo ed apprezzarlo. Poiché il misticismo ed ogni
moto idealistico trovò sempre fra loro un generale e pron"
to assenso e un gran numero di seguaci, sia nei tempi
più antichi, sia durante il medio evo e nell' età moder-
na (1). In queste attitudini dei popoli del mezzogiorno
sta la ragione del rapido diffondersi delle dottrine pita-
goriche, che furono accettate quasi universalmente : tanto
che molti (2), i migliori per intelligenza e per elevatezza
morale, presi d'ammirazione per la profonda scienza del
Maestro, si accostarono a lui, e, desiderosi di penetrare
più addentro nella conoscenza del suo sistema filosofico,
di cui intravvidero ed intuirono la vastità e la compren-
sione, si ridussero a poco a poco a vivere con lui, atti-
rati nella sua orbita d'azione e di pensiero da quella
spontanea simpatia che hanno sempre esercitata sugli al-
tri tutti i grandi apostoli dell'umanità.
Così fu formato il Sodalizio, del quale fu poi aperto
(1) Così p. es. ridea religiosa di cui si fece poi paladino e ca-
valiere S. Francesco, partì appunto dalla Calabria, con l'abate Gioac-
chino da Fiore (V. Tocco L'Eresia nel M. E., lib. JI, eie II).
Del resto il Pitagorismo si mantenne sempre vivo nell' Italia Me-
ridionale, (di dove penetrò in Koma con Ennio) e vi sorse a nuo-
vo splendore nei sec. XVI e XVII con la Scuola di Bernardino
Telesio, dalla quale uscirono, fra gli altri, il Campanella e il Bru-
no— Cfr. David Levi, Giordano Bruno^ Torino, 1888 pp. 124 sgg.
(2) Porfirio op. cit.^ 20 sgg., racconta che più di duemila cit-
tadini con le mogli e i tìgli si raccolsero nelP Homakoeion e vis-
sero mettendo in comune i loro beni e reggendosi con statuti dati
loro dal filosofo, che veneravano come un Dio.
— 188 —
— 189 —
l'accesso a tutti i buoni — uomini e donne (1) — : e alla
sua filosofica famiglia il Maestro diede quel medesimo or-
dinamento che aveva forse visto attuato nelle scuole del-
l' Oriente e dell'Egitto, nelle quali come s'è accennato,
egli aveva probabilmente preso conoscenza dei Misteri.
L'istituto divenne ad un tempo uu collegio d'educazione,
un'accademia scientifica e una piccola città modello, sot-
to la direzione d' un grande iniziato ; e per mezzo della
teoria accompagnata dalla pratica, delle scienze unite alle
arti, vi si giungeva lentamente a quella scienza delle
scienze, a quell'armonia magica dell'anima e dell'intel-
letto con l'universo, che i Pitagorici consideravano come
l'arcano della filosofia e della religione. La scuola pita-
gorica ha perciò un'importanza assai grande, perchè fu
il piìi notevole tentativo ♦d' iniziazione laica : sintesi an-
ticipata dell' ellenismo e del cristianesimo, essa innestò il
frutto della scienza sull'albero della vita, e conobbe quin-
di quell'attuazione interna e viva della verità che sola
può dare la fede profonda; attuazione effìmera, ma d'im-
portanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell' esempio (2).
3. — Secondo che fu data maggiore importanza all'uno
o all'altro degli elementi costitutivi della dottrina pita-
gorica alle forme e agli effetti esteriori di essa, diverso
(1) Sulle donne pitagoriche sarebbe opportuno e desiderabile uno
studio, che darebbe certo gran luce su molti fatti. Ad esse era
impartito un insegnamento particolare ed avevano iniziazioni pa-
rallele, adattate ai doveri del loro sesso. Giamblico, op. cit, 267,
dà i nomi di 17, tutte chiarissime— Cir . ihid. 30, 54, 132; Dioo.
VITI, 41 sg. ; PoRF. i9 sg. ecc. — V. anche Schuré, op, cit. pa-
gine 379 sgg.
(2) ScHURÈ op. cit. p. 314.
fu il criterio che gli studiosi portarono nel giudicare per
quali intendimenti il filosofo avesse voluto creare questo
Sodalizio.
Alcuni non ne videro che l'intento politico'^ così, se-
condo il Krische, « la società ebbe meramente lo scopo
di restaurare, consolidare e accrescere il potere decaduto
degli ottimati e, subordinati a questo, due altri scopi, uno
morale e l'altro di coltura: di rendere cioè i suoi mem-
bi'i buoni ed onesti, affinchè, se fossero chiamati al reg-
gimento della cosa pubblica, non abusassero del loro po-
tere con l'opprimere la plebe, e questa comprendendo
che si provvedeva al suo benessere, stesse contenta al
suo stato; e di far studiare la filosofia a coloro che si
accingessero al governo dello Stato, perchè non si può
aspettare un governo buono e sapiente se non da chi sia
colto ed erudito » (1). Ora quanto sia incompiuta ed im-
peifetta questa opinione del Krische apparirà dal seguito
del nostro studio. Gli intenti del riformatore non furono
politici soltanto, ma anche morali, filosofici e religiosi ;
nò il suo insegnamento voleva mirare solo a Crotone, o
alla Magna Grecia, sibbene dXVìiomo in generale ; il con-
tenuto politico che esso poteva avere era quindi appena una
parte, e neppure la principale, di un larghissimo sistema
scientifico e filosofico, che abbracciava tutto lo scibile.
Altrimenti, nota giustamente lo Zeller, non si spieghe-
(1) l. e. p 101 — Cfr. il giudizio del Meiners, Hist. d, scienc.
etc. v. li, p. J85 e quello molto strano del Mommsen, St. di Roma
antica^ Roma-Torino 1903, v. I, p. 124 sg. : « Siffatte tendenze
« oligarchiche informa^^ano la lega solidaria degli « Amici » (?),
« fregiata del nome di Pitagora ; essa ingiungeva di venerare la
« classe dominatrice come divina, di trattare come bestie quei
« della classe servile ecc. » !
— 190 —
rebbe l' indirizzo fisico e matematico della scienza pitago-
rica, e il fatto che le testimonianze più antiche intorno
a Pitagora ci mostrano in lui pii^i che V uomo di Stato,
il teurgo, il profeta, il sapiente e il riformatore morale (1).
In realtà egli mirava ad elevare nello spirito e nei costu-
mi i suoi discepoli, sia impartendo loro una cultura e
una scienza univ ersale, sia facendo ad essi praticare la
più rigorosa disciplina dell'animo e delle passioni. Con
questo egli otteneva anche lo scopo, eminentemente civile
e umanitario, di migliorare via via sempre più facilmente
e largamente i cittadini e gli uomini tutti, poiché ogni
discepolo portava poi necessariamente fuori della scuola,
nella sua vita domestica e pubblica, la moralità e la dot-
trina in quella acquistata, diffondendola con la parola e
con l'esempio tra i famigliari, i parenti, gli amici. E in
conseguenza di ciò dovette compiersi a poco a poco un
mutamento anche nel governo della città, per il fatto
che i primi ad approfittare e a far tesoro delle nuove
dottrine essendo stati probabilmente gli ottimati, questi
direttamente, se ne facevano parte, o indirettamente,
se erano privati cittadini, dovettero' portare nel governo
un nuovo indirizzo razionale e una più rigorosa moralità.
L' alleanza quindi fra il Pitagorismo e l'aristocrazia, come
osserva ancora lo Zeller, fu non la ragione, ma l' effetto
dell'indirizzo generale della scuola che chiamava a sé i
migliori ; e se la tradizione ci rappresenta il Sodalizio co-
me un' as.^ociazione politica, ciò è vero a patto che non
vogliamo anche affermare che il suo indirizzo religioso,
etico e scientifico sia stato una conseguenza della posi-
ci) Y. Eraclito pr. "Dioo. Vili, 6; Erodotu TY, 05 — Zeller, D.
Phil, d. Qriech. I^ p. 328.
- 191 —
zione che i pitagorici presero nel campo politico ; perchè
invece fu proprio il contrario.
Assai diversamente giudicò la natura della società pi-
tagorica il Grote (]), che la disse di carattere religioso
ed esclusivo, e ad un tempo attivo e spadroneggiante,
poiché i suoi membri attivi avevano appunto 1' ufficio di
influire nel governo e sul governo, mentre i contempla-
tivi attendevano agli studi; proprio come nella organizza-
zione dei Gesuiti coi quali, dice, i Pitagorici presentano
una notevole somiglianza. Secondo lui insomma i seguaci
del filosofo non furono che « un privato e scelto nucleo
d' uomini, di fratelli^ che abbracciarono le fantasie reli-
giose del Maestro, il suo canone etico, i suoi germi (?!)
d' una idea scientifica e manifestarono la loro adesione
con particolari osservanze e riti ». In tutto questo vi é
appena qualche ombra di vero; V esagerazione ha tolto la
mano all'autore. Il concetto religioso ci fu senza dubbio
in Pitagora, esso costituiva anzi il pernio di tutto V in-
segnamento esoterico, e il punto di partenza della mera-
vigliosa dottrina dei numeri che lo simboleggiava; ma non
si trattò punto di fantasie più o meno strane e irrazio-
nali ch'egli volesse dare ad intendere ai suoi seguaci, sì
bene di quella stessa dottrina religiosa che in Egitto, in
Oriente e in 'Grecia si insegnava nei Misteri e nelle scuole
filosofiche, unica nella sua sostanza — benché diversa
nelle forme e nei simboli esteriori — perché dovunque
derivata dalla stessa tradizione, e, per quanto mistica,
fondata tuttavia saldamente sopra una verace e controlla-
bile esperienza. Il paragonare poi il sodalizio stesso alla
(1) HisL of. Oreece^ T. lY, p. 544; cfr. Rittek, Gesch. d, Phi-
los. I, p. 365 sgg.
— 192 —
— 193 —
setta gesuitica, è un errore, che dimostra in chi ha po-
tuto fare simile raffronto ben poca penetrazione nello spi-
rito che informava queir antichisshno istituto ; è un giu-
dicarlo dalle sole apparenze esteriori, un disconoscerne
gV intenti non settarii, ma profondamente umani, uno svi-
sare infine l'opera di uno dei piìi grandi pensatori e apo-
stoli che r umanità abbia avuto.
Più vicino al vero è il giudizio del Lenormant, in quan-
to egli seppe vedere sotto le forme della religione V in-
tendimento onorale di Pitagora (1); ma ancora più giusto
e compiuto, perchè rispondente a tutti i dati di fatto la-
sciatici dalla tradizione, ò quello che del Sodalizio diede
uno storico italiano, il Centofanti, col definirlo una So-
« cietà modello, la quale, se intendeva a migliorare le
« condizioni della civiltà comune e aspirava ad occupare
« una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa
€ pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo
« morale e religioso e promoveva ogni buona arte a per-
« fezionamento del vivere secondo un^ idea tanto larga
« quanto è la virtualità deW nmana natnra » (2). Con
lui si accordarono press' a poco lo Chaignet (3) e lo Zel-
ler (4), per il quale la scuola si distingueva da tutte le
associazioni analoghe « per il suo indirizzo morale » pog-
giato su motivi religiosi e guidato da sani metodi d'edu-
cazione e di istruzione scientifica. Il Duncker quindi scris-
se con molta verità che Pitagora fu <^ non solo il Maestro
« d'una nuova sapienza, ma altresì il predicatore di una
(1) Op. di. I, p. 83.
(2) Studi sopra Pitagora, nel voi. La Letteratura greca i Fi-
renze, Le Monnier), Opere^ p. 401 sg.
(3) Pythagore et la philos. pythag. I, p. 98.
(4) Die Philos. der Grieehen P p. 328.
« nuova vita, il fondatore di un culto nuovo e il bandi-
« tore d'una nuova fede » (1). Soltanto tale novità, va
intesa come relativa ai luoghi e ai tempi: poiché, come
ho detto sopra, il fondo esoterico della dottrina aveva ori-
gini assai remote.
4. — Se tale era dunque T intento della Società pita-
gorica, se al di sopra di ogni altra considerazione il grande
di Samo pose quella di riformare interior piente gli uomini
e con ciò di modificare anche — necessariamente — le
condizioni esterne della vita individuale e sociale, se egli
mirò a costituire una religione fondata sul sentimento in-
teriore e non sulle pratiche esterne del culto, alle quali
ben raramente ed in pochi corrisponde un'adeguata cono-
scenza e persuasione, e che perciò acquistano un valore
di mera superstizione e di vuoto formalismo dogmatico,
era troppo naturale che la nuova istituzione dovesse su-
scitare i timori degli elementi conservatori della società
crotonese ed italiota, e sopra tutto le ire di quegli ari-
stocratici ignoranti che ne erano stati esclusi per deficien-
za intellettuale e morale, e dei sacerdoti che vedevano
allontanarsi dalla religione tradizionale e quindi sfuggire
al loro dominio tanta parte — la parte migliore — della
gioventù. E le calunnie che tutti costoro seppero sparge-
re, dovevano purtroppo trovare, come sempre, facile cre-
dulità nel volgo e pronto aiuto in tutti coloro che dalle
nuove idee vedevano lesi o minacciati i loro interessi per-
sonali; tanto più che -- come accade in ogni nuovo mo-
vimento d'idee che tocchi e trasformi l'assetto politi-
co e sociale, -^ delie incertezze, degli errori, delle de-
(5) Qesch. d. Alter. VI, p. 636.
13.
— 194 —
bolezze, della violenza partigiana di qualcuno fra gli adepti
e fautori della Società avranno ben tosto cercato di trarre
partito, mettendole in rilievo, gli avversari delle nuove
dottrine. Ma di questo non ò fatto ricordo da nessun au-
tore. E fatto invece espresso ricordo di un tal Cilone,
aristocratico, che per la sua crassa ignoranza o per la sua
inettitudine non potò essere ammesso a far parte del So-
dalizio interno, e che « pien d' ira e di corruccio » co-
minciò a brigare fra i malcontenti, a spargere voci calun-
niose, a mettere in cattiva luce le cerimonie e V azione
segreta della Società, continuando la lotta con quell'a-
sprezza e quella tenacia che gli veniva dalForgoglio gra-
vemente offeso e dalla certezza di essere spalleggiato da
molti. Egli in questo modo, favorito coir^' era anche dalla
sua elevata condizione sociale e dalle idee democratiche,
allora penetrate nella Magna Grecia da cui seppe abil-
mente trarre vantaggio, potò creare nel Consiglio Sovrano
dei Mille una forte opposizione, che, allargandosi e diffon-
dendosi fra il popolo, facilmente ingannato dalle apparen-
ze esteriori sotto alle quali non vedeva altro che mistero,
dette poi luogo ad una vera e propria sommossa contro
il filosofo ed i suoi seguaci (500 a. C circa). Così che, se
il moto fu effettivamente moto di popolo contro il reggi-
mento aristocratico, l'ispirazione tuttavia venne dalla parte
meno buona dell' aristocrazia e dal sacerdozio ufficiale (1).
Un decreto di proscrizione bandì senz' altro Pitagora, che,
dopo aver cercato inviano ospitalità a Caulonia ed a Locri,
fu accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo do-
po ; ed una fiera persecuzione fu iniziata contro i pitago-
(1) V. in proposito ciò che dice con molta verità il Centofanti,
op. cit. p. 4l(> sgg.
— 195 —
rici, parte uccisi e parte cacciati anch' essi in bando e
profughi nelle terre vicine.
La durata del Sodalizio fu dunque assai breve, di non
più che quarant' anni : tuttavia 1' efficacia dell' insegna-
mento pitagorico durò per lungo tempo attraverso i se-
coli (1) e la sua fiamma non si spense mai, conservata
religiosamente e religiosamente trasmessa di generazione
in generazione dagli eletti a cui fu affidato via via il sa-
cro deposito (2) ; cosicché il fondo delle dottrine esoteri-
che si mantenne, e i tempi successivi in grande o in pic-
cola parte poterono conoscerle.
5. — Nel sodalizio si distinguevano due classi di adepti;
quella degli ammessi ad un grado di iniziazione (disce-
poli genuini o famigliari) e quella dei novizi o semplici
uditori (acustici o pitagoristi); ai primi, distinti alla loro
volta in varie classi, forse in corrispondenza coi diversi
gradi, (pitagorici, pitagorei, fisici, matematici, sebastici) e
discepoli diretti del Maestro, era fatto l'insegnamento eso-
terico segreto; gli altri potevano assistere solo alle le-
zioni esoteriche, di contenuto essenzialmente morale (3), e
(1) Aristotile ci fa sapere {Polii. V, lO) che le sissitie italiche,
anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; certo
per la congiunzione loro coi posteriori istituti pitagorici. V, Cen-
tofanti, op. cit, p. 383 e cfr. Cognetti De Martiis, op. cit. p. 466.
(2) Il Pitagorismo appare nel mondo romano e nell' Italia me-
dioevale e moderna in tutti i periodi di risorgimento filosofico. La
repubblica utopistica di Platone come quella del Campanella ripro-
ducono molto da vicino l' ideale di vita che fu realmente praticato
neir istituto Crotonese.
(3) V. Clem. Stromat. V. 575 D ; Ippol. Eefut. I, 2, p. 8, 14 ;
PoRF. 37 ; GiAMBL. 72, 80 sg., 87 sg.; Gell. I, 9, Cfr. anche Vil-
loison, Aneed, II, 216. - - Secondo uno scrittore dal quale attinse
— 196 —
non erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come
dice la tradizione, lo sentivano, talvolta, parlare da die-
tro un velar io che lo nascondeva ai loro occhi.
Prima di ottenere Tammissione non solo ai gradi d'i-
niziazione, ma anche al noviziato, bisognava subire prove
ed esami rigorosissimi, poiché, diceva Pitagora, « non
ogni legno era adatto per farne un Mercurio »; anzitut-
to, come ci narra Aulo Gollio (1), un esame fisionomico
che attestasse della buona disposizione morale e delle
attitudini intellettuali del candidato (2); se questo esame
era favorevole e se le informazioni procurate intorno alla
moralità e vita anteriore erano soddisfacenti, egli era
aininesso senz'altro e gli era prescritto un determinato
periodo di silenzio [ecliemythia), che variava, secondo gli
iuihvidui, dai due ai cinque anni, durante i quali non
gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da altri,
senza mai chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In
questo come nel lungo meditare e nella più rigorosa e
severa disciplina delle passioni e dei desideri praticata
per mezzo di prove assai difficili, prese dalT iniziazione
egiziana, consisteva il noviziato (paraslcevé). a cui erano
FozTO {Cod. 349), gli adepti erano distinti in Sebastici, politici,
matematici, Pitagorici, Pitagorei e pitagoristi ; e lo stesso scrittore
aggiungo che i discepoli diretti di Pitagora erano chiamati pitago-
rici, i discepoH di questi pitagorei e i discepoli essoterici o novizi
pitagoristi. Dal che il Roeth (II, pag. 455 sg., 756 sg., 823 sg.,
966; b 104) deduce che i membri della piccola scuola pitagorica
erano chiamati pitagorici e quelli della grande pitagorei ; ed a ra-
gione, purché non si identifichino questi ultimi con i pitagoristi o
discepoh essoterici, ma bensì si considerino come gli iniziati di pri-
mo grado.
(1) Noci. AH. I, 9.
(2) Origine fa Pitagora inventore della « fisionomica ».
— 197 —
sottoposti gli acustici. Costoro appena avevano imparato,
col lungo tirocinio, le due cose più difficili, cioè T ascol-
tare e il tacere, erano ammessi fra i matematici (1) e
allora soltanto potevano parlare e domandare, ed anche
scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo liberamen-
te la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad
accrescere la potenza delle loro facoltà psichiche, la loro
sapienza si faceva a grado a grado pii^i elevata e più va-
sta, sino a giungere all'intelligenza ào^W Essere assoluto,
immanente nell'universo e nell'uomo: chi arrivava a
questa che era la più alta cima della speculazione filo-
sotìca, e che segnava latine di tutto l'insegnamento eso-
terico, otteneva il titolo corrispondente a questa inizia-
zione epoptica, cioè il titolo di perfetto (teleios) e di ve-
nerabile {sebastiMs) ; oppure chiama vasi per eccellenza
UOUìO.
L' obbligo essenziale che si imponeva agli adepti era
quello del silenzio (2) e della segretezza verso gli altri,
senza eccezione per parenti o per amici. Tanto che per-
sino i già iniziati, se avessero lasciato trapelare qualche
cosa agli estranei, erano espulsi come indegni di appar-
tenere alla Società e considerati come morti dagli altri
confratelli, che innalzavano ad essi nell' interno dell' isti-
(Ij 'Così chiamati dalle discipline che professavano, cioè la geo-
metrìa^ la gnomonica j la medicina^ la musica ed altro d' ordine
superiore, per mezzo delle quali si elevavano allo più sublimi ed
eccelse vette della scienza umana e divina. - Sulla medicina v. E-
LiANO, Vor. Hist. IX, 22.
(2, V. Tauro pr. Gellio, /. e; Diog. YIII, 10; Apul. Fior. II,
15; Clem. Strom. Y, 580 A; Ippol. Rcfut. I, 2, p. 8, 14; Giamrl.
71 sg., 94; cfr. 21 sg.; Filop. De an. D 5 b; Luciano, Vii. auct,
3; Plut. De curios. p. 309.
— 198
- 199 —
tuto un cenotafio (1). E rimasta famosa e proverbiale
quindi la fermezza con la quale i Pitagorici sapevano cu-
stodire il segreto su tutto ciò che riguardava la scuola (2).
Allo stesso modo era considerato come morto chi, pur
avendo dato buone speranze di sé e della sua elevatezza
spirituale, finiva col mostrarsi inferiore al concetto che
aveva fatto nascere dalla sua capacità. Tali casi però, ò
bene notarlo, dovettero essere assai rari, poiché la lun-
ghezza del tempo di prova che precedeva il passaggio da
un grado a un altro aveva appunto lo scopo di rendere
impossibili di limitare al minimo gringanni e le de-
lusioni.
L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la ricevuta
iniziazione non obbligava per Jiulla alla vita cenobitica.
Molti anzi, o per la loro condizione sociale o perchè non
sapessero rinunziare interamente al mondo o per altre
(1) A questo proposito sappiamo da Clemente (*S^row. V, 574 D),
che riferisce una tradizione ben nota, come Ipparco, a causa ap-
punto dell' avere fatto conoscere la dottrina segreta del Maestro
con un suo famoso scritto in tre libri, del quale ci parlano anche
Diogene Laebzio (Vili, 15) e Giamblico (199), fu cacciato dalia
Scuola. Cfr. OrictIne, Contra Celstmi III, p. 142 e II, p. 67 Can-
tab.; GuMBL. 17; Th. Canterus, Var. Lect, I, 2.
(2) V. Plut. Numa, 22; Aristocle p. Euseb. pr. ev, XI, 3, 1;
PSEUDO LisiDE pr. GiAMBL. 75 sg. e Diocr. VII! 42; Giambl. 226 sg.,
246 sg. (ViLLOisoN, Anecd. II, p. 216); Porf. 58; un anonimo pr.
Menagio in DioG. Vili, 50. Cfr. Platon., Ep. II, 314, l'afferma-
zione di Neante su Empedocle e Filolao, e il racconto dello stesso
scrittore e di Ippoboto (pr. Giambl. 189 sg.) secondo il quale Myl-
lia e Timycha sopportarono i più crudeli tormenti e 1' ultima si
tagliò la lingua, piuttosto che rivolare a Dionigi il vecchio la ra-
gione dell'astinenza dalle fave. Così Timeo (pr. Diog. YIII, 54j af-
ferma che Empedocle e Platone furono esclusi dall' insegnamento
pitagorico, perchè accusati di « logoklopia ».
ragioni, continuavano la loro vita ordinaria, che natural-
mente informavano ai principii morali e alle conoscenze
acquisite, diffondendo così con la prafica e con la parola
il bene a cui l'insegnamento appunto mirava. Erano
questi i membri attivi^ di cui ci parlano alcune testimo-
nianze; gli altri invece, gli speculativi^ vivevano sempre
neir Istituto, dove, in perfetto accordo con tutte le altre
pratiche e leggi dell'Istituto stesso, le quali miravano so-
pratutto a far scomparire ogni forma di egoismo e di
orgoglio individuale^ era praticata un'assoluta comunione
di beni. E non è poi così strano da doversene negare la
verità (1), che uomini dati a speculazioni filosofiche e re-
ligiose e a pratiche morali, e che vivevano insieme per
uno scopo unico, mettessero in comune i loro beni, per
il vantaggio delF insegnamento e per la diffusione delle
loro idee. Che cosa poteva trattenere i discepoli interni^
non legati più dai vincoli del mondo, da questa comu-
nione di beni ? E quanto agli esterni, non è naturale
pensare che, per la virtìi della fratellanza e delF amore
acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse
spontaneamente tutte le sue sostanze, anzi tutto se me-
(1) Secondo lo Zeller le testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr.
Diog. X, 11 e di Timeo di Taurom. ibid., Vili, 10) che fa anche,
secondo Fozio {Lex. s. v. Koinà) introdurre da Pitagora la comu-
rità dei beni fra gli abitanti della Magna Grecia sono troppo re-
centi. Ma cfr. anche gli Sehol. in Plat. Phaedr. p. 312 Bekk., e
le testimonianze che troviamo in Diou. Vili, 10; Gell. I, 9; Ippol.
Refut. I, 2 p. 12; Porf. 20; Giambl. 30, 72, 168, 257 ecc. — Il
Kriscue {l. e. p. 27) crede che fonte di questa tradizione sia stata
una falsa (?) interpretazione della nota massima « le cose degli
mnici sono comuni »; il che mi pare ben poco fondato, se si pensi
che non è neppur certo che questa massima appartenesse in modo
particolare ai pitagorici (Aristot. Eth. Nie. IX, 8, 1168 b 6).
'à
' ' I
- 200 —
desimo a disposizione dei suoi confratelli? (1). Ed infatti
noi sappiamo che i Pitagorici usavano particolari sej:^ni
di riconoscimento (2) - come il pentagono (3) e lo gno-
mone (4), incisi sulle loro tessere, e la forma caratteri-
stica del saluto (5) — dei quali dovevano servirsi sia per
conoscersi ed aiutarsi subito a vicenda nei loro bisogni
sia per essere accolti, fuori di Crotone, dagli adepti di
altre scuole consimili, numerose così nella Magna Grecia
come nella Grecia e neirOriente (6).
La vita che si conduceva neir istituto da quei disce-
poli che vi rimanevano in permanenza ci è sufficiente-
mente nota per le narrazioni dei neo-pitagorici e per le
notizie sparse qua e là nelle opere dei piìi antichi autori.
Tutto era ordinato con norme precise che nessuno tra-
sgrediva mai (7); il che si intende facilmente, se si pen-
si che ognuna di esse aveva la sua giustificazione razio-
nale e che, salvo alcune rigorosamente prescritte, erano
(1) V. DiOD. Siculo Excerpt. Val. Wess. p. 554; Diog. VITI, 21.
(2) GiAMBL. 238.
(3) V. gli Schol, alle Nuvole di Aristofane Oli, 1, 249 Diiui.
(4) Krische /. e. p. 44.
(5) Luciano, De Salut., e. 5.
(6) Per questo, e forse per altre analogie (come quella delle a-
dunanze notturne di cui ci parla Diog. Vili, 15) si è paragonato
da alcuno V Istituto pitagorico con altre società segrete dei nostri
tempi. V. su questo proposito un cenno fuggevole nel Dict. de
biogr, génér., Firmin-Didot, Paris, 1862, t. 41, col. 243-244: « Les
souvenirs de collège formaien^ sans doute pour les pythagoricions
ce lien sacre qu' on a depuis voulu assimiler à je ne sais quello
société de Rosecroioc ou de Franes-ma^oì?^ ».
(7) PoRF. 20, 22 sg. che cita Nicomaco e Diogene (autore d' un
libro sui prodigi); Giambl. 68 sg., 96 sg., 1H5, 256.
201
date più in forma di regola o di consiglio, che di vero
e proprio comando (1).
Di buon mattino, dopo la levata del sole, i cenobiti
si alzavano e passeggiavano per luoghi tranquilli e silen-
ziosi, li'H templi e boschetti, senza parlare ad alcuno pri-
ma di avere ben disposto il loro animo con la medita-
zione ed il raccoglimento. Poi si adunavano nei templi
o in luoghi simili, ad imparare e ad insegnare — poi-
ché ciascuno era e maestro e discepolo (2) — e pratica-
vano continuamente particolari esercizi per acquistare la
padronanza delle passioni e il dominio dei sensi, svilup-
pando in modo speciale la volontà e la memoria e le fa-
coltà superiori e più riposte dello spirito. Non si trat-
tava peraltro nò di mortificazione della carne e rinun-
zia forzata ed obbligatoria ai piaceri normali della vita,
né di altre simili aberrazioni fratesche e conventuali: Pi-
tagora voleva 'soltanto che ognuno si mettesse in grado
di assoggettare il corpo allo spirito, per modo che que-
sto fosse libero nelle sue operazioni e nel suo svolgi-
mento interiore : ma il corpo doveva essere mantenuto
sano e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno stru-
mento perfetto quant' era possìbile : onde gli esercizi gin-
nastici d'ogni genere fatti alf aria aperta, e le prescri-
zioni minuziose intorno all' igiene e specialmente ai cibi
e alle bevande. In generale i pasti erano assai parchi,
(1) Il rispetto alla libertà individuale era una delle caratteristi-
che, e forse la più bella del metodo pedagogico pitagoreo. V, su
tale metodo F. Ckamek, Pffthay. quomodo educaverit aique insti-
stuerit (1833).
(2) Anche questa era una sapiente o razionale disposiziono, abi-
tuando i discepoli alia vulù attiva.
I
— 202 —
— 203
!J
ridotti al puro necessario, eliniiuando tutto ciò che potes-
se offuscare la serena funzione dello spirito ed aggravare
inutilmente lo stomaco. Pane e miele al mattino, erbe
cotte e crude, poca caj-ne e solo di determinate qualità
ed animali, raramente il pesce e pochissimo vino la sera
durante il secondo pasto (1), il quale doveva essere ter-
minato prima del tramonto, ed era preceduto da passeg-
giate, non più solitarie, ma a gruppi di due o tre, e dal
bagno. Terminato il pranzo, i commensali, riuniti intorno
alle tavole in numero di dieci o meno, si trattenevano a
discorrere piacevolmente, a leggere ciò che il piìi anzia-
no prescriveva, di poesia e di prosa, e ad ascoltare della
buona musica che disponeva gli animi alla gioia e ad
una dolce armonia interiore. Poiché « la musica, onde
tutte le parti del corpo sono composte a costante unità
di vigore, e anche un metodo d'igiene intellettuale e mo-
rale, e però compieva i suoi effetti nell'anima perfetta-
(1) La tradizione più dilfusa ci parla di assoluta astinenza dalle
carni, dal vino e dalle favo. Pitagora forse era un puro vegetaria-
no, come ci attestano Eudosso pr. Porf. 7 ed Onesicreto (scc. IV
a. C.) pr. Strab. XV. 1, 65 p. 716 Gas. Ma non possiamo affer-
mare che tale dieta fosse assolutamente obbligatoria per tutti : al-
trimenti non potremmo spiegarci come mai alcune testimonianze
parlino di certe qualità di carne rigorosamente proibite. Probabil-
mente l'astinenza dalle carni e dal vino (quella delle fave pare
fosse prescritta nel modo più formale e categorico) fu un semplice
uso, derivante dal bisogno o dal desiderio di mantener sempre sve-
glio lo spirito e di renderò meno tirannico — pur conservandolo
sano — il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina della
trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto ;
poiché essa aveva un significato e un valore assai diverso da quel-
lo normalmente attribuitole^ secondo la comune credenza della sua
derivazione dall' Egitto.
mente disciplinata di ciascun pitagorico » (1). Non man-
cavano intìne, durante la giornata, alcune semplici ceri-
monie religiose, pivi precisamente simboliche, che servi-
vano a mantenere sempre vivo e presente in ognuno il
culto ed il rispetto di quell'Essenza da cui emanava e a
cui doveva tornare — secondo la dottrina mistica del
Maestro — il principio animico e sostanziale di ciascun
individuo umano.
Altre testimonianze ci parlano di astensione dalla cac-
cia, dell'uso di vesti bianche (2) e di capelli lunghi (3).
Quanto alV obbligo del celibato di cui parla lo Zeller,
non solo non ò dato da alcuna testimonianza (4), ma ò
contrario anzi a quelle molte che ci parlano di Teano,
moglie di Pitagora, dalla quale questi avrebbe avuto più
figli (5) ed alle altre ove sono determinate le norme ri-
(1) Centofanti, op. cit. p. 390.
(2) GiAMBL. 100, 149 che desunse forse la notizia da Nicomaco
cfr. RoHDE, Eh. Mus. XXVI, 3 5 sg., 47). Akistosseno, da cui e
forse presa — mediatamente — la notizia contenuta nel § lOO, non
parlava che dei Pitagorici del suo tempo. V. Apul. De Magia e. 56;
FiLOSTK. Apollon, I, 32, 2; Eliano; V. Hist. XII, 32.
(3) FlLOSTR. /. C.
(4) Egli cita veramente Clem. Strom. Ili, 435 C e Diog. Vili,
19 ; ma nel primo di questi luoghi ò detto solo che da alcuni si
affermava che i Pitagorei « si tenevano lontani dall' amore carna-
le »; ciò che non significa punto ciie l'amore stesso fosse loro
proibito : anche qui probabilmente si trattava di una semplice pra-
tica liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo luogo ci-
tato è detto semplicemente che Pitagora « non si seppe mai che si
abbandonasse a pratiche sessuali ».
(5) Ermesianatte pr. Ateneo Xlll, 599 a; Diog. Vili, 42; Porf.
19; GiAMBL. 132, 146, 265; Clem. Paedacj. II, e. iO, p. 204;
Strom. I, 309, IV, 522 D.; Plut. Coniiig, praec. 31, p. i42 ; Stob.
EcL I, 302; Fiorii. 74, 32, 53, 55; Fiorii Monac. 26b 270 (Stob.
Fior. ed. Mein. IV, 289 sg.); Teodoreto, Sen/i. 12.
!
— 204 —
guardo al tempo più opportuno per dedicarsi all'amore (1);
e contrario poi — ciò che è piìi importante — allo spirito
della dottrina del filosofo, per il quale la famiglia era sa-
cra, e i doveri ad essa inerenti erano indicati con molta
precisione ed accuratezza, massime nell'insegnamento fatto
alle donne. Anche il celibato insomma non dovette essere
che una pratica dei più ferventi discepoli, i quali, dediti
interamente alle speculazioni filosofiche ed agli studi, cre-
dettero forse di trovare nei vincoli di famiglia un osta-
colo alla libertà dei loro studi e delle loro meditazioni.
6. — Queste, in breve le notizie che ci restano della
storia esterna dell'Istituto e del suo ordinamento interno.
Per quello che riguarda in particolare l'insegnamento, ab-
biamo dunque veduto che esso era duplice e che per
essere ammessi a quello chiuso o segreto era necessario
aver dimostrato, con lunghi anni di prova, di esserne de-
gni e di avere tutte le attitudini necessarie a riceverlo.
Chi non dava tali garanzie poteva usufruire soltanto del-
l' insegnamento esoterico o comune, privo di ogni sim-
bolismo e alla portata di tutti, di carattere essenzialmente
morale. Abbiamo anche accennato che i discepoli esote-
rici erano iniziati gradatamente a forme sempre più ele-
vate di conoscenze — teoriche e pratiche — , nascoste
sotto il velo di particolari formule simboliche, facili da
ricordare e schematiche, le quali avevano il vantaggio
che, conosciute dai profani, non rivelavano per nulla il
loro senso riposto e metaforico (2). Con ciò si voleva evi-
(1) DioG. VIIL 9.
(2) L' Arte Mnemonica di Raimondo Lullo (sec. XllI-XlV), uno
dei precursori del Bruno e maestro di Gioacchino da Fiore, di Cor-
— 205 — .
tare il pericolo che conoscenze d'ordine superiore fossero
date in balia a menti inette a comprenderle, le quali,
appunto per questo, le divulgassero poi con restrizioni,
limitazioni e imperfezioni derivanti dalla loro intelligenza
inadeguata e così nascesse il discredito e il ridicolo sulle
dottrine fondamentali e su tutto l'insegnamento. Il cri-
terio usato neir impartirle era dunque che « non si do-
vesse dir tutto a tutti » e tale criterio — aristocratico
nel senso più ampio e più bello della parola — del pro-
porzionare le conoscenze alla capacità individuale, non
può certo reputarsi illogico o segno di vana superbia e
di orgoglio intellettuale: anzitutto è accaduto in ogni
tempo che dottrine intrinsecamente buone abbiano via via
perduto, col troppo diffondersi, gran parte della loro per-
fezione primitiva ed abbiano finito o con l'andare sog-
gette ad ogni sorta di travestimenti e di inquinamenti od
anche col perdere affatto il loro contenuto sostanziale,
pur conservando le manifestazioni esterne e i segni for-
mali di esso ; in secondo luogo non essendo mai chiesto
all'individuo più di quello che le sue facoltà naturali e
le sue conoscenze effettive potessero comportare, e lo svol-
gimento delle facoltà stesse procedendo secondo quella
progressione che la natura pone nell' esplicarle e secondo
i gradi della superiorità loro nell'ordinata ed armonica
conformazione della persona umana, non veniva ad esse-
re turbato in nessun momento quell' equilibrio, nel quale
si contemperano in armonia perfetta le varie attitudini di
ciascuno, e ne nasceva per l' individuo stesso una pace
indisturbata e una fiducia in sé medesimo, che non dava
nelio Agrippa, del Paracelso ecc., ebbe Io stesso carattere di una
sÌ7nholica unitwrsale, intelligibile ai soli iniziati.
— 206.—
mai luogo allo scoraggiamento e allo sconforto. Tutta la
vita era quindi sottoposta alia legge d'un' educazione si-
stematica e continua, e dello attitudini individuali face-
vano uno studio diligente, coscienzioso ed incessante quelli
che erano piìi in alto nelf ascesa verso la perfezione.
Nei rapporti degli adepti fra loro e con gli altri uomi-
ni era legge suprema 1' amore, e questo infatti regnava
sovrano tra quelle anime, avide soltanto di bene e desi-
derose di attuare quant' è possibile in questa vita quel-
l'ideale di giustizia che è, attraverso i secoli, la perenne
aspirazione di tutti i buoni. Nella scuola e nelT insegna-
mento invece era il principio autoritario che prevaleva ;
principio razionale e giusto quando corrisponda a una
vera gradazione di merito e di valore individuale, e per
nulla insopportabile, quando T insegnamento sia animato
e vivificato dall' amore reciproco fra discepoli e maestri,
e quelli abbiano in questi fiducia e stima illimitata. Chi
si avvia per la stiada del sapere e vuole arrivare all'ac-
quisto di un qualsiasi sistema di conoscenze ha sempre
nozione imperfetta e inadeguata delle verità che impara,
tinche non sia giunto a comprenderne per intero l'ordine
necessario; e le verità stesse, imparate che siano, non
sono mai sufficienti a costituire il sapere, se non vi si
unisca l'esperienza positiva della loro realtà. Ma poiché
non tutte le nozioni, come si è già detto, potevano es-
sere intese da tutti pienamente e ciò non di meno era
necessaria la loro conoscenza, anteriore a quella delle lo-
ro ragioni intiinseche ed ideali, non era possibile l'inse-
gnamento di esse senza il principio d'autorità. E d'altro
lato, non potendo questa medesima autorità essere tolle-
rata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non si fosse
accompagnata anche la persuasione, nata dal riconosci-
— 207 —
mento sperimentale di altre verità prima soltanto apprese,
era giustissimo il principio di coordinare T insegnamento
teorico ed il pratico. Ond' è che gli adepti accettavano
volentieri e senza discutere le dottrine che gli iniziati
superiori insegnavano in forma di precetti brevi, sempli-
ci, facili, simbolici, sia perchè erano rafforzate dall'auto-
rità suprema del Maestro da cui derivavano, sia perchè
g]"adatamente era anche insegnato a ciascuno il metodo
per verificarle praticamente da se medesimo. Uipse dixit
era pertanto, come dice benissimo il Centofanti (1), « la
parola dell'autorità razionale verso la classe non ancora
condizionata alla visione delle verità più alte e non par-
tecipante al sacramento della Società », mentre poi il
vedere in volto Pitagora « valeva appunto la meritata ini-
ziazione air arcano della Società e della scienza ».
7. — Resterebbe ora da dire in che cosa consisteva
l'insegnamento impartito con un metodo così rigoroso e
prudente, quale era la nuova parola che Pitagora portò
fra quelle popolazioni, così piena di fascino da persuadere
tante nobili intelligenze ed ammaliare tanti cuori, e a
quale spirito era informato un sistema educativo, che non
solo sui giovani, ma anche sugli uomini aveva tanto po-
tere da trasformarne la natura morale e tutta la costitu-
zione psichica. Ma poiché questa esposizione della dottri-
na pitagorica è già stata fatta da molti (2), basti qui il
dire che essa, riprendendo ed ampliando il pensiero reli-
(1) Op. eit. p 405.
(2) Puoi vederla esposta assai bene nei citati lavori del Cento-
fanti e dello SciiURK ; per quanto a quest' ultimo manchi in parte
il necessario corredo di provo e di testimonianze.
— 208 —
gioso che la tradizione leggendaria personificò in Orfeo,
coordinava le ispirazioni orfiche in un sistema vasto e
compiuto, e che, essendo fondata su un sapere sperimeu-
tale e accompagnata da un ordinamento razionale di tutta
la vita, mirava a perfezionare gli individui, non solo con
Tapprofondirue e Testenderne le conoscenza teoriche, ma
anche essenzialmente con l'accrescerne a grado a grado
la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo — ot-
tenuto con lunghe e pazienti pratiche (1) — delle facoltà
latenti del riposto ef/o divino, principio sostanzialo di ogni
attività deir uomo.
(1) Erano pratiche magicho che si uRavano dol resto in tutto lo
scnoìo mistiche o elio non eceedovano, se non apparentemento e
solo per i profani, i limiti della natura ; e chi abbia una eonc-
soenza anche superficiale di questi studi sa bene che la nia^^ia non
era altro che un'arte, che si acquistava con cognizioni ed esercizi
particolari e segreti. Per le testimonianze suU' uso di questo pra-
tiche V. PiATT. Numa 8, Apul. De Magia 8i ; Porf. 23 s^g., ?A
sg.; GiAMBL. 3tì, 60 sgg., 142, dove si parla di « antichi scrittori
degni di fede ». Cfr. anche Ippol. Re/ut. I, 2, p. 10, Euseb. pr.
ev, X, 3, 4; Aristot. p. Eliano II, 26 e IV. 17 ecc.
NDICE DEL VOLUME
Prefazione
Introduzione
Capitolo primo : Inìzii leggeudarii e storici
»
secondo : Quinto Ennio e i suoi tempi .
terzo : Sette e scuole pitagoriche in Roma nel
I secolo a. C
» quarto : Pitagora e le sue dottrine negli scrit *
tori latini del primo secolo a. C.
I. — Lucrezio e il poema « Della Natura »
IL — Frammenti della dottrina di Pitagora de-
sunti dalle opere di M. Terenzio Varrone .
III. — Appio Claudio Palerò — Cicerone e il
« Somnium Scipionis » . . . .
IV. — Mimi — Q. Orazio Fiacco — P. Virgilio
Marone . . . . .
V. — Pitagora e le sue dottrine nella poesia
di Ovidio ,....•.
Appendici
I. — Euphorbos ........
IL — Il Sodalizio pitagorico di Crotone
Pag.
VII
•»
1
»
5
»
21
»
»
45
G9
• •
IVI
91
107
123
149
163
181
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27
illlis
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»
65
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66
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