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PAOLO MONELLI /-
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LE SCARPE AL SOLE
CRONACA DI GAIE E DI TRISTI AVVENTURE
D'ALPINI, DI MULI E DI VINO
BOLOGNA
L. Cappelli - Editore
1921
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PAOLO MONELLI
LE JCARPE AL SOLE
CRONACA DI GAIE E DI TRISTI AVVENTURE
D'ALPINI, DI -MULI E DI VINO
BOLOGNA
L, Cappelli - Editore
1921
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PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Bologna - Stabilimenti Poligrafici Riuniti - VII- 1921
ALLA MEMORIA DEL CAPITANO ENRICO BUSA
CADUTO A CASTELGOMBERTO IL 4 DICEMBRE 1917-
DEL SOLDATO VIGILIO LOAT CADUTO ALL'OR-
TIGARA IL 20 GIUGNO 1917 - DI TUTTI ì BUONI
ALPINI MORTI COMBATTENDO DAL TONALE AGLI
ALTIPIANI DAL MONTE SANTO AL GRAPPA
Nel gergo degli alpini mettere le scarpe al sole si-
gnifica morire in combattimento. Veramente non di
soli caduti è il discorso, in questa mia cronaca di
guerra. Molti siamo tornati, abbiamo ripreso a cam-
minare per le vie del mondo, già ascoltiamo il rtchiamo
di altre lotte. Ma sono lotte nuove, per idee differenti :
e noi pure siamo nuovi, rinati dalle rovine di un passato
morto i cui solchi incancellabili restano in nói simili
alle trincee abbandonate sulle creste dei monti ridi-
venuti soli. Quello che portammo di nostro alla guerra
non lo riportammo indietro, più : fu veramente una
vita che ci fu tolta come la pallottola la tolse ai mille
compagni segnati di fiamme o di mostrine al colletto.
La nostra giovinezza più ingenua e più prodiga ha
messo anch' essa le scarpe al sole, sulle ultime roccie
riprese al nemico, gli ultimi giorni d'un tempo che
due anni di distanza hanno favolosamente slontanato.
Il manoscritto era compiuto da un pezzo: ma gli
accorti editori me lo rifiutarono, or è già più di un
anno, perchè era passato di moda; perchè pareva ormai
cattivo gusto occuparsi ancora dei vivi e dei morti
che ubbidirono ad un ordine di olocausto. Parrà ancora
oggi così, che un rinato spirito giovane per le piazze
e le campagne ricanta le canzoni della nostra vigilia
e della nostra passione ?
Sono certo che no. Ad ogni modo questo mio
piccolo Volume non vuole essere diana di battaglia o
barometro dei tempi nuovi. Ci deve essere ancora qual-
cuno, smarrito nel grigiore della vita borghese o eremita
a qualche Valico alpino, che visse questi umili anni di
guerra senza bagliori e senza gloria, e ne ha ancora
il cuore grave di nostalgia. A lui offro questo mio
libro, alla buona, come si offriva allora il viatico del
vino e delle canzoni all'ospite improvviso delle nostre
mense cordiali.
Berlino, Febbraio 1 92 1 .
PARTE PRIMA
" Aber zum Teufel, warum sitzt Ihr denn dann im Sattel
und reitet durch dieses giftige Land den turkischen Hunden
entgegen ? Der Marquis làchelt : Um wiederzukehren , , .
(CORNETS CHRISTOPH RILKE, Die
IVeise von Liebe und Tod).
l
Esame di coscienza.
Ho sraidicato l'anima ciondolona dalle vigliaccherie
mattutine del letto, me la staffilo santamente secondo
il consiglio di Santo Cherubino. Che orgoglio fino ad
ora il mio, della penna d'aquila e del destino di por-
tarla alla buona guerra, se m'indugiavo nelle blandizie
della retrovia ? Ora nel mattino freddo parto per il
battaglione. Cercherò negli occhi dei colleghi che mi
hanno preceduto, dei soldati che mi saranno affidati
che cosa vi 'segni l'avere indugiato ai confini della
vita, ed esserne ritornati. E notomizzerò il mio cuore,
per sapere con che purità si prepari all'olocausto.
All'olocausto non ci icredeva essa, iersera, che
pianse con i suoi occhi bugiardi per la mia partenza.
Anzi mi raccomandò di dedicarle la mia prima licenza,
e di non tradirla lassìi.
Ma lo teme un poco la vecia Vendramin, che dei
suoi pensionanti già alcuni ha saputi morti nella guerra
— 10 —
deiralpe. Questa è la vecia Vendramin, che da tren-
t'anhi è pietosa di cure e di cibi agli ufficiali alpini
della guarnigione di Feltre, dai tempi in cui la paiona
era una bella fanciulla assai corteggiata dai sottote-
nenti d'allora. Ahimè, oggi quei sottotenenti sono mag-
gioa-i e colonnelli, (la pancetta e gli occhiali : per alcuni
ci si tocca le stellette. E la parona è diventata una
vecchietta lirida e moralista, che fa le prediche ai
più giovani quando rincasano tardi la notte, e si cir-
conda d'ancelle abbastanza unte per essere rispettate,
per quanto abbastanza naticute per essere pizzicate.
Non saranno le tue ancelle che mi turberanno la vigilia
di guerra, parona. Ma saranno le tue enormi cotolette
che rimpiangerò, le notti di cinghia dei pantaloni per
tutto ristoro. E che ne faremo del poema che li vole-
vamo dedicare, scritto' in latino perchè anche i preti
potessero leggerlo? (( Sunti ibi patellae paronaque in
uncta culina - Et super mea stat cotoletta focum )). A
migliori tempi, parona: intanto porta de! vino, perchè
parco per il battaglione.
E la paroma mi ha dato del vino, ed in fondo alla
bottiglia ho cercato la nuda verità. Esame di coscienza.
Tedio della mia vuota vita di pace, allettamento
del bel giuoco rischioso sulle cime, non potere sof-
frire di non esser stato dove altri racconterà di avere
vissuto — o semplrcemente un buono umile amor di
patria mi trascina con tanto avido consentimento alla
vita di guerra ?
Attristire l'anima nello studio muffoso, parlare at-
traverso gli sportelli agli uscieri tabaccosi, ritagliare
filosofia dozzinale nell'angolo del caffè, trepestare coc-
ciutamente la via della carriera e attento a non perdere
un minuto se no il collega ti passa davanti, fare l'amore
al sabato sera, perchè domani domenica si può stare
a letto di piij — oK che buona ventata la guerra su
tutto questo ciarpame, e che ridere vedere che il col-
lega tenace s'è affaticato invano a prenderti il posto !
(Adesso però lui è in sanità e campando la pelle
tiene a bada gli affari).
Per questo, forse. E per questo lievito di giovi-
nezza che ci fa danzare sul filo del riischio con eb-
brezza acuta, per cui una fede ci piace se ardua ed
un compito ci appassiona se minaccevole, per amare di
pili geloso amore la vita scampandola dal combatti-
mento come di più geloso amore l'amai riportandola
intatta dall'insidia delle montagne, quando — studente
in bolletta — una cima ritrosa era il termine del de-
siderio ?
E come in quel tempo le sveglie antelucane bat-
tenti alle finestrelle dei rifugi mi trascinavano rilut-
tante fuori nella montagna ancora notturna, e vigliac-
cherie ciondolavano nel corpo stracco nelle gambe
stronche e propositi di rinuncia tentavano il cuore, così
stamane nel letto alla sveglia, e pensando che debbo
dunque partire per la guerra, mi prese una viltà im-
provvisa. Mi parve d'essere l'ubriaco che nell'ebbrezza
s assume un rischio enorme e lo considera, sbigottito,
il giorno dopo, che i fumi gli sono passati. Mi colse
un terrore minuzioso che mi descriveva con esattezza
il pericolo della morte, l'angoscia delle marce, il di-
/
— 12 —
sagio delle pioggie, le veglie esasperanti, i sonni brevi
e contesi. Ed il letto in cui mi rannicdiiava mi parve
una divina cosa che avrei perduta per sempre.
La mattina fredda polisce l'anima. Nelle conche
dei pascoli le case rosse a sgrondo si stringono sotto
gli esili campanili gotici. Una stupefazione di pace
(gli uomini sono alla guerra in Galizia, o son morti ;
le donine salutano con sorriso umile i conquistatori,
attendendo ai lavori dei campi). In fondo, candide, le
Ddiomiti rigate da lunghe nuvole come rigati i tuoi
occhi da lunghe assenze, H elio dora.
Bè, non pensiamo pm ad Heliodora che ora sbar-
rerà gli occhioni pili azzuni del solito dalla finestrella
fiorita di geranii sul chiaro m.attino delle sue montagne.
E non indaghiamo troppo il fondo della coscienza
rattrappita. E sacrifichiamo a questa bella avventura
l'ultima reminiscenza dei libri chiusi per sempre.
(( Domanda il piccolo marchese :
— Voi siete molto giovane, non è vero?
E il signore Di Langenau, un pò con tiistezza ed
un pò con orgoglio:
— Diciott'anni.
E poi tacciono.
Chiede piiì tardi il francese :
— Avete anche Voi l' innamorata a casa, signor
Junker ?
— E Voi ? — ribatte Di Langenau.
— Fjssa è bionda come Voi.
E tacciono di nuovo, finché il tedesco grida :
— Ma_, allora, per il diavolo, perchè siete dunque
— 13 —
qui in sella con noi e cavalcate incontro ai turchi cani
attraverso questa terra maledetta ?
E il Marchese sorride :
— Per ritornare )).
Via tutto questo bagaglio sentimentale, per seguire
con leggerezza il destino verso le vie nuove, le mi-
naccie sconosciute ! C'è nell'alito della mattina un
senso voluttuoso di vuoto — orgoglio della giovinezza
sana — trepida attesa — romantico amore presentito
già altri anni perseguendo con corda e piccozza i con-
fini. E inespressi proponimenti di sacrificio e d'umi-
liazione gonfiano il mio presuntuoso cuore nel viaggio
verso la prima linea.
Che è poi la seconda. Perchè troivo il battaglione
a riposo.
Ma questi alpini che si dondolano per le vie del
paese sono diversi da quelli che ho lasciato al De-
pofsito. E quando entro nella cameruccia fumosa di
pipa, ed attorno al tavolmetto vedo le barbe argute
del maggiore e del capitano medico, ed ecco il mag-
giore si alza e dice bonario e semplice le parole del
benvenuto, e la tazza di vino tocca in giro le tazze dei
nuovi colleghi, ho l'impressione di essere fra uomini
nuovi, fra uomini, veramente. Che hanno veduto il
confine della vita e ne sono ritornati.
E il capitano mi dice :
— Lei deve fare tre cose. Tagliarsi i capelli, la-
sciarsi crescere la barba, e mettersi a bere vino.
— 14
Bieno, Novembre.
Piccoli bimbi buffi vengono con un gamellino a
prendere gli avanzi idei rancio. Attendono quieti, e
quando gli hanno avuti s'allontanano traballando. I vec-
chi rancieri sorridono sotto i baffi già grigi, con ac-
corata bontà, pensando forse al loro' bimbi lontani che
hanno il papà alla guerra.
Ad una ad una le mogli dei soldati vengono a
trovarli dai paesi di tutto il feltrino, a piedi per la
montagna, oltre l'antico confine. Stasera è anivata la
moglie di Gallina. Il soldato viene con la faccia furba
a chiedere il permesso al tenente, la donna cerca il
letto in una casa del luogo. E stanotte si scuoteranno
santamente il pelliccione. Non vieni. tu, bambina, a
portarmi il dono del tuo corpicciuolo mandrillo. E
tuffo il viso e il desiderio nel fazzolettino verde ancora
pregno del tuo profumo.
Ma che assassino, quel Gallina ! Per piacere alla
so fèmena s'è tagliata la barba e adesso è brutto brutto
con quei baffoni senza piedestallo ed i giovani del plo-
tone lo canzonano.
Fàoro da Lamon, interrogato che mestiere faceva da
borghese, risponde:
— Paravo su le bestie.
— Tu, ida Lamon ? Vuoi dire che facevi il con-
tiabbandiere.
- — Eh, lu sa ben, sior tenente.
— 15 —
E allora Fàoro si sbottona, buon soldato, t>ochi
da gatto, che a Col San Giovanni andò da solo alla
baionetta contro quattro bavaresi , e due fece fuggire ,
uno accoppò, uno acchiappò prigioniero.
— Sior tenente — dice stasera in tono sconsolato
il contrabbandiere — se fa la guera per slargar el
confin, e mi perdo el mestier.
Si parte. Pioggia, snebbiarsi lentO' del cielo uguale.
Poi neve. Nel boisco incappucciato di bianco, attra-
verso viali come di ville dignitose. Il crepuscolo attinge
luce più morbida dal suolo: gli alberi sono natalizii,
e le baracche confìtte nel suolo — dalle finestrelle
si irradia la luce sulla neve — sono presepi tiepidi .
Attirano con dolcezza di meta. Si pensa che giacere
sulla paglia asciutta, fiutare il tanfo sano dei vicini
che russano, indulgere all'irrequieta passeggiata dei
pidocchi siano le più desiderabili cose. Ma si continua
a marciare.
Eid ecco vien fuori la luna a giuocare a rifmjpiattino
con i gravi abeti infarinati. Essa veniva nel viale degli
abeti, la luna passata, ed i suoi denti di tigretta bril-
lavano per il piacere. Forse stanotte, al di là della
linea delle vedette, ci scontreremo con il nemico; forse
essa a questa luna mi mette le coma. Amen.
Questo scenario di neve alta ed intatta non m'è
nuovo. Molle sordina di bianco sul gemere dei torrenti
sul frusciare degli abeti. Il vento non ha voce, spol-
vera i rami carichi, veli d'cirgento luccicano contro
il sole, valanghette di neve scivolano mufè provocate
dal passo senza suono. Ma c'è là in fondo un martel-
lare ritmico che giunge puro su tutta la calma del
vallone, urto di palle frequenti su un bigliardo di
cristallo, riborbottato dai monti in cerchio, e lo crede-
resti un lavoro di legnaiuolo, se i tuoi arnesi di guerra
non ti dicessero altra cosa. Fucilate, dunque. Ma sono
così lontane e s'incesellano icosì nette nell'ana fredda
che non dicono nulla al cuore (sarà D'incà con la sua
pattuglia di punta che ha tro'vato i tedeschi alla malga).
•La guerra non m'ha toccato ancora.
Natale 1915.
Stavolta si fiuta un'azione per aria.
Grande sussurro, alla mensa, fra il maggiore ed
il capitano. Poi è venuto quello della 264^, hanno
tenuto rapporto, noi subalterni siamo stati mandati
a contemiplare le stelle. Siamo andati all'osteria, invece,
a salutare Maria la bionda e Giuseppa la bruna, ed a
bere un chiaretto di Salorno che ferrava gli spiriti per
la festa di domani.
Un po' d'orgasmo. Che si farà ? Dove andremo ?
Gli occhi luccicano, l'impazienza apre un vuoto nel
corpo. Garbari dice : — Panarotta — la montagna
che ruzzola ogni sera le sue cannonate sulla valle.
Ed ecco, sono venute le istruzioni del capitano.
~ 17 ^
Poi, a mezzanotte, partenza. Nel paese immerso
nella chiarità lunare il groviglio, l'affaccendarsi dei
conducenti, dei muli, dei soldati, casse di cottura e
casse di cartucce. Battere di chiodi sul gelo. Pallore
dii stelle.
E cammino come assorto per le strade lunari, pen-
sando con ritegno alla dolce casa lontana, alla felicità
di raccontare nel futuro la gesta che vivo. 1 soldati
marciano taciturni : solo qualche bestemmia, qualche
■dialogo sommesso punteggiato di ostie. E la gavetta
che suona e il fucile del vicino sono la sola preoccu-
pazione .
Si arriva — marcia forzata, sei ore senza un alt —
in una vaile ove non batte sole, chiusa da alte giogaie
nevose. Vigilia di combattimento in un rigore di cielo
e idi gelo. Si accantona in ville saccheggiate. I buffi
mobiletti di vimini rossi divertono i soldati ; \^ lettere
d'amore della castellana divertono i signori ufficiali,
lo ho una casetta bianca, una cameretta rococò, specchio
ovale, divano basso. Ma un trepestio continuo di sol-
dati su e giù per le scale di legno impedisce il sonno.
Stanotte attaccheremo una posizione che non ab-
biamo mai veduta, a cui idovremo giungere per un intrico
sconosciuto di boschi. Si cerca di orientarci sulla carta
topografica, ma — ci avverte benigno un collega d'un
reparto di fanteria che è lì e che conosce bene il posto
(e allora perchè non ci vanno loro a prenderlo?), ci
avverte — la carta ha più errori che segni. Mah!
speriamo nel fiuto, e non critichiamo al primo com-
battimento i superiori. Cerchiamo piuttosto di seguire
P. Monelli, Le scarpe al sole - 2.
— 18 —
il cantare dondolante che fa il plotone, installato con
garbo' nella villetta rossa:
Me ne andavo per fare un' azion,
Sempre allegri e mai passioni
E ripartiamo, alle nove di sera, fuor degli avam-
posti, sotto una broccatura lucida di stelle. (( A mez-
zanotte nascerà la luna ».
A mezzanotte è nata la luna. Il bosco fìtto nel
quale marciamo cauti (il cricchiolìo sul gelo è molti-
plicato nell'ansia) s'anima romanticamente d'ombre e
di luci soavi. Una lenta corrente di nostalgia attenua
i sensi. Pigrizia d'un letto in una camera lontana,
essere una chiocciola per rannicchiarsi nella casa se-
guace e doamaire... E poi iche fame, e ^che freddo!
Ta-pun. Allarme.
Gelo improvviso, cuoare che isi smaglia. La prima
fucilata di guerra : l'avvertimento che la macchina è
in moto e ti ha preso dentro inesorabilmente. Ci sei.
Non ne uscirai pili. Non ci credevi forse ancora, fino
a ieri, giocavi con la posta della tua vita come con
la certezza di poterla ritirare, parlavi facile d'eroismi
e di sacrifìci che non conoscevi. Ci sei, adesso. Il
destino tien giuoco. Alba livida di sfondo allo sbi-
gottimento, idesiderì impossibili, ma gli altri che cosa
pensano }
Zanella non ha più la sua faccia impassibile:
c'è come un fuoco interno d'ilarità che gli si irradia
sopra, ha fiutato la cacciagione, dice:
— 19 —
— Ocio là do che scampa !
E spara due fucilate laggiù, sulla radura del bosco.
Allora qualche cosa si stacca da me, più nulla
di quell'angoscia, e sono freddo e lucido come davanti
ad una esercitazione di piazza d'armi.
Dov'è il nemico ? Alba di sonno. Combattimenti
di pattuglie per il bosco snervano, nell'attesa. Il te-
nente Frescura aniva di corsa, rosso, allegro, con
quattro uomini : e reca un ordine e scompare a destra,
ed ecco un crepitio di fucilate, e un ferito che si
lamenta, e il giorno pigro che sale dietro il bosco, e
nulla da fare, ancora. Ecco il rancio, terzo plotone.
Mitragliatrici. Frastuono più vicino. Feriti leggeri
che rientrano a piedi.
— Ostia, no se magna no il rancio. Ne toca d'andar
drento anca a nualtri.
Si entra nella battaglia. Squadre affiancate, avanti.
È la morte questa ridda di suoni urlanti e fischianti,
e i rami stroncati del bosco, e il lungo cigolio delle
granate nel cielo ? Serenità.
Quando poi rientriamo un po' storditi e gli uomini
sono contenti perchè riportano la pelle a casa, e in
me è l'ilarità leggera del battesimo del fuoco, il mag-
giore che non ce ne ha colpa, e ce lo vedemmo sempre
davanti agli occhi, e se non ha preso una schioppettata
è perchè c'è un Dio per i buoni maggiori coraggiosi,
— 20 —
lui si prende una pipa dal comandante della divisione
che ci accoglie al varco dei reticolati, iduro gelido
ostile. Dice die siamo morti in troppo pocki. Dice
che la posizione si doveva prendere. Dice che è fa-
cilissimo trovarla, perfino sulla carta (e consulta quella
carta che ha più sbagli che segni). Ma dimentica di
dire che di notte non ci si vede e che aveva mandato
a cercare un cucuzzoletto fra altri mille un battaglione
che in quei posti non aveva fatta mai una pattuglia.
A questo non pensa, che avrebbe da recitare il mea
culpa. Sul sentiero sta rigido, aggrottatos ad osservare
il nostro passaggio. Poi un rombare di motore, stravac-
cato nell'auto rientra al suo castello. Faccia presto,
che l'artiglieria nemica comincia a frugare anche qui,
e non è posto per lui, questo. Io faccio stendere il
saccopelo sul divanetto basso 'nella saletta rococò. Dal
soffitto sfondato occhieggiano le stelle.
Cambio da un battaglione di fanteria. Gli alpini
hanno deposto gli zaini sul lato della strada. Viene
il buon fante, a prova, e sperimenta il peso dello
zaino alpino con suoi gesti di meraviglia. Chiama, il
compagno accorre, prova anche lui e stupisce. Commenti
a bassa voce. Anche la grandezza della gavetta li sbi-
gottisce. Sull 'altro lato della strada l'alpino, taciturno,
guarda e non parla, appoggiato al bastone, (( a guisa
di leon quando si posa )).
21 —
Capodanno 1916.
Buon augurio, la mattina, usciti dagli avamposti
per la ricognizione, vedere di tra il nero degli abeti
il rosso delle nevi sulle montagne che chiudono Trento.
Andiamo a cercare il ferito che ieri la pattuglia di
Porro ha dovuto abbandonare : una scarica improvvisa
del nemico in imboscata, due morti subito, un altro con
la gamba rotta, i tre rimasti sani ridotti a cavcirsela
alla meglio. Ma De Cet che aveva finto d'esser morto,
ed era rimasto immobile lungo tempo, è rientrato alla
sera a MaLga Puisle, e ha raccontato che sotto a lui
un cento metri c'era ancora il ferito che gli austriaci
non han portato via.
L'ho trovato stamattina, De Cet, ohe dormiva an-
cora: mi son fatto dire da lui come è andata la storia,
me la racconta con poche parole, senza muoversi dal
suo angolo, e finisco col 'dirgli di venire di pattuglia
con me per mostrarmi il posto.
Rimescolio nella paglia, e una voce crucciosa bor-
botta :
— Che ciavada !
Nella villa conquistata e saccheggiata, ci si prepara
un delizioso home. LI tè nelle tazze, il romanzo fran-
cese. Ma a due passi sono le piccole guardie, e se il
Panarotta volesse spedirci un gingillo !
— 11 —
Pigrizia di cercare parole nuove, imagini nuove
per questa sera calma : nuvole roisse sul sereno tenero,
crudezza di neve sul caldo delle rocce, appuntarsi
snello delle cime verso quelle nuvole : e le voci dei
soldati, e un rombare paterno di cannonate su Borgo,
e un indefinibile senso di attesa negli uomini e nelle
cose.
Un roimanzo di Bourget, una tazza di tè nel sa-
lottino sgangherato ma tiepido per la grande stufa di
porcellana, e un'adunata di pidocchi sul corpo.
Il bomibard amento si sferra sulla cittadina linda,
tutta rabbrividita nel vento freddo e nel sole. Grandi
nuvole indifferenti per il cielo leggero, variopinta no-
vità delle montagne. Ed ecco la granata incrina il
cielo, (scoppia, ferisce e lorda.
A tavola nei bicchieri nitidi lampi di sole e biondo
di vino. Si narrano le conquiste fra le donne della città
coraggiosa, che continua a vivere una vita quasi nox-
male sotto le cannonate, a due passi dalle piccole
guardie. Una vita assurda, anche. 11 passeggio. Ufficiali
in diagonale, soldati in libera uscita. Dal caffè al
piccolo posto, cinque minuti di. strada. E davanti al
caffè passa il collega lacero che viene dalla ricogni-
zione, con i suoi feriti, con un prigioniero. Poi co-
— 23 —
mincia il Panarotta a sparare ; tetti sfondati : bisogna
scendere di un piano.
E tutto, donne vino guerra immeisi nel sole tie-
pido che diffonde blandi stordimenti sulle montagne
lucide, trema trepido nella chiara conente del fiume,
fa allegri i combattimenti nella vallata sonora.
Stanotte siamo andati a sgombrare una casa cm-
quecento metri fuori delle linee, dove erano rimasti i
borghesi. La conosco bene, la casa. Ieri mattina che
su Borgo il Panarotta sgranava i suoi mòccoli, e su per
la valle, verso Novaledo, tempestava il combattimento
della 64^ che faceva una ricognizione in forze, io
ebbi l'ordine di uscire per garantire che qualche brutta
sorpresa non scendesse da Sant'Osvaldo sul tergo della
compagnia. Appostato dietro un muretto, ecco che nel
campo del bmocolo vedo la casetta, sull'aia davanti
quattro bimbi giocare a giro tondo, e la mamma alla
finestra stendere al sole tiepido i panni lavati. Indif-
ferenti, i bimbi, al fragore della fucileria, alle scìe
delle granate che incrinavano il cielo: e questa che
per noi era guena combattuta e suscitatrice di sensa-
zioni violente pareva fosse per essi un rombare di
temporale lontano.
I bimbi giocavano. Ma la visione della guerra la
porteranno come balenò, truce, negli occhi risvegliati
bruscamente dal sonno, stanotte che siamo andati a
portarli via con la mamma dalla loro casa ; sentinella
sulla porta, affrettati sussurri, armi luccicanti al guizzo
— 24
delle lanterne cieche, disperato raffazzonare che faceva
la mamma, piangendo, delle cose più care.
Le sere dhe si rientra dal servizio d'aivamposti, e
la colonna slitta giù per il gelo deil'la mulattiera, quando
sulla montagna nera la luna danza con veli di ghiaccio,
Loat della mitraglia intona, a bassa voce, la canzone
del ritorno.
Quando saremo
le nostre case
la nostra madre
ci abbraccerà.
Segue il coro del plotone. Battono i chiodi sul
gelo. In fondo alla valle palpita il richiamo di un
eliografo. Sulla cima delle montagne palpitano fuochi :
stelle che levano o bivacchi di piccola guardia.
Dove sei stato
caro figliuolo
per tanti mesi
a fare il soldà?
Quanti mesi ? Non si contano' più. I vecchi caporali
richiamati non chiamano forse « anni )) e (( secoli » le
cappelle, come per ficcare ben loro in testa che di anni
e di secoli sarà numerato il tempo del loro servizio
militare ?
Dice De Riva, che ha fatto la Libia e tira una
bestemmia ogni tre parole ;
— 25 —
— Ogni tanto, Dio serpente, i ne richiama a far
i borghesi, poi i ne congeda, e tornemo a far i soldai.
Io sono stato
neir alto Tirolo
dove la neve
fiocca 1' està.
E dove vi sono baracchette sgangherate o tende a
doppio telo ricoperte di neve : dove non si sa più nulla
del mondo lontano, e solo a sera se il cielo è chiaro
SI veggono brillare laggm nel piano le casette rosse
dove una donna ci attende — o ci fa le coma con il
territoriale : dove ci sono i bimbi di De Lazzer e gli
automobilisti, la mula di Marzarotto e il magazzino del
terzo scaglione, le paste di Miimiola e l'amichetta
bionda che mi donò uri fazzolettino verde pregno del
suo profumo.
— Loat, non vedi come sono soavi le stelle nel
pallore lunare ? Non hai lasciata l'amorosa a casa, al-
pinotto dal viso tondo come un pagnotta, che canti a
voce spiegata con la mano aperta accanto alla bocca,
ora che le prime linee sono lontane ? Intona dunque la
canzone dell'amorosa che aspetta, che noi sappiamo
bene che mon è vero, ma lo cantiamo lo stesso, perchè
illudersi fa caldo al cuore e perchè si diventa senti-
mentali la sera dopo che s'è lavorato tutto il giorno a
fare il mestiere ideila guerra. Poi se anche la gola si
asciuga, arrivati alla baracca faremo rotolare fuori della
tenda del cantiniere un barilotto di Valdobbiadene, e
— 26 —
nella tazza di latta sarà un breve paradiso biondo,
meglio dei suoi capelli folli, meglio della casa lontana.
Perchè dice il caporalmaggiore Fenacin, che in ac-
cantonamento è sempre ubbriaco, ma in combattimento
è sobrio e coraggioso, e sarebbe già sergente senza quei
viziacelo, <lice Ferracin tirandosi la barba lunga e
crespa :
— Co ghe xe del vin, se poi continuar la guera
fin che Dio voi.
E in questa benedetta valle Sugana, il caporal-
maggiore Ferracm non ha nessuna difficoltà a conti-
nuare la guerra fino alla consumazione di ;butti gli au-
striaci, in questa felice valle Sugana che ha le cantine
piene di vino e i granai colmi di mele odorose, e Mo-
negat il rosso va di pattuglia con fiasco e sacchetto a
terra, per riempirli.
E sì combatte per paesi vuoti contro un nemico
appostato dietro il muretto del cimitero o nel parco
dell'albergo: ma quando s'è finito di fare le schiop-
pettate, giù in esplorazione nelle cantine del parroco
di Santa Brigida, a sentire se il suo vino è pili buono
di quello del barone.
E questa è successa a Campari. È stato stanotte,
sottoi un nevischio tranquillo, in appostamento al di là
delle linee un'ora di strada, a Brustolai, una desola-
zione di case arse e devastate nella sassaia che vien
giìi dall' Armentera. Il fiume oscuro taglia il bianco
sudicio del suolo. Di là il paese morto di Marter : ma
ci deve essere il nemico in qualcuna delle sue case.
— 27 —
anche stasera, come ieri. Il silenzio non è rotto che
da qualche bestenamia in sordina, da un picchiar stiz-
zito di una scarpa contro un sasso perchè i piedi co-
minciano a gelare. Ed ecco la finestra d'una delle case
più presso alla riva si accende, quadratmo giallo di
luce, canzonatura all'agguato armato di là dall'acqua.
Bisogna vedere di acchiapparli, quei poor^ei. Si passa
a guazzo la Brenta: la pattuglia circonda la casa. I
movimenti sono cauti, accorti. Ma Pivotti tronca gli
indugi : baionetta inastata, balza a testa bassa nella
casa e grida: Chi va là. Gli altri pensano: Pivotti
ne accoppa qualcuno. E va a vedere anche il tenente,
e trova un conducente del Val Brenta, scalcinato e
barbuto, che guata con stupore a tutto quell'allarme che
lo ha disturbato mentre spillava il più rosso vino di
Marter dalla più pacifica delle botti.
Da quattro giorni siamo in riposo in città. Stasera
partiremo, e pare per fare le schioppettate. Tollot,
Barp e Resentera lascieranno a malincuore la loro can-
tina, tre manigoldi, i più tranquilli di tutta la com-
pagnia, che non si facevano dire due volte di stare
nascosti nella cantina quando il Panarotta tirava, mentre
gli altri soldati si buttavano in giro per le osterie del
paese, e vi restavano finché non arrivava il maresciallo
dei carabinieri a sloggiarli, ed allora ise ne andavano
ostiando, salvo mostrargli una sipe tratta dalle tasche
dei calzoni... ma questa è un'altra storia, Tollot, Barp,
Resentera, invece, nessuno li vedeva. Sempre, tutto^
— 28 —
il giorno, in fondo alla loro tana. Il fatto è che ad
uscio con la cantina vuota dove stavano essi, ce n era
una piena. E allora sfondano la prima notte l'uscio,
cercano una botte piena, v'introducono la gomma, fanno
passar la gomma per un foro dell'uscio e poi richiu-
dono' per bene. E tutto il santo giorno succia tu che
succio anch'io, e mai gioia più rossa fluì con tanta
abbondanza per gola di alpino. Venivano gli amici
eletti a partecipare della fortuna segreta : e qualche
volta i tre soici (poiché essi coltivavano il fiore arguto
dell'ironia) riempivano una gavetta di quel vino e la
portavano per l'assaggio agli abitanti della casa, i pa-
droni della cantina.
— Sentì, che bon vin che ne passa la naja!
E i proprietari bevevano e sentenziavano:
— Bon. El par el nostro.
E oggi il gaio segreto di Tollot, Barp e Resentera
corre con sommessa ilarità gli ordini chiusi, mentre
i furieri fanno l'appello e il maggiore si tira nervoso
la barbetta marinara.
Non rimpiango io la mia padroncina di casa, a
cui ho baciato la bocca nel viale della stazione, perchè
ha gli occhi e il sorriso di Hieliodora. (( Si exsurgat
adlversuim me poradlium, in hoc ego sperabo ».
25 Gennaio.
Appoggiate al muro nel piccolo orto dell'ospedale,
due vecchiette, tre vecchietti raggrinziti lucertolizzano
al sole. Torpore di luce sulle montagne di fronte;
— 29 —
tintirinio d'acqua corrente riga il silènzio meridiano. Al
primo piano in una grande sala monacale grave can-
dida — dalle poltrone enormi, dai grandi quadri dei
fondatori e dei benefattori — è la mensa dei signori
ufficiali. Si cantano le canzoni di guena. Si beve lo
spumante per un ospite. Chi si affaccia alle finestre
spalancate su questa trionfante primavera vede giìi
nell'orto appoggiati al muro crogiolarsi al sole i tre
vecchietti, le due vecchiette raggrinzite. Ma m fondo
al conidoio, nella cella umida e grigia, il moribondo
combatte solo, indifferente, la sua agonia.
A Malga Puisle, a trainar cannoni con tutta la
compagnia. Su per la mulattiera gelata i pezzi arran-
cano: un'ilarità robusta corre la compagnia, muscoli
tesi nello sforzo, gara gioconda di arrivare perchè lassù
c'è un capitano della montagna che ha promesso del
vino, e perchè il tenente d'artiglieria dice che i ter-
ritoriali non ce l'hanno fatta a portar su i cannoni.
Veramente oggi si doveva riposare, adesso siamo
a riposo. Ma è il nostro mestiere, e che serve lamen-
tarsene ? E quel che per gli altri soldati è una pena
— quando gli abbiamo dato il cambio, stavan lì sudanti
abbattuti sul sentiero, giubbe sbottonate, riluttanza agli
ordini — per questi è un divertimento. Gioia fisica,
issare pezzi così pesanti su quella forcèlla per questo
cristallo che nemmeno i muli ce la fanno, esercizio
soddisfatto dei muscoli che non conoscono che lavoro
da quando s'è nati, abeti e rocce e cielo vecchie co-
— 30 —
noscenze non hanno mai visto che fatica in questi
jfigli della montagna e pare che a vivere fra queste
cime non ci si senta bene se non faticando, e tanto
amore dello sforzo e spregio del disagio che quando
giuocano (nelle ore in cui c'è l'ordine di far nulla)
si cazzottano da rompersi le tempie facendo il giuoco
del civettino — proprio quello del quadro degli Uffizi.
Ferracin dà la voce, il plotone aggrappato alle funi in
uno strappo tira innanzi il bestione testardo. Caro be-
stione sfrombolante che proteggerà la nostra avanzata !
Bonan, l' attendente di D'Incà, si dondola per la
strada da Primolano a Feltre, un poco di vino nelile
gamibe e molto desiderio della famiglia che torna a
rivedere dopo tanti mesi di guerra. Che cosa c'è laggiù
in fondo alla strada ? Un'automobile lucida, ferma.
Nemmeno fermarcisi su con il pensiero. Là dentro
viaggiano generali, maggiori, pezzi grossi, quelli 'che
mandano le buste gialle, e allora viene l'allarmi e
l'ordine di tenersi pronti. Ma là vicino c'è un vecchio
soldato, dai lunghi baffi bianchi. Bianchi come quelli
di Pupo che fa il conducente. Ma Pupo ha il pizzo
e i baffi corti, questo vecchio soldato ha solo due
lunghi baffoni candidi. È fermo, e guarda l'automobile.
Un ilarità prepotente guizza attraverso le idee dell'al-
pino che avanza un po' traballando. Così vecchio,
l'hanno preso anche lui a fare il soldato! Gli doman-
deremo se vuol bere un gotto con m.e, al vecio.
— 31 —
Già Bonan ha raggiunto il vecchio soldato, e gli
batte una mano sulla spalla.
— I t'ha ciapà anca ti sott'la naja, neh vedo?
Mja l'occhio gli scivola giù alle maniche, e tàc-
chete, l'alpino esterrefatto s'irrigidisce su un trepido
attenti con le idita convulse contro il cappello e due
occhi pieni di terrore: un generale, osti^, e lui ora tra
i fumi del vino e della paura lo riconosce, perchè era
il suo colonnello al settimo, quando era recluta, tanti
anni fa. Il Generale Etna.
— Adeso el me copa.
E il generale sorride, e gli dà un virginia: poi
siccome la panna è rimediata e si può ripartire, Bonan
è fatto montare, ed eccolo là pettoruto, trionfante,
sboccione, che torna al paese seduto vicino al mec-
canico, il suo mezzo metro di virginia attraverso la
bocca.
Febbraio, il giorno della presa di Marter,
Il capitano Nasci ha detto ai soldati :
— Ragazzi, le cantine sono piene di vino. Ve ne
siete accorti prima di me. Ed io debbo mettervi nelle
cantine perchè l'artiglieria comincia a tirare. Mia il pri-
gioniero fatto dal tenente Fabbro ha detto che gli au-
striaci, prima di mollare il paese, hanno avvelenato il
vino. State in guardia, e non bevete.
— Fioi de cani ! Sior sì.
E il discorsetto del capitano fa il giro di tutta la
compagnia, dalla gran guardia alle piccole guardie
— 32 —
poste a difesa del paese conquistato all'alba. Intorno,
il frastuono delle granate e degli shrapnelis. Filtra una
pioggia leggera. Qualche ita-pun, noioso come un pia-
noforte, dalla montagna di fronte; vischio di fango ap-
piccicato agli abiti alile scarpe alle mani, rosicchio
di galletta. Un po' di vino, e come si monterebbe bene
di vedetta allora, a frugar con gli occhi gli sterpeti
insidiosi e i iflanichi precipitosi dei monti !
— E alora iio se poi più bevar el vin del sindaco.
— E gnanca de quel del prete.
— E gnanca de quel de l'osto.
— Se te te aveleni, el va in licensa el to piastrin.
— El sior capitano el ga rason.
Qualcuno spilla per prova la botte. Il colore chia-
retto accende gli occhi.
— Che bon odor !
- — Che i lo gabia proprio avelenà ?
— Fioi de cani.
Ma quando tomo dal rapporto, trovo nella cantina
il mio plotone intento a bere.
— Disgraziati, volete dunque avvelenarvi?
Accendersi in giro d'occhi furbi.
— E no, sior tenente, stavolta no gh'avemo paura
de velen.
E mi spiegano il trucco. Mentre i signori ufficiali
erano a rapporto, un rapporto l'hanno tenuto anche i
vecchi della compagnia. Ed hanno deciso: Si tira a
ooiìe, e quello che vien fuori prova a bere un bic-
chiere. Se sta male, lo portiamo subito dal dotor, e
— 33 —
lui un rimedio ce lo deve avere. Se sta bene dopo
un'ora, bevemo tuti.
Ed ormai tutte le guardie, tutti i piccoli posti
gustavano il dolce virv& di Marter : era il vino del prete,
era quello del sindaco. La gran guardia spillava le
botti enormi dell'albergo, e De Lazzer girava le can-
tine per cercare il migliore, quello da destinare alla
mensa del signor capitano.
Ora le vedette, abbeverate a dovere, vegliano pili
soddisfatte sulla piovigginosa monotonia della campagna
lorda di neve, scrutano l'intrico dei boschi, spiano di
tra i sacchettti riempiti dii terra le ingannevoli sassaie
della montagna di fronte.
Tutta la notte abbiamo aspettato che ci attaccas-
sero. Notte nera, pioggia dirotta, gemiti di vento per
la valle. Stare in gamlba dietro i muretti bassi improv-
visati a trincea; tender bene l'orecchio al rumor della
pioggia, i piedi sul prato fradicio, i cappelli come
grondaie. Eravamo sperduti nella valle. A destra, non
c'era collegamento. Diciotto uomini per tenere quat-
trocento metri di linea. Se venivano giù da Malga
Broi, ci tagliavano' fuori. Amen, e sperare che ci at-
taccassero dove eravamo.
A tratti, razzi luminosi sbadigliavano isull 'orizzonte,
un bagliore attonito s'apriva sulla campagna, s'indu-
giava un poco, l'oscurità l'inghiottiva. Spari lontani e
vicini, rari, irritanti. Una bomba a mano, a mezzanotte,
lanciata verso la dhiesa, fu un sollievo: ci attaccano
adesso-. Invece, nulla.
P. Monelli, Le scarpe al sole - 3.
- — 34 —
Ma sotto la coltre di tenebre la notte era viva di
ansia. Ora i riflettori non rigavano più la montagna.
Il buio ci stringeva come un'insidia tenace. Tutta la
notte s'è vegliato, a guardia del paese morto. Campane
non scandi vanoi la lunga attesa. La notte si trascinava
con il suo cieco ritmo di pioggia. Ogni ora le vedette
si davano il cambio: chi smontava sussurrava poche
parole al nuovo venuto, e si avviava grondante ad un
giaciglio di paglia bagnata : chi montava si immobi-
lizzava sottoi l'acqua, attento se di tra le voci del
vento e il frusciar della pioggia e i miagolii d^un gatto
sperduto per le case vuote s'udisse un tr epestare cauto
di uomini per il bosco.
All'alba, il nemico ha attaccato.
In ricognizione nella lucidità della nevicata recente,
fra gli alberi gravi di bianco, carponi al ripaio dei
muretti bassi. Un poco di pigrizia, che stamane il
saccopelo fasciava di così soave umidità le membra, e
ieri l'altra ricognizione è andata male, e mi secche-
rebbe lasciarci la pelle oggi che il sole è così nuovo
e leviga con tanta morbidezza la montagna. Passo in
rivista i nomi dei colleghi, a ognuno dei quali, penso,
più che a me spettava questa corvè. Presentimenti
idioti tirano indietro. Queste macchie nere dei nostri
abiti si vedono maledettamente sulla neve. Bel tipo,
anche il Maggiore, a volere che ritorni solo dopo
avergli sparato addosso, ai cecchini ! E la mia vi-
gliaccheria di stamane arranca carponi dietro i muretti
— 35 —
sboccomcellati, trascinata riluttante dalla spensieratezza
<ìi Pivotti, che è di punta — perchè se non ce lo
mettevo anche oggi, non veniva.
Monologo di Pivo'tti che spacca la legna davanti
al Comando di compagnia, dove è stato fatto venire
per punizione perchè ha rifiutato d'obbedire al capo-
ralmaggiore Sasso che lo mandava alle corvè dell'acqua :
— A mi farme portar le marmi te ? A mi farme
spazar la baraca ? A mi farmie pasar in rango ? Ma
che i me manda a copar tedeschi, i me manda, e ghe
vago tuti 1 dì, e ghe vago de punta col tascapan pien
de bombe. Ma no i staga a farme far da soldà de la
teribile.
E le scheggie del tronco massacrato dai colpi stiz-
ziti partono come scheggie di boniba tutt' attorno.
Stasera mentre si beveva del Torcolato pagato dal
dottor Cimberle che ha preso cappello perchè gli hanno
rubato dalla stanza una bella stampa antica che lui
aveva portata via a un conducente che se l'era anan-
giata in un villa bucata come un crivello (ma questa
la racconteremo un'altra volta), mentre dunque si beveva
e si cantava
Come porti i capelli bella bionda,
io li porto alla bella marinar.
— 36 —
Camipari ha ricevuto rordine di portare tutta la nostra
compagnia — forza 58 uoimini — di rinforzo al bat-
taglione Feltre che sta maluccio in quel di Marter.
E fuori, nella notte e nel fango, a brancicar nel
buio, con i soldati assonnati, verso le linee.
A Marter, Campari si presenta al Maggiore.
— Bene — dice il Maggiore. — Quanti uomini
ha Lèi ? 58 ? Pochini. Bè. 25 con un sottufficiale li
manda al piccolo posto che è al di ìà del ponte. È.
un posto che se vengono gli austriaci per acchiapparli
non li salva nemmeno il Padreterno. 25 uomini li mette
là. Lei con il resto della compagnia si mette a mia
disposizione — riserva strategica — in quella casa
vicino alla ferrovia, dove ci avevo ieri il mio comando
di battaglione. Lo sa? Bene. Là, vede, hanno comin-
ciato a individuarla e ci hanno' tirato sbibbole cutt'oggi,
ed ho' dovuto venir via. Brutto posto, sa. Una è cascata
sul baracchino che c'è accanto. Bè, Lei si metta là
con il resto della compagnia. Vada pure.
E trepestiamo nella melma e nel buio verso la
casa pressO' la ferrovia con una vaga trepidazione,
perchè tra piccolo posto trabocchetto e casa indiviiduata
ci sembra che la povera 265^ con 58 di forza abbia
poco da stare allegra.
Burlone, il signor Maggiore. Ma nella casa c'è
una bella stufa, e, se domani c'è ancora questo neb-
bione, raccenderemo e ci faremo le castagne arrosto.
E la botte — Dio sa icome ci si trovi ancora ! —
la metteremo vicino a noi, e ogni caposquadra è auto-
— 37 —
rizzato a venire ogni ora con la gavetta a prendere il
vino per i suoi uomini. Una regola, ci vuole.
Nel Grand Hotel di Roncegno sulle seggiolone
bianche i soldati si grogiolano a questo solicello, da-
vanti al porticato, a vista della valle striata di neve.
Oggi l'artiglieria nemica tace, da questa parte : si sfoga
altrove, ed i soldati commentano i rombi come il vil-
lano del Manzoni. Ma lassù sul cornicione ci sono
i segni della rabbia di ieri. Il gran salone ha due
enormi piaghe nel soffitto: e ne geme malmconicamente
uno stillicidio di neve che fonde. Il nobile parco è
tutto buche, abeti stroncati si abbattono sul sentiero.
L'albergo è sgangherato, mobili sossopra, saccheggio
e bombardamento, ed ora il tarlo della pioggia che
penetra dai tetti crivellati. Ed alle pareti di una sala
sconvolta, ancora l'ironia di qualche awisetto: (( I si-
gnori sono pregati di non asportar le riviste dalla sala
di lettura ».
Siamo ubriachi di sole e di giovinezza, stamane.
Abbiamo scavallato per il parco, abbiamo urlato le
nostre canzoni bacchiche :
Il buon vino fa lieto il core
il buon vino scaccia il dolore
e d'una sbornia non si muore...
Domani saremo' sotto di nuovo, e la vita è un dono
che ci sarà ritolto. Morandi ha avuto il cappello bucato,
— 38 —
stamattina, a quota mille. Frescura è andato all'ospe-
dale, ieri, il braccio rotto e il polroone forato. E l'odor
dell'abetaia riempie i nostri, intatti, con prepotenza.
Chi pensa agli imboscati ? E ci fu qualcuno che mi
parve segnato di più alto destino, ed ora arranca pe-
nosamente nelle ambagi dell' imboscamento. Quando
mai si sentirà così voluttuosamente vivere ? E quel poco
di fìfa'^che viene qualche volta è un pungolo a quella
voluttà. Questi alberi infranti, queste ville diroccate,
queste proprietà violate — ed erano garantite e tutelate
da tante carte malmconiche, e un vecchio le custodisce
negli archivi — tutto ciò è buon quadro alla nostra
vigilia, distruttrice e rinnovatrice. E almeno, se io ci
rimetto un braccio, ci sia uno che ci ha rimesso la villa.
Stravacchiamoci nelle poltroncine viennesi, tiria-
moci davanti un tavolinetto buffo, illudiamoci d'essere
all'ora del tè, quando il grande albergo era fiorito di
giovani dame e di lucidi gentiluomini con la barba
fatta. Il tè ce lo farà Zanella nella cucinetta da sciatore.
Causons ìitérature. Non c'era una rivista inglese in
quell'angolo? Peccato che dai vetri rotti tirino dei
maledetti spifferi. Dove sarà a quest'ora il vecchio
barone viennese che l'estate di due anni fa adagiava
il suo diplomatico deretano su questa poltrona ? Certo
in queir angoletto è sbocciato un flirt, concluso poi
nelle ombre discrete del parco : adesso sarebbe perico-
loso andare a buio per il parco.
Un sibilo, un rombo. E poi un piovere di calcinacci,
sfascio, franamento d'assi e di travi. Questa è caduta
39
sull'albergo. (( Sonnez, s'il Vous plaìt — un coup pour
le gar^ion, deux pour la femme de chambre ».
La 65^ parte per Borgo, per il riposo. (Questo vuol
dire che domani la faranno partire improvvisamente, al-
larme notturno, nemmeno il tempo d'asciugare le scarpe,
per qualche altra quota dove un piccolo posto sarà
stato sorpreso o una pattuglia nemica osservata, ma
questa è la storia di tutti i giorni.). I soldati sfilano con
le damigiane, i fiaschi, la gavetta colma di vino, [e
castagne arrosto nella pentola. Il povero bottino di
guerra. Da Borgo a Marter la via è segnata da una
scia di rosso sulla neve. All'appostamento delle mitra-
gliatrici del Feltre a Ponte del Zaccon c'è il posto
di ristoro; quei ragazzi hcuino tirato fuori una botte,
l'hanno scoperchiata, tutti i soldati che passano ricevono
il viatico della tazza piena di vino.
Sfilata nera nel grigiore crepuscolare della neve
e della nebbia, cumulo di tedio e di silenzio, umidore
di freddo all'agguato tutto il giorno sulle giubbe pe-
netra ora dentro.
Ta-pun. Pare una cosa ridicola l'allarme di com-
battimento nell'alta soavità della neve sulla valle
sepolta.
Nella pioggia ero di pattuglia, tre altre pattuglie
ai lati, una è stata sorpresa, incappata proprio dentro
un nido di cecchini, fucilate improvvise hanno pun-
— 40 —
teggiato il bosco, tutto un combattimento stupido senza
capirci nulla con feriti, e adesso, pigramente xaimic-
chiato nel saccopelo', viltà pomeridiana, ripensando
agli episodi della mattinata.
A furia di giostrarci ci s'incappa. Pensare che sono
condannato a questa vicenda eterna. Bontà della vita
cbe tenta morbidamente, con rievocazioni galeotte, i
-sansi riluttanti. Altri febbrai che andavo nel sole ti-
mido senza meta né urgenza, al ritorno una poltrona
soffice per agio di libri da postillare (le ♦ ascensioni in
montagna parentesi che si sa che si chiudono).
Bosco pioggia allarme balzar fuori dal tepore del
saccopelo perchè uno scroscio di fucilate ha frustato
la notte, sono cose che mi dipingo con terrore. Si ex-
surgat adversus me praelium... E un romanzo francese
trovato qui dipinge regni felici di sicurezza e di blan-
dizie al corpo. Signore, liberatemi dal demone me-
ridiano.
Nella camera calda del collega della sussistenza
il tè mesciuto con cura dalla teiera elegante, i tova-
gliolini rossi. Discorsi di donne lontane, figurine desi-
derate balzano fuori dal fumo della pipa, in fondo al
bicchiere di grappa c'è il tepore d'una bambina volut-
tuosa. Fuori, lo stillicidio delle grondaie. E il senso
che questa vigilia sarà brevissima.
A notte, ordine improvviso, si riparte per gli avam-
posti, nella cruda nitidezza lunare. Stavolta si deve
— 41 —
prenidere una quota, ed un aocidente di noto cucuzzolo
di cui i miei vecchi chiacchierano a bassa voce, perchè
sarà un osso duro da rosegar. E mentre nxi avvio per
ila strada nota, con i soldati gravi e seri, i territoriali
della mensa cause nt litérature.
Ripulita l'anima dalle vigliaccherie del pomeriggio
piovoso quando il romanzo francese di bottino dipingeva
accidiosi paradisi, e l'ho ripulita in un combattimento
buono e seno, una lunga giornata di sole, una lunga
notte in cui vigilai con gli occhi aridi il corso impla-
cabilmente lento della luna, scandito dalle cannonate,
sentendo strisciare intorno l'insidia. Ed ora dolcissimo
discendere verso il riposo, con i soldati che si sono
battuti bene, che ricordano con pacatezza i nomi dei
caduti lassù. Rare fucilate. Il digiuno di trentasei ore,
la veglia di due notti, non disturbano più. Si ficcano
gli occhi nelle lontananze come se le s-i possedessero,
si guata all'avvenire corne se lo avessimo segnato del
nostro volere.
Ma quando si arriva al Comando e si- apprende il
nome degli altri morti, e poi, ecco, un velivolo squac-
chera giù due bombe a quattro metri da te e non sai
ancora adesso come sei rimasto illeso, allora pensi che
il senso della tregua è ingannevole.
Il capitano medico, mcazzatissimo, scaraventa i
piatti della casa contro l'aeroplano scocciatore.
— Ho un bocconcino per Lei — dice il signor
maggiore, e intanto si tira parecchie volte la barba.
— Al-
ile congiunge le punte argute, allunga quella di siniistia
per guardarsela bene. E allora, allarmi, gli uomini si
radunino sotto il porticato, si armino, si tengano pronti.
Pivotti, nastrino azzurro sulla giubba guadagnato
al Freikofel, dieci giorni di rigore guadagnati in ac-
cantonamento, si toglie di tasca uno straccetto, l'infila
sulla bacchetta, dà una sfruconata rapida alla canna,
ispezion'arm, caricat. Appoggia il fucile al muro, e
rivolgendosi a una piccola schiera attonita di soldati
che non fanno la guerra :
— Vaiidlè — dice. — Adeso vojo più ben a quel
che a la pagnoca.
Abbiamo seppellito i nostri morti ultimi, stanotte.
Gli abbiamo recati a spalla nelle bare bianche che
Zamai ha costruito, attraverso le stradette tortuose. S'as-
siepavano sulle porte degli accantonamenti i soldati, i
rancieri s'affacciavano neri da antri vividi di fumo. Le
montagne s'intagliavano sul frugare irrequieto dei ri-
flettori, erano sonore di cannonate. E mentte il cap-
pellano scandiva rapidamente le parole latine del coni-
miato, l'ombrello curioso d'un razzo si aprì sul cielo
nero.
Non siete morti ancora, morti nostri che avete messo
le scarpe al sole durante la pattuglia, e nemmeno il
tem,po di dire al compagno che badava ai fatti suoi
-— saludame la me vocia. Quando su questa valle al-
legra rifioriranno le rose e s'avvicenderanno i raccolti
e vendemmi eranno ragazze bionde le vigne, quando il
— 43 -
contadino cingerà di siepi spinose il suo campicello
disfacendo i reticolati laboriosi, allora sì, nel campo-
santo bianco sarete ben morti, così dimenticati da nuovi
prepotenti viventi, così lontani dagli altri morti della
famiglia. Oggi v'aspetta a rapporto il capitano che ab-
biamo portato giù stroncato dalla bomba il giorno di
settembre. La sua lapide non è lontana, nel cimitero
di Strigno, con le sue parole semplici e conscie. ((Al
capitano Fausto Bianchi - morto combattendo - gli
alpini )). E dite al capitano che la sua compagnia è
sempre quella, e scatta, e nessuno ha paura, se venga
su il suo numero, di andare a raggiungerlo dove s'è
già avviato sereno. Non siete morti ancora, oggi. Siete
i compagni stanchi che riposano' di ritorno da una dura
giornata d'avamposti; siete ancora con noi, solo così
stracchi che l'allarme non vi desta e il tenente esce in
combattimento senza di voi, siete come il compagno
che è rimasto di piantone agli zaini, e che non vediamo
con noi nell'ora che le pallottole cominciano a frullare.
E c'è chi pensa : — Che fortuna Toni ! Toccargli
d'essere di piantone proprio oggi !
(A meno che non gli succeda come a Gallina, che
a star di piantone gli è arrivata una scheggia di granata
che gli ha portato via tre dita, è vero che va borghese
ed ha finito di vedere le streghe, ma dopo come farà
a lavorare nel campo ?).
Ed ora la compagnia si snoda su per una bella
strada allegra fra gli abeti, verso le cime bianche.
— 44 —
Adesso che ci deve essere bisogno di noi lassù ci
portan via dal fondo valle dove s'è combattuto tutto
l'inverno, dove ci si era quasi dimenticati di essere
alpini, andando da un paese all'altro ed alloggiando
nelle ville saccheggiate. Adesso comincia rumor di
guerra anche sulle cime : torniamo alpini buoni per la
guerra lassù. E la fanteria discende dai riposi invernali
alla sua guerra di fondo valle.
Si ritorna alle baracchette seppellite dal gelo, a!
pungolo delle tormente, al fragore- dei grandi torrenti.
Casa nostra, regnO' nostro. Salutiamo le ultime case.
Salutiamo gli ultimi borghesi. Salutiamo le ultime
donne. Di sesso f eminile, lassù, non ci sarà che la
Regana o la Maesnotta O' qualche altra muletta irre-
quieta. Degan e Ferracin, salutate le ultime osterie,
dove non è vero che prendevate la balla, come dicono
i profani, ma ritrovavate con l'aiuto d'un litro di rosso
tante cose buone smarrite, il letto, i piccoli, la casa,
la speranza di tornarci dopo la guerra, i compagni della
miniera, gli scherzi da recluta. E salutiamo la dolce
primavera, che rifiorisce di mandorli la valle e sposa
le campanule ai reticolati di seconda linea e intenerisce
di musco le rocce. Lassù, dietro le trincee bianche, fra
i camminamenti candidi, fra le molli insidie delle nevi
ritroveremo l'intatto inverno, che incide con puro stile
le linee dei monti e abbassa dinanzi alle piccole guardie
il sipario della nevicata.
Si ritorno ad altri rischi, si fiutano altri combatti-
menti ; ma s'è allegri come si andasse a riposo. Ritor-
niamo ad una vecchia conoscenza, ad una montagna che
— 45 —
si pigliò il settembre scorso. I ricordi si affollano. Qui
ci aveva la tenda il maggiore (bel tipo, era la più in
vista); là rimasero morti quei cinque di fanteria la notte
-della tormenta ; là scavarmno rapidamente nel rigore
notturno la prim.a trincea che ci proteggesse all'alba
dal fuoco dell'artiglieria. E a mano a mano die si sale
si affacciano al di là «dei più bassi monti altri vec-
chioni riconosciuti, ardue muraglie contro cui ci siamo
rotta la testa, su cui si affermò la nostra conquista.
Lasciammo qua e là i nostri morti a santificare le tappe
dell'avanzata. E alcuno è caduto così mncmzi che an-
cora il terreno dove egli giacque è conteso e nemmeno
le più audaci pattuglie lo sopravanzano.
Così è caduto il nostro capitano, sotto i reticolati
nemici, una tragica notte di combattimento costellata
di scoppi, sonora di schianti, in un labirinto di ghiaccio
e di rocce sgretolate dal martellare delle mitragliatrici.
Aprile.
Ho accompagnato a Feltre gli alpini più vecchi
delle compagnie con una ventina di muli che passiamo
alle salimerie del nuovo battaglione Pavione. Hanno
finito di fare la guena, i veci, almeno in compagnia;
passano conducenti, ed è buon premio a questi uomini
di quarant'anni che sono stati in prima linea un anno
mentre i loro coetanei di fanteria con le pipe rosse
gli insidiavano le mog'li nei paesetti veneti allegri di
vino. E c'è il mio vecchio Prade fra essi, che si
portò così bene con tanto spaghetto in corpo la notte
— 46 —
di marzo; e e* è Bosciiet che vidi partire da Feltre
per la guerra il mese di luglio, ubriaco fradicio, e
la moglie gli portava lo zaino e il bastone, e gli asciu-
gava il sudore sulla fronte. Si va lenti nel sole d'aprile
per la strada frequente di case e di osterie ; i ragazzini
accorrono petulanti e strillano al passaggio, le ragazze
ridono maligne a quella sfilata di soldati coi capelli
grigi.
Nella baracchetta, l'acqua calda ronza sulla stufa,
e il saccopelo sulla branda slabbra il suo promettente
biancore. Al di là del tramezzo di tavole ci sono i
soldati. Viene attraverso le commettiture il tanfo caldo
e la cantata lenta che concilia il sonno.
In mezzo al mare ci sta un tavolino
Si mangia si beve del vino
in mezzo al mar....
Fuori la tormenta scatena i suoi lupatti inferociti,
squassa le pareti di legno, ricaccia a tratti il fumo
della sfiifa entro la stanzn. Ma si sta bene, dentro.
Ti racconterò una storia sentimentale, ragazzo mio,
mentre (il caffè ci aiuta a vegliare. Un'avventuretta a
Venezia in breve licenza, ed essa era bionda e odo-
rosa "di sole e di desideri compressi. Un gocciolo di
grappa, aqua vitae, nel caffè ? Anzi, tutta una tazza. E
il vento commenta picchiando alle finestrelle cigolanti.
Amore di tena lontana, il bicchierino... Bisboccia.
Ma bisogna andare a dare un'occhiata a quelle
— 47 —
povere vedette che scontano tutti i peccati della loro
giovinezza in questa notte di tregenda. Appena messo
fuori il naso, ecco di colpo la baracca è scomparsa, e
il vento ci morde e !e tenebre ci avviticchiano urlando;
eccoci afferrati idalla tempestosa notte dell' alpe. Su per
camminamenti che la neve colma, nel biancore ingan-
nevole, nel turbine che mozza il respiro, si arranca
verso la cresta del monte. A tratti, il vento cade: un
silenzio stupito fluisce, sale dalla valle la vece del
fiume; la nebbia dilacerata scopre qualche stellina fred-
dolosa. Ma subito di nuovo la grandine dei ghiaccioli
imperversa e i fischi del vento plagiano il cigolio di
granate in arrivo. Su per la montagna nemica, nel-
l'uniforme inganno nebbioso, t'andare pare senza fine;
ci si crede sperduti in un atroce labirinto fra le cedevoli
insidie, nella selvaggia fanfara del vento-. E quando
si arriva alla vedetta all'imbocco della trincea coperta
e gli si raccomanda buona guardia, il soldato risponde
tranquillo :
— No stia a dubitar, sior tenente.
E allora si può ritornar sicuri nella baracca, e mentre
traverso il tramezzo viene il cantare piiì stracco
In mezzo al mare ci sta una sirena,
Io zaino fa male alla schiena,
in mezzo al mar....
scriveremo una lettera sentimentale a quella dell'av-
ventura.
— 48 —
Un amico è molto in guerra. Il migliore del ce-
nacolo arguto che ora disperso su per i monti e lungo
i fiumi combattuti assolve il suo compito (ma c'è quello
che arranca nelle ambagi dell'imboscamento). Il mi-
gliore : quello che lucido ed arguto ammoniva spesso
il nostro spirito, e fu nostro devoto compagno sulle
grandi vie delle montagne quando non sapevamo ancora
che salirle era un'anticipazione ed una preparazione —
ohe partì per il suo posto sul Carso senza jattanza e
senza esaltazione, umilmente; ma che il giorno in cui,
terza categoria, aveva dovuto scegliere un'arma per
farvi l'ufficiale, aveva scelto la fanteria.
Ma del suo discreto amore per la montagna, ma
della sua uniforme di soldato, ma del suo chiaro spirito
di sacrificio che resta, se non la salma spezzata dalla
granata, composta nel cimitero idi Quisca ?
E oggi rabbrividisco per questa morte così lontana,
come se gli fossi stato accanto nel combattimento ed
avessi udito il suo urlo di colpito. Non i cento lasciati
qua e là stroncati sulla zolla combattuta ; ma quest'uno
ammonisce che non è dunque un giuoco agevole questa
guerra desiderata dalla nostra giovinezza, a cui ve-
nimmo come alla più bella avventura della nostra vita ;
che la morte miete anche così presso a me, al di qua
della muraglia cinese degli sconosciuti e degli indiffe-
renti ; che anche a me può toccare la pallottola che
piomba nel nulla — più nulla, né questo fresco di
vento né questo tenero d'azzurro — quella a cui non
vorrei credere ancora.
Et ecce afflictio spiritus. Oggi mi rannuvola un'uggia
— 49 —
della guerra, un'ansietà che si prolunghi dunque troppo,
dinanzi agli occhi non altra previsione che un seguito
di tasti bianch/i e neri di combattimento e di soste,
un'infernale musica senza termine fino al sacrificio ine-
vitabile. Oggi questo bombardamento m'irrita, che mi
accompagna mentre salgo alla cima. Ho il presenti-
mento stupido che la morte dell'amico non sia che un
inizio ed un avvertimento; e parlerei male, oggi, ai
miei soldati, della necessità di morirci.
Su nella gloria del sole salgono con noi le laccate
montagne bianche, il piano lucidato dal vento s'adagia
fra due costoni neri. Il vento è ebbro di rapina: il
bombardamento spruzza neve sul viso, fischia, s'in-
frange suir impassibilità nevosa, pare un giuoco in-
nocuo di capriuole sulla mulattiera. Ma lo shrapnell
schianta sonoro sul cielo pallido e puro ; ma lassù
quel mulo e quell'artigliere della montagna a un colpo
bene azzeccato sono scomparsi. Sta a vedere che
adesso che hemno imparato continuano. E sì che dob-
biamo passare di là. Che bisogno aveva il maggiore
di sgambettare fin lassìi in cima a constatare se è pro-
prio vero che tirano ? Ma lui , barbetta che fiuta il
tempo, gambe salde, respira quest'aria di battaglia
come quella d'una pineta balsamica. Già: lui non ha
questa morte, come ho io oggi fra me ed il mio co-
raggio.
La nuova stagione ha ancora, qui, i suoi colori
invernali, bianco e nero ed azzurro: e spesso poi si
P. Monelli, Le scarpe al sole - 4.
— 50 —
cruccia con noi ed un malinconico inverno di nebbia
le dà il cambio, costringe gli occhi delle vedette a
farsi più acuti, si perpetua in certe vallette o in certi
cavi dei monti. Ma oggi che maggio s'ingramaglia
per noi di nebbie straccione, la primavera è venuta
con un mazzo di fiori che Deòn il conducente ha in-
filato fra le orecchie di Rondèl. Buon dì, muletto
capriccioso, e buono il saluto dei fiorii che puzzano
di basto e di stallìo, ma hanno i colori del piano !
Ed ecco la nebbia s'apre, e brilla laggiiì lo smeraldo
della valle, umido come gli occhi bugiardi di lei.
La mattina ilare si beve con abbandono il sole,
barbaglii di luce traboccano sopra il cristallo delle
montagne. Sull'azzurro le nuvolette bianche e rosse
del bombardamento s'accordano con armonia allegra,
la perfetta musica sottolinea con esultanza quella festa
di calori, che pare necessaria integrazione allo splen-
dore del mattino di maggio.
Nuovi uomini sono giunti stamane a colmare i vuoti.
Fila grigia contro un chiaro fumar di nebbie dalla
valle, parole fiere del maggiore. Lo fissano negli occhi
i nuovi arrivati, uomini di trent'anni, reclute delle terze
categorie, molti venuti d'oltre oceano a questa guerra
dalla tranquillità della famiglia esotica. Ascoltano pa-
rdle di patria e di necessità di morire per essa (pensano
essi ad umiliazioni sofferte nella terra straniera ?). Fic-
cano gli occhi chiari sulla cresta del monte e sanno
che di là c'è un nemico che è dovere uccidere, che
— 51 —
è fierezza d'uomo non temere. Questo lo dice anche
il cappellano. Che occorre mdagare di più ? Un senso
oscuro di necessità viene dalle cose, ed essi non lo
discutono, quello stesso che li spinse oltremonte per
campare la vita, die li venne a prendere un giorno
per dargli un'uniforme e-d un fucile. La patria è questo
ritomo ai monti che gli hanno dato la vita, questo
ritrovare sulla bocca dei compagni il dialetto della
ma<ire. Riconoscono gli alberi e i pendii poveri e le
colate dei ghiaioni. Non era così, la terra dove si parla
forestiero; questa ha un alltro odore, un altro coloire,
aderisce con piij contatti al corpo che la tocca. È la
patria. E stasera monteranno calmi e sicuri d!i vedetta,
il cuore saldo nell'inganno lunare come i massi delle
loro montagne, e le nostalgie della famiglia simili a
quelle delle lontananze cercate per guadagnarsi il pane,
e la morte non creduta più temibile che quella all'ag-
guato nelle miniere.
La montagna è tutta vestita di nebbia, e le figura
dei soldati sembrano profili opachi dì bonzi sopra una
porcellana cinese. Lo sappiamo già. Fra poco la nebbia
si condenserà in neve, un neviscolare granuloso e per-
sistente; poi comincerà a soffiarci dentro il vento, e
dal piano verde e oro si vedrà la nostra montagna
allegramente arruffata d'una crinieretta bianca. A sera
quella crinieretta sarà bionda, e se io fossi laggiù
dove stanno i muli la paragonerei all'aureo caschetto
— 52 —
di capelli ideila bambina dicianiioveiine lontana, capelli
tagliati corti,
fili di sole tiepido
— sciacquare succhiare dell'onda
pigra sulla spiaggia calda
— piccoli seni compressi
dalla tunichetta azzurra —
malinconia di non esserci
che viene dalle lettere ardite
dove tenta inutilmente la mia
lontananza.
Ma siccome ci sono dentro, farò degli altri paragoni,
se avrò l'agio di farli: mi parrà di essere Falstaff nella
tregenda dei folletti armati di pungiglioni, il ragazzino
carogna che ha stuzzicato un vespaio. Ma so anche
che alla fine le nebbie si sfreneranno in una galoppata
gioiosa per cinger di danza altre vette, risorriderà a
noi il piano verde e oro, riemergeranno d'intorno le
montagne incipriate di fresco, nei loro accappatoi
azzurri.
E risaluteremo i nostri avversari lassìi sulla cresta
ardua, con la sua collana di reticolati.
— Bon dì, porrei ! Non l'avete fatta ier notte la
vostra sonatina. Ci sonava la tempesta, da voi,
E loro ci risponderanno in discreto latino :
— ■■ Porco alpino taliano, alpino, caput !
Fatti così i convenevoli mattutini, ricominceremo
a romperci le scatole.
Finché viene la sera, una bella sera che cammina
soave per il cielo con i suoi chiodi lucidi sulle suole
— 53 —
azzune. Il vento è posato, un gelo senza brividi dilaga
sulla neve, le vedette del posto avanzato dispongono
vicino a se le bombe a mano. Ed ecco, dalla cima
nemica geme un suono d'armonica lento, strascicato:
lo commenta il torrente invisibile nella valle, le piccole
guardie da una parte e dall'altra stanno sospese ad
ascoltare. Tenerezza di focolari lontani, nella malga
veneta o nella capanna della puszta, donne lontane che
attendono da tanto tempo, odore di maggio nelle zolle
del campo lontano...
La musica finisce.
— Bona note, porci taliani.
— Bona note, fioi de cani.
Silenzio. Ora l'insidia striscia con le scarpe di vel-
luto, tenta con dita di sonno gli occhi delle vedette,
spia ai rico verini di piccola guardia. La notte formi-
cola d'ansia ; le stelle occhieggiano curiose dalle loro
poltrone turchine. Daremo alle stelle spettacolo sta-
notte ? Mistero — segreto. Bisognerebbe domandarlo
ai fili del telefono che borbottano tutta notte, ma i fili
del telefono sono funzionari onesti e tacciono quello
che c'è da tacere. Forse lo sanno i razzi che s'alzano
petulanti dalle cime oscure... Ma i signori razzi si
levano in fretta, danno un'occhiata tutt'intomo e rica-
dono m un dignitoso silenzio. E non si sente più che
un brontolare lontano di cannoni, sull'altipiano.
Le notti di piccola guardia, ohe stanchi di contare
i razzi che levano da Valpiana e d'indagare sulla to-
— 54 —
pografia -delle fucilate di londo valle, sì rientra nel
baracchino e ci si mette a leggere il igiornale da cima a
fondo, si provano delle impressioni curiose, trovando
per esempio negli annunci economici che il (( giovane
ventiduenne esente militare off resi », o dalla cronaca
cittadina spulciando delle notiziole come questa : (( Al-
l' Accademia di Scienze Morali lessero gli Accade-
mici... ».
Ma guarda, i buoni parrucconi, in una saletta tran-
quilla, ben chiusa, che si sorbettano qualche dotta
filatessa, e che cosina curiosa se ci cascasse in mezzo
per un caso strano uno di questi 132 che rigano il
nostro cielo !
Che cosa lessero gli Accademici ? « Della tutela
dalle servitù non apparenti sul fondo venduto... )).
Si, è bene che qualcuno isi preoccupi di queste
cose, mentre noi sovvertiamo i termini e i confini, e
dei muretti divisori ci facciamo trincee, e dei boschi
baracche, e dei grandi alberi abbattute, e dove le
malghe ci coprono il campo di tiro facciamo piazza
pulita. Il nemico per conto suo' incendia paesi : criniere
di fiamme troppe volte sferzano le notti della valle.
Ma dalla nostra acre forza distruggitrice verrà la rin-
novazione, e le vigne che inselvatichiscono torneranno
a produrre il vino caro ai sapienti. Sotto le ali della
guerra le cose intristiscono: noi distruggiamo, ma an-
diamo oltre. Passiamo, e saremo distrutti : ma verranno
dopo quelli che intanto si addottorano e cavilleranno
sulle questioni di eredità.
Diceva Meleto a Socrate — questo affermo sulla
— 55 —
testimonianza di Alfredo Fanzini — : Se tutti andassero
alla guerra, chi resterebbe per onorare quelli che vanno
alla guerra ?
Ma queste sono malinconie. Un sole chiaro è giunto
d'improvviso, accompagnato da una selvaggia romba di
cannonate. Tutta la valle ne è sonora, il perfetto az-
zurro si costella delle nuvolette bianche. E nelle pause
del fragore si sente laggiiì, sulla valle dell'Adige, un
ininterrotto brontolio in sordma.
Notizie non giungono. Ma sappiamo che dalle ve-
drette alle pale dolomitiche arde il combattimento. Pal-
pitiamo d'ansia con gli ignoti compagni, sparsi su tutte
le cime, in agguato a tutte le forcelle. E quando d'im-
provviso ci fascia una perfetta calma che sembra insidia,
ecco che assistiamo, trepidi spettatori, alla battaglia
della montagna vicina, fumo di cannonate, lordume che
sboccia sulla neve.
È. insidia, d'Uomini e di stagione. Il chiaro cielo
s'offusca, nuvole s'adunano, si sciolgono in pioggia di
giorno, in tormenta ed in grandine di notte, indugiano
in perpetua umida nebbia. Il suolo ile tende le coperte
gli abiti sono un uguale fracidume. E adesso abbiamo
poco agio di osservare la battaglia sulle altre cime, che
anche su di noi c'è la festa di Santa Barbara.
I muli non portano piìi la posta e il vino, portano
cartucce e bombe, il conducente non ha più voglia di
fare le quattro chiacchiere, scarica in fretta il suo ba-
— 56 —
gaglio e poi giù di nuovo per la mulattiera battuta dai
colpi lunghi che mancano la cima, e non ride Pupo se
ridiamo noi vedendolo arrancare laggiù tirandosi dietro
a furia il mulo riluttante, preoccupato più della discesa
che del bombardamento.
I soldati, addossati alla baracchetta nell'illusione
d'averne riparo, seguono con occhi affettuosi i buoni
muli, compagni della nostra guerra aspra, solo legame
adesso fra noi e il mondo verde e oro della valle
imboscata.
Damin racconta che Antelao, ch'era il mulo più
brutto del battaglion Feltre, in Libia fu premiato al
valore per il suo contegno tranquillo sotto le fucilate,
e ottenne doppia razione di biada, e continua a sbafarsi
la doppia razione anche adesso che non è più militare
perchè l'hanno riformato e venduto a un carrettiere di
Lamon.
Facchin dice che i muli sanno mettersi sull'attenti
— , drizzano il muso e levano le orecchie e gli brillano
gli occhi e stanno così fermi nella stalla qucindo vien
dentro el major e al piantone di scuderia gli viene
l'idea di dar l'attenti.
Oomimeniti allegri e buoni, mentre la carovana a di-
stanza scende balzelloni la mulattiera, conducenti con
i cappelli così schiacciati che sembrano conici, penne
a bilanciarm, il fregio sull'orecchio, moschetto a tra-
còlla, peli grigi fra la barba piena — e i muli cauti
nella discesa, occhiatine di traverso se c'è un po'
d'erba da beccare, ma del resto seri e tranquilli come
si conviene a bestie che fanno la campagna, arruolate
— 57 —
nei registri del Re, che portano nomi di monti e di
valli, e che sono la provvidenza di quei poveri alpini
lassù che potrebbero ben morire di fame o dovrebbero
mollar la cima se non ci fossero loro. Brave bestie,
che non marcan visita la mattina anche se la sussistenza
gli cala la razione, che portan saldo sul basto il vino
(se non fosse quel mulo che porta il Chianti, che, pare
impossibile, cade sempre e rompe sempre un fiasco
per ogni cassetta di venticinque !), portano le ghirbe
e i viveri, il rotolo spinoso e le munizioni, il cappellano
e il ferito, e quando il tenente non vede e la salita è
dura tiran su aggrappato alla coda il conducente ■ —
e non ragliano, e non calciano che quando proprio
ci hanno il vizio, ma allora calciano onestamente e lo
dicono prima con una strizzatina d'occhi, e peggio per
chi non la capisce ; e vanno indifferenti nella cannonata
e nella tormenta, e trovano il sentiero nella notte e
nella nebbia, e quando balenano gli shrapnells sulla
testa s'addossano alla parete con uno sguardo intelli-
gente e aspettano che il conducente gli dica — arri ;
e non chiedono il cambio.
È venuta la nostra volta. Qualche notizia la davano
i conducenti, in fretta, incontrollata: voci di ritirata,
l'altipiano girato, Cima Dodici perduta: udivamo i
rombi dei bombardamenti lontani, vedevamo, le notti,
accendersi sull'altipiano gli scoppi delle artiglierie.
Poi venne il fragore delle battaglie di foindo valle,
— 58 —
sempre più vicine, sempre più iindietro; e su d'i noi un
bombardamento di tre giorni, stupido e irregolare, che
uccideva i soldati nei ricoveri e i muli sulla mulattiera.
E mai più notizie : ma tre giorni fa è partita la
fortezza, e ieri la batteria da 75, e stanotte anche la
montagna; poi una compagini a dell battaglione è stata
buttata, d' urgenza, in fondo valle ; e stamane siamo
rimasti soli, una compagnia sulla cima battuta, e qui
sui fianchi e al fondo valle l'attacco, e allora l'angoscia
che se in fondo valle non tengono — - ma sono i fieri
alpinotti del Monrosa, grazie al cielo — si rimane in-
trappolati come coglioni.
E adesso la differenza fra noi e gli altri soldati ;
che marciano filano se ne vanno, bagagli icasse dii
cottura aggeggi al seguito, ingombrano le strade, si
ritirano lontano da questo inferno e da quest'ansia,
diffondono le notizie che i conducenti portano su, pur
reticenti, e ogni volta con l'allegro stupore di trovarci
ancora. Ma se domani nella gloria del contrattacco sa-
remo alle calcagna del nemico che scappa, saranno
alla pari con noi. Amen.
Cima Dodici dunque è caduta ? Ma noi la vediamo
dietro a noi, e bisogna torcere anche il collo. Ma
allora noi } E l'Italia ?
Noi si deve star qui, ad ogni costo, fino a stasera
a buio. Assistere impotenti alla discesa, dalle cime di
contro, dei battaglioni nemici, e non uno schizzetto
da montagna per accopparli ! Stamattina gli abbiamo
respinti, ed anche i fianchi si sono disimpegnati, pare
— 59 —
— ma la giornata si trascina implacabilmente lenta per
un cielo pieno di luce, e l'agonia dell'attesa è più
amara per il senso di crollo che incombe, senza cbe
sappiamo nulla di preciso.
A mezzogiorno, un salto al comando a prender no-
tizie. Sulla soglia del baracchino il maggiore, gli occhi
vivi segnati dalle veglie, pipetta spenta, si tormenta
il pizzo grigiastro.
— Venga qua. Ha fatto 1' esame di coscienza ?
Stasera siamo tutti circondati.
— Ma no.
— Ma si, glielo dico io. Posti avanzati, già, posti
d'onore. (( Mi raccomando a loro — imitazione della
voce d'un ufficiale della divisione — ;. Se loro non ten-
gono duro fino a stasera, compromettono la ritirata )).
E noi si tiene duro, e poi ci chiappano, e allora ab-
biamo lo scorno e le beffe.
Una buona bestemmia per aiutar la parola ritrosa
ad uscire.
— E poi loro hanno la gloria e la pappa. Ma noi,
perchè si sta aggrappati con le unghie e con i denti
dove ci schiaffano, perchè siamo buona razza sccirpona
e gente con la testa dura, an'dremo a Mauthausen con
una gamba rotta — se la ci va bene. Quando ci sarà
poi la pace e andrò in un salotto verrà di nuovo quella
signora a dirmi: Chiel a l'è mac di alpin...
Non ci pensi. Venga qui che ho ili rimedio alle
malinconie. Ha l'amorosa Lei?
— Eh già.
— Male, perchè sarà tradito, anche Lei. Ma questo
— 60 —
qui, vede, è un amico che non tradisce. Beva. Beva
ancora. Io ne ho bevuti cinque o sei, e adesso sono
più tranquillo. Prima ero nero, isa ; nero come 'la polvere
nera che scoppia sempre fuori proposito. Ne beva un
altro.
E allora il sole rosso nel corpo, calore nelle idee,
spiare con più ottimismo se la sera si decida a rabbuiare
questo cielo lucido percorso -da un sole più neghittoso
di quello che obbedì a Giosuè — e se no, e se ci at-
taccano prima di buio, cercheremo almeno di accop-
parne parecchi, per idar tempo a! tempo, chissà che
intanto la Divisione possa mettere in salvo tutte le sue
scartoffie .
Finché, a sera, a drappelletti, giù a rotoloni per
il bosco buio, adunata a Malga la Costa di là dalla
valle ; sicuri delle spalle che ce le difende Garbarà
da Trento, che ha voluto per sé quel posto pericoloiso
perchè — dice — conosce bene i posti .
^ Brucia anche Bieno.
Chiarore nuovo infatti s'aggiunge a queUo che di-
laga dal fondo valle, luminosità più cruda che atteggia
fantasticamente ì tronchi dei boschi e ingigantisce i
profili delle montagne. La ritirata si compie fìn'ora
indisturbata, sotto un gelo sottile di pioggia che for-
micola nel corpo, inzuppa le coperte, grava il cappotto;
— marcia opprimente, dolorosa, che lassù sulla cresta
nera contro il cielo di rame s'abbandonano senza neces-
sità di combattimento le linee munite, ile baracohette ,
tutta una vita tumultuosa di due mesi trascorsi a fortifl-
— 61 —
carsi ed a punzecchiare il nemiico. I morti lasciamo lassù
e le tomlbe rustiche, le nostre memorie e un brano di vita
così intenso che l'amputazione ci duole come della
carne raschiata via dall'osso. Ma il nostro compito di
protezione è finito: bisogna andarsene, verso un futuro
incerto, un buio assoluto di notizie e di previsioni.
Al fiume, presso il ponticello, idue ombre nere,
immobili.
— Chi siete ?
— Batajun Monrosa. I devuma fé sauté el punt.
— C'è mezza compagnia ancora, Vengon giù a
scaglioni.
— Sgnursì. A dev sauté da sì a n'ura.
Dall'altra parte, all'imbocco della mulattiera che
riprende su per il costone boscoso, un gruppetto d'uo-
mini che si riposa, tazze di latta picchiate contro i sassi
dei torrente, crocchio' di denti forti nella galletta.
— Avanti, ragazzi. Che cosa avete lì }
— Gh'avemo el morto, sior tenente. Panato
Giovanni.
— È già morto ?
— Siorsì. A Malga Lopetto el ga tra un sospiron,
pò el xe resta secco.
L'ultimo colpito della giornata. Un colpo stracco
d'artiglieria buttato a caso sulla montagna gli aveva
fracassato il fianco. Ma portarlo via, bisogna, anche
se morto, che i nemici non lo spoglino e Io lascino a
marcir fra la neve ed i ginepri. Gli faremo una croce,
scriveremo sopra il suo nome, il numero della compa-
gnia, e dormirà in terra consacrata, in mezzo a noi:
— 62 —
sentirà ancora alla mattina Collet che porta il caffè
alle piccole guardie e chiama : Moca ! quando il cielo
schiara da oriente e le vedette aguzzano di più gli occhi
perchè è l'ora che i tedeschi attaccano.
— Sior tenente, go paura ch'el vaga a far el furier
d'alogiamento, el morto; ch'el sia andà avanti a pre-
pararne el posto a l'altro mondo.
Una risatina in sordina; la tazza nel tascapane,
tintinnìo di metalli urtati, la breve carovana rico-
mincia a salire di nuovo.
— Sior tenente, parcosa po' se retiremo ?
— Mah ! Ordini così.
— Sior tenente, el ma conta Patricelli che quei
porrei de todeschi li xe rivai a ^ima Undese e a f ima
Dòdese. Alora sì che staremo ben!
— Sior tenente, parche no semo restai in gima al
Sétole ? Bombe a man e fusilade, ostia, voria vederli
sti musi (de Mòcheni a ciapame le posision !
Hanno ragione, di chiedere. Ma che sanno loro,
ma che so io di quello che succede ? Nulla. Si combatte
si va si resta, numero nella massa enoorme che on-
deggia, che manovra su questa fronte di montagna dai
ghiacciai ai giaroni idolomitàci — e nel cuore un ran-
core sordo, uno strazio di non sapere di non vedere,
ombre nel fondo d'una valle nera che vanno senza una
risposta al loro domandare, rifuggendo da un male
ignoto, affrettando a Dio sa quale male maggiore.
Gregge. Domani ci diranno: Alt, e muori qui. E si
morderà la neve lì, ignorando se ciò ha giovato o no,
se almeno il sacrificio vuol dire una vittoria duecento
— 63 —
"chilometri più in là, per io meno un paese salvato dal
bombardamento, una riscossa favorita per più felici
tempi. Sì, a bomibe a mano e fucilate, e l'incitamento
che pare venga dalle malghe laggiù dove la moglie
attende alle sconcianti fatiche da uomo, il nemico lo
avrebbero contenuto , questi alpinacici brontolomi. Ma di-
spacci cifrati e sigle e misteri ronzano le notti nei
fili, quando noi s'è all'appostamento: e c'è lontano lon-
tano di qui, in un bel castello ovattato idi tappeti e di
arazzi, un ufficiale che iscrive, un dattilografo che copia,
un piantone che esce , un colonnello che sagramenta :
la nostra mitologia, gli dèi misteriosi òhe tirano i fili del
nostro destino.
Questa è la guerra. Non il rischio di morte, non
la rossa girandola della granata che accieca e seppel-
lisce lin un turbine sonoro ((( quando si leva che intorno
si mira — tutto smarrito della grande angoscia...))) : ma
sentirsi così marionette nelle mani di un burattinaio
Ignoto, gela talvolta il cuore, come se la mano di
un morto l'afferri.
Inchiodato alla trincea finché non viene l'ordine
del cambio, improvviso come la cannonata o la tor-
menta ; avvinto al rischio in agguato, al destino segnato
dal numero del plotone dall'elemento di trincea, e non
levarti la camicia quando vuoi, e non scrivere a casa
quando vuoi, e anche le più umili esigenze della vita
segnate da una regola fuori di te — questa è la guerra.
Non la conosce il corrispondente che viene in trincea
— 64 —
a vedere come ci stiamo; non la conosce l'ufficiale di
stato maggiore che viene a cercarci una med;aglia.
Quando ha appetito o fifa o sodisfazione del lavoro
compiuto tira fuori l'orologio e dice — È tardi, debbo
andarmene — . E se ha preso i pidocchi, quando arriva
a casa fa il bagno.
— Anche Castel nuovo brucia — disse Pono.
Ed un uguale crepitìo di fucilate vicinissime salì d'im-
provviso dalla valile, punteggiato dalle detonazioni più
cupe delle bombe.
— Attaccano in fondo valle.
— No. È il magazzino di Pontarso che brucia.
Ma un ticchettìo di fucilate scese dall'alto della
montagna abbandonata, e disse qualcuno:
— È il tenente Garbari con la retroguardia, che
è attaccato.
— Son za qua. Dio bestia. Gnanca el tempo de
dormir, no i ne lassa.
Nessuno risponde. La marcia arranca lenta nella
oscurità rossa, nel pacciume pesante del fango e della
neve, per la mulattiera erta. La stanchezza delle lunghe
notti vigilate s'aggrappa allo zaino, il sonno lega le
membra : nel corpo quattro morsi di galletta, nell'animo
la desolazione delle cose che si abbandonano per
sempre. I brevi alt — corpi buttati a terra, e dopo
pochi istanti già il ronfare di qualcuno — non fanno
che stancare di più. Lo stomaco vuoto brontola: ma
bisogna andare adagio con i viveri di riserva — non
ci sarà, no, Collet col rancio a Malga la Costa, ma
— 65 —
forse si troverà l'ordine di andare ancora avanti. Non
si bestemmia nemmeno piiì. Si va meccanicamente,
senza pensare ; il sonno blandisce con tentazioni atroci
tutte le membra, passa con dita lievi sul volto, sussuna
vigliaccherie infinitamente dolci. Che importa la riti-
rata, gli incendi, il rischio dell'attacco^ Trovare un
poco di paglia, un poco di fuoco sul rovescio; dormire,
sognare la casa lontana, dove il letto è così grande e
tiepido.
E la notte tormentata dagli scoppi, crinita d'incendi,
scivola fredda sulle montagne verso un'alba minacciosa
e livida.
Il bosco dirada. Appare l'orlo di una colletta, due
ombre intagliate sul cielo. Vedette. Ci siamo.
— ■ Chi va là ?
— Alpini.
— Parola.
— Ostia, Sacramento, no te senti, paese, che semo
alpini, Dio Madonna?
La vedetta si persuade a quel fiotto di bestemmie
paesane.
— Avanti.
Piij avanti, ecco il maggiore, che parla con un
altro, incappucciato, grosso: il colonnello, dev'essere.
Pochi ordini stizziti. Gli uomini si fermino sotto, in
gruppo; inutile fare le tende; dormano pure. C'è già
una compagnia, arrivata; e ci sono due altri battaglioni
che si sono ritirati da un'altra parte. E un intrico di
salmerie, muli ritrosi, bestemmie di conducenti, urti
P. Monelli, Le scarpe al sole - 5,
— 66 —
di zoccoli ferrati sul sasso. La notte -declina: nuvole
più chiare si sfilacciano sulla valle dalla parte di
oriente.
— Vien qui, Monelli, se vuoi dormire. C'è un
copertone.
E sdraiati sul copertone, rannicchiati sotto un telo
da tenda su cui la pioggia batte dolcemente, a pugni
chiusi, ci si abbandona finalmente al sonno.
Poi sveglia brutale (già dormendo s'è sempre avuto
r incubo di marciare), sonnacchioso ritrovarsi degli
ordini chiusi, l'appello, partenza. Mangiare, un po' di
galletta, mezza scatoletta. Piove. Dagli abeti fradici
sotto cui si sfila imbronciati stillano freddo e tristezza.
Il cielo non ha colore, non ha ora — un perpetuo cre-
puscolo' fuma dal suolo e ondeggia basso dalle nuvole.
In marcia verso posizioni di montagna ignote, senza un
reticolato, senza un elemento di trincea, id^onde con-
tendere il passo al nemico che dilaga. Salendo si ritrova
un mevicare largo e senza vento, che aduna un'uguale
desolazione sul suolo, fascia l 'animo in un uguale rim-
pianto di luce e di caldo.
E questo pugno grigio di uomini perduti sull'enorme
dosso nevoso, nel crepuscolo di tempesta, sono i tuoi
difensori, Italia. Fra le tue blandizie primaverili e
l'avidità del nemico non ci sono che questi sbrindellati,
Italia che maturi ora le ciliege rosse nel sole e sebbene
il pericolo batta alle porte te ne freghi un poco, e le.
tue fanciulle spingono i piccoli seni novelli fuori e gli
esonerati si comperano il cappello di paglia. Fiorite
— Ó7 —
sicure in pace, fanciulle italiche, e ricercate sicuri nella
tarda notte il A'ostro letto, imboscati. Arrotondino la
pancia senza tremare i fornitori che ci hanno mandato
queste bombe che non scoppiano e queste scarpe che
scoppiano da tutte le parti. Qui Zollet vi difende,
vecchio che arranca bestemmiando per l'artrite, ma ge-
loso del suo fucile, che domani colpirà giusto perchè
gli ha dedicato il grasso della sua scatoletta ; qui Cec-
chet VI tutela, che lavorò vent'anni in tedescheria e
quando fa le mine parla tedesco e dice fertig e Feuer
come ha appreso nelle miniere della Slesia, ma è il
pili mulo della compagnia, e si ostina a portare con la
sua squadra un macinilo di mitragliatrice Penno. E
Smaniotto che è già stato ferito tre volte, e Cesco
che è figlio unico di una vecchietta che vende la frutta
sullo stradone di Primolano, e le manda cinque lire a!
mese. Bravi ragazzi, ciarloni e lavandai, ma taciturni
quando il lavoro è duro, segnati dalla loro aspra vita
d'una serietà triste e attonita, che non hanno nemmeno
la speranza di andare ad istruire le reclute come il te-
nente, e se non gli piglia la ferita non hanno altro
miraggio che quindici giorni all'anno per potersi sbor-
niare senza paura dei carabinieri. Che cosa hanno avuto
essi di questa patria per la quale sono ora il più saldo
baluardo, che gli fu matrigna e gli spinse alle miniere
della Vestfaglia e alle strade della Galizia, e gli ha
richiamati di tanto in tanto a caricarsi lo zaino ? Ma il
concetto di patria coincide in essi con un senso oscuro
ma efficace di dovere. Imperativo categorico. È dovere.
Lo hanno appreso nei primi anni da ragazzi fra le
— 68 —
montagne rudi, ove la vita è segnata da sbane defini-
tive che non si posson varcare, con rigore di stagioim,
con asprezza di elementi, con difficoltà che richiedono
per essere superate accorgimenti ripetuti ed uguali. E
sole gioie al corpo l'abbraccio con la ragazza che poi
bisogna sposare — dovere — , il vino che fa dimen-
ticare gli affanni — ecco perchè si sborniano. E iiion
altro riposo che guardare il fumoi della pipa vaporare
contro linee di montagne o lontananze azzurre che non
tentano. E per i più, poiché la montagna dà poco,
l'emigrazione all'estero ed il lavoro serio tenace diuro,
fra gente ignota e che non s'ama, sotto una regola
ignota e che non s'indaga : la galleria di cui non si
conosce lo' sccpo, la strada che conduce a plaghe
sconosciute e che non percorreranno, dopo, quando
l'avranno finita e santificata con qualche morto. La vita
gli si prolunga così nel pensiero fino ad una vecchiaia
che consenta di tornare per sempre al paese natio,
guardando più pacati di tra il fumo della pipa le lon-
tananze azzurre che non tentano. Segnati di questo
stampo austero, sono venuti alla guerra come ad un
nuovo aspetto della loro vita dura — vi hanno trovato
lo stesso dovere ferreo — vi hanno portato lo stesso
coraggio serio e sereno. Ed un confuso senso di co-
munione con questo suolo che sanno scavare, con questi
alberi che sanno abbattere e squadrare e polire, con
queste rocce che sanno afferrare ed incidere, è il loro
amor di patria.
E le bestemmie che tirano per scandire la marcia
— il cappellano lo sa benissimo — non sono che un
— 69 —
mezzo magico per sopportare la fatica, simile all'ansito
riitmico adi ogni colpo <di pistoletto, simile airaha aha
quando tirano un pezzo dia 149. Una buona bestemmia
disimpegna l'otturatore che s'incanta, spezza in due
la galletta, aiuta ad infilare le scarpe gelate, strappa
il tappo della bottiglia di grappa che l'amico condu-
cente ha regalato — lui che viene dal tepore della
stalla — perchè metta un po' di caldo dentro.
E se il tenente non postilla il suo discorso con un
moccolo', perde tutto l'effetto oratorio — come è inutile
affibbiare dieci di rigore se non si appoggiano con un
buon calcio dato con tutta la pianta del piede — alla
maniera del colonnello Ragni.
Turm è dello stesso avviso, spalle come un armadio
e un testone tondo sul collo corto (il testone glielo ruppe
una scheggia a Sant'Osvaldo e ringrazi il cielo che
aveva un elmo Farina se no andava al Creatore —
adesso per riconoscenza l'elmo Farina non lo smette piiì).
— Non ubbriacarti piìì, Turin.
— El me domanda rimposibile, sior Tenente.
— Almeno non farti più vedere da me ubbriaco.
— Questo sì, sior tenente.
— E se ti vedo ubbriaco ti caccio dentro.
— Cossa me voi lo metal drento ! El me daga su
la testassa, alora, ch'el ghe daga su la testasisa die sto
su con de Turin che no 'l sa gnanca farla franca !
Attendati sulla neve a mezzanotte. Ma alle tre
abbiamo dovuto andarcene di nuovo perchè se no qual-
cuno si svegliava gelato. Ripartiamo verso la forcella,
sotto la pioggia, nel rombo del combattimento a valle.
ì
— 70 —
L'alba chiara, ia mattina fresca, e poi il sole sulle
cime raggiunte ridanno la vita. Ma non c'è tregua.
Allarmi, ancora. Il nemico insegue. Cannonate, fu-
cilate, rapido costruire di ripari. Fame. A notte, al-
larmi, -tormenta, igelo: non si dormirà dunque più?
26 Maggio.
E all'alba salgono i due bei battaglioni ungheresi
che vengono dai riposi della Serbia all'allettante con-
quista d'Italia, rimessi a nuovo, bei ragazzi giovani,
vigorosa riserva dell'Imperatore. Giungono nella nebbia,
reticolati non s'è fatto in tempo a fcirne; la prima linea
è un velo, urrà ! e son dentro alle linee. Hanno dunque
vinto! La certezza della vittoria l' abbiamo ritrovata,
dopo, sul volto proteso di tutti i morti, stroncati dalle
bombe, fulminati, baionettati : con quella certezza son
morti. Che c'era, indietro, il battaglion Feltre. Che
era stato portato via la sera prima dal fondo valle —
e 1 soldati credevano che s' andasse a riposo; e
quando gli avevan fatto fare a un certo punto per
fila sinistr, avviandoli per quel sentierino da bestie nella
notte e nella pioggia, avevano incominciato ad ostiare,
ed erano giunti proprio allora dopo sei ore di marcia
affranti e arrabbiatissimi. E al grido di allarme, e al
grido di trionfo degli ungheresi, 'son balzati, hanno
sfogata la loro rabbia su quella gente. Pochi minuti
di mischia, con le bombe, con le baionette; i serventi
— 71 —
delle mitragliatrici ungheresi sono uccisi sull'arma; i
conquistatori tagliano la corda, s'arrendono: mitraglia-
trici nostre fulmineamente portate innanzi, piazzate sul
fianco, chiudono il varco a chi scampa ; chi sarà tornato,
dei bei battaglioni ungheresi, a raccontar la sconfitta?
Éxl ecco balenò d'improvviso il sole ; s'aprirono alla
vista le pili lontane montagne lavate dalla pioggia, le
montagne di Feltre violacee e turchine ; e dietro bril-
lavano i fiumi del piano, le case del piano s'accen-
devano nel mattino. Così soave si offriva la dolce Italia
ai suoi difensori, così canzonatoria rideva agli occhi
stupiti dei prigionieri.
I soMati si buttano per il bosco a cercare i morti,
gli portano via le belle scarpe nuove.
La notte discende presto con neve, tormenta che
ci fruga sotto la giubba fradicia, ci frusta in grandine
fina sul viso. Siamo turgidi d'umido, la fame affloscia
il ventre vuoto dove danza la mezza scatoletta insipida.
Sotto le tende vuote, senza saccopelo, senza coperte,
ci Si avviticchia l'uno all'altro per suscitare dai nostri
corpi un poco di calore. Ma ad ogni istante un allarme,
un ranocchiare di mitragliatrici obbliga a balzar fuori,
a distenderci sulla neve e frugare con occhi pesanti il
buio. Fuori l'uragano è ostile ed atroce come un nemico
tangibile, il freddo smaglia il cuore piiì che il rischio,
pare che la montagna si sollevi per scacciarci da se. E se
l'allarmi cessa, sotto i teli che schioccano non c'è riposo :
— 11 —
la congelazione è in agguato e formicola sotto le scarpe,
il sonno martella le tempie e iì cranio con pugni pe-
santi. E se chiudo gli occhi sogno che un saccopelo
umido m'avvolga nel fondo d'un meire freddo.
E la mitragliatrice richiama fuori, ancora. Ancora
la notte m' assorbe con il suo succhio selvaggio, spreme
dalie vene irrigidite quel poco di sangue che ci sia
rimasto. No, ecco, così non si vive più. La tormenta
s'avventa con tentacoli aguzzi e mi squassa, ed io tremo
desolatamente, e se la fucileria s'è taciuta è solo perchè
più sonora urli la tempesta alla mia dedizione. Così
sia. Venga dunque una buona volta il nemico e mi
prenda e mi trascini dove vuole e m'uccida. Amen.
Già può /venire ll'allarme, chi ci riesce a tirare fuod
ancora una volta i soldati dalla ten<la ? Patria, famiglia,
dovere... parole, parole senz'eco nel mio spasimo. C'è
una tempesta di neve che tutto travolge, c'è qui uno
straccio nella notte che batte i denti e non pensa e
non vuole, s'abbandona all'uragano che se lo meni e se
lo batta come si fa d'uno straccio.
E questo è ancora un allarmi ? Un soldato ansante
urla alle mie orecchie qualchecosa -di serio. Guardo
l'uomo, non penso alle sue parole, penso come è pos-
sibile che non avvinca anche lui questa rete di gelo
umido che mi paralizza. Nemico, sotto il ciglio, ve-
detta sorpresa... Ombre sfilano dalle tende verso la
trincea di neve : non so se li ho chiamati io, ma vengono
ancora una volta, i bravi ragazzi. Viene anche Zanella,
con una bottiglia di vino. Non domando per quale
miracolo abbia trovato una bottiglia di vino sulla mon-
— 73 —
tagna sconvolta — ma mi ci attacco al collo, ed ecco,
il sole rosso si riaccende nel corpo, torno buon soldato,
un calcio proietta un riluttante nella buca e insuper-
bisce la mia vigliaccheria.
I soldati, propagginati nella fossa di neve, ululano
nello stroscio delle fucilate il loro tormento di dannati.
Il Colonnello Ragni dice che farà passare in fanteria
l'ufficiale delle salmerie che non gli manda del vino.
Acqua dal cielo ed acqua nel corpo, si sente già le
rane nella pancia. Il suo grande riso rosso getta sprazzi
di coraggio su tutti. E il mio maggiore si stuzzica la
. barbetta grigiastra, e se la granata incomincia a graf-
fiare il cielo, va a fare quattro passi per questa colletta
calva e liscia come una mano. Ma Bosio' ha del vino,
lui. E se gli si porta un biglietto, dice: — Ca beiva,
che ai n'je dcò par chièl. — Poi fa le sue confidenze.
— Mi volevano mandare dei reticolati, ho risposto che
è inutile, perchè si va meglio alla baionetta, quando
si è senza.
Questi uomini respirano il coraggio come questo
vento robusto. Non ci si figura come siano vissuti nel
flaccido tempo di pace : si pensa che siano venuti fuori
per questa guerra a impersonare in sé la tranquilla vo-
lontà del battaglione che deve andare a morire. Si
dipingeva l'eroe un asceta trasumanato dal disprezzo
della vita. Ma costoro hanno la stoffa di tranquilli gau-
denti, e non parlate di donnine al maggiore che gli
brillano subito gli occhi. No, non sono maturati da
k letture severe, nessun proposito di rinuncia batte al
— 74 —
loro cuore sano. Mia ecco, ili loro battaglione òa. dieci
giorni comibatte e marcia e digiuna nel vento e nella
pioggia, invia barelle in fondo valle, molti buoni alpini
mettono le scarpe al sole, si comincia a brontolare sor-
damente contro i comandi che ci abbandonano, contro
la sussistenza che ci affama, ed essi hanno il viso sereno
e calmo e affissandolo ce ne viene come una sorsata
di grappa; e se l'austriaco attacca, balzano in testa al
battaglione con una bestemmia, nessuno resta addietro,
e il combattimento diviene una rossa festa allegra.
Che cosa importa se il sole porta il bombardamento ?
Ma è il sole, finalmente ! Vaporare degli umori di
quindici giorni, stordimento di asciugarsi a quel tepore.
Ordine di fare una scappata in Italia per servizio,
A rompicollo per il sentiero battuto, verso Bieno bom-
bardato.
Bieno è tutta una rovina. Le bifore nere son salve
sul muro incendiato; l'affresco è scomparso. Fetore d'in-
cendio, odore di cose morte. Ma fuori alla campagna
m'attende la primavera. Calda odorosa turbante. C'era
dunque la primavera al mondo, e noi non lo sapevamo
lassù, confìtti al perpetuo inverno! Mi rotolo ebbro sul
prato, abbevero gli occhi aridi di verde, procedo stor-
dito, sonnambulo, sulla strada bianca.
— 75 —
— Tu vieni da Monte Gima ?
Rispondo di sì con un poco di gloriola. Penso che
il tenente m'ammiri. Monte Cima, ostia, vuol dire il
nemico fermato, un caposaldo conservato, il tuo pran-
zetto soave che m'hai offerto, collega, garantito da
quel nostro tener duro lassù. Guardo i gigli sul tavolo,
dalla finestra aperta un affaccendarsi di piantoni, uin
attendente esce con un paio di gambali lucidi, un
sergente nella casa di contro si fa la riga davanti allo
specchio... guardo tutto ciò con un'aria di protezione
benevola. E il tenente mi dice :
— Stai attento che se il Generale ti vede con quei
capelli lunghi ti caccia dentro.
Anche il Capitano s'informa se vengo da Monte
Cima.
— E dove va Lei ?
— E il foglio di viaggio dov'è ?
Rispondo che non ce l'ho, che lassù non ce n'è,
che m'hanno detto che me lo faranno al Comando
della Divisione. Ed allora il capitano scatta:
— Ma questi battaglioni che non hanno nemmeno
il cofano di cancelleria con sé, che cosa fanno, per Dio ?
Vorrei dirgli che, modestamente, qualche cosa ab-
biamo fatto. Ma è così incazzato, con quegli aiutanti
maggiori che non sanno fare il loro mestiere, ed II
sergente che viene chiamato a un suonare stizzito di
campanello mi guarda con così evidente aria di me-
raviglia quando sa che non ho il foglio di viaggio, che
— 76 —
comincio a pensare che veramente il torto è nostro. E
non 'dico più nulla. Se sapessero poi che l'aiutante
maggiore sono io !
A Castelfranco Veneto mi dice il tenente dtel
Commissariato :
— Quando finisce questa guerra ? Sarebbe ora che
finisse questa guerra. Io, ve<li, con questa guerra non
ne posso più. Auff , questa guerra !
Anche la leggiadra dattilografa che ticchetta vicino
a lui mi guarda stanca, con due occhioni cerchiati. Dio
buono, come sono cerchiati i due occhioni di velluto !
Anche la povera signorma deve essere stufa della
guerra. Poi ne viene un'altra che porta il protocollo,
e se ne va sculettando, carina tanto, icon le unghie
lucide e troppo profumo addosso. Poi ne entra una
terza — mio Dio, come sono belle le donne a Ca-
stelfranco Veneto ! Questa è la direttrice del magaz-
zino, e il tenente m'affida" ad essa con un gesto stanco.
E il magazzino è tutto un affaccendarsi di ragazzone
solide, forti, che fanno ruzzolare i sacchi di scarpe
ed issano rotoli di coperte airultimo piano, schiamaz-
zando, strillando, sghignazzando, facce accese, denti
sani che brillano, odor di giovinezza di primavera di
prati, trilli idi risate che richiamano il tenente fuori dal
suo ufficio, poveretto', e deve venire fra quel gineceo
sgambettante per mettere un poco di disciplina. Ha
ragione, questa guerra è troppo dura per lui.
__ 77 —
Mi dice la signora in treno : ^ ^
— Ma lei che viene di lassù, dica un poco, quando
finirà la guerra ?
— Non lo sappiamo bene, cara signora. Quando
ci viene ài cambio e si discende verso le baracchette
dove ci si può cavare le scarpe la guerra è finita, per
noi. E quando viene l'allarmi cbe si d'eve tornare su,
allora si pensa veramente cbe la guerra sia una con-
danna eterna, un vaso delle Danaidi per questa buona
gioventù cbe gli si caccia dentro.
— Ma lei la fa volentieri la guerra 7
— Oh Diio, signora, questa è una domanda troppo
difficile. Sarebbe come se io ile chiedessi se Lei va vo-
lentieri dal dentista per ifarsi cavare un dente che le fa
male. Lei ci va con angoscioso coraggio, non è vero?
E così, con angoscioso coraggio, i miei ragazzi sì pre-
parano a balzcu: fuori quando gli si dice che è ora di
farlo.
— - Io penso che la cosa più terribile sia non potersi
fare la barba tutti i giorni.
— Ha ragione, signora. È terribile non potersi
sentire rasato e dciver mangiare la, galletta con le mani
sporche. Ma ci sono altre cose che sono forse più
brutte : bere l'acqua d'un laghetto dove hanno but-
tato dei morti, per esempio, o contarsi le dita dei
piedi quando ci si cavano le scarpe dopo quindici
I giorni che le si portano, per esser sicuri che ci siano
^ tutte. Ed è anche triste, signora, vedere partire sulla
barella il collega morto, e vedere giungere dopo qual-
che giorno la sua posta, le lettere di sua madre.
— 78 —
- — Ah, grazie al cielo, mio figlio non ha tante idee
per la testa. Ha seguito i miei consigli ed è scrittu-
rale in un magazzino avanzato, oh Dio sì, ma sempre
al sicuro. Vuole bene a sua mamma e non vuole farla
morire di pena.
— È bell'esempio di amor figliale, signora. Le si-
gnore spartane davano al figliuolo lo scudo e dicevano:
o con questo o su questo. Ma quei giovinotti che ser-
rando con i denti le labbra muovevano contro il per-
siano in falange, non amavano, pare, le loro madti.
Amavano, tutt'al più, la Ioto patria.
— Ma io me ne infischio della patria.
Chi parla così non è più la vecchia signora. La
vecchia signora tace guardando dai finestrini un rosso
tramonto bolognese, un sole rosso che ruzzola dietro
una fila di pioppi. Generale beone che passa in ri-
vista i coscritti impalati. O non forse, signora, una
bottiglia d'inchiostro rosso di quello che usa Suo figlio
nel magazzino avanzato che s'è rovesciata dietro una
rastrelliera di lapis copiativi ?
Quello che s'infischia della patria è il maturo si-
gnore dell'angolo. Ha la busta di cuoio consunta del-
l'avvocato o deirusurario. Ha le scarpe del giallo più
zabaione, la cravatta dell'azzurro più vespertino. E
la faccia è tonda e lucida di cittadino sudore. Il si-
gnore corregge l'asprezza delle sue parole.
— .Oh Dio, si capisce, la patria sì deve dunque
amarla. Ma quando ci ruba i più sacri affetti, alllora...
(( Allora » è il me ne infischio di prima. Si pensa
dove alberghino, m queirepa agiata, i più sacri af-
— 19 —
fetti. Forse i più sacri affetti soeo lo zucchero che oggi
gli misurarxo, la veglia notturna a caffè che un decreto
del prefetto gli tronca troppo presto, i bagni di mare
al lido che i velivoli nemici gli turbano. Santo Dio,
anche per le tranquille digestioni di questi cittadini
■combattono i miei scarponi, lassù. (Stamane da Bas-
sano che tamburellante insistenza di bombardamento
su verso le cime, verso Castelgomberto e Monte Fior !).
Sì. E anche per quel sergentino lucido della Croce
Rossa dell'angolo, che se amasse la sua patria sarebbe
un sergen taccio di fanteria, scalcinato e magro, — e
poi non sarebbe qui : sarebbe in tradotta. E anche per
il giacchettino borghese del mezzo, a cui i bagordi
ed i vizi prepararono il petto deficiente che ilo fece
scartare alla visita medica, ma liscia con cura i capelli
lunghi sulle orecchie e legge la guerra attraverso la
interpretazione di Guido da Verona ((( Qggi -cantano ìe
belle mitragliatrici ))).
Amare la patria. Le parole suonano male, ormai,
a ripeterle. Si odora qualche cosa di stantio, comie
quando in soffitta si apre la cassa delle carte che pre-
mevano tanto al nonno. Si ha la percezione che siano
parole che non bisogna troppo ripetere per non gua-
starne ,il senso, perchè non d-ven^ano un'accozzaglia
di sillabe senz'anima.
Il treno ci lascia nella città notturna, la madre sa-
via, il signore pratico, al sergente azzimato, il giovi-
notto vizioso; nella città tumultuosa e rumorosa che
avvince con tentazioni nuove, che odora di vizio e di
— 80 —
vigliaccheria, spalanca-^ un letto raorbi<io al corpo, suc-
chia dairanimo le res/istenze e caecella visioni lontane.
Come si chiama quella troietta lucida nelF angolo del
caffè che mi tenta con gli occhi bistrati } Io l'ho ve-
duta un'altra volta e mi è piaciuta già un'altra volta,
mi pare.
Quando sono, entrato nel caffè con le mie scarpac-
cie e — credo — con un po' di puzza attaccata al-
l'uniforme, tre o quattro miìordini eleganti mi hanno
guardato con deprecazione. (Guarda, anche i due che
sono stati riformati per adipe ed ora lo arrotondano
guadagnando milioni con le forniture). Ho pensato
che veramente è inopportuno questo mio aspetto sbrin-
dellato nella sala elegante ed ho cercato, timido, l'an-
golo dove è seduta la troietta che mi par di cono-
scere.
— Tu vieni dalla guerra ? — mi dice essa. —
Poverino.
Come ti chiami ?
Ora la creatura dipinta attingeva con il cannello
di paglia e con m^olta con^punzione il succo d'una gra-
natina. Rosso scintillìo di ghiaccio nel bicchiere, e un
cappellino tondo e rosso sulle labbra ancora più rosse
— sinfonia di rosso che avviò per vie nostalgiche il
mio pensiero ■ — come quel sangue di tramonto veduto
dal treno. «
E allora mi sembrò che le labbra carmiine si schiu-
dessero sulla neve dei dentìi per dirmi queste parole :
— Non mi conosci più ? Non ti ricordi quando eri
studente, che mi incontravi nelle veglie, ai tavolini die!
poker, nelle camere separate ? Io avevo intrecciato
— 81 —
attorno al tuo cuore una rete oscura, e tu non avevi,
allora, tante fisime per il capo. Anche tu pensavi che
la patria è uin argomento retitorico, e il tuo desiderio
scivolava sui miei seni lisci meglio ohe ora tu sugli
sci nella montagna ostile. Che cosa vieni a fare qua
giù, illuso ? A conversare con il solo che copre la
sua vigliaccheria con professione d'umanità ? con il
dotto per cui non c'è nulla di meglio al mondo che la
postilla elaborata sul margine del libro nella saletta
ben chiusa ? A chiedere qualche carezza facile al tuo
digiuno ? Quando nella notte di battaglia ti dissero
che la fronlte era rotta, che il nemico incalzava, che i
croati s' affacciavano dalle forcelle superate alle valli
d'Italia, qualche cosa si spezzò nel tuo cuore, e ti
strinse un nodo alla gola, e fosti gonfio di sacrificio' e
d'olocausto — non è vero ? Romantico ! Non prendi
una Strega ?
— Venga una Strega.
E il cameriere porta la Strega nella tazzina da
caffè. Perchè oggi è domenica, ed è vietato distribuire
bevande alcoolnche. Con lo sitesso cavillo c'è un avvo-
cato, laggiìi, che sentendo prossima la revisione della
sua classe, s'è arruolato volontanlo. Già. Nel com-
missariato. Speriamo che creino un nastrino per i vo-
ìointarii di guerra, e sarà bel trofeo sul suo petto iargo,
ove ci sarebbe tanto spazio per la porpora d'una ferita.
Sono ancora parole dell'cimica dei tempi univer-
sitari, o di nuovo questo fiato greve del caffè dipana
dal cuore raggomitolato il filo delle meditazioni ?
P. Monelli, Le scarpe al sole - 6.
— 82 —
— Vedi, l'amor d'i patria è una di quelle cate-
gorie tìhe si deve semipie ammettere fino al giorno in
cui non guasta i tuoi interessi. E tu ce- ne hai ancora,
o agisci come se ne avessi, perohè non sei un uomo
pratico. Viene la guerra — diceva quel tuo amico in-
vasato d'amor idi patria. — Bisogna arruolarsi. — Ma
non lo faceva, perchè se la guerra non fosse venuta,
avrebbe perduto un mese — capisci ? un mese della
sua vita — a servir la patria. Quando la guena venne
e s'arruolò volontario — tanto, lo avrebbero ripreso lo
stesso — si trovò un giorno ad una estrcizione a sorte
per la fronte. Prima dell'estrazione, gli chiesero se
sceglieva subito dii partire e lui disse : — Ma che fes-
serie ! Bisogna esser pratici.
Qucmdo voi siete lassù, leggete dei discorsoni sui
giornali, non è vero? delle dimostrazioni patriottiche,
dei banchetti per commemorare il rediuce, e simili .ce-
rimonie. Bè, vedi, quella gente lì quando si ritrova a
lumi attenuati si strizza l'occhio' come l'augure ro-
mano.
Ma queste sono malinconie. Non verrai stasera con
me nell'alcova a luce violetta? Perchè io sono la tua
amica dei tempi vuoti, e il mio nome è il nome di tutte
le femminé(tte docili che blandirono la tua ignavia di
studente.
No, evidentemente la creatura che -decorava con
grazia viziosa l'angolo del caffè non ha mai pensato a
dirmi tutte queste cose. C'è soltanto — questo sì —
l'invito all'alcova a luce violetta nei suoi occhi che
— 83 —
mi hanno versata un'occhiata tiepida pesante este-
nuante — pioggia d'estate sulla siccità del mio de-
siderio.
Ma io, invece, sono uscito e sono andato al cine-
matografo. Al cinematografo proiettavano la battaglia
per la presa di Ala. Che era qualchecosa di buffo, una
concezione quarantottesca, truppe al Savoia ! per quat-
tro sullo stradone, piume di bersaglieri e trombe che
suonavan l'attacco, ufficiali caracollanti, austriaci in
fuga in ordine chiuso.
Io espressi le mie proteste e la mia meraviglia con
un po' d'esuberanza. Ma il mio vicino. mi guardò brutto
e mi disse :
— Scusi, se non le piace, se ne vada.
— Ma caro signore, non vede che buffonata? Io
che ho fatto la guerra, le dico che la guena non è
così.
— E che cotsa me ne importa ? Cosa volete venire
a raccontarmi la guerra come la fate voi ! Lasciate che
me la goda riprodotta come me la figuro io.
PARTE SECONDA
W.Xà yàg 7]dri mgcc àniévai, i^oì iihv
UTtoQ-avov^évco, viilv de ^lcogo^svols' otcÓ-
TSQOi de T}[ià)v BQ%ovtai ènì a^eivov TtQ&y^cc,
adr}lov Ttavtl 7tlì]v i] rà d'sà.
(" Ma già ora è di andare, io a morire, voi a vivere.
Chi di noi andrà a star meglio, occulto è a ognuno, sai-
Aochè a Dio „). (PLATONE. Apologia).
Nel pomeriggio caldo fluiscono i torrenti del di-
sgelo, la montagna si spoglia del suo orpello di neve,
asciuga al sole la pelle lucida e scabra ; e profonda la
cima con linee nette nel cielo.
Ancora masticare la ràdica amara del rododendro,
seduto sulla soglia della tenda passare in rivista la so-
lennità delle vette dall' Adamello a Cima Mandriolo.
La vedetta appoggiata con abbandono al muricoiuolo
di sassi s'intona co^ì perfettamente al brunO' delle
rocce che ne pare una necessaria integrazione. L'anima
della montagna fluisce in lui da quel contatto primi-
tivo e rude : la guerra è in lui una nuova legge da rocce
di neve di oielo che non sa bene donde venga, ma che
subisce con serenità come la tormenta e la nevicata.
E guarda con occhi pigri sotto le ciglia socchiuse —
ma vede lontano e sicuro — la rastrelliera delle cime
. — 86 —
■di fronte che dovremo bene un giorno conquistare, e
la neve isu cui lascieiemo il sangue e le peste del com-
battimento. Domani : ma è lo stesso domani (die im-
porta se più remoto O' più prossimo ?) che porterà T in-
verno e la vecchiaia e la morte necessaria. Vale dun-
que la pena di angustiarsene ? Oggi il sole è buono e
sincero — e che è al confronto il tepore dei tuoi occhi
bistrati, amica bugiarda che vivi nella città artificiosa?
Torpore e tepore fra i sassi. Rombi di mine atte-
nuati, scoppi d'artiglieria poco frequenti sono come
voci di tenporale che non toccano il tuo disdegno,
montagna. La granata lorda la tua neve che la soffoca :
la mina incide i tuoi flanciii, gli uomini graffiano la
tua pelle per farsene ricoverò, il loro lordume ti ol-
traggia, la trincea ulcera la tua cresta pura, e tu indif-
ferente, montagna, ti abbeveri di cielo di vento e non
curi. Quando i piccoli uomini avranno chiuso il loro
giuoco, farai crollare con ritmo — che solo a noi ef-
fìmeri par lento — le gallerie ove si rintanò la loro
paura, livellerai il fianco sconciato dalla strada, il
sole ti porta via la neve con il suo pacciume, i morti
chiudi nel segreto delle tombe di ghiaccio. Ma attendi
un'altra vicenda che a noi pare non essere ; continui
il tuo combattimento eterno che ti consuma con ritmo
che solo a noi effimeri pare non esistere.
E di sotto la neve che se ne va appaiono mille
laghetti, taluni ancora fioriti di gelo, ancora freddolosi
ai piedi delle pareti nere, senza fremiti. Il comando
ha il SUOI lago, ha i suoi sette od otto laghetti la 265.^:
— 87 —
uno ne hanno i cucinieri, uno i calzolai. Alcuni sono
tragici custodi di salme : I due tenenti rimasti uccisi
nel combattimento della settimana scorsa a Col San
Giovanni, gli austriaci gli hanno buttati nello stagno
che è a valle del passo di Cinque Croci. Noi non lo si
sapeva, e ne bevevamo l'acqua. Non s'era accorto di
aver il suo lago anche Garbali perchè era ancora sotto
la neve } Se n'è accorto il giorno che camminando tran-
quillamente colle mani in tasca e la pipa in bocca sentì
cedei la neve e scomparve agli occhi attoniti d'una
piccola guardia. Fu estratto che cantava :
In mezzo al mare
e' è un camin che fumano
saranno la miei bella
che si sconsumano....
(per apprezzare la canzonetta ci vuole un angoletto di
baracca la sera che s'è trampellato tutto il giorno nella
neve, e sulla tavola c'è una fila di fiaschi pieni e per
terra un buon numero di fiaschi vuoti. Ripetere tre
volte i primi due versetti, tutto il coro s'accanisca su-
gli ultimi due.
— E l'aria?
— Ecco l'aria :
'^ ^ ^ ^^^'U^U U 1 ' l u ^
u u U ?' I u f uiu 'U ^^
— 88 —
Cantava dalla gioàa di avere anche lui il suo lago.
Ora fioriscono le genziaine sulle rive sassose,, una zat-
teretta riga le pigre acque brune.
. Ma il lago più bello non l'ha nessuno, perchè
adesso è in seconda linea : ed ha un nome così roman-
tico che a ripeterlo adagio con il suo ritmo novenario
si fantastica di cose impossibili e si pensa alla bam-
bina : il lago di Costa Brunella.
Il lago di Costa Brunella
orrore di pareti nere
oscure acque leggere
nella solitudine enorme
del taciturno senato
dei macigni canuti.
Solo nel ricordo son l'orme
dei nemici sopravenuti
per macchinare 1' agguato
lungo le rive impassibili
del lago di Costa Brunella.
Il meriggio stagna
nel cielo, l'accidia
del cielo riflettono lisce
l'acque, il silenzio polisce
di purità la montagna
dove s' accolse l' insidia,
il lago che chiude il segreto n
dei morti, che vigila il sonno
dei morti, e per essi fiorisce
le rive di genzianella,
il lago di Costa Brunella.
Ripeto adagio
le sillabe romantiche
89
si pensa a due occhi imploranti che
sanno un segreto
ad una bocca dolorosa
neir ombra delle chiome che vuole
parlare e non osa non osa.
Quando si arriva di notte che dall'alto viene un
cantare di soldati e la nebbia corre a rannicchiarsi nel
cavo ideile pcireti di roccia e il laghetto fuma (le nu-
vole vi fanno sopra le capriole) e pare che le baracche
siano dolci come salottini rossi dove Scikuntala versa
il tè nelle tazzine rosse e invece c'è dentro un atten-
dente che spidocchia il saccopelo — NOSTALGIA. Il mulo
che porta le tavole e le cartuccie, ìa ghirba gocciolante
e il gabbione che s'aggrappa ai rami penzoli degli
abeti, non soffre la nostalgia e non aspetta la licenza.
(Non è vero. Pensa la Beppa che è cieca d'un oc-
chio e se fosse un soldato l'avrebbero riformata: a
giugno l'erba era alta e tenera e chiarella e fiorita di
gigli dallo stelo più dolce dell'acqua di fontana. E
c'erano pascoli isu cui galoppare era un'ebbrezza. E
non dovevo rampicar le erode con queste tavole lun-
ghe che mi battono il muso e le orecchie.)
Tutte le cose sono ovattate di nebbia. Il batta-
glione sfila silenzioso verso il combattimento. Faccie
serie , — fatue. Decisione segnata ai lati della bocca
— 90 —
sigillata. La nostalgia diviene ansia d'andare più oltie.
Non anneghittiremo l'anima guardando una terra pro-
messa fra gli intercolunnii del sonno (il dolce piano
fra gli intercdlunniii dei cipressi). Non cipressi, qua su,
solo il ginepro nano. E due ginepri nani strisciano sulla
tomba recente del caporal maggiore Facchin colpito
dal fulmine, con alitri tre della piccola guardia.
Nuvole investono, nuvole respirano l'alito no'stro,
esiliati idal sole. Ma il capitano die segna col dito,
i'I ferito sulla ibairelila, ila linea pupatto'lesca delle bombe
a mano, la pancetta dei sacchetti riempiti di terra, il
* mulo che va tranquillo nella cannonata, sono le cose
della nostra vita. Separate dal mondo dell'altra gente
da una barriera più forte di quella della morte che se-
para le nostre canzoni dai colloqui malinconici dei de-
funti .
E un ticchettare di macchina da scrivere è umori-
stico nelle pause della mitragliatrice.
Ricomincia, per noi, la guena combattuta.
Ed ora il fardello delle cose vane dietro la schiena.
Che vale domandare se ci butteremo per là via di
Trento o se hanno bisogno laggiù di una diversione o
di riempire i bollettini ?
Oggi non siamo più quelli di ieri, curiosi al bom-
bardamento, tranquilli ai soliti servizi di vedetta. Oggi
il bombardamento che si sferra su di noi ha una logica
connessione con una serie sicura di avvenimenti, ìa
ruota ha ripreso^ ad andare e già siamo afferrati dentro
anche noi.
— 91 —
E le baracche che abbandoneremo sono già cose
morte per noi. Ne abbiamo distaccato la nostra anima
che aderiva da un poco, pigra, a quell'agio, a quella
coperta rossa, a quell'angolo muscoso di rocce (angolo
morto). E il vino giungeva troppo regolare e il cuoco
si raffinava troppo nella certezza che il mulo veniva
ogni giorno con la spesa. Ma il destmo ci scaraventa
di nuovo, con un calcio, nella mislea. E intorno, tutto
è nuovo, freddo, nemico.
Sopra il tumultuare, l'accavallarsi delle basse nu-
vole, un pallore sinistro di sole sulle alte cime bigie
contro il bigio del cielo; tristezza di crepuscolo che
batte al cuore spalancato ad accoglierla, con presenti-
menti, con rimpicinti, con timori. È l'ora in cui chi
niorirà domani scrive la lettera presaga alla famiglia.
Ma nulla il bombardamento su di noi al confronto
di quello che s'accanisce sul Cauriòl conquistato e lo
vela di nuvolaglia orrenda. E si pensa con accoramento
ai fratelli alpini che lassij tengono duro.
Tengono iduro. Se no che vale che Carteri sia
morto, che fu il primo a porre il piede sulla vetta }
Ma il suo attendente che lo seguiva, i Kaiser jàger che
lo videro piccolo e goffo lo ruzzolarono con un urtone
giù per il pendio fino al reticolato. E lui si rialzò,
si scrollò e urlò il suo incitamento e la sua rabbia
al resto del plotone che balzò dietro a lui sulla cima.
E adesso, non si parla più di mollarla, la cima, e biso-
gnerebbe ribattezzarla col nome del tenente che l'ha
santificata col suo impeto di sacrificio.
— 92 —
Questo ce lo racconta Garbarino il piccolo, fac-
cetta tonda e ilare, gli occhi lucidi dietro gli occhiali
a stanghetta, fratello del Garbari da Trento del nostro
battaglioine che è invece bcirbuto e stizzito sempre
come una suocera. Garbarino aveva i lanciaspezzoni.
Un magnifico arnese di guerra. Le bombande } Si va-
dano a nascondere. Pensate un poco: gittata massima
di uno spezzone cento metri, raggio d'azione, duecento.
È portentoso. Con quei cocafuoco ha partecipato ai
primi due giorni d'azione, volontariamente, perchè è
d'un altro battaglione che non c'entra. Adesso è qui
fra noi, di nuovo, ancoTa ebbro della battaglia. Ma ca-
vargli le parole di bocca è uno stento.
— Garbarino, hai lavorato bene con gli spazzoli }
— Uhm ! Ammazzati molti, ne ho.
E sorride ad una sua visione interiore che non
vuole rivelarci.
— Garbarino, come si stava quando hanno comin-
ciato a bombardare ?
— Uhm, male.
Non idice altro, e sorride ancora al suo ricordo dii
quelle ore tragiche. Perchè se lui dice che si stava
male, doveva essere un iinferno lassù.
Sotto la pioggia densa, nella notte oscura come un
sotterraneo, per sentieri vertiginosi (si va tastando la
roccia, ma un mfulo è tomboilato giù per la montagna
e s'è fracassato là sotto); poi nell'alba chiarita a vista
— 93 —
d'un velo di neve sulle cime piìi alte, per boschi tre-
pidi teneri, fra un crosciar d'acque schiumanti ; su per
una ripa da bestie verso la nuova sede di combatti-
mento, verso il truculento Cauriòl — a dare il cambio
ai territoriali del Val Brenta che ieri hanno visto
le streghe, lassìj, ma, ostia, il Cauriòl l'hanno tenuto.
S'arriva a notte sotto la pioggia. Verso l'alba mi
appoggio, affranto, alle ginocchia di un alpino che mi
trovo sotto mano, e m'addor mento. Dopo poco mi
sveglio' intirizzito e scuoto violentemente il corpo di-
steso ed immobile del soldato.
— Svegliati, peilandrone.
Non si sveglierà piij, il pelandrone. Era un morto,
il mio cuscino di stamane.
Nel mio. buco iniquo di sasso crollante e di terra,
asilo di millepiedi e di ragni, Zaneilla sente il biso-
gno di far dell'eleganza. Dispone sul saccopelo la
coperta ro^sa, appoggia uno specchietto al sasso, nel-
l'angolo in fondo una scatola di biscotti inglesi che
m'ha mandato il tenente d'amministrazione. Home.
Bombardamento. Ora siamo avvolti nella nuvola-
glia degli scoppi, e chi ci vede dal basso gli si strin-
gerà il cuore pensando a noi. I colpi picchiano il sasso,
sgretolano te roccie, le scheggie partono moltiplicate.
Cauriòl, mite nome d'agile saltatore ! Così. Bocconi
sul terreno nell'angoscia che non si scava sotto il no-
stro desiderio per crearci attorno un riparo sufficiente,
offerta all' acqua alla neve alla granata, distesa di
— ^4-
oorpi sulla cresta flagellata dal vento, martellata dalle
mitragliatrici. Il giorno non ha ritmo di luce: un uguale
crepuscolo dall'alba alla sera; non ha altre cesure
che la ripresa del bombardamento. Precedtiito da un
ansimante cigolio — tutta l'anima tesa per non pen-
sarlo, per non vivere quest'agonia dell'attenderlo —
cirri va e scoppia il 321. Tutta la cima trema, crolla,
s'impenna. Troppo grossi, questi proiettili, per questa
sottile lama di ghiaccio e di roccia, così romiantica
iermattina dal basso nel velo dell'alba !
Alla sera viene su la corvè delle scatolette di
carne, della galletta, dei gabbioni; cominciamo a
grattare la roccia col piccone, a forarla con i pisto-
letti, a sventrarla con le mine; dentro, bisogna entrare,
nel vivo della montagna sconvolta, per avervi riposo
un giorno, per avervi pace una volta, per dormire un
poco tranquilli.
Ma allora le mitragliatrici cominciano ad aguc-
chiare in fretta nell'oscurità, e ri cuci scono infatica-
bilmente con fili di morte i lembi della notte che la
granata squarcia.
Comandare il plotone sulla cima voleva dire mo-
rirci, come il bravo Moreindi, o per lo meno restare
feriti. Ogni giorno uno se ne andava. Adesso c'è il
sergente maggiore Silvestri che ha più fortuna. E sta-
notte, durante l'attacco notturno, s'è difeso bene, con
isuoi vecchi. Hanno scaricato tutte le bombe a mano
che avevano, poi giù sassi e rocce sul nemico ammas-
— is-
sato lì tsotto. Eid il nemico eia sempre più incalzante
e non c'era pii^ nulla sottomano, ed ecco il sergente
maggiore scaraventa giìi due casse di cottura e il
sacco del pane, accompagnati da un fiotto di bestem-
mie da far crollare la montagna.
Mattacchioini , alla Divisione. L'altro giorno che
s'era appena giunti sulla cima e c'era un casino di gra-
nate shrapnells fucilate fango neve urli, appena in-
stallato il telefono arriva un fonogranmia che dice così :
Prego pesare dieci pagnotte e comunicarmene ii peso.
Che cosa sarebbe successo se il maggiore avesse
risposto : Mandatemi una bilancia ? Avrebbe preso gli
cirresti. Mia ilui, Mosofo, ci ha bevuto sopra.
A-d uno ad uno i vecchi alpini del mio plotone se
ne vanno. Oggi è morto Monegat il rosso, classe novan-
tatrè, sfacciato esplorcitore, soldato in gamba, buon
ragazzo affettuoso. Un giorno che s'era tornati da
una pattuglia faticosa e pagai il vino a tutto il plo-
tone, mi venne a ringraziare solennemente, e per quel
vino m'amò sempre poi, buon cane fedele. Un'altra
volta che dovevamo vedere se alla stazione di Mar-
ter c'erano i cecchini, noi ci fermammo fuori del paese
cento metri e lui fu comandato di punta, per pro-
vare. Domandò solo:
— Se i me ferisce, no stè a lassarme fora. Veni
a ciaparme.
E andò.
Gli abbiamo trovato una cartolina, indosso, per la
famiglia. V'era scritto: « Semo su un monte cossi alti
che ad alsar il braccio se tocca il cielo ». E pili sotto:
(( Ti idirò ohe qui semo in mezo ai peoci e no pochi
ma tanti e sono grossi bianchi e colla erose sulla
schiena)).
Fragile scenario di nevicata. Nelle tane umide
stilla l'acqua, e il fango insidia le membra, e le notti
sono atroci di gelo.
Ma se torna il sereno ci s'inebria della nostra al-
tezza. A sera le Dolomiti sono nette d'ombra e di
luce, rocce violacee, neve rossa. Ondeggia il mare
di nebbia come una chioma doviziosa. Il Catmaccio
torreggia armonioso di canaloni e di pareti, lambito
con dita soavi dalla sera che sale dalla valle.
Piiù tardi, nell'attesa della luna, uno stupore ostile
è sulle nevi che sembrano millenarie, opache, con om-
bre d'acciaio. La montagna ridiventa nemica, ritira
dall'anima le sue braccia tiepide che ce la blandivano,
si chiude nel suo rancore freddo. Intrusi, siamo, sulla
sua nudità notturna ; orrore viene dalle coillane di gelo
che ne sono il solo adornamento.
La luna chiama adunata delle aLtre montagne —
riemergono dal buio e guardano minacciose. S'accen-
dono lumi pacifici a Predazzo e Cavalese (a quest'ora
— 97
pcv> ..^-,^..^1
;cre la lesta per guardare). Ma quando si va
fuori a mettere i gabbioni, ecco le mitragliatrici cec-
chine gracidano il loro motteggio alla purezza notturna.
Sempre quell'odore di cimitero sotto al naso. Ce
n'è una ventma ammassati in un creipaccio, che si
sfanno lentamente. Ma andarli a tirar fuori, di notte,
è un affar serio. La faccia dell' alfiere medico la si
vede mutare adagio adagio quotidianamente, sotto la
decomposizione : e ieri il suo naso s'è spaccato e ne
cola una sanie verde. Ma i suoi occhi sono sempre
vivi, e isbarrati — no, non sono io che t'ho ucciso !
Non sono io che t'ho ucciso, e poii perchè, s'eri
medico, cacciarti fra le file all'attacco notturno?
Avevi una tenera fidanzata che ti scriveva delle let-
tere bugiarde, forse, ma così consolatrici, e tu le te-
nevi nel portafogli. Brustolon te l'ha tolto, il porta-
fogli, la notte che t'hanno ammazzato. Abbiamo visto
anche il suo ritratto (bellina — ma e' è stato chi ha
fatto dei commenti sconci), e la fotografia del tuo ca-
stello, e tutte le cianfrusaglie care che tenevi là dentro ;
un rmucchietto neil mezzo, e noi attorno, stretti nel rico-
vero, lieti dii aver respinto l'attacco, con un fiasco per
premio alla buona fatica. Tu eri morto da così poco,
eid eri già nulla, piìi nulla, massa grigia destinata a
puzzare rannicchiata contro la roccia; e noli così vivi,
alfiere, e così ferocemente vivi che invano cercavo
un brivido di rammarico in fondo alla nostra curiosità.
P. Monelli, Le scarpe al sole - 7.
— 98 —
Che ti giova aver guardato il mondo con occhi rapaci,
aver tenuto fra le braccia il suo corpo giovane, esser
partito per la guerra come per una missione ? Ed anche
tu t'inebriasti forse d'altezza e del tuo posto d'avan-
guardia, e del tuo idestino di sacrifìcio. Per chi, morto }
I viventi frettolosi non sanno più nulla di te, i viventi
abituati alla guerra come ad un ritmo più celere di
vita, i viventi che non credono di dover morire. Co!me
se la tua morte non abbia soltanto chiusa la tua vita,
ma l'abbia annullata. Rimani per un po' di tempo ele-
mento numerico nello specchio del furiere, argomento
patetico nel discorso che ti rammemori : ma tu, uomo,
non siei ed è come non fossi stato mai. C'è del carbonio
e dell'acido solfìdrico sotto a noi, coperto' da un
mucchio di stracci-uniformi; e ciò chiamiamo morti.
Ma stasera puzzate troppo, morti.
Allora il capitano Busa ha chiamato quattro ma-
scalzoni che non hanno paura ne di Dio né del mag-
giore, e ha detto:
— Fioi, vi dò una tazza di cognac e la maschera:
andate a portarmi via quei morti. *
— El cognac el ne lo daga subito, sior capitano.
E più tardi, il capitano Busa racconta :
— Ostia! se no li tegneva, i me sepeliva anca i
vivi.
Quando il sole scompare dietro il Cupola, e sì
accende improvvisamente il Cimon della Pala comie
fosse un ferro lucido che s'arroventi, ci si prendono in
— 99 —
mano i pieidi rattrappiti dagli scarponi e li si ungono
soavenìente, che non vi si aduni la miinaccia della con-
Ottob
re.
Una settimana all'ospedale, tre giorni di breve
licenza, ed ora nell'oro del vecchio bosco, nell'in-
cendio fulvo degli abeti — viali per fétes galantes,
fruscio delle foglie morte scitco il passo — tomo con
pigrizie cittadine alle pure altezze dove il mio batta-
gliane è in giostra — sempre.
Ci pareva impossibile, la prima settimana, di poter
restare lassù piià di altri sette giorni. Ci si sta invece,
da un mese e mezzo. Barelle che discendono, galletta
e scatolette e arnesi da mma che salgono, è quasi uno
stato ò. equilibrio. Hanno detto al battaglione : per il
cambio, nemmeno il caso di parlarne. Adesso, arran-
giati.
Si sono arrangiati. Nelle pause del boimbardameinto
(ne ho imparato una canina, all'Ospedale. Il Cauriòl lo
chiamano la banca: perchè riscuote da tutti. Già.
Quando la nostra artiglieria da Cacrìa spara sulle loro
posizioni, gli austriaci, ncn sapendo con chi prender-
sela, se la prendono col Cauriòl, che è già individucito,
Bm individuato di co'SÌ si muore. E ogni giorno Da
Rui aumenta il suo bottino di bossoli da 152 e di co-
rone da 321 ohe vende per cinque. lire ai capitani della
Divisione che arrivano fino al Comando di battaglione)
— nelle pause dunque del bombardamento i buoni alpini
— 100 —
riclivengono i minatoli, gli scalpeMini, i caipentieri idei
tempo di pace. Cunicoli serpeggiano già dentro la
montagna, ogni plotone ai fa il suo; baraccliette sor-
gono, pensili gabbie aggrappate alla roccia, terrazzini
vertiginosi da cui s,piare l'arrivo della corvè. E chi
dice che noi facciamo a meno del Genio ? Se non ci
fosse la compagnia del Gemilo accantonata al margine
del bosco, a chi rubare gii strumenti da lavoro }
E grazie al lavoro febbrile, già le perdite sono
minori. Esaminano gli specchietti quotidiani in fondo
valle, ai grandi Comandi, e pensano che siamo ancora
buoni per un'azione. Domani, dunque, attaccheremo
quel vertiginoso spuntonoino di roccia che si chiama
il piccolo Cauriòl. I vecchi scuotono il capo, e dicono:
No se poi ciapar. Ma un capitanino 'lucido della
Divisione è venuto lino' a metà strada, ha dato un'oc-
chiata al torrione bieco fra la nebbia, e ha detto:
Si può prendere.
E allora sotto, scarpomi. Si può prendere. Lo ga
dito lu.
Stasera si stava col naso all'aria nella speranza di
veder balenare i primi bruscoli di neve. Allora 'l'a-
zione è rimandata, e, forse, ci mandano a riposo. Nu-
vole investono, sconvolte da un vento di tormenta che
ci soffia dentro, la cima ; se ne staccano, brandelli ri-
mangono appiccacati alle pareti, e il resto si precipita
su altri spuntoni: sulla Busa Alta, sul Cardinal, e ne
nasconde le baracchine rannicchiate contro la roccia.
— 101 —
Da quella parete andarono su gli alpini del Monte
Rosa. Ci credevate voi che fosse possibile un attacco
sistemaitico, non di sorpresa, per delle erode in piedii }
È stato possibile. E adesso va su la corvè aggrappata
alla corda fìssa.
Sì, ma per ora non nevica. Nevicherà, questo è
certo. Sulla catena del Pavione, e laggiiì a tramontana
s'aduna un bigio di nuvole : e invano il tramoTito vi
avventa contro qualche sprazzo d'oro, esse lo ricevono
con un'opacità violacea e fredda. Chissà, domattina...
I/ntanto è anivato il vino che il maggiore fa distri-
buire al plotone esploratori che deve fare il primo
sbalzo. Un litro a testa. Viene Costa il rcsso — che
sta scamiciato sempre, ed è una fatica fargli iener la
giubba almieiio quando s'è a riposo — e dice : — Sior
major, mezo el ne lo daga subito, m.a qual'altra metà
la bevemo doman d.opo l'afar. — Una pausa, e poi:
— Cussi saremo in manco a bevar, e ghe ne sarà de più
per chi che poderà beverlo.
19 ottobre.
Da stamattina i grossi calibri ed i mastini piccoletti
di Moro della montagna battono la roccia. Questa la
chiamano ilaggiù preparazione d'artiglieria. Sono si-
curo che i Mòcheni, nelle loro caverne solide, fu-
mano la pipa e giocano a carte aspettandoci.
Cielo torbo', grigio, vicino. Nebbia sale dal basso.,
isola le due cime, la nostra e quella che dobbiamo
— 102 —
attaccare. Se moirirefmo, lo faremo tagliati fuori dal
mondo, con l'impressione che non interesserà a nes-
suno. Si associ erebbe volentieri, all'idea rassegnata di
sacrificarsi, quella d'una platea che ci osservasse, al-
meno. Morire al sole, coin lontananze chiare, sullo
scenario aperto del mondo, allora si capisce di morire
per il paese : ma così, pcire d'essere il condannato a
morte strozzato nella segreta.
Bontadini che deve uscire per il primo lo guar-
diamo con religiione ; ma noi che lo seguiremo solo se
a lui andrà bene ci sentiamo veramente imboscati.
Manfroi porta del vino, naturalmente. Gli antichi di-
cevano: libare agli dèi infernali. Qualcuno dice: do-
mani... ed ecco lo guardiamo con un rimprovero miuto
negli occhi, come avesse commessa una tòpica imper-
doinabile. Quando quei frati della leggenda arrivarono
al confine dove il cielo e la terra s'incontrano, trova-
rono una porta enoTmje, chiusa. Inginocchiato' sulla so-
glia, frate Maccirio da cent'anni attendeva che la porta
si aprisse. Il nostro doimani è di là da quella porta.
Non s'è potuta prenderla, quell'accidente d'i quota.
Tutto il plotone esploratóri, quasi tutta la 265.^ sono
rimasti per quei sassi, nel crepuscolo livido, contro
all'ostile barriera di roccia che s'animò d'improvviso
di mitragliatrici rintanate nei loro covi, su cui la nostra
artiglieria non aveva avuto presa. Ma al maggiore si
empirono gli occhi di lacrime quando gli vide uscire
dalle trinceette, i bravi figliuoli, agili in corsa come
se non se li sentissero appiccicati alle gambe i cin-
— 103 —
quanta giorni di trincea, di malo dormire, d'incubo
della congelazione, di scatolette e gallette per tutto
ristoro — e poi occupare di volo le prime roccie ed in-
chiodarcisi, e sarebbero^ morti tutti lì se a buio Ange-
luccio non si fosse offerto al rischio di andargli a dire
di tornare indietro.
( — Aspetta, Angeluccio, che cerchiamo un altro
che venga con te .
— Sior tenente, per morir là fora basto mi. Xe
inutile de farse copar in do).
Ma De Cet è morto. È morto come si leggeva sui
libri scolastici di qualche eroe convenzionale. Quando
ha visto prendere di mira il suo tenente gli ha urlato:
— Atento che i ghe tira, sior. tenente — e gli si è
parato dinanzi, e ha preso il colpo nel petto.
Poi, accanirsi delle artiglierie nemiche contro le
linee nostre, i parapetti a gambe all'aria, sta a vedere
che adesso ci attaccan loro, come sgomberare questi
feriti col gelo che livella la montagna ? E la notte
scende rapidamente con ticchettare di mitragliatrici.
Dice il conducente Corso dalla grande barba nera :
— 1 ga dito queli del Feltre a Caurìa che se la
Division no la tira via el bataion da la gima i vien
lori a dare il cambio ai veci.
Sentimento di giustizia distributiva. Non ce lo
— 104 —
hanno i signori lucidi della Divisione che si fanno la
barba tutte le mattine e prendono il tè alle cinque
(no, detto male : questi non sono attributi necessari
dello stare beine alla fronte dei comandi. Se andiate da
De Zinis lo trovate sempre rasato, come se stesse per
mettersi in frak, e a'I riparo di quel roccione vi offre il
tè con i M^enice-w^afers biondi come la zazzeretta dei
miei soigni. Soltanto che per andarci bisogna passare
dove i cecchini hanno freddato quel capitano del 49.°
ed anche dbve sta lui ci frullano più pallottole che
idee); insomma, non ce rhanino, quel senso di giusti-
zia, ai Coimandi, ma ce l'hanno quei bravi ragazzoni
del Feltre che hanno preso il Cauri òl e fatto, dopo,
quindici giorni di passione sotto la Busa Alta.
E per avere il cambio, il maggiore ha fatto così.
Prima ha mandato lo specchio della forza, dei
malati e delle perdite. Nessuna risposta.
Poi ha fatto presente che i soldati da cinquantacin-
que giorni non mangiano che scaitolette e galletta e c'è
pericolo dello scorbuto. Risposta : una pipa al medico
perchè ha mandato a prelevare tintura di iodio per i
feriti senza un buono regolare.
Poi ha telefonato: — Se non imi date il cambio,
il cambio me lo danno gli austriaci.
Allora, ci hanno dato il cambio.
25 ottobre.
Il generale Satta sulla strada fangosa attende i pic-
coli gruppi del battaglione che scende per il riposo.
— 105 —
— Di che battaglione siete ?
Avuta la risposta, una manata di monetine d'ar-
gento al gruppetto.
— Ande a bevar un goto a la me salute.
Perchè il generale Satta è sardo, ma sa tutti ì
dialetti e li parla da ingannarcisi.
E a tarda sera, il generale incontra per le vie
del paese un alpino che è brillo (oh, Dio. Aver il
modo di abolire in un colpo cinquantacinque giorni di
agonia, crearsi una terra di morgana dinanzi agli occhi,
mettere un po' di calore nelle membra costrette dalle
fascie, umide di dieci nevicate, tarlate dai reumati-
smi — rivedere nel fondo della tazza di latta il pae-
sello, la fèmena, l'angolo del focolare — e vorreste
contendergli questa ebbrezza al buon combattente,
,aquae potores ?) è brillo, dunque, l'ailpino, ma s'ac-
corge del quadratino argenteo e issa il braccio al cap-
pello per salutare. Oh sì ! Quello sforzo gli costa
l'equilibrio, e ruzzola bocconi nel fango. Ma la mano
potente del generale Satta si abbatte su di lui, lo
affena per il coppino, lo rimette in piedi.
— Di che battaglione sei ?
E poiché il battaglione è quello che pensa lui, il
generale preme in mano al soldato incitrullito due lire
e gli dice : . "*.
— Ciapa, va a beverghene un altro.
Ma i subalterni sono fior di ribaldi, e hanno fatto
una canzonetta in cui è questione d'un certo generale
— 106 —
Satta. La canzonetta vuol sapere chi è stato quel bel
tipo che ci ha avviati per quella strada che abbiamo
salito in tanti e disceso in così pochi. E la chiusa
suona precisamente così :
E stato Satta
che ci ha insegnato
la stradella, la stradella
- del Cauriòl.
L'altra sera che il generale è j/enuto alla nostra
mensa, quando siamo stati allo champagne — che è poi
io stesso' bianco di Col San Martino bevuto durante
la cena, solo che il dottore fa venire un buon numero
di fiaschi e poi dice : sotto a volontà — un coro s è
levato dal fondo, angolo aspiranti e sottotenenti, è la
canzonetta è stata strillata senza reticenze. Compresa
la coda.
— Manigoldi — • diceva il generale, e rideva.
E stasera qualcuno ha incontrato, nel buio delle
case, un'ombra massiccia che canticchiava, andando,
qualche cosa fra i denti. La canzonetta era quella fa-
migerata della stradella. E chi se la canticchiava era
il generale.
<
Andare di trotto con Rondèl che va come un pu-
ledro, per la strada liscia che vedevamo di lassù,
verso la snella piramiide del Cauriòl tutta rosea come
un culetlo di bambino. È rosea e snella piramide quella
che era orrore ed asprezza di roccia, tane malsicure,
cimitero e altare di vittoria, seme di pidocchi con la
— 107 —
croce sulla schiena. Battaglione a riposo (i morti sono
lassù, sotto le piccole croci rozze listate dalla neve).
E il traballare dell'alpino ebbro sulla via pantanosa
integra vacillanti linee musicali.
A riposo vuol dire alloggiare m baracche senza
listelli, e dobbiamo subito metterci al lavoro per far-
glieli se nO' non c'è stufa che le scaldi ; in un posto che
se nevica molto vien giù la valanga e ci seppellisce ;
e partire la mattina a scavare le trincee di seconda
Imea, e tonnare la sera — il rancio lo porta la corvè — .
Ma c'è il superiore che chiude gli occhi, e ogni tanto
un gruppetto scappa nel feltrmo a casa sua, per la
montagna : si spidocchiano per bene, un abbraccio
alla moglie, e col fagottino si fermano sulla strada
ad attendere l'autocarro; lo inseguono, lo prendono
d'assalto; e s'adagiano poi fra i sacchi di fieno, a
gambe larghe, e tornano su guardando fuggire la strada
dietro con aria da conquistatori.
/ / novembre.
Siamo andati a Fiera di Primiero a prendere la
bandiera che quella popolazione ci offre perchè il no-
stro battaglione è stato il primo ad entrarci. Ma chi
darà una bandiera al maresciallo nostro, ad Edoardo
il Temerario, che è stato il primo ad entrare in Imèr ?
La sua gloriosa impresa la narra volontieri anche
lui, con dovizia, di particolari, quando è un po' brillo.
— 108 —
nell'ora delle confidenze, nella stalla grave del fiato
dei muletti accaldati che meditano tranquilli la biada,
quando si risale malignamente la via gerarchica e si
rivedono le bucce al comandante di plotone ed al
comandante del battaglione.
Barel ha finito di raccontare ìa volta che in Libia
fece grande macello di arabi, che gli piantava la baio-
netta nella pancia, e poi, un piede su quello straccio
d'uomo atterrato, e crac, la baionetta veniva fuori.
Scariot ha veduto in Val Lagarina il generale Can-
toTe andare fuori da solo, solo con il suo aiutante, lon-
tano oltre gli avamposti, che i suoi alpini temevano
non ve-derlo tornare mai più.
Giacomin conta i mesi che ha fatto sotto la naja.
— Cinquanta mesi che son sott' la naja. E quando
la me fèmena partorirà, me nassarà un tosat vestio da
alpin con la pena fora ordinansa, el pistoc e la tassa
de lata piena de cafè caldo, e ghe la darà a so mare
disendo: Ciapa, marna, per la fadiga che te ga fato,
E allora anche Edoardo il Temerario racconta la
sua storiella, mentre in un angolo^ della stalla Assaba,
la paziente mucca Assaba di grande mole e di molto
latte, si lascia mungere. Il latte di Assaba lo porterà
un mulo fin lassù sulla montagna di ghiaccio, perchè il
tenente medico lo distribuisca a quelli che marcano
visita, che scendono dai posti di piccola guardia al
posto di medicazione perchè la notte hanno veduto le
streghe. Molto saggio è il tenente medico, molti fe-
riti ha consolato di candide bende e buone parole,
molti combattimenti ha veduto.
— 109 —
Ceochet ha male ai piedi, cammina a fatica.
— Fatti tagliare i capelli, sarai più leggero, cam-
mmerai meglio.
Cecchet è servito. Bof si fa innanzi e si compiime
il ventre : troppe volte nella notte dovette uscire dal
baracchino per esporsi ai rigori della notte stellata,
e chiede il rimedio: ma Brustolin geme e quasi ne
invidia la sorte, poiché egli invoca un generoso pur-
gante.
— Figlio mio, tu hai di troppo, e tu troppo poco:
unitevi e guardate di aggiustarvi fra voi due.
Viene a protestare Rossetto, che il medico gli ha
dato (( servizio interno )) e il tenente gli ha fatto por-
tare delle tavole fin sulla cima: un'ora di salita.
— Ragazzo mio, t'ho dato servizio nell' interno
degli alloggiamenti. Non hai motivo di lamentarti per-
chè sei rimasto nell'ambito di essi.
Molto saggio è il dottore : la sua saggezza ci ha
fatto dimenticare la storia di Edoardo il Temerario.
Che se alcuno credesse che Edoardo sia stato chia-
mato temerario per 1' impresa che anch' egli, nelle
sere un cui la potenza del vino lo fa loquace, suole nar-
rare ai conducenti raccolti a novellare nel sentore
stallioi del tabià, se alcuno così credesse sarebbe in
errore. La storia del soprannome è d'assai più antica.
Da allora ha intrecoiato ai suoi baffi di bel furiere
molti fili bianchi, bianchi come i peli della coda
di Tornati co con cui il conducente s'è fatta la catenina
da orologio, bianchi come le chiome di Pupo, il più
— no —
canuto alpino deiresercito italiano. E c'entra la donna.
E se la narrassi, i'I buon Edoardo non mi manderebbe
pi il su la grappa. E poi mi condunebbe. fuori di strada,
cibè novellare di dotnne è troppo tentaaijte cosa nelle
sere di veglia, e le fantasie s'accorano di tenerezze
bionde, e ognuno persegue nei camminamenti del suo
cuore una traccia odorosa di ricordi.
Edoardo il Temerario, adunque, nel floràdo giu-
gno delil'anno di guerra millenovecentoquindici si diri-
geva solo, moschetto a tracolla, verso il paese di Iimèr,
che nei verdissimi pascoli della valle Cismon s'apre
sotto un blando fluire di sole, Imèr dall'aulico nome
latino.
Tonadìco, Transaqua segnano più a settentrione,
con i loro nomi, altri ricordi intatti di latimità. Il Bar-
baro vi eresse una malinconica chiesa gotica dallo' spio-
vente nero; intoonno la grazia italica fiorì nei brevi orti,
nelle case gaie, pennelleggiate di sole, civettanti con
le dolo-miti d'oro.
Alle cime d'intorno s'affacciavano soldati italiani.
Le soldatesche austriache erano fuggite dai paesetti che
osavano appena di credere alla loro fortuna, che non
l'incendio e la rapina segnassero la fine del dominio
ostile. La conquista procedeva impetuosa: pochi bat-
taglioni avanzavano per grandissimo spazio : sul Totoga
una squadra, sul Viderne, a distanza di mezza gior-
nata di marcia, un'altra squadra ddllo stesso plotone.
Scendeva dal Comando del Battaglione Edoardo
il Temerario: al piano invitava Imèr, naturale cosa
gii parve attraversare il paese gaio per procedere verso
l'antico confine, a cercare le retrovie. Attraversò il
paese: i bambini, i bocia, giocavano intomo alle fon-
tane, le floride donne bionde attendevano ai gravi la-
verri da uomo. I bocia sbarrarono gli occhi suU'alpino
italiano che batteva il selciato sonoro, e cessarono i
loro giuochi. Le donne, sorprese, seguirono con occhi
intenti l'alpino italiano che le fissava.
Edoardo, ahimè, sebbene riconosciuto pienamente
idoneo a servire il Re nella guerra, sebbene da lon-
tana cima scendessi e lontana meta ti prefiggessi, se-
gno indubbio che saldo era ài cuore ancora e buone
le gambe, ahimè: gli anni avevano con troppo amore
arrotondato il tuo corpo di adipe, segnato i tuoi peli di
candore. Non eri un bellissimo alpino: più belli ve
n'erano al tuo battaglione, che ora dormono sotto San-
t'Osvaldo o sulle pendici del Cauriòl, vigilati dai
compagni vivi ohe montano di vedetta.
Eni un po' grasso, Edoardo: d'inestetico sudore ri-
gavi la barba. Perchè mai così intensa era la curiosità
delle femmine, perchè dunque i bocetti ti seguivano
strillando? Tu non indagavi. E poiché dalla soglia
d'una bottega una bionda caraacciuta ti fissò con più
grata meraviglia, e segni indubbi 'ti rivelarono che lì
avresti trovato dei sigari, entrasti. 11 coro dei bimbi si
fermò, occhieggiando, sulla porta.
Edoardo sentì così profondo su di sé lo sguardo ed
il sorriso della grassona che ebbe il sospetto che le
I
— 112 —
sue grazie mature di furiere non ci avessero mferito. E
ne ebbe la conferma, ecco, nelle parole della bionda:
--- Me fa tanto piasser <le vedarlo. Lu el xe el
primo sol dà italian cK'el vien nel nostro paese.
Edoardo tremò. Il primo soldato italiano che entra
in Imèr? Ma come ì ma quando?
— Imèr non è ancora occupata? — balbettò.
— Ma no — gli rispose sSorridendo patriottica-
mente la biondona. — Lu el xe el primo soldà italian
che ve demo.
Sorrideva patriotticamente, la biondona, un* irresi-
stibile seduzione era nel suo sorriso. Ma Edoardo non
la vide. Edoardo si sentì alla collottola come la stretta
d'un kappa kappa Landesschiitzer che gli intimasse :
foi fenire con me. Ebbe, in un lampo, la visione di
una pattuglia nemica che lo attendesse allo svoko
della strada, sentì lo schianto delle fucilate, si vide
morto nelle vie non ancora redente di Imèr.
Certo, la voce era corsa per il paese: certo avan-
zavano a cinger d'assedio la botteguccia i gendarmi
imperiali. Taglia la corda, Edoardo, se ancora sei
a tempo. Serbati alla dolce vita dei magazzini e dei
modelli 33 R. A., chiedi alle tue vecchie gambe un
buono sforzo: se no ci lasci la ghirba.
Edoardo tagliò la corda. Dinanzi agli occhi ester-
refatti della grassona, fuor della porta, rovesciando
qualcuno dei bimbi curiosi, uscì alla campagna, male-
dicendo la sua imprudenza; e s'affrettò laggiù dove la
valle si restringe attorno al Gismon impetuoso, verso
le retrovie sicure dove le linee di occupazione sono
— 113 —
chiaramente definite : le retrovie dei forni e dei ma-
gazzini, degli ospedali e dei saggi furieri che non
hanno fisime eroiche per il capo.
Credersi autorizzato a concludere a questo punto
che Edoardo ìì Temerario si è mostrato men degno di
portare le verdi fiamme degli alpini, vuol dire conclu-
dere con troppa precipitazione. Pm volte, da quel
giorno, Edoardo fu bravamente al fuoco; sgombrò ma-
teriali sotto il bombardamento, salì al comanda del
battaglione nelle giornate calde, che lo si vedeva dal
basso avvolto dalle nubi delle granate. Degno è che
sul cappello porti l'aquila e la penna; degno è che
sulla sua giubba siano le fiamme, verdi come i pascoli
della valle Cismon, biforcute come le forcellette pre-
cipitose da cui spiano le vedette impellicciate.
Dice il sergente Da Col, e buffa nuvole di fumo
dalla pipa di maiolica con l'effigie di Francesco Giu-
seppe che ha comperata a Primiero:
— Se noi gera ancora ocupà intanto che nualtri
se gera tanto pili avanti sui monti, voi dir che no se
doveva farlo.
Soggiunge Pupo, il conducente canuto, che ha
gli anellini alle orecchie, e il più stizzoso mulo delle
sai meri e :
— E se un el ghe gera entra par sbajo noil podieva
far altro che saltarghene fora.
Così parla la saggezza dei mulattieri, nel calore
buono del tabià ; così gli adunati rendono giustizia a
ELdoardo il Temerario. Il quale tace, soddisfatto della
P. Monelli, Le scarpe al sole - 8.
— 114 —
sua narrazione : e allora il sergente Conz incomincia
a dire come egli per primo, da caporale maggiore, a
capo di quattro esplooratori , entrò in Fiera di Primiero,
e ne voleva trarre per ostaggio il principale cittadino.
Ma questo lo sappiamo già.
Dicembre.
Nieve su neve. Neve dal cielo uguale, neve dal
suolo uguale che il vento leva, neve all'ingresso dei
cunicoli nella neve. Incomincia la nostra guerra con
r inverno — con i suoi morti, con i suoi feriti.
Poche baracche s'è avuto il tempo di fare, e male
in gamba, colpa della stagione e dei materiali insuffi-
cienti : galllerie di neve adducono alle tane tiepide
scavate nella roccia, antri di oscurità e di tanfo, fatica
per la candela forare quell'aria stallia : là dentro i gia-
cigli per gli uommi che rientrano intirizziti fradici dal
servizio. Non s'è avuto ancora il modo di mandar
su il rancio: la teleferica, appena è pronta, il Cupola
vi spara sopra due colpetti messi bene e manda all'airia
ogni icosa. Le corvè con le scatolette anancano peno-
samente nella neve fresca, s'aggrappano alla corda
fissa per superare quel lastrone sotto il plotone di
B enetti.
Quando la neve cessa, e la nebbia scende ad accu-
mularsi sulle valli strette, da quel mare luminoso emer-
gono stupite e fresche le montagne, fanciulle timide
che SI bagnano in un lago colmo di luce e scoprono
— It-
alia loro adolescenza acerba più armoniose curve ; e
il sole fluisce biondo sulle creste arrotondate come una
capigliatura morbida. Anche le bieche pareti a picco
hanno la Joiro' festa, barbaglìi scivolano sul gelo che
il vento v'ha appiccicato; e scompaxe ogni sozzura
intomo a noi, trincee, camminamenti, pairapetti nel loro
candore ingenuo sembrano inadatti aWa guerra, ma trama
leggiadra di sentieri per una fata imbrillantata che si
rechi alle cupole di cristallo della sua dimora.
Sei tu, fata crucciosa, che crolli le tue armi di
gelo sui sudici uomini che ti lordano il palagio trinato ì
Già ila chiarità dell'aria risveglia il cecchino, al-
letta 'F arti glli ere del Cupola, la neve ritoma eloquente
di peste, di buchi, di macchie; sulla neve riappaiono
le pisciate, il sangue e i solchi del bastone.
E allora s'aduna la molle insidia ddlla valanga in
alto e romba a valle con un ululio tragico; inopinata,
impreveduta, illogica, non dove abeti spezzati la fa-
cevano presagire, ma per nuovi cammini, sulle baxac-
chette, isui ricoveri dove la necessità di guerra li ha
costruiti .
Non c'è difesa, non c'è arte che le tenga lontane.
Sono cadute sulle cucine e sulla compagnia della sel-
letta, sulla tettoia dei muli e sul comando di batta-
glione. 11 rombo desta con raccapriccio: si balza fuori
a tender l'orecchio, si parte per il biancore mo'Ue a
recar soccorso, sotto la minaccia che nuovamente si
aduna in alto. E quando il cecchino se ne accorge,
comincia a spararci sopra.
— 116 —
«
Fa male ? Fa bene, adempie al suo dovere di nuo-
cerci, dove può, quando può. A noi spetta rendergli
la pariglia, invece di gemere sulle sue crudeltà; e non
indaghiamo che sarà in tempo di pace di questa nostra
fredda abitudine all'omicidio, che sarà di questi uomini
a cui abbiamo insegnato ad esser uccisori tranquilli.
Quando venimmo sul Cauriòl, i cecchini ci molesta-
vano ai passaggi obbligati, sparavano sulle corvè, tira-
vano dai punti più inopmati — hanno ucciso un capi-
tano che usciva dal piccolo posto, hanno fatto pren-
dere una paura matta al dottore che s'era ritirato sotto
una pianta nella posa di Mano sulle rovine di Carta-
giine, e dovette scappare in fretta con i pantaloni in
mano. E allora dicemmo: A cecchino, cecchino e
mezzo. E cominciammo a cecchinare anche noi. Cec-
chinare vuo/l dire mettersi alla posta dietro un sasso,
uno scudo, un riparo qualunque : attendere che uno di
quelli là passi, o metta fuori la testa, o s'affacci tran-
quillo: sparargli a freddo, senza necessità immediata
di guerra, senza bisogno immediato di difesa, come si
tira alla beccaccia, come si tira al barilotto. Crudele,
non è vero ì Ma dopo una settimana che noi lo face-
vamo, loro cominciarono a smetterla.
E l'altro giorno capito in trincea alle spalle della
vedetta appiccicata al parapetto di neve, all'agguato.
— Cosa fai ?
— Go copà un LO de SCO.
— Bravo. E adesso ?
— Aspeto che i lo vegna a tor, per spararghe
adosso amca a lori.
— 117 —
Perdonatemi, signori della Croce Rossa che sedete
alLOino ai tiepidi tavolini verdi e stillate le regole
della guerra umanitaria. Io non ho saputo dargli torto,
al soldato: anzi ho trovata buona l'idea, e mi sono
portato vicino a lui, col moschetto, ed ho atteso, an-
ch'io — come fossi alla posta della selvaggina.
Capovolgimento di valori. Un reticolato, un la-
strone di ghiaccio, un altro reticolato: e chi è di là
non è più un uomo per me : è un pupazzo, un bersaglio
mobile, una cosa vuota d'anima, e il suo urlo di col-
pito è àmpersonale come la voce del vento a traverso
la feritoia. Non c'è voluta nessuna iniziazione, per noi :
il primo giorno fu come oggi, e il dicembre del 1915
al Carbonile, De Lazzer contava i tedeschi che but-
tava giij col suo fucile infalkbile con la stessa spa-
valda tranquillità con cui, un mese fa, alla colletta
De Cet, Dalle Mule numerava gli Alpenjàger che
mandava a gambe all'aria colle bombe.
Non ci pare d'essere per ciò più crudeli: ancora
oggi la fiaccatura del mulo c'impietosisce, se ci guardi
con occhi stanchi ; ancora oggi Pianezze ha regalato
tutta la sua razione di pane al prigioniero ebete e
affamato — rapaci mani unghiute su quel tesoiro.
Non ci pare di esser più crudeli... Ma bastano
queste stellette al colletto per abollire i concetti ere-
ditari i di santità della vita umana, di fraternità natu-
rale, verso quelli che stanno di là. Avranno tanti
di loro cinque bim.bi a casa, come Damin, otto fratelli
minori e una mamma vedova, come Ceschin che pure
— 118 —
è così temerario all' attacco; imaginiamo la cornspon-
denza famigliare, la cartolina rassegnata e buona della
mamma lontana che non sa di politica, che non sa di
doveri sociali, che scrive in cèco o in ungherese le
stesse parole che la mamma di Zanella o di Rossetto
scrivono in dialetto veneto: contentezza di sapere che
il figlio sta bene, notizie del poderetto e deilla bestia,
gli altri figli soldati sono ancora in salute, (( altro non
mi alungo e sono la tua per sempre afesionata madre
adiio adio » .
Tante di queste cartoline, custodite gelosamente
nel portafogli gonfio, abbiamo vedute disperse accanto
ai cadaveri dopo la battaglia; e ricordo una fotografia
uscita fuori dal muochietto deille carte d'un soldato
ungherese, le sorelle e ìa madre, cinque ragazze flo-
ride, facci e indifferenti, ma nel mezzo la madre con
così accorata mestizia negli occhi, i segni del suo dòloire
segreto così fondi attorno alla bocca stanca, che quel
viso di contadina ne era nobilitato : come fosse assurto a
simbolo delle madri eroiche o rassegnate che attendono
da una parte e dall'altra, e non samno e non vogìiono
sapere della giustezza della guerra, per cui il mondb
è tutto in quel figliuolo soldato, e tutta la vita è in
quell'attesa che non avrà riposo che il giorno della
fine.
Risparmieremo la vita di quel figliuolo di mamma
che è a tiro del fucile, dunque, oggi che siamo senti-
mentali ? Questo è un altro paio di maniche, solo. Noi
dobbiamo vincere la guerra.
— 119 —
Gaiezza sbarazzina di queste fughe in Italia di tre
giorni con la scusa d'andare a prendere i fondi, in
treno ricerca irrequieta dell'avventura nei gesti d'ogni
viaggiatrice giovine — tutti i colleghi che toman su
raccontano la loro, a me non deve capitare ? — alte-
rezza con vernice di modestia di far vedere alla gente
òhe veniamo di lassià ; e se la famiglia è troppo lontana,
la visita ad un'amica fedele che blandisce con tene-
rezze dimenticate il cuore, è vero che forse è tanto
lontana anche lei dalla nostra anima e non s'accorge
nemmeno del nastrino blu sul petto, ma la seta dei suoi
capelli folli è un'estenuante rete di smarrimento che
conduce fuori della trista realtà.
La realtà è ancora e soltanto qui , nello scenario
attonito degli abeti curvi sotto il bianco, nel fluire in
sordina di un filo d'acqua sotto il cristallo dei torrenti
irrigiditi. Invitano con tepore d'accorata tenerezza le
baite illuminate, confitte nei pendii grigi. Solo alpini
e muli qua su, nell'austerità delle grandi montagne. E
la serietà del nostro destino accettata con freddezza.
Timori, speranze sono cose lontane e vane; lontana sei
tu pure, bambina, e il tuo ricordo è vano. Questo mor-
bido tedio di neve s'accumula nel cuore, anche. Non
c'è futuro, non c'è passato: un presente che si prolunga
uguale come una sciata su pendii agevoli, e la barac-
chetta illuminata dalla candela piantata nel collo del
— 120 ~
fiasco, odorosa dti tavole umide, è la meta definitiva
alla nostra ansia di ieri.
Per farci perdonare le bestemmie, abbiamo co-
struita al cappellano una chiesetta fra gli abeti, tutta
odorosa di tavole liscie, il tetto con lo sgrondo rica-
mato, e sull'altare in quadaro i nomi dei nostri morti.
Ma la messa di Natale l'ha detta sotto la cima, men-
tre nevicava un poco e la nebbia ci copriva dai cec-
chini. Anche le montagne di casa nostra ci nascondeva
la nebbia, e Cima d'Asta, e la valle ; tutto era così
lontano, infinitamente lontano, la patria, la famiiglia,
gli amici, tutti li sentivamo assentì troppo dal nostro
cuore intirizzito, che oggi non ci crede pili. Non c'è
che il buon Dio con noi, in questo esilio di ghiaccio.
Preghiamo il buon Dio che ci difenda, che faccia
di rimandarci a casa sani visto che siamo in fondo dei
buoni ragazzi, e se proprio non è possibile, ci dia la
buona morte di Morandi e di Monegat che non hanno
avuta agonia.
Sci, serenità.
Ma il cecchino dalla eroda ci spia, sibila alta sul
capo la fucilata. Ammonimenti. Laggiù, verso l'Italia,
il colore delle mie nostalgie si diffonde sulla catena del
Pavione.
121 —
Gennaio 1917.
Con gli sci sui fianclii dèlia montagna. Luciide in
fondo le Dolomiti diamantate di gelo, con pareti nere
come colonne di marmo nero in una cattedrale e pure
ebbre di luce. E scie di luce guizzano suH'opacità
della neve. E luce irradiano — e se la beve il cielo —
i pendii rigati dalle valanghette e gli abeti gravi e le
lontananze trasparenti. Tripudio dei vetri delle barac-
che che brillano al sole, della granata che va a soffo-
carsi, buffa, fra la neve folta. Festa luminosa alla no-
stra giovinezza, alla chiarità della nostra vita. Allegri
asceti siamo noi, che confortiamo di buon vinO' e di
fantasie leggere ila prontezza quotidiana al sacrificio.
Verrà, dopo questa sosta mvernale che è pur guerra,
verrà la primavera rossa e tumultuosa dei battaglioni
lanciati all'olocausto per ardere in un attimo nella
santità dell'offerta e poi esser distrutti. Ma oggi il
sole è un dono pacifico. Per tre giorni la tormenta ci
serrò nel ricoverino, soffiò per ogni fessura atomi di
gelo, barricò l'uscio con spalile più potenti di quelle
di Bellegante, ci costrmse a una dieta feroce, riempì
di neve le brache del bisognoso di calarle, sia pure
per un attimo. Per tre giorni. Oggi il fiume caldo di
luce dilaga sulla montagna stordita da questa calma
perfetta di vento. E il sole arde sulla pelle e sotto
le palpebre in una gloriosa estate.
— 122 —
Non siamo puri nemmeno noi.
Blaterare, versare veleno da lingue biforcute.
Egoismo atteggiato a furbizia.
Paura di morirci velata da mille inganni.
Il tuo lanternino, Diogene, die io spii nel cuoire
dei colleghi a cercare ciò che mi sfugge, la santità
d'ideali, la purezza deirolocausto. . . e non guardo
nemmeno nel mio cuore, per paura di scoprirvi abissi
troppo oscuri.
Prende, talvolta, il tedio.
Tedio del tempo che lento passa, che rapido as-
somlma un tumultuoso passato in poche linee scialbe.
Tedio di non sapere esprimere un groviglio di ima-
gini che solca la conca di neve -maiolica.
Tedio d'incoerenza.
Zaffate di dubbio, di timore, dal sedimento intatto
e non scrutato nel fondo del cuore: se valga, dunque,
questo tradizionale concetto di patria tanto stento, tanta
rovina.
Oggi vorrei imboscarmi.
5 marzo 1917.
Ormai lo avevo capito, che dopo Busa volevano
tirar via anche me dal battaglione. Ed ecco che an-
ch io son mandato ad una compagnia sciatori.
— Ma io non ho mai fatto un corso.
— Lei scia tutto il giorno sotto la Busa Alta.
— Ma casco.
— 123 —
— Casca anche clii ha fatto i coisi.
^— Ma perchè vi è venuto in mente di pescar fuori
proprio me ?
La ragione è questa. Hanno veduta una mia foto-
grafia dei tempi di pace ohe mi rappresenta con gli
sci ai piedi: e questa è parsa, ai sommi comandi, una
prova decisiva dell mio valotie di sciatole. Amen. Ar-
rivo a Zortèa, trovo due bei plotoncini di sciatori della
Valle d'Aosta, sostituisico piemontese e francese al
veneto nei miei discorsi con i soldati, faccio subito
caporale Lanier che è guida di Courmayeur e mi parla
di Monte Bianco e di Innominata.
— Com'è che non eri ancora caporale, Lanier?
— A l'è giùst. Rampignè an sì giassè c'est une
autre affaire che fé la guèia. Si e' est pour monter 5es
montagnes n'y a pas lo diablo qui me fassa paiira. Ma
al batajun i sum v'nii tard parche i sum' tersa cate-
goria. E i l'ai impara le saliit da un pays ch'a ciuciava
la lait quand che mi i'm tirava già i barbìs.
E la sera, quando il sole è andato sotto, e i soldati
vanno a prendere il rancio, mi faccio' due ore d'i scuola
da solo sulla neve raggelata, per non sfigurare troppo
con questi virtuosi.
Il capitano Ripamonti, alpinaccio vecchia scuola
— cinque ferite, le pili belle battaglie d'alpini nel suo
passato, Montenero, Mrzli, Malga Fossetta, Caldi era,
Adamello — mi consola :
— Volontario anche Lei, vero? Come me. Bè, la
cucina è buona, e il vino è migliore, e nella casa dove
sta Lei c'è una bella ragazza, e non è detto che
— 124
dobbiamo llasciarci tutti la ghiibona. Cai beiva na
volta 'n fima.
E visto che siamo considerati così spacciati, chia-
miamo (( suicida » l'ufficiale pattugliatore della com-
pagnia.
20 marzo.
Ordine improvviso di partire per l'altipiano, con
la mia compagnia sciatori. Giocondità di marcia per
le strade, chiarità della saletta nell'osteria, allegre
donne facili dalle porte.
Non si vuole pensare al futuro, che è di battaglia.
Il capitano Vigevani beve con me e con Busa l'addio
ai battaglioni che restano sulle cime diamantaite, ai
battaglioni ch'erano i nostri. E dice: — Stavolta,
Busa, ci restiamo tutti e tre.
Ma questo sole leggero è come um vinello gaietto,
oggi si è invece quasi contenti del mestiere, un poco
orgogliosi idi questi arnesi nuovi — sci bastoni con
la rotella giberne biandhe — ohe stupiscono la gente
al passàggio, che ha pur veduto già tanti soldati sfilare.
In fondo alla colonna una canzone di cristallo come
le schiume del fiume, alito di ghiacciai e di primavere
intirizzite. Sono i miei valdostani che cantano.
Dans le jardin de mon pére
les lilas sont fleuris
auprès de ma blonde qu' il fait bon qu' il fait bon
auprès de ma blonde qu' il fait bon dormir.
— 125 —
Il y avait la tourterelle et la jolie perdrix
qui sert pour les fìlles qui n'ont pas de mari
auprès de ma blonde qu'il fait bon, qu'il fait bon
auprès de ma blonde qu'il fait bon dormir...
Ci ritormeremo , montagnardis, se Dio ci (protegge,
nei piccoli orti alpini chiusi dai muretti a secco, ab-
bacinati dal riverbero dei ghiacciai, torneremo a (( lap-
par la borra » dalle tenine di latte tiepido, risaliremo
le grandi montagne aristocratiche nelle loro crinoline
d'ermellino (queste cime dolomitiche son scarne e
nude come pezzenti lebbrosi). Ma adesso non pensateci
ircppo, se no viene il mal del paese. Stanotte dormi-
remo in questo borgo che ha un nome da fiaba, e la
Regina sbirra dell 'osteria vi verserà nella gava del
vino buono, anche se non parlate il suo dialetto.
Si le vin est bon ici, nous y resterons — ici
si les femmes sont belles ici, nous y passerons la nuit — ici
Encore un petit verre de vin pour nous mettre en route
encore un petit verre de vin pour nous mettre en train...
Bologna, aprile 1917.
Ha ragione il mio aimico Nino. A furia di stare in
licenza si finisce col credere che si tornerà vivi dalla
guerra. Risaliamo alle vallette ilari di luce, ai Ccunpi
di neve inesausti, al rancio sul campo fra la selvetta
rigida degli sci piantati nella neve, nell'ardore del
sole e della giovinezza che se ne va, ma gettando doni
— 126 — ■
meravigliosi alla nostra vita d'oggi, nella certezza del
combattimento di domani.
In ricognizione sulle linee dell' altipiano, per le
future azioni. Acropoli di ghiaccio e ondoleggianti tor-
poTÌ di nebbia — e il cecchino petulante che cazzotta
lo scudetto. Ed a, sera si parte in autocano per Bas-
sano, tuffo in Ita^a di 24 ore, odore di libidini e di
pace. Si violano domicilii. Il rischio d'un catino sulla
testa. Fetore di case ospitali. E speriamo che il mag-
giore chiuda un occhio, e filiamo anche su Padova.
La ricognizione sull'altipiano mi ha risverginato. Ta-
pun, shrapnelils, da due mesi non ne sentivo più. E i
consiglieri del Re Davide decisero di dargli una fan-
ciulla giovine qhe lo scaldasse giacendogli nel seno. E
la morte è una divina fanciulla.
Ma a Padova, l'etera che lasciai discinta, rabbuf-
fata, l'arco pigro dei sogni sulla bocca dall'alito grave
— e l'incognita dal mento quadrato, la soffice person-
cina serrata nel vestito a lutto, la cioochettina bionda
sulla fronte di marmo. Non la rivedrò piià, si perderà
nella sua vita. Quien sabe ? ma un giorno che io sarò
amaro del dopoguerra e mendicherò dagli impassibili
destini un'altra tormentosa ebbrezza di vita come questa
vigilia di morte, s'io la rincontri allo svolto d'una via
— 127 —
soleggiata mi c'inginocchierò davanti a chiederle l'ele-
mosina d'un sorriso.
Giunge l'ordine di muoverci. Ancora. Come cani
che pisciamo a tutte le cantonate. Zaini sci corredo
armamento cassette, tutto s'ammonticchia a sobbalzo,
si trasporta in un bailamme in cui si perdono elmetti
tazze <ii latta pidòcchi bestemmie. Inutile affezioinarsi
all'angolo decorato dalla cartolina Salon de Paris, a
quella tazzina rubata nel grand Hotel , a quel bossolo che
è caduto più vicmo degli altri. Peggio che zingari, la-
sciar gli zaini perchè si sia pili leggeri, gli zaini li por-
teranno i muli, non serve lamentarsi se arrivano saccheg-
giati.
Nella pace del pianoro verde la guerra è una cosa
ilontana, com lontane nuvolette dii scoppi su Cima Do-
dici. Asprore e rigore della primavera acerba nei sùbiti
torrenti, nelle vette ancora intarsiate di ghiaccio.
Elementi di pace (laghetto, rovine che sono divenute
romantiche a un anno dalla cannonata, pascoli — credi
udire il dindonare delle vacche).
Elementi sentimentali.
Elementi di pigrizia. Che ingannata da questa pla-
cida vigilia di combattimenti l'anima consente, tal-
volta, a castelli in aria e fantasticherie vane : alla vita
dopo la guerra, persino.
— 128 —
Intanto, morituri per destinazione, fabbrichiamo
strade. Sotto, questi brevi viventi, prima che sian caro-
gne marcenti sotto F ironia delll'equipaggiamtento accu-
rato, adoperarli bisogna, perchè il riposo non sia di
Capua e la vita non sia riafferrata con mani troppo
fiduciose. Le strade si spiamano, brillano le mine, rien-
trano' a sera le compagnie con gli attrezzi sulle spalle,
cantando qualche nenia d'amore malinconico.
Sul ponte del Foiano
noi ci darem la mano
noi ci darem la mano
ed un bacin d'amor...
Per un bacin d'amore
successe tanti guai :
io non credevo mai
doverti abbandonar...
ConseTitimento alla canzone strascicata e triste viene
dc^l cielo che si scolora, dalle punte di ghiaccio che si
irrigidiscono mute d'ombre e di luci, dà qualche roco
ammionimento di cannonate lontane. Bisogna reagire.
Ccintiamo dunque, signori ufficiali, la gaia canzone del
quinto alpini :
Giovinezza giovinezza,
primavera di bellezza...
Giovinezza. Tutto il nostro sangue ne è fervidb.
I nostri nervi sono carichi della buona corrente. Gio-
vinezza impetuosa e dissipatrice, simile a un nmbal2^r
di bombe a mano giij per un canalone, giovinezza delle
brevi licenze quando l'avventura delle tre della mattina
— 129 —
sorride ai sensi sempre balzanti, giovinezza stancata
airagguato macerata alla pioggia battuta dall'uragano,
nostra giovinezza rossa di guerra, che presto sarai una
co.sa passata! Sì, perchè intanto qualche cosa s'af-
fonda nella carne e nella testa, dito che scava, rete
che insidia, puntura che ammonisce. E noe è vero che
c'è l'allenamento. Certe spallaccie della classe no-
vantuno sono più stracche allo zaino, ora, né brillano
sempre gli occhi spensi eratcìmente pur quando s'accen-
dono al fuoco del fiasco.
Qui, in questo riposo idilliaco, sorpi^end'e talvolta
la stcìnchezza della guerra : di questa vicenda inces-
sante di fuori e dentro, ombrìa <li pace e fiamma subi-
tanea di battaglia, senza mutamento. Già scivola mag-
gio verso la fine, verso il giugno delle stragi e della
mietitura, e la nostra pace non è che raffinatezza di tor-
mento nell'attesa di essere presi dii nuovo nella treb-
biatrice.
C'è già in cielo il brillante triangolo della Cassio-
pea: viene dall'accampamento l'odore acuto del ran-
cio. MWe ia canzone.
Doversi abbandonare,
volersi tanto bene,
un meizzo di catene
che t'incatena il cor...
6 giugno.
Battaglione in armi, f accie rosse contro il sole al
tramonto, quadrato grigio sullo sfondo del pascolo,
P. Monelli, Le scarpe al sole - 9.
— 130 —
foirza d'iimpeto serrata negli ordini chiusi. In vigilia
d'avvenimenti.
Si pcirte a sera, verso la meta conosciuta nel segreto
del cuore da tanto temipo. Sotto la luna il fiume nella
valle nera blandisce luminose vertigini.
Poi a poco a poco- non c'è ohe la fatica della mar-
cia e la stanchezza di non arrivare ; da ieri sera si sale
e già il sole alto picchia nei lastroni della mlilattiera
e tappezza d'arsura la gola.
Strada di passione. Chi la salì l'anno scorso, icon
i battaglioni che lasciaron brandelli vìvi a quei sassi,
da Cima Isidbro aMa Caldiem, ripete ora, megli alt,
nomi di quote e di morti.
Alt di mezza giornata nell'ombra delle pinete —
poi si riparte, a sera, sonnacchiosi.
Marcia notturna per l'altipiano. Freschezza alita
dalle prime chiazze di neve. Passiamo accanto a grandi
fuochi di bivacco, presso i quali nel tanfo sano e
denso dell'accampamento russano gli assalitori di do-
mani.
PensO' : — Poveri diavoli !
Ogni sorte mi pare più triste della mia: il non
essere destinato alla prima ondata mi pare una fortuna
enorme, e sbigottisco, come possano così tranquilli
dormire costoro che domani butteranno fuori dalla
trincea ogni loro attaccamento alla vita. E sono pau-
roso per loro. (Non altrimenti ho, sofferto, talvolta, di
vertigine guardando dal prato un uomo aggrappato alla
— 131
paiete precipitosa : e il giorno dopo io stesso ne se-
guivo le traccie con indifferenza).
Finché giungiamo all'alba sotto Cima della Cal-
diera, ed addiacciamo fra neve, sassi e rari mughi.
10 giugno.
Dall'alba bombardamento. Sul tamburo^ bigio del
cielo chiamano adunata avcmguardie di mostri. E verso
sera, sottO' la tempesta, alpini balzano alla conquista
del l'Orti gara.
Ma noi, rannicchiati contro le rocce della Caldiera,
sentiamo imperversale sulle nostre incerte difese la
reazione delle artiglierie nemiche.
Sì, ma c'è odore di vittoria. Ani vano prigionieri
rincoglioniti, esterrefatti per la violenza del bomibarda-
mento. Arrivano le bareille con i primi feriti. Arrivano
le corvè dei miullli con ghirbe gabbioni cartucce casse
di cottura. Sfilano le truppe di rincalzo, il genio, i por-
tatori : tutto sopra una stradetta di quattro metri ri-
cavata nel fianco della montagna, un aramuochicirsi ,
un intralciarsi, un aggrovigli cirsi di bestie e d'uomini,
di feriti e di portatori, un'incoerenza di disposizioni,
un'impreparazione che stupisce. Il mulo scalpita ac-
canto alla bairella posata a terra perchè ce n'è una
fila davanti e i medici non fanno a temipo' a lavare ta-
gliare bendare la carne fresca che gli portano: la notte
scende buia e rigida, il lagno del ferito disteso a terra
— 132 —
è sommesso e interminabile, pieno di rinuncia e di ab-
battimento.
E noi andiamo fuori in servizio di materiali.
Da questa parte la notte vive una sua tangibile vita
di scoppi, rigata idai razzi, agitata dai sùbiti allcirmi.
E le rocce si animano, anch'esse, sotto la freddia alba
dei razzi ; e balzano fuori dalla notte le cime e vi
ripiombano, con continua vicenda, assillate dal bom-
bardamento.
E poi il cielo si scioglie in pioggia. Quando si
rientra, sulla strada ingombra, ancora le file di barelle
scoperte sotto l'acqua, e il gemere dei feriti e gli urli
dei medicati e le bestemmie dei conducenti ; e ogni
tanto lo scroscio e il lampo della granata che copre
ed annulla tutto. Una è caduta su un posto di medica-
zione, netta: medico e feriti non si sono trovati pili.
Confusione, irrequietezza dei quadrupedi, un urlo più
acuto (quallche mulo ha messo la zampa su un ferito
a terra, pare): poi le carovane ripigliano l'andare, solo
sullo sfasciume della baracca saltata in aria bisogna
stare attenti dóve si mettono i piedi.
25 giugno.
Improvvisa diana di cannonate. L'alba non è che
un pallore attonito, e il bonubardamento insiste da dtie
ore con violenza mai raggiunta prima. Fuori dal sacco-
pelo, a fiutare gli awemmenti. Ecco, in un attimo le
due baracche laggiù sullo sperone sono scomparse :
— 133 -
croscio di tavole e di lamiere, e, diradato il fumo,
sulla strada un conducente di corsa cKe si tira dietro il
mulo riluttante.
Dice Talmone : — Adesso arriva il portaordini.
Difatti, dopo poco, allarme. Tocca a noi.
E mi si incasella nella testa un endecasillabo, e lo
rimastico monotonamente : (( Venne il dì nostro, e vin-
cere bisogna )).
I soldati s'allineano lungo la strada, contro la roc-
cia. Non guardo che f accie abbiano : ma sento al di là
la trcmquilla rassegnazione all'inevitabile. Da quindici
giorni s'assiste allo stesso spettacolo: escono' batta-
glioni, rientrano barelle e morti, e dopo qualche giorno
o qualche ora, i pochi superstiti. Ed oggi il ritmo pare
più violento, e noi andremo fuori sotto un bel chiaro
di sole, che intaglierà crudelmente le nostre ligure sul
ciglio della trincea quando ne usciremo per scendere
nella busa dell' Agnel izza, ed andare al contrattacco.
(( Verme il dì nostìro, e vincere bisogna».
Non penso, non penso. Mi preoccupo con minuzia
dei particolari. Dò ordini all'attendente, e mi com-
piaccio che essi suonino (non c'è sordità in fondo alla
mia voce) così netti e precisi. Presentimenti ? No, non
ho presentimenti. Guardo il cielo già colmo di luce,
gli schianti arancio e nero degli shrapnells, una fila
rapida di muli che prendono la distanza laggiù alla
svolta di Cima Lozze. Senato, premuto dalle giberne,
dal moschetto ad armacollo, dalle fascie, dal sacco,
dall'elmetto, mi pare che tutto ciò mi costringa a dirit-
tura d'azione e d'opera : mi sento arnese buono e pronto
— Ì34 —
all'uso, diretto da una volontà che è inesorabilmente
fuori di me.
Il Capitano dice : — Andiamo.
Sulla soglia delia caverna, e addossati alla parete,
tre o quattro telefonisti, un osservatore d'artiglieria, un
capitano dei bombardieri ci guardano con occhi in
cui temo di legger troppo (Dio mio, siamo dlinque così
spacciati?). Mi conoscono, ma tacciono': sento che
non osano dirci la parola d'augurio, che suonerebbe
buffa ed ironica.
Ma Tissi trova le parole adatte.
— Ciao neh. E ne stè a ver paura, che par ma-
gnar e par bevax penso mi a mandarvene drento fin
che volè.
Appena messa la testa fuori dalla trincea il dottor
Dogliotti s'è preso un cazzotto da una spoletta che lo
ha fracassato. Tutta la costa della Caldiera che si
deve discendere è vulcanelli di granate; ma sembranio
peggio le mitragliatrici cecchine che aspettano ai pas-
saggi obbligati e fregano quasi sempre. C'è il muc-
chietto dei morti, però, che dà l'allarme. Allora si
prende fiato un momento, tutta la vita passa in un
rimpianto d'un attimo, un presentimento s'affaccia ed
è respinto con terrore — ed ecco ci si tuffa nel rischio.
Tore quattro sibili di pallottole — è passata.
E lo zappatore Vanz, addossato alla roccia che lo
ripara, tira il fiato e commenta quei sibili :
135
— Le cicima zio zio, e no semo gnanca parenti,
Ma il capitano Vigevani c'è restato.
E poi, via per il vallone dell'Aignelizza colmo di
morti, gli scheletri delle battaglie dell'anno passato,
i cadaveri gonfi della battaglia di quest'anno che dura
da quindici giortni. E.d un teschio sghignazza, lucido,
accanto eJla maschera livida di un morto di ieri.
Sul sentiero levigato che debbo perconere — non
c'è altra strada, e anche qui dove m'indugio hanno
picchiato dei granatoni — sei sette cadaveri recenti,
abbattuti dalle mitragliatrici, ammoniscono. Eppure,
si deve passare.
Un artigliere da montagna sta lì, esitante, e mi
dice :
— -Siamo venuti in qua in due. Uno è quello là,
restato secco. Io l'ho scampata. Ma adesso, a tornare
indietro ?
Un attimo ancora. Poi :
— Pruvè, bele sì a venta pruvè.
E l'artigliere si fa il segno della croce, e schizza
via. Tatatata. M^a è (già passato, illeso, e caracolla per
le sassaie fra uno scoppio e l'altro dell 'artiglieria.
*'''■ * n-j
Ma ecco la montagna si drizza e il sentiero entra
nella parete e non c'è altra via che saltar giù da que-
sto muraglione di sette metri su quel terrazzo là sotto,
e speriamo di romperci una gamba, visto che la scheg-
— 136 —
già non mi prende, che la sia finita con questo inferno
e mi portino all' ospedale. Durante il volo un decimo
di secondo' d'angoscia, che l'occhio ha percepito là
sotto un mucchietto di petardi, e accidenti, se all'urto
ne scoppia soltanto uno, altro che ferita intelligente !
E giìi come un isacco. I petardi non sono scoppiati, la
gamba non s'è rotta, avanti a sbalzi per la montagna
che carolila.
E al di là del costone, d'un colpo, ecco la spa-
ventosa scena dantesca, un girone di malebolge fatto
realtà. Disseminati sui gradini d'un muraglione di roc-
cia livida arsa lebbroisa, appicciccati al sasso, in-
tramezzati dalle macchie rosse e bianche dei feriti,
quel centinaio di uomini della compagnia; immobili,
taciturni, nel tormento del bombardamento da cui non
hanno riparo, nell'esposizione coatta al rischio che
viene da quattro parti, con grandi occhi sbarrati sulla
luce implacabile del mlezzogiomo,
— Ch'el se tiri via da là, sior tenente, che i ghe
spara. Ch'el vegna qua da me che se sta sicuri.
Un momento di irresolutezza : ed ecco, una pallot-
tola spacca il cuore ail bravo ragazzo che mi voleva
al sicuro vicino a lui.
Incoerenza d'ordini. C'è qualcuno che sta per-
dendo la testa, ai sommi comandi. Il telefono ogni
cinque minuti si spezza, e subito^ dopo riprende. Me-
rito di questa squadretta di guardi afili del genio che
— 137 —
sono eroici, un caporale e pochi uomini, sempre fuori
a cercar la rottura, anche su quel lordaio di neve del
passo deirAgnella dove c'è pili buche che piano, soli,
senza ufficiali, senza orgoglio di mostrine al colletto —
due ci hanno già lasciato la buccia, e gli altri conti-
nuano, e vien la voglia, ogni volta che vengono a do-
mandare di provare se adesso si parli, vien la voglia
di mettergh sulla testa il cappello con la penna — per-
chè se lo njeriterebbero.
A sera, la 297.^, d'impeto, attacca, vince, riprende
la quota 2003.
E subito il capitano Ripamonti domanda rinforzi.
C'è una compagnia — trenta uomini — d'un altro
battaglione. Su. Poi per racim<:^lare altri quattro gatti
da portargli, snido dai sassi, dalle balme qualche sol-
dato senza reparto, che attende la notte per rientrare :
e non trovo altra ingiuria più sanguinosa di questa, per
scuoterli : Imboscati .
— Fuori, imboscati. Bisogna andare di rinforzo
alla compagnia della cima.
E i soldati, bestemmiando, vengono fuori, e s'av-
viano, adagio, lungo il costone di roccia che pare
offrire un certo riparo — e c'è quello che mastica fra
i denti :
— Ostia, anca imboscai i ne dise, dopo tanto
tempo che se se rampega su ste erode !
E viene anche il bersaglierino che comanda una
sezione mitragliatrici, dice: — a Mi volete? vado
su subito anch'io, bravi ragazzi, son contento di lavorar
con voi)); entusiasta, svelto, prende uomini e armi,
— 138 —
fila su verso la cima, salta nella trinceetta sconquassata,
la priima pallottola è per lui, e lo fredda d'un colpo.
No, non vale la pena d'essere in gamba.
Chi sa quanto è durato il bombardamento' di mille
calibri, dai quattro punti cardinali, che s'è sferrato
subito dopo, accendendo nella notte un firmamento ine-
sausto di scoppi ? Sotto quella furia, fra i sassi, contro
una roccia, dovunque la montagna pare promettere ri-
paro, immobili nell'offerta della nostra carne — e
brandelli di pensieri — ed attesa senza meta d'una
fiammata, d'un urto, che piombi nel nulla.
Un 'Soldato, vicino a me, batte ininteooittamente i
denti — coffi nota che esaspera. E un suonar di gavetta
segna il tremare del suo corpo, nelle pause del fra-
casso.
Un altro, la faccia affondata fra due sassi, mormora
desolatamente :
— A j'è nèn Dio, a j'è nèn Dio.
Ma c'è stato anche quello che ha dormito.
Ci siamo da due giorni, qua su. Attesa riluttante
d'attimo in attimo' del colpo che deve stroncare. Il
medico dice che abbiamo già il cinquanta per cento
delle perdite. Cii si rifugia mentallmente nell' ultimo
decimo', si spera che almeno quel decimo rientri. Ces-
— 139 —
sato lil bombardamento, cessato ì' impeto d'attacco in
cui il trapasso pare agevole e lieve, e ci si sente trasu-
manati da quella irrevocabile volontà d'olocausto che
è la bellezza soggettiva della guerra — alla prima
pausa, pur nell'incertezza dell'attimo cbe segue, pur
nell'ansia delil' imf erno cbe ricomincerà, ritorna in me
la presunti Josa certezza di sopravvivere ; con quell'ot-
timismo stupido e vanitoso che fa del mio io' il centro
dell'universo, e s'affatica a trovare in ogni avvenimento
vicino o lontano una causa logica per lo svolgersi della
mia vita. Soltanto — superstizione — quella certezza
si cerca di soffocarila.
Finito il bombardamento, ta-pun. Ironia — se il
cecchino lo capisce. Poi qualche gemito di ferito. Poi
silenzio. E la montagna è infinitamente taciturna, si-
mile a un mondo defunto, con i suoi nevai lordi, e i
crateri degli scoppi ed i mughi arsi. Ma vive su tutto
ciò il fiato della battaglia: fetore di merda e di morti.
Un uomo che ha paura. Addossato^ alla parete,
afflosciato, svuotato. Hai paura della granata, uomo?
Ha paura della granata, e della notte, e del suo gradò,
e del suo destino. Ed è la sua vita stessa che s'an-
nulla in questo momento, quello che valeva, quel qua-
dratino argenteo sul braccio di cui era orgoglioso, quei
nastrine che desideriamo per noi e ci fanno schifo
su di lui. Non è più niente, nient'altro che animale
— 140 —
contesto di pelle e di ciccia e di stoffa giigia; un
crampo sul viso, un'immobilità di rinuncia. Reagirebbe
a questo ordine stupido di morte, se non avesse paura:
invece vi assente con un (sorriso ebete, uguale. Ma bi-
sogna dirgli signor maggiore, e domani ubbidirgli, e
dopodomani vedergli un nastrino nuovo sulla giubba
perchè il suo battaglione s'è lasciato macellare bene.
Un altro uomo che la battaglia ha guastato. U|n
colpo di tosse lo irrita. Ssst, non parlate, che se no
esce dai gangheri. È come un ubbriaco che non vuole
parerlo, e si contrdlla: parla sottovoce, tende l'orec-
chio a rumori imaginarii. Tre giorni di battaglia gli
hanno trapanato il cranio, tre notti di veglia l'hanno
succhiato. Che cosa suacede di così grave, che egli
interrompe gli ordini minuziosi che sta impartendo,
fissando quell'angolo della grotta ? Laggiii c'è qualche-
cosa che non va. Quei sacchetti a terra. Raccattarli,
metterli in ordine ed in mucchio l'uno sull'altro. E
in silenzio. Ecco, ora può parlare. No, un momento.
C'è ancora quello là in fondo. Excolo, è posato sul
mucchio, anche lui. Va bene. «Allora senta, Lei con
i suoi uomini ».
Nevrastenia dei signori comandanti.
Quando abbiamo paura noi, è un'altra cosa.
Ieri' altra notte, sotto quelle sventole che piovevano
a decine alla volita, il Capitano buttato a terra tremava
come preso da un rigore di febbre. E parlava. — È
più forte di me. Ho paura. Lo so. Mi succede sempre
141
così. Io muoio venti volte in questa agonia atroce del-
l' attesa deirattacco, sotto la prepcircizione dell' artiglie-
ria. Ma fra un'ora, ostia, vedrai che getterò via la mia
paura, quando ci attaccheranno, e quelli laggiìi mi chia-
meranno un eroe e mi faranno i complimenti . Ma adesso
non ne posso piìì non ne posso pili.
Nostra paura onesta, che reagisce a sé stessa con
spasimo, che lucida e suscita le ide« temerarie, ohe
tiene le posizioni, che nobilita questa nostra passione
esterrefatta !
Busa e Battaglia, alpini al cospetto di Dio, fanno
quattro chiacchiere al riparo d'un roccione che ha
presa l'itterizia a furia di granate a gas. Busa ha
invitato il capitano Battaglia a cena.
— Me la deve mamidair dentro Marimonti. Te sen-
tirai Bataja, che pasta asciutta ! E che vin de Bre-
ganze !
Eccolo, un alpino con la sporta, cauto fra quegli
esolaimativi di pallottole frullanti e qualche punto fermo
di granate, naso all'aria in cerca del Comando com-
petente.
— Ciò, alpin, meti qua la sporta.
Il soldato non se Io fa dire due volte, quelle tre
stelli ette sul braccio sono un imperativo categorico, e
poi è felice di poter tornare all'angolo morto delle
cucine : depone la sporta, e via a gambe.
— Te sentirai, Bataja.
Il capitano Battaglia fruga curioso con gli occhi
— 142 —
nella sporta, Busa s'accinge a vuotarla, e tira fuori,
rannuvolandosi a poco a poco, dei piattini deliicata-
mente complicati, pasticcini, gelatine, uno sbandiera-
mento di to'vagliolini candidi, un luccicore di maio-
liche.
- — Digo, Busa, che lusso. Ma de solido el me par
che ghe sia pò cheto.
Busa è interdetto.
— Mi no capisso — broaitoila Ira i denti. —
Invece de la pasta suta...
— E el vin de Breganze ?
C'è, la bottiglia; corpo tozzo, collo argenteo. Dello
spumante ! Busa noin capisce piìi nulla.
— Bevemo, in ogni caso. Ma cossa che ghè salta
in testa a Mariimionti ?
Battaglia non la finisce piìi, pur dando fondo a
quei piattini nevrastenici, di canzonar l'amico.
— Ostia, Busa, te te trati da signorina in guera,
gnaiìca se te fossi el general !
Già, m^a se Busa era il generale, restava senza
mensa. Perchè bisognò che arrivassero- in fondo alla
sporta per accorgersi che c'era anche un biglietto
dentro, e sud biglietto l'indirizzo del generale Porta,
il legittimo destinatairio della cena. Ma siccome il
generale Porta è alpino e certe cose le capisce, quando
i diUe colpevoli gli hanno mandato i magri avanzi e le
scuse, lui ha risposto con un bel bigliettino di com-
plimenti.
— 143 —
Il caperai maggiore Pesavento porterà il rapporto
al Comando, perchè il telefono è fracassato irrimedia-
bilmente.
— Aspetta il buio — gii consiglia l'aiutante mag-
giore .
— Co xe scuro tira l'artiglieria, sior tenente. Xe
mejo provar adìeso che no i ne tira.
E giù a rompicollo per il pendio, poi attraverso
la busa ingombra di materiali abbandonati e di cada-
veri, finora va benone, i cecchini non se ne sono ac-
corti.
Ecco, cominciano adesso, che Pesavento attacca la
salita. Ta-pun, ta-pun.
Suonano così bofnarii i colpi, nella tranquillità po-
meridiana. Ma noi rabbrividiamo, gli occhi sbanati
sulla marcia deiralpino, ili cuore preso in una morsa:
ci pare che nessun dramma sia piiì atroce di quello cui
assistiamo, dell'uomo solo nella montagna enorme a
cui il nemico appostato dà la caccia. E il sentiero è
lungo ed erto, e il cecchino paziente. Ta-pun, ta-pun.
Se Pesavento potesse giungete fino a quella svolta !
Là, comincia il camminamento. Tutti ì nostri sguardi
sono puntati su di lui, come se potessero creargli at-
torno una corazza. Ancora venti metri — e poi è salvo.
È vero che quello è il punto peggiore : ci sono altri
morti che lo fanno capire.
Ta-pun. E Pesavento s'abbatte, d'un colpo, sul
sentiero. E rimane lì, senza un brivido, senza uno
sgambetto, stecchito. E dopo venti minuti, chi guarda
— 144 —
col binocolo per vedere se per caso è solo ferito, vede
brillare immobili al sole i chiodi delle scarpe.
Mezz'ora dopo, Jardella ha cacciato un urlo, e ha
gridato: — Guardate Pesavento! .
Pesavento s'era alzato d'un balzo, aveva superato
di volo i venti metri di salita, s'era già tuffato nel cam-
miinamento. E il cecchino, minchionato, ha fatto suo-
nare diie scariche arrabbiate ed innocue sui morti au-
tentici del sentiero.
Oh che cosa porterà di nuovo nella busta gialla
il carabiniere che viene nel cuore della battaglia dal
comando della Divisione, dopo aver superato il diffi-
cili e passo del vallone ? Forse il cambio (quale scal-
cinato battaglione raffazzonato può darcelo, che sono
tutti passati una o dbe volte nella tramoggia }) — forse
un ordfme d'operazione ? Più grandi cose : una ciroc»-
lare che lamenta l'ecoessivo consumo dei pennini d'ac-
ciaio, e un altro foglio della medesima urgenza.
Povero diavolo, rimane male quando il Maggiore
glielo dice. Ma Io consoliamo con un bicchiere di vino,
perchè Tissii quando ci si mette le cose le fa per bene,
e per essere sicuro che vino e viveri arrivano viene
qualche volta anche lui con la corvè a costo di restar ca-
stagnato sul sentiero.
Se si chiudono gli occhi un momento, stando così
incastrati fra due sassi, il sonno ci prende con un caz-
zotto sulla nuca, immediatamente. E quando un calcio
ci sveglia, si risale faticosamente a galla da un oceano
— 145 —
cupo dove tutta la nostra personalità si fosse di sciolta
e annullata. Un dolore fisico acuto contrae le tempie
e la fronte nello sforzo per ri connettere, per rientrare
da quell'esilio infinitamente lontano alla realtà della
nostra condarma.
La nostra condanma è in questo cielo di rame ine-
sorabiilmente pesante sui nostri cranii, in questa polti-
glia di carogne che ifnfracidi scono, in questa dura sas-
saia a cui siamo inchiodati dal nostro mestiere come la
farfalla sulla tavoletta di legno del collezionista. Già,
il rriestiere. Arguzie di caserma s'ostinano solitarie,
moisconi fuori stagione, nelle tempie vuote: l'hai voluta
la penna ? Hai venduto la vacca ? Hai portato il bu-
tirro al sindaco perchè ti mettesse negli alpini ? In
un sacco, ci hanno messi, ed ogni tanto l'allegro macel-
laio ci prende e ci butta sul pancone sanguinoso; poi,
quando la sarà finita, raccatterà quelli che saranno an-
cora buoni per un'altra volta e li rinsaccherà. Bisogna
arrangiarsi, finché non tocchi anche a noi lo sbrendolo
nella pancia, visto che il corpo non mette superbia a
fax l'eroe, come dicono laggiù, e non rinuncia a nes-
suna delle sue bisogne. Rubiamo le scatolette di carne
ai morti, beviamo alla borraccia dei morti, ci facciamo
dei morti parapalle e scaldapiedi. Bano si leva un poco
per sfibbiarsi i pantaloni, del resto rimane fra noi,
sarebbe buffo' che andasse a cercare una palla per
far del pudore. E le giberne le ha appese a questa
tibia nuda che spunta fuori della roccia, ossame dei-
l'anno passato.
P. Monelli, Le scarpe al sole - 10,
_ 146 —
Ed è passata anche la terza notte e la quarta gior-
nata ideila battaglia. A sera la mitezza dei tramonto,
nella tregua della tregenda, vince anche questo orroi^e.
Armonie violacee delle lontananze in angolo morto, e
simili a una terra promessa quei pascoli iremoti già
immersi nei vapori notturni, su cui la guena non im-
perversa.
All'alba urli d'attacco, di vittoria, di morte, nel
buio. Allarme sconnesso, poi un viso segnato di sangue
che annuncia la cosa.
Il presidio della 2003 è sopraffatto, gli austriaci
son qui, il medico telefona che son già alla sua grotta
e che si ritira, inutile richiamarlo al telefono, non
risponde più, un altro soldato arriva e spiega come è
scampato, dòpo esser già stato circondato.
— Ghe go pianta la baioneta nela pansa a un,
qual' altro lo go butà zo per la Valsugana, e mi son qua.
Ci si acconcia a disperata difesa a pochi metri dell
nemico. Ed ecco, ancora una volta, tutte le batterie del-
l'Austria su questi brandelli di compagnie, e urli d'i
colpiti, e gemiti senza fine, senza fine.
Non ci si può muovere più. Dove uno s'è ficcato,
ai resti e preghi Iddio che non ci picchi dentro la pal-
lottola o lo scheggione. Tutto il costone è battuto. Il
suolo dà l'impressione che sia percosso da correnti elet-
triche, frigge, crepita, chi sii sposta può rimanere pa-
ralizzato, le gambe spezzate, il rene spaccato.
E il lagno del isergente col rene spaccato dura mo-
notono, uguale, dall'alba.
— 147 —
Arriva un saldato — è guizzato' immune fra quel
crepitìo — porta un biglietto di Poli. Il capitano Ripa-
monti con otto o dieci buchi nel corpo di bombe a
mano' s'era trascinato via dalla cima e gemeva là sotto,
allo scoperto. Aindarflo a prendere, un suicidio. Ma
Sommacal ha detto:
— El mie capitano, devo andar a torlo.
Ed è uscito fuori, Piazza il portaferiti l'ha seguito,
gli austriaci, stupefatti, cavallereschi, hanno lasciato
fare. Il capitano in barella dev'esser già rientrato, a
quest'ora. Questo dice il biglietto del tenente : dice
anche, poscritto, che di dove sono nessuno li smuoverà,
finche c'è penna d'alpino.
Il portaoii'dini è in piedi, contro alla "{)arete, faccia
tagliata da uno sgraffio, occhi duri e chiari.
Ca)sagrande, 11' aiutante maggiore, sussurra qualche
cosa al Maggiore.
E il Maggiore dice :
— Alpino, tu sei stato retrocesso un mese fa da
caporale, perchè a Barricate hai preso una sbornia
stupida ed hai lasciato mangicire i viveri di riserva ai
tuoi uomini. Da quattro giorni, qui all'Ortigara, ti
porti bene. Ieri hai sallvato il pezzo da montagna ed
incoraggiato i tuoi compagni. Ti promuovo caporale sul
campo per merito di guerra.
E il Maggiore gli stringe la mano. Un nodo alla
gola mi prende, intuisco la bellezza del gesto, fra noi
morituri, ipresi nel macinio ideila battaglia disperata.
E che cosa importa se la burocrazia (ritarderà d'un anno
— 148 —
o negherà la sua sanzione ? Un brivido eroico rianima
la volontà, coscienza che ogni sacrificio è accettabile
per un'oscura bellezza morale che ci sovrasta ed a
cui non sappiamo dar notme. Più alta che la patria,
più forte che il dovere. Umcinità, forse. Ci sgozziamo
ferocemente in un macello che ci ripugnerà domani,
per valori che saranno angusti o nulli domani. Ma
uomini siamo, con dignità id' uomini, con questa po-
tenza di chiudere in un gesto la giustificazione e la
ragione della vita.
Al soldato gli occhi si sono velati un poco e la
bocca gli trema un poco agli angoli : gli altri tre o
quattro ragazzi intomo muti, accesi, vibrano di consen-
timento.
Tatatata. La miitraglia nemica batte anche questo
posto. Rapido costruire d'un riparo di sacchetti. Senso
che a poco a poco c'intrappdlano. Eroismo di andare
a cacare.
A buio, ordine di ritirata. Per il vallone dell' Agne-
lizza, tra fetide oscene carogne, un senso a cui non
s'osa credere ancora di liberazione, possibile che non
se n'accorgano e ci lascino tranquilli fino alla fine ? e
rientriamo nelle linee.
E la tazza di brodo caldo e la baracchetta affet-
tuosa che ci riospita segnano i termini del desiderio.
149 —
30 giugno.
Attonito stupore di rinascere, novità di sensazioni,
seduti al sole sulla soglia della tenda. La vita è una
cosa buona che si sgranocchia in silenzio con i denti
sani. I morti sono compagni impazienti che s'avviarono
in fretta a loro faccende ignote ; ma noi sentiamo fluire
su di noi la carezza tepida della vita. Centellinando
qualche delicato ricordo famigliare : sollievo di poter
riportare ancora una volta questo figliuolo prodigo a
quei poveri vecchi laggiij — a cui non si aveva il
coraggio di pensare il giorno che s'andò fuori.
E poco male se la vita dovesse esser sempre così.
Ricordi si accumulano; un anno oggi, due anni oggi,
s'era già in guerra — quest'altio anno sairemo in gio-
stra ancora che non c'è ombra d'epilogo nel dramma.
Ma oggi s'accetterebbe tutto: per questa pienezza di
rinascita, per il miraggio di una fuga a Feltre e a Bo-
logna (questa volta questa volta essa concederà, la
piccola capricciosa) — per questo premio voluttuoso
di sole che spiana finalmente il viso così a lungo con-
tratto.
Ma i generali che hanno sbagliato i piani, ma i su-
premi reggitori che non seppero tenere le nostre con-
quiste e diedero ordini incoerenti o nefasti, blaterano
ora, rivedocno le bucce ai morti ed agli scomparsi,
macchiano di burocratica sanie i begli eroismi. E in-
tanto i sdldati eroici laceri stanchi godono il riposo:
— 150 —
quattordici ore di lavoro al giorno pei scavare le trin-
cee che i supremi reggitori non pensarono a far co-
struire prima.
Carta carta carta che aduggia iclie grava cihe sof-
foca, rei azioni rapporti prospetti. La battaglia è
finita, il puro eroe rientra nei ranghi e s'allinea col
fifone a parità di rancio e di cinquina. E aiutanti fu-
rieri caporali di contabilità scrivono allineano riico-
piano ticchettano la macchina da scrivere, i morti
i dispersi i feriti diventano numeri sugli specchi ni-
tidi, il capitano che balzò sulla quota nell'ubbriachezza
dell'attacco ha le dita sporche d'inchiostro, il generale
che ritto sulla prima linea la notte del venti stangò
alpini e austriaci in mischia e tenne superbamente fede
alla sua fama di soldato e di capo, oggi prende cap-
pello perchè un prospetto ritarda e contumelia scribac-
chini e dattilografi. E il gesto eroico del soldato —
Pretto che prende il comando della squadra perchè è
caduto il caporale, e il giorno dopo scavalca la trin-
cea e si presenta ali 'imbocco della caverna e ne trae
fuori — solo — cinquanta austriaci che si danno pri-
gionieri (c'è chi ha avuto la medaglia d'oro per questo),
e rulitimo' giorno di battaglia sfugge alla prigionia in
un violento corpo a corpo; Jardella e Forte portaordini,
che fanno a pari e dispari per vedere a chi totca andar
fra quell'inferno, e fuori per la 'montagna che scoppia
e scalpita fanno meraviglie, per cinque giorni, infati-
cabili ; Piazza il portaferiti impassibile e devoto, che
ha sgombrato per terreno battuto mezza compagnia^ ^
— 151 —
a chi Jo loda ride d'un suo buon riso stanco mostrando
la sua pelata che gli cominciò in Lihia; Pesavento
morto la notte ultima perchè volle tornare indietro dove
c'era la sua compagnia — il loro gestO' eroico, porotocol-
lato esposto postillato, comfermato da dieci specchi
e cento relazioni, darà loro fra un anno diritto a quello
straccetto azzurro che per la terza volta su concede con
mirabile rapidità al poeta che non ne ha bisogno?
Ma se il numero dei morti appare in nitido pro-
spetto, possono essi placidamente marcire sui fianchi
della montagna maledetta.
Non un giorno di riposo a questi scarponi, non un
giorno in paesi con case di muro e con osterie e con
donne. Un magro innesto di complementi, e poi su
un'altra fronte, ancora in linea.
Ma questa è così buffa che se il nemico piscia ce
la fa sulla testa. Per vedere che cosa fa, si prende il
torcicollo, e, per tircirgli , le feritoie sembrano antiaeree.
Nemmeno quando vai rasente il parapetto sei sicuro
di non essere veduto; e c'è sempre qualche paiUottoil'a
che viene non si sa dì dove e che batte davanti asi piedi
col rammarico d'esser stata lunga.
I nostri predecessori erano buona gente. Ci hanno
lasciato delle trincee che quando piove i sacchetti
crolllano (c'è della neve dentro!), i sostegni cedono,
si rimane allo scoperto, e bisogna sperare nel buon
cuore del bosniaco che non ci tiri.
— 152 —
Si sa^ tutti che questa linea non si può tenere, che
è già deciso che fra un mese 1* abbandoneremo. Ma ci
si deve lavorare dentro accanitamente lo stesso. Qui
e — quando s'andrà m seconda Imea — nella seconda
linea che diventerà la prima. Di notte, allarme, fucile
alla spalla, turno faticoso di vedetta, pattuglie, sempre
qualche colpito — di giorno colla picca e il pistoletto,
e la corvè, e la fabbrica dei gabbioni, e ancora qual-
che colpito. Viene su il superiore che deve essere
confermato nel suo comando per il primo settembre, e
per quel giorno deve presentare dei bei lavori com-
piuti : aggrottato, cattivo, vien su con cento giorni di
rigore in tasca, finche non gli ha distribuiti tutti non
discende, fa il processo a chi dormie perchè di notte
ha vegliato, misura lesina discute le ore di sonno
legittimo, dice : — Il soldato lavori finché non catdè af-
franto — riparte minacciando questi alpini che sono
poi solo una montatura, teuf teuf, l'auto ise lo riporta
al suo comando dove un capitano gli metterà in bella
copia le motivazioni degli arresti di rigore.
Ma la sera in cui il solito disertore nemico per in-
graziarsi il nuovo padrone sballa che la notte ci sarà
un attacco, e l'allarmi corre dalla divisione nevraste-
nica per i fili del telefono ai comandi di battaglione,
e si ordina di raddoppiare la vigilanza, e le novità ogni
due ore, ed ogni fucilata provoca tenore laggiù e l'uf-
ficiale di servizio» s'attacca al telefono e domanda che
cosa succede (e invece noi sappiamo bene che queste
sono le notti in cui ci si potrebbe cavare le scarpe) —
allora, perchè hanno paura di perdere la posizione,
— 153 —
mandano a dire ai valorosi alpini che fanno sicuro as-
segnamento sui valorosi alpini e che con i valorosi
alpini non c'è niente da temere, e se raccomandano
ai valorosi alpini di vigilare semno che questo è un
pleonasmo per i valorosi alpini, ma che lo fanno per
far piacere al corpO' d'Armata.
E così sia.
Due carabinieri hanno condotto su stanotte da Enego
i due alpini condannati alla fucilazione perchè un
giorno' dell' Ortigara, usciti dalla battaglia per una corvè,
non vi erano poi più rientrati. Toccano all' aiutante
maggiore i compiti più odiosi, persuadere i due che
sono vane le speranze che hanno portato trepidamente
con sé per tutta la strada (i carabinieri, buoni diavoli,
non avevano core di disilluderli) ; e mandare a chiamare
prete e medico; e tirar fuori 'il plotone d'esecuzione; e
intanto far chiudere in una baracca questi due morituri
così diversi da quelli che buttiamo fuori della trincea
i giorni di battaglia — che appena si son ritrovati con
il loro' battaglione hanno urlato, pianto, chiamata la
famiglia lontana, implorato pietà e perdono.
— Andaremo de pattuglia tute le sere, sior te-
nente...
E quando hanno intuito che nessuna forza umana
poteva loro ridare la vita, non hanno più detto una
parola, hanno solo continuato a piangeri lamentosa-
mente.
11 plotone d'esecuzione s'allinea, sbigottito, occhi
— 154 —
atoni suir aiutante maggiore che con voce che vuole
dunque far suonare aspra spiega la neoessità d'i mirar
bene per abbreviare l'agonia a gente irrimediabilmente
condannata. Nel plotone ci sono amici, paesam, forse
anche parenti dei due condannati. Commenti sommessi
neirallineamento. Silenzio — grida l'aiutante .
È anivato il prete, tremante, atterrito; c'è anche
ili medico, si marcia ad una piccola radura sinistra ne!
bosco, ai priimi lucori dell'alba. Ecco il primo con-
dannato. Un pianto senza lacrime, quasi un rantolo,
esce dalla gola serrata. Non una parola. Occhi senza
espressione più, sul volto solo il terrore ebete della
bestia al macello. Condotto presso un abete, non si
regge sulle gambe, s'accascia: bisogna legarlo con un
filo telefonico al tronco. Il prete, livido, se lo abbrac-
cia. Intanto, il plotone s'è schierato su due righe: la
puma riga deve sparare. L'aiutante maggiore ha già
spiegato: io faccio un cenno con la mano, e allora
fuoco.
Ecco il cenno. I soldati gucirdano l'ufficiale, ili con-
dannato bendato, e non spcirano. Nuovo cenno. I sol-
dati non sparano. Il tenente batte nervosamente le
mani. Sparano. Ed ecco il corpo investito dalla raffica
si piega scivolando un poco lungo il tronco dell'ajlbero,
mezza la testa asportata. Con un'occhiata, il medico
sbriga la formalità dell'accertamento.
Siamo' al secondo — questo scende calnrto, quasi
sorridente, icon appesa al collo una corona benedetta.
Dice come estasiato: — El xe justo. Vardè voiailtri
de rigar drito, no stè a far come che go fato mi,
— 155 —
Tocca a sparare a quelli della seconda riga: ma
questi tentano dì sottrarsene, affermando di avere già
sparato, la prima volta. L'aiutante maggiore taglia
corto, minaccia, parole grosse. Il plotone si riordina.
Un cenno, la scarica. È finito.
Il plotone (d'esecuzione — raccapriccio, angoscia su
tutti i volti — rompe i ranghi, rientra lento. Per tutto il
giorno, un gran discorrere a bassa voce nelle baracche,
un senso di depressione enorme nel battaglione.
La giustizia degli uomini è fatta. Questioni, dubbi
s'affacciano alla mente riluttante e li respingiamo con
terrore perchè contaminano troppo alti principi : quelli
che accetticuno' ad occhi chiusi come una fede per ti-
more di sentir fatto pili duro il nostro dovere di soldati .
Patria, necessità, disciplina — un articolo dei codice,
parole che non sapevamo che cosa volessero veramiente
dire, solo un suono per noi, morte con la fucilazione,
eccole chiare comprensive dinanzi allo sgaglliardiimento
della nostra mente. Ma quei signori laggiù a Enego,
no, non sono venuti qui a veder riempirsii di polpa le
parole della loro sentenza. Comandanti di grosso car-
reggio, comandanti di quartier generale, colonnelli della
riserva, ufficiali dei carabmieri : ecco il Tribunale.
Ricusato per incompetenza. Solo chi uscì vivo
dalla maciulla del combattimento, solo chi strisciò al-
l'attacco e sbiancò d'orrore sotto il bombardamento
e pregò di morire nella notte di battaglia premuto dal
freddo e dalla fame — solo quello sarebbe il giudice
competente, e darebbe sì forse anch'egli la morte, mei
-^156^
sapendo che cosa vuol dire. Non quelli laggiù, cimi-
terini col robbio, bcirb^ fatta, letto con lenzuoila pulite
e la guerra ricoirdo dei manuali di scuola e il codice
penale edizione commentata lontano dallo spasimo della
prima linea.
E col mio tribunale, forse nemimeno quello che di-
ceva (( el xe justo )) sarebbe stato fucilato.
Gli alpini del Val Dora venuti di rinforzo con la
loro sezione cantano la Ccinzone del Momtenero. Chi
ha inventato le parole rozze, chi ha trovato il ritmo
doloroso } È la più bella canzcine militare nata dalla
guerra, destinata a diventare leggenda, ad essere can-
tata sempre, quando saranno reclute i nipoti di questi
ragazzi — quelli che faranno^ a tempo ad andare a
casa e sposarsi l'amorosa. E c'è dentro tutto lo scon-
troso spirito di cc^rpo del soldato di montagna, ruvido
e ubbidiente, che accetta la guerra come un castigo
giusto ed inevitabile.
Spunta r alba del sedici giugno
comincia il fuoco l' artiglieria
il terzo alpini è sulla via
Montenero per conquistar.
Quando fummo a venti metri
dal nemico ben trincerato
un assalto disperato
il nemico fu prigionier.
Montenero Montenero
traditor della patria mia
— Ì57 —
ho lasciato la mamma mia
per venirti a conquistar...
Deve essere stata composta la sera stessa dopo la
battaglia — sotto un cielo povero come questo, dopo
che il sergente ha cancellati dal ruolmo i nomi dei
morti ed ha fatto portare i loro zaini nel magazzino.
E per venirti a conquistare
abbiam perduto tanti compagni
tutti giovani sui vent' anni
. . la lor vita non torna più...
Ecco, una sera come questa, una canzone come
questa — si vorrebbe ritornare bambini e rannicchiarsi
contro il grembo della mamma per non sentire il tem-
porale che brontola che lampeggia che scuote la mon-
tagna — angoscioso nelle sue pause come nelle sue
furie.
Andando verso la Divisione ho veduto degli auto-
carri con le ruote bianche dii polvere. E che sùbito de-
siderio del piano sonnolento, siepi bianche, strillare
di cicale, odore di maceri, fette di cocomero all'om-
bra di una tenda caccolata di mosche !
E quei versi di Dante :
« Rimembriti di Pier da Medicina
se mai torni a veder Io dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina, »
=— 158 —
So a memoria il cielo notturno.
Ebrietà primaverile di vento dopo la nevicata. Nu-
vole spazzine nettano, bianche, il cielo. Le cime sono
nuove e polite. Ora i morti dell' Ortigara hanno final-
mente il loro sepolcro candido.
Ed ecco l'aviatore esce fra le nuvolette buffe de-
gli shrapnells e glli schianti neri della granata (glli al-
pini la chiamano, questa nera e brutale, e! zapatòr),
ad imebriairai più di noi del gaio mattino. Confitti
alla trincea fangosa, lo invidiamo.
Stupore notturno della nevicata, ricamo dei retico-
lati, soffice mascherata degli abeti: motivi e parole
vecchie, scenari vecchi che ammaliano con grazia sem-
pre nuova il cuore brontolone. Questa silenziosa bel-
lezza che prende ragioni nuove dagli arnesi di guerra è
pure antica: e se oggi l'animo ne ritrae godimento,
già negli inverni di pace m'immersi nella maestà della
montagna notturna e ne bevvi un filtro di salute e d'or-
goglio (mia giovinezza moribonda, con che occhi vedrò
io gli inverni della mia vecchiaia }).
A)bitudine anche alla guerra e allo scamparla e a
ninnolare le paure vigliacche e ad inebriarsi dei buoni
eroismi. Ma adesso arrivano gli ufficiali per forza, che
— 159 —
quando si presentano dioono' — sono del tal corso ob-
bligatorio, — come per sottolineare bene che loro
non ce n'hanno coilpa (chi ne ha colpa è quella buro-
cratica cervice che ha avuto questo lampo di genio,
da uomo a cui i quadri contano più di quello che
c'è dentro). In questo nostro ambiente, però, O' s'assi-
mileranno O' Sctranno stroncati. Anche ìei, bel signo-
rino della Valle del Po, che mi dice ingenuamente :
— Sa, io non sono mai stato m montagna, ma ho
scelto gli alpini perchè non vanno sul Carso — anche
lei preghi Dioi che non tornino le giornate in cui
ci sia bisogno di buttar cuori saldi e teste dure a
tappcu: r orrore di un falla sulla fronte. Intanto do-
mani mi rampi cherà quelle erode, e vedremo che cosa
ne diranno questi agordini dalla critica infallibile e
scontrosa, che lei mi vorrebbe venire a comandare solo
per non andare sul Ccirso — questi uomini legati per
la loro nascita e il loro mestiere ad un destino così
severo di soldati, buttati senza lor scelta allo sbara-
glio finche la guerra duri, e pure tranquilli e assen-
nati, che solo domandano di poter avere fiducia nell' uf-
ficiale che li deve portare a morire.
E abitudine di scartofìle nelle teste dei furieri e dei
comandati in servizio di S. M. Adesso dopo un mese
d 'limbo scatura al Comando di Gruppo, tornato qui alla
compagnia, m'accorgo come fossero inutili le belle
circolari che stillavo — non ne vedo più una al ne-
gletto ufficio di compagnia dove il furiere davanti ad
una cartolina illustrata fiord e donna con cartelli ino a
svolazzi (( Ti amo » sonnecchia sui buoni-^viveri il suo
— 160 —
tedio soddisfatto di alpino che prima della guerra
buttava giù alberi nelle selve del Comèlico, e sa sba-
gliare dignitosamenite le somme del giornale di conta-
bilità (non salò io che me ne accorgo).
Mja iassù circolari circolarette cincolarone ; pro-
spetti e specchi (anche se negativi tracciare tutte le
colonnine per bene) ; tutto in triplice copia ; moltipli-
carsi dei rapporti gercirchici ; arenairsi delle pratiche
(lucus a non lucendo) per una formula errata, per una
intestazione omessa, per una firma di facente fun-
zione che è giudicata incompetente.
E tu, povero Tonòn, credevi che presentando il
telegramma con la notizia della malattia grave di tua
madre ti avrebbero' concessa la licenza ! La pratica
errò di tavolino in scaffale per quattro giorni; dopo
il quarto giorno ritornò opima di attergati e con questa
conclusiva peregrina annotazione : poicitè sono trascorsi
ormai sei giorni dalla data del telegramma, si presume
che la madre del nominato Tooiòn sia fuori pericolo,
o sia morta: ma in quest'ultimo caso si deve dimostrare
che pendono per il soldato Tonòn gravi interessi pa-
trimoniali; nell'un caso e nell'altro quindi allo stato
delle carte non si concede la licenza.
Ma il povero Tonòn picchiando con più forza la
mazza sul pistoletto da mina s'illude di averci sotto la
corazzata cervice dell'annotatore.
E sta zitto, e stasera andrà di pattuglia senza un'o-
stia di più. Ma il signor Maggiore lo manda con un
mulo a prender il vino a Cdl San Martino, che se vuol
— 161 —
scappare ad Àgordo penserà lui a non incontrare i
carabinieri.
Gnocchi e piccole all'ovo.
Piccoila aiH'o'VO' è ciò che fatto con più arte si
chiamerebbe zabaioine. C'è questa regola nelle com-
pagnie : che a qualunque ora del giorno e della notte,
qualunque ufficiale può presentarsi a qualsiasi delle trfe
mense e prieteindere dal cuoco la piccola a'H'ovo. Vino
a parte. La regola piace molto a Casagrande e al cap-
pellano e allo zappatore e a tutti dello stato maggiore,
perchè a quella mensa il maggiore ha imposto che più
d'un quartino — misura:to, ha mandato a comperare
le bottigliette a Bassano — più d'un quartino a testa
non si beve. Le chiavi del vino le tiene il vecchio
Gallina, più inflessibile d'un paletto a coda di porco.
E allora dopo pranzo, lemme lemme, i subalterni se
la battono, lascian solo il maggiore, piombano alle
nostre mense a prendere il supplemento.
Senoinchè un giorno^ che s'era a riposo il maggiore
parte per Enego, motivi di servizio, cede il comando
idei battaglione a Busa. Ed allora, apriti, cantina ge-
losa dello Stato Maggiore ! Tutti gli ufficiali dellla
300.^, poi quelli del battaglione Val Dora ospiti, i miei
subalterni invitati anche loro, tutti dentro al baracchino
angusto dello Stato Maggiore, bicchieri pieni, brindisi,
vino sulle carte d'ufficio, vino nella tromba del gram-
mofono, Gagliotti racconta una marcia della compa-
gnia Baseggio che la metà erano ubriachi e lui più
P. Monelli, Le scarpe al sole -II.
— 162 —
di tutti, il cappellano del Val Dora vuol rubar le tavole
per il suo baracchino, Gallina dice atterrito che il
vino è finito, viene il capitano Agazzi delle mitira-
gliatrici bianche e blu con il suo tributo di fiaschi ; in
un angolo della baracca, indifferente al frastuono, il
furiere pesta infaticabilmiente sulla macchina da scri-
vere al lume d'un candelino vacillante.
La isera dopo me Ja son vista brutta, andando da
Busa che m'ha invitato a mangiare i gnocchi. Sulla
strada di Campofilone una raffica improvvisa, crepi-
tante di mitragliatrice, proiettili che battono sulla strada
a due passi da me, un rnomento di fifa folle, perchè
pazienza in linea, m,a essere a riposo e buscare una
pallottola che non si sa da dove venga ! Dove mi
butto? Le raffiche continuano, le pallottole fischiano e
picchiano così vicine che ho l 'impressione che basti
un movimento per acchiapparne una. E finalmente mi
decido, un salto nel prato, trenta metri di coorsa, auff,
l'ho scampata bella.
Cose che succedono con queste linee che noi stiamo
sotto e loro sopra, e quando si va a riposo a cinque-
cento metri dalla prima linea.
Busa m'ha fatto pagare una bottiglia, quando l'ha
saputo. Il mio nome arricchisce il libro rosso, il libro
che segna il numero delle bottiglie pagate e la sua
brava motivazfione vicina, tutta la storia del battaglione
racchiusa in una gioconda cronaca pantagruelica, la
tòpica dell'aspirante e gli arresti del caipitano, le buone
— 163 —
e le cattive fortune, e ìa vigilia delle licenze e il ram-
marico di non avere più a sperarne per un pezzo.
Poàchè è già sera la compagnia dorme da un pezzo
nel baraccone, del suo sonno duro e convinto di truppa
a riposo. Noi, signori ufficiali, siamo ancora a mensa,
con un po' di vino ed i gnocchi, ma non tanto più
sibariti però. I soldati non se l'hanno a male che noi
s'abbia il vino, perchè sanno che se portano un ordine
o finiscono la rigore un bicchiere c'è sempre anche per
loro. E poi il capitano che beve vino si ricorda al lu-
nedì di far venir su duecento litri dalla sussistenza per
la compagnia, il che sarebbe proibito dalle peregrine
regole che dominano laggiù dove ni cannone non arriva.
(Ma in che mondo vivono quei signori ? La capì
il generale Ferrari, che l'anno scorso, dbpo quindici
giorni di Cauriòl e di gelo e di rancio freddo e di
granate e di bestemmie ci mandò su — il cambio ? —
questo no, lo sapete bene, ma un litro di vino a testa
ed una tazza di cognac. Gli alpini capirono che quello
voleva dire il cambio alla fine d'ella guerra, ma dissero:
— Ben, che i ghe diga al general che se '1 ne
manda drento do litri de vin par setimana, femo la
firma de star sul Cauriòl).
E allora ci vuole l'inganno, anche qui: l'ufficiale
alle salmerie preleva ogni lunedì 200 litri alla sussi-
stenza per la mensa ufficiali della compagnia.
— 164 —
— Va bene che soino ufficialli alpini — brontdia il
magazziiniere laggiù. — Ma questo si chiama bere !
Stasera attendevo a cena gli ufficiali della 297.^
del Cuneo, ma hanno telefonato che non verranno.
Viene a dirlo il sergente d'ispezione, che ha ricevuto
la comunicazione. Un breve coinciliabolo fra me e i
subalterni, poi ordine al sergente di tirar fuori dalla
baracca i cinque tali soldati, uno per plotone, e uno
della sezione, per moti^vi urgenti.
— Armati ?
— Non importa.
L'ufficiale d'i servizio sorveglia, non veduto, fuori
della baracca. Un affar serio a svegliarli, quei cin-
que — poi un coro di bestemmie, brancicando nel
buio a cercar le scarpe.
— Col fusil ?
— No, senza. Marcia, tradotta.
— Ostia, co'ssa volli che no i ne lassa gnanca
dormir !
— In rico'gnision, i te manda.
— In mònega ! Disarmai }
Dopo cinque minuti i cinque svizzeri, imbambolati,
sull'attenti, ricevono gli ordini dall'ufficiale di ser-
vizio : vuotare una zuppiera colma di gnoicchi nella
cucina degli ufficiali, il formaggio c'è sopra, portarsi
il cucchiaio, dopo passare dal signor capitano a pren-
dere un bicchiere di vino.
Vengono, infatti, poco dopo (Bordoli dice che
nemmeno ha bisogno di lavarla, la zuppiera) con gli
jl
— 165 —
occhi lustri, a beie il vino' e raccontar la loro gioia.
Dice Tonòn, piccolo, rosso, la barbetta da becco:
— Eli xe el più bel giorno de la me vita.
E De Malandrino, l'abruzzese del '96 che ha a
casa moglie e due figli, faccia da arabo' terminata dal
pizzo coxtOi e crespo, spalamcando la bocca su un
lucciccire di denti da lupo:
— Signor Capitano, tu l'hai indovinata la fame
che tenevo stasera !
Poiché la mia compagnia è la più povera d'uomini,
il maggiore me la rimpolpa con tutti i condannati che
maadanp al battaglione con pena sospesa. Oggi me
n' ani va uno che viene dal battaglione Feltre, bel tipo,
vecchio del novantuno, sciatore scelto, ciarlone e con-
fidenziale. Il suo delitto? Diserzione all'interno: in
lingua povera, gli avevano promessa una licenza se
andava di pattuglia in un certo posto, in quel certo
posto c'è andato, la licenza non è venuta, se l'è presa
da se.
Inutile persuaderlo che ha fatto male. Guarda con
occhi chiari, dice: — Gavevo dirito a la licensa, sior
capitano, me la go tolta da par mi.
Dirgli che è un atto da cattivo soldato ?
— Mi, sacramento, che son sempre sta el primo
in tute le pattulie che gavemo fate al Feltre col Caìmi
quando che se gera drento per la Valsugana ?
Ma quattro anni gli ha buscati lo stesso. L'ho preso
senza spaventarmene, come ho preso gli altri, con-
— 166 —
<Jannati più o meno per gli stessi reati : sono scappati a
trovar la moglie (( che la gexa duo a far zaino a tera »
a partorire, cioè; hanno detto, da sbormiati, aeroplano
ai carabinieri ; non sqn tornati subito allo scadere della
licenza, perchè, cc<me Palucci raccontava l'anno scorso
alla Regana quando era il barbiere della 265.^, (( ga-
vevo quel a vecia de me mare da trovarghe na casa,
che el xe vero che mi pare è morto e cussita son con-
tento che son mi el capo de la fameja, ma con quela
svergognata de la mi cuniada no la se poi vedar, e
cussita go dovù meterghe pase fra quele dbne prima
de gmir via, e son sta dal sindaco per farme slongar
la licensa e lù gnente, e son sta dal marescialo dei
carabinieri e lii gnente, e alora me la son slongada
da par imi ». E finita la lunga cicalata un attimo di
meditazione , poi Palucci aggiunge :
— Ma, sior tenente, se lu gaveva bisogno de mi
bastava che lu el me (mandasse un telegramma de gnir
subito e mi vegniva subito.
Ora, in questi casi, se nessuno lo veniva a sapere,
il maggiore gli faceva quattro urlacci, un calcio sotto
la schiena, tuttO' era finito. Ma gli hanno sorpresi in
treno, o alla tappa, hanno avuta la loro denuncia, sono
stati condarunati.
Sì, son cattivi soldati, indisciplinati. Ma che volete
fargli quando il giorno della prova son ìì pronti a dar
via la pelle con bella semplicità? Il sergente Pianezze
del Cismon, nel luglio del 1916 mette su sei o sette
esploratori malcontenti — anche qui, licenza promessa
e non veduta — e scappan tutti a casa, Lamon e Arsiè
— 167 —
e Fonzaso (ci fu prima la storia d'una cassetta di bot-
tiglie della mensa d'un battagilione di fanteria messa
nella loro baracca insieme con altri fanti e un servizio
di sentinella; quei mamgoldi di soppiatto votarono la
cassetta, misero al posto delle bottiglie dei bossoili da
75„ la richiusero, nessuno se ne accorse). Stanino^ a
casa tre, quattro, cinque giorni, ritoman su badiali e
sorridenti. Pianezze perde i galloni, ma chie<le — e
ottiene — di restar eco gli esplioratori . Al Cauriòil il
19 ottobre è magnifico, una ferita alla fronte non l'ha
fermato, ha trascinato avanti i compagni come fosse
ancora sergente, è rientrato a notte dal combattimento,
acceso, stravolto, un velo di sangue sul volto. — Sior
tenente, me dispiase d'averghene copà pochi de quei
porrei ! — e se gliela danno, e se gli ani va a tempo
prima che ci lasci la ghirba, avrà una medaglia d'ar-
gento.
Ed io, con questi condannati, con questi brutti
soldati, rimpolpo la compagnia di fegatacci sani.
Il supemore è venuto a visitar la mia linea e m'ha
messo agli arresti. Amen. Questo mi succede da
quando gli sono caduto in disgrazia, e se non fossero
quei soldi dell'indennità che ci si rimettono, ormai
il morale ci ha fatto il callo. E dice : Bisogna affret-
tarsi a fare i ricoveri per l'inverno, mandi a prendere
tavole, guardi però che ne ho poche, ed armi bene
le baracche, si ricordi però che alberi non se ne ta-
gliano, e faccia caverne, guardi però che gelatina non
ne ho.
— 168 —
Già. Qui c'è un buco, m/i faccia un osso buco.
Si mandano a prendere tavole al magazzino del
Gruppo, me ne -danno dieci, e se non ne potessi ru-
bare una trentina tutte le notti disfacendo i baracchini
che sta facendo di giorno il Genio sulla strada del
Pagerlok (lavoro di Penelope) starei fresco. Per i
tronchi, una pattuglia fuori dei reticolati, così sgom-
briamo cwiche il campo di tiro. Sfrondarlo subito, però,
il tronco, perchè se il superiore lo vede, gli sii possa
contare che è vecchio, trovato lì (con che cosa pensa
che si armino le baracche ?). Ma chiodi non ce n*è.
Nemmeno alla Divisione. Sono rarissimi qua su, tanto
preziosi che alla compagnia di Busa si giuoca alla
rrtorra, e chi fa dieci punti vince un chiodo.
Chiamo Da Sacco il fabbro a consulto, occhietti
vivi sul viso scarno e bruno, che è stato diciannove
anni a Salisburgo, e dhe non sorride mai. Da Sacco
dice — Penso mi a far i ciodi, se lu me dà el carbon per
la fucineta.
— Hai una fucinetta }
— • Sior sì (orgoglio negli occhi). La go preleva al
bataion de fanteria quandb g'avemo a vìi el cambio. Ma
carboin, quelo mie manca.
Carbone ? Buono di pnelevamento. Non ce n'è,
rispondono. Allora trattative con quelli del martellio
perforatore, il permesso di farsi aggiustare le scarpe
dal mio calzolaio e farsi dare un bicchiere di vino
da Bordolli; e loro cedono il carbone.
Le tireremo su, finalmente, queste baracche ?
Prima però Da Sacco si deve costruire uno scal-
— 169 —
pelilo e una pinza, dopo si mette a fabbricar chiodi,
senza testa, non importa, si lasciano battere lo stesso,
come i generali (quelli austriaci, diciamo). E la gela-
tina poti è un affar serio trovarla, ci danno cheddite
— ma poca — o quella polvere nera che è un disa-
stro. EA è curioso' veder un tenente con un pacco^ di
cartocci di gelatina in mano, chissà dove gii ha tro-
vati, insidiato, corteggiato, assordato di promesse per-
chè me ceda un poco, come recasse con sé il più pre-
zioso dei tesori.
Poi, perchè le tavole mancano, si decide di tirar
su i muri. Ma anche qui, la calce non ce la danno: e
bisogna ricorrere a!l imedico che la prende al magazzino
della sanità con la scusa che gli serve per la disinfe-
zione latrine 4
E così i baracchini sorgono. Ma il superiore che
viene accigliato in linea e vuole le rastrelliere — per-
sino ! — per i fucili i e i cartelli con l'indicazione: La-
trina, e il filo d'Arianna per andarci di notte, il su-
periore che dà pipe a destra ed a sinistra, non sospetta
nemmeno per un attimo con che cosa si combatte qui
per farci la casa, mentre c'è già mezzo metro di neve
e il gelo fluisce la notte sotto gli abeti stecchiti : con
quali accorgimenti questi combattenti fanno i muratori
igli scalpellini i falegnami, conquaili sdtterfugi se la
cavano, persino con una ricognizione in fondo al val-
lone, a ole passii dagli austriaci, per portar via le
lamiere alle vecchie baracche abbandonate, che se
ai sommi comandi lo sapevano gli veniva un accidente.
Già, perchè per uscire dai reticolati ci vuole il loro
— 170 —
ordine scritto; e questo perchè per loro i reticolati ser-
vono ad impediie ai soldati che volessero disertare di
farlo — non ad impedire che venga dentro il nemico,
come credevamo io e te.
Gai lavoratori, ai quali basta iniziare qualchecosa
perchè s'innamorimo de'll' opera, e portano in tutto una
logica e serena perfezione ; e lisciano con cura i travi
e squadrano a filo le pietre, felici di ritrovare gli
arnesi della loro fatica da borghesi, felici di mostrare
al capitano che con un colpo solo di mazza dato giusto
spaccano il sasso in due (gli danno prima qualche ta-
statina attorno, e si consigliano serii), felici delle ta-
vole che si segano essi stessi dal :troinco' d'abete con
gesti eleganti e jeratici, e che ammucchiano in pira-
mide vicino alla baracca. Individui, personalità che
si distaccano a una a una dalla massa grigia, e vien rac-
capriccio a pensare che una pallottoia annullerà do-
mani tanto senno semplice, tanto accorto senso della
vita. Limana, caporali maggiore, grande e bruno, barba
quadrata e due occhi dolci e buoni, che ruzzola tron-
chi come fossero fuscelli; Tiziano Centa, dal grande
barbone rossastro su un viso da quindicenne paffuto,
che ci tiene alla sua fama d'essere il più forte soldato
della compagnia e s'accanisce a smuover sassi grossi
come una botte; Costa l'esploratore, secco e ruvido,
che colpito di ritenuta sulla cinquina per avere perduta
la maschera me ne portò alla sera dieci arrangiate
chissà dove chiedendo se ero disposto a pagargliene
nove ; De Riva il carbonaio, che nel bosco fradicio,
— 171 —
sotto la nevicata, con un fiamniifero e due cartoline
sa suscitare in cinque minuti una fìamnfiata che basta
a tutto ri plotoine ; Toncn ohe fa scomipi sciare tutta la
compagnia per le storie matte che racconta con una
faccia da satiruccio malinconico, e che vuole andare
negli arditi perchè (( ciapar le posision l'è el più gran
gusto che ghe sia, ma tegnirle dopo l'è na gran pas-
sion )). .
Tcfliòn s'è cacciato nel suo buco, una tana da volpe
che si fa solo lui, con Semprebon che gli tiene il pi^
stoletto.
— Poi ghe faremo la svolta, e drento altri dò me-
tri. E poi ghe metaremo un cartelo in ^ima : Questa
caverna l'ha fata Tonòn. E là in fondo zogheremo
la morra con un candelin, che le granate no i ne ciapa
de sicuro.
Altre squadre si sono scavati i loro' ricoveri qua
e là nelle trincee, neirimiminenza dell 'inverno, caverne
rivestite di tavole, baracchine a sgrondo contro il cam-
minamento; e si sono fabbricate le stufe con i lattoni,
e se dal tetto piove un poco ci si mette sotto la gavetta.
A sera andando per la trincea, chi origlia alle porte,
sente dialoghetti buoni e semplici, bestemmie innocue,
niente previsioni, niente sconforti. E l'abruzzese anal-
fabeta che detta al compagno che sa scrivere la sua
lettera.
— Dije che l'è una vacca. Sì, scrivi così. E che
nun me ne importa più gnente. E dije, sì, dije che
se pò pijà pure n' altro amante, e, aspetta — je vojo
— 172 —
dì tutto, capiisci ? — idije icosì, ohe num me n'iimpoita
più gnente.
Fuori non ci sono che le vedette. Due ore di
turno e due di riposo, perchè siamo rimasti troppo
pochi. Ambiguità nevosa fra il bosco, calma perfetta,
senso d'una rete d insidia che può stringersi da un
momento all' altro. La notte brilla con stelle indiffe-
renti sull'attesa taciturna. Insonnia e veglia nel barac-
chino del capitano, dell comandò di battaglione : e
pronto il conforto di caffè e di pane arrostito per l'uffi-
ciale di servizio che ha finito il suo giro. Nelle caver-
nette, nelle baracchine pochi dormono. Dialoghi fra il
capoposto e i suoi uomini, attorno al fuoco idi legna
nel bidone, fumo acre ohe morde, f accie tagliate
crude dalla fiamma che profonda gli occhi in cavità
enormi e incide le bocche segnate dalla barba cre-
spa : nidi di mitragliatrici e d'energia insonne, se il
nemico volesse attaccare. Ma noi sappiamo bene che
non ci pensa.
Quando vuole attaccare, lo sentiamo con un senso
volpino che ci è venuto con l'abitudine. Ma ridiamo,
quando l 'allarme ci viene dal di dielTo. Laggiù, ai
comandi isterici, basta un ichiacchierìo di mitragliatrici
o la sghignazzata di qualche bomba a metter paura.
Che c'è, che succede? E si attaccano al telefono e
ti rompono l'animo. Cose che accadono a chi non ha
fatto la guerra. Se aivessero posti con noi i reticolati
e avessero provato a passar quelli degli altri, se aves-
ser scavate con noi le trincee e preparati gli apposta-
— 173 —
mentì, se avesser preso i pidocchi con noi e tnemato di
freddo con noi e rabbrividito con noi sotto l'attacco im-
minente, saparebbero bene come stanno le cose. E non
ci domanderebbero ogni sera di radidoppiare la vigi-
lanza come se fosse la razione foraggi (quella invece
la diminuiscono, poveri muli). Ma non hanno fatto la
guerra, pur se la comandano.
E dice De Fanti, barbetta rossa, cuor d'oro, sotto-
tenente da venti mesi perchè le carte gliele smarri-
scono sempofe, e sfottuto dal colonnello che non capisce
quanto orgoglioso eroismo, quanto spirito di sacrificio
sia sotto la sua scontrosità ruvida di cadorino — dice
De Fanti :
— La guerra la vinceremo quando comanderanno
le divisioni quelli che hanno comandato un plotone in
guerra e sapranno che cosa vuol dire.
A leggere i giornali se ne imparano delle buonine.
Ecco qua. Un deputato intenoga il ministro delila
Guerra per sapere se sia vero che per i nuovi chiamati
alle armi non ci sia più il volontariato d'un anno: e il
ministro si affretta a tranquillizzare l' interrogante, che
i volontari di un anno ci saranno, sì, e quello che più
importa anche in armi che non siano la fanteria.
Un altro deputato espone recriminazioni alla Ca-
mera lamentando la troppo^ rapida carriera degli uffi-
ciali delle armi combattenti sopratutto in confronto de-
gli ufficiali della sussistenza e del commissariato. Ma-
— 174 —
cabro, roinorevoile recriminante; che dovrebbe anche
ricordare l'apologo trilussiano : (( La promozione è certa,
e t' assicuro' — perchè me so' magnato er capitano! ».
Un terzo onoreivole lamenta che non sia considerata
campagna, con tutti i nastrini e le iindennità e i com-
puti economici, la guamigiome in Ancona per le sue
fxequenti offese dal cielo e dal mare.
Vien qua, vecio, che oggi festeggi con Romanin
i tuoi sessanta mesi .filati di naja e se la ti va bene
fra altri dieci mesi sarai tenente con due anni di an-
zianità arretrata, e dal fondo della gavetta che il dot-
tore ci ha riempito di vino buono tiriamo fuori le nostre
meditazioni. Il soldato di fanteria (e l'alpino non è
che un fante più testardo e più solido), lacero, pidoc-
chioso, sudicio, confitto alla terra ed al fango che
rosicchia insieme alla pagnotta dura e al rancio freddios
e se passa la granata tutta la faccia su quel fecciume
per farsi più piccolo; che dorme fra un allarme ed un
calcio, serrato dai suoi aggeggi di guerra, a caso, sotto
la tenda, all'addiaccio anche se piove, anche adesso
che ottobre riammucchia la neve sul suo'lo — gratta
via la neve se vuoi fare un po' di fuoco, e sempre
quell'umide» addosso — ; che la sua guerra più belila
combatte il giorno di combattimento, ma gli resta poi
l'ailitra d'ogni ora col topo con l'insetto col vento con
le circolari che gili vietano di spogliarsi anche a riposo,
col cantiniere che gli ruba sul vino, con la posta che
si smarrisce; il fante non interessa gli onorevoli preo-
pinanti. E i tardi chiamati alle armi deprecano la sorte
di venire a far parte della purpurea fanteria così prò-
— 175 —
diga di sangue ; e chi speculò il volo dei velivoli ne-
mici dalle altane fiorite (è uscito adesso un libro di
Ezio Maria Gray che si può definire il libro d'oro
deirimboscatura italiana) vuole anche lui il suo soldo
di guerra e il suo nastrino sul petto.
— Diavolo — dice Romanin - — costa più la vita
in città che in trincea.
— Siamo figli di cani — dice il dottore — presi
a calci da chi dovrebbe baciare \e nostre pèste, e ma-
ledetti dai proleti.
E ci squinterna sotto il naso, edizione di Colonia
apud Naulaeum, 1679, la profezia di Ezechiele, la
maledizione del fante : (( Et projiciam te in terram,
super faciem agri abjiciam te : et abitare faciam super
te oiimia volatilia coelli, et saturabo de te bestias uini-
versae terrae. Et dabo oames tuas super mointes, et
implebo colles sanie tua. Et irrigabo terram foetore
sanguinis tui super montes, et valles implebuntur ex te. »
PARTE TERZA
" La plupart ràla dans les defilés noctumes
S' enivrant du bonheur de voir couler son sang,
O Mort le Seul baiser aux bouches taciturnes „
(MALLARMÉ).
30 ottobre.
Notizie tragiche giungono dalla fronte orientale.
Il nemico calpesta il suolo della patria, soldati gettano
le armi.
Qui, nulla. Vigilia che s'atted;ia di malinconie
burocratiche, attergati e circolari, pedanterie di co-
mcindanti nevrastenici, buffe pretese di superiori che
non sappiamo stimare.
Noe sappiamo più nulla di quello che succede. Né
posta né giornalli né comunicati, solo notizie sgan-
gherate arrivano, impossibili di successo o angosciose
di rotta. Ponti troncati, dietro a noi, ogni legame ta-
gliato, soli noi e il nostro aspro cornpito quando il
nemico urgerà. La solitudine fosca di questa neve é
tutto il nostro mondo ormai. Ma i soldati di Busa tutti
P. Monelli, Le scarpe al sole - 12.
— 178 —
friulani, e qualcuno dei miei ufficiali, Romanin da
Fo'ini Avoltri, Scarpa da Udine, De Fanti da Agordo,
ignorano tutto della loro famiglia; ma i miei soldati,
tutti cadorini e bellunesi, presentono il rischio che
batte alle loro case e si ladunano, a sera, sulla cima
più alta a intendere l'orecchio e l'animo verso quelle
lontananze.
O tu stele, biele stele,
va, palese il mio destin,
va, daùr di che' montagne,
là ca l'è il mio curisin...
Taciturnità alle mense, ricerca del grappino ma
solo per deviare le idee, impressione di inutile di tiri-
site d'irrevocabile — come quando nel poraeriggioi di
inverno giunto- sotto la cima scivolai sul ghiaccio liscio
fino al fondo della parete, e mi toccò ricominciare
l'ascesa.
9 novembre.
Senza combattimento dobbiamo abbandoinare le
belle linee munite, gli appositamenti, tutta la nostra
opera di tre mesi, le baracchette in cui già si pregu-
stava l'ovattato assedio della neve.
Stasera nevica con infinita tristezza, senza vento,
sulla linea che s'ammanta dii suprema bellezza — per il
commiato. I soldati miontano taciturni per l'ultimo turno
79
Ji trincea. La notte è già corsa da bagliori improvvisi;
i soliti incendi delle ritirate. Come l'anno' passato.
10 novembre.
La nevicata ha cessato. Tutto il gforno, nel deso-
lato disordine delle cose che si abbandoinano — ■■ mar-
cia tortuosa — brontolando, noi e le truppe a cui si
passa d'accanto, perchè non si capisce l'abbandono di
tanto terreno — tesO' l'orecchio, invaino, a cogliere più
che rare fucilate di pattuglie — ripieghiamo su posi-
zioni più arretrate, linea erta di monti senza trincee.
Cii si accampa, a sera, fra Ja neve, sui fianchi del monte
Tondarecar.
/ / novembre.
A mezzogiorno, si levano d'improvviso le tende.
Pare che il nemico abbia rotto più a valle. Sotto, alpini
delle ore tragiche, per turare il buco! Mollare tutto, le
casse di cottura, le tavole racimolate, la terza coperta,
ma far presto, far presto. Giù a rompicollo.
A valle buone nuove. La falla è stata chiusa per
opera del battaglione Verona: ci ha lasciati tutti gli
ufficiali, ma l'ha chiusa.
Foza fangosa. Dove dormiremo stanotte } Intanto
ci cacciamo dentro alla sussistenza. Se si deve perdere
il paese, rubiamo noi prima dei cecchini. Io nascondo
— 18Ò —
sotto il cappotto un sacchetto di zucchero che mi ad-
dolcirà gli atroci caffè di Bordoli. E i soldati rubano
le scatolettei dir came.
Il fato è buono. Dopo un'ora di marcia si giunge
ad una casa, fra pareti di muro, davanti ad un enorme
focolare su cui arde il ceppo della leggenda.
Buona sera, signori della Presidiaria. Voi ci offrite
l'ospitalità e noi vi mostriamo^ le nostre f accie allegre
di combattenti in vacanza.
Centelliniamo il riposo davanti al focolare. Ma a
crepuscolo allarmi. Faticosa marcia sotto la neve; si
giunge nella tormenta alle falde del monte Tondare-
car, si accampa nella neve e nel pacciume.
ì 3 novembre.
All'alba, ordine di andare in linea con la compa-
gnia sul monte Tondarecar. I buoni soldati del genio
hanno cominciato a costruire un reticolato' proprio sulla
cresta del monte. Campo di tiro, zero. Rifaremo, non
è vero ? Fare e disfare è tutto un lavorare ; ma voi
farete le schioppettate con noi se sarà necessario. E
sarà necessario. Che ho quattro uomini ogni cinquanta
metri.
— 181 —
Nella luce livida doloroso scenario delle alpi che
furono noistre e che ora it nemico possiede. Ma dove
urterà contro il nostro dolore e il mostro rancore, non
passerà.
15 novembre.
Non è passato.
22 novembre.
Nemmeno oggi è passato. Dopo la furia del bom-
bardamento su queste linee appena abbozzate, il ne-
mico ha ritentato lo sforzo con vanità d'assalti tenaci.
E anche oggi, morti su morti ha lasciato, nel bosco,
nel pianoro scoperto, fra i sassi, contro i reticolati.
Le mitragliatrici radevano la trmceetta bassa sul
cucuzzolo — ma appena il rischio s'allontanava, fuori
le teste i miei alpini ostinati, a cercar il bersaglio. E
De Fanti teme che si siano radunati nemici in an-
golo monto sottO' il reticolato, e balza in piedi fra una
raffica e l'altra sulla trincea e butta — e colpisce nel
vivo — bombe a mano lì sopra, barba al vento, deci-
sione d'eroismo stampata sulla faccia. L'altra ootte
udimmo gli urli delle donne 'di Enego, quando v'entrò
l'austriaco — e De Fanti pensa a sua madre e alle
sorelle rimaste nel borgo cadorino e una volontà in-
flessibile di vendetta gli segna la fronte.
Ahimè, ho paura che stamattina non sì mangi, né
ufficiali né truppa. Il vecchio Gallina ha mollato me-
stolo e forchetta, eid eccolo qui alle fucilate, e dove
mira, azzecca. E Ceschin ha lasciato laggiiì le casse
— 182 —
di cottura ed è venuto a cercare un fucile, e quando io
mi meraviglio dii vederlo qui e gli faccio i miei elogi,
mi guarda attonito, meravigliato lui della mia meravi-
glia.
M'arrivano i complemeinti in limea.
PerclKè dice il generale: Voi siete truppe aolide,
quindi resterete in Imea ancora un poco; il cambio^ —
in Italia, sapete, con vino e con donne ! — lo avrete,
ma più tardi.
E questi bocetti del '99 che Han le famiglie che
son rimaste di là, e tremano di freddo la notte perchiè
hanno solo una coperta e schizzan fuori dallla tendila
venti vdlte a far le corse per scaldarsi, questi bocetti
sono pieni di buona volontà, e già battezzati dal san-
gue, perchè imentre venivan su a gruppi ci batteva den-
tro l'artiglieria nemica dal Lisser.
Ma poiché c'è un tenente colonnello che non vuole
andare sotto un altro tenente colonnello, e c'è poi
quello che rimarrebbe senza rebbio, e se lui ci ha il
suo settore lo voglio anch'io, così si scompongono i
gruppi, si ricompongono, dividono il fronte in settori
e in sottosettoiri , si prende il nostro battaglione, si dice :
Cavati di lì e vai in un altro settore, se no il conto dei
settori non torna più. Amen. E ci porteremo in linea
sotto Castelgomberto,
— 183 —
Speravi <li andaire a riposo in Italia, alpino bron-
tolone ? Ma quello — lo ha detto il generale — è il
premio alle brigate poco solide, che a tenerle molto
in linea c'è paura che mollino.
C'è ancora vino nel barilotto, c'è ancora fede nei
cuori e forza nelle gambe ? E allora via la malinco-
nia, ragazzi. Il vostro capitano vi racconterà stasera
com'era bella la sua amica bionda il giorno di maggio.
Antri trogloditici, stillare delle pareti umide. Reu-
matismi .
Pace, finalmente, dopo il tambureggiare di tutto
il giomo, e felice Porro che va ferito all'ospedale...
che non lo intrappoleranno lui, come temiamo per noi.
Nel mare di corallo e di viola della sera si sommergono
le alpi peridùte, si attenuano le dolomiti di fiamma.
Sul morite Grappa i bagliori del lungo bombardamento
assumono una nitidezza di stelle sull'azzurro del monte,
quasi spoglio di neve in questa ostinata primavera • —
alleata del nemico.
L'esaltazione del mio posto di combattente d'avan-
guardia, sempre, nelle ore più gravi, stasera cede ad
una stanchezza un po' grave, fatta di presentimenti, di
— 184 —
nostalgie, di ricordi suscitati senza sforzo dall'ora di
viola e d'azzurro.
Non c'è più, in me, da un pezzo, la presuntuosa
certezza di sopravvivere. Troppo si prolunga la guerra,
troppi se ne sono andati e se ne vanno ogni giorno per
la via tenebrosa della rinuncia. La vicenda è eterna,
con giuoco contiguo siam presi dentro nella macina e
ri sputati fuori per esserci impigliati di nuovo più tardi.
Stanchezza e terrore di questo destino ferreo' — stasera :
come fossimo già morti e solo c'indugiassimo ancora su
questo mondo nella speranza d'una resunezione impos-
sibile.
Presentimenti.
Dice il capitano Busa : — Dòman quei che xe sul
Tohdarecar i lo perde, mi vago al contratacco, sparo
sora a lori e ai todeschi, e ghe lasso la ghirba.
Uno dei tctnti presentimenti — perchè indugiarcisi
sopra col pensiero? E col suo soniso un po' stanco
sul volto scarno e solcato da trenta mesi di guerra, at-
tinge vino dalla grande zuppiera posata a terra, nel
circolo dei suoi subalterni e di noi ospiti, seduti alla
turca sui sacchipelo. E racconta le sue piccole disav-
venture, sottolineate dai gesti eloquenti, già dimenti-
cando tristezze e previsioni.
— EI vegna qua, Casagrande, el beva un goto.
Nane, porta la tazza degli ospiti all'aiutante maior.
E Casagrande riceve dal sorridente Nane la tazza
degli ospiti, in cui un bocetta del '99 si annegherebbe,
ed ove ondeggia un rosso mare di vino.
— 185 —
— LotÌ i me tira i granaton, capisse — continua
Busa con una portentosa ricchezza di mimica — e un
de sti mazzai de granaton el me ciapa in te la tenda.
In te la tenda gavevo ©1 cofano de cancelleria, el tele-
fono, e'I caratel del vin. El me lassa star eJ cofano
che podeva ben andar a ramengo, con le so scartoffie,
el me lassa star el telefono che '1 ghe serve a lu, per
romperme sempre l'anema, e nossignor, ostia, el me
ciapa propri sul caratel del vin.
Costernazione.
— Ma ade so go fato far na gal ari a sul de drìo,
e in fondo alla galaria ghe meto el vin, che se i code-
schi voi ciaparlo bisogna che i me tira le granate col
rampm che marcia a zuriick.
4 Dicembre.
Alpini di Castel gomberto, noi lo sappiamo tutti,
nevvero, che il nemico noi lo abbiamo respinto, che
sconvolse con le sue artiglierie le trmceette basse, e
tentò di sorprendere le nostre guardie. Mfa il nemico
ha rotti i fianchi più deboli, le truppe sulla noistra
destra si arrendono, siamo avvolti e minacciati da tre
lati.
È l'oiTa : quella che^ io presentivo, pur riluttante, diali
mio primo giorno di guerra. Pare che tutto il passato
di lotta e di angoscie e di sforzi confluisca con enorme
violenza ad un solo punto definitivo e tragico per
vivere il quale tutto quel passato non fu che un'attesa
— 186 —
necessaria. È il momento in cui la vita non è nulla
e la madre è dimenticata e il viso di un morto ha la
promessa di un'uguale pace al tuo smanimento. Ma
il rivoletto di sangue dalla fronte del caporalmaggiorte
e le parole concitate del sottotenente s'intagliano nei
sensi, afferrati con nitidezza di percezione, incasel-
lati per il ricordo etemo.
Il capitano Busa parte con tutta la 300.^ per ten-
tare di chiudere il buco.
Ma adesso gli ho addosso io.
Corpo a corpo. Sbalzi successivi, difesa disperata
delle mitragliatrici. Sei morto anche tu, vecchio Altin ?
Io t'invidio.
Intorno a Castel gomberto formiamo la linea defini-
tiva. Di qui non debbono passare pm. Qui ci son penne
d'alpini, perdio. E il nemico cede, e si accontenta di
sgranare su di noi le sue mitragliatrici.
Lontani, nel bosco, sempre più poveri di voci, i
(( Savoia ! )) della eroica 300.^, che combatte la inu-
tile lotta ineguale, che si dissolve. Ed ecco Tarchetti
arriva, l'adolescente meraviglioso, e ci dice che anche
Busa è morto, schiantato da uina pallottola in fronte,
eroe sereno, gaio compagno da diciotto mesi della
mia guerra. Io lo invidicr, stasera.
Ed una ragione di rabbia un poco umoristica fra
il grande smarrimento angoscioso: il nemico s'insedia
alle nostre mense preparate, mangia il rancio pronto
— 187 —
dei nostri uomini : e noi ci tiriamo la cinghia. Ma con
tiro a segno preciso i piij imprudenti che mettono il
naso fuori dalle caverne sono mandati a gambe all'aria.
Scende la notte gelida, ventosa. Giungeranno i
contrattacchi sperati ? Intanto, senza cibo, senza co-
perte, senza ripari, tenacemente aggrappati alla mon-
tagna, attendiamo che il nemico avanzi.
5 dicembre.
Tutti gli attacchi notturni del nemico sono dispe-
ratamente respinti. I soldati hanno fame e gelano nella
notte rigida, ma finché le mani intirizzite reggeranno
la baionetta, si colpirà.
Un i^ievare di iluna neghittoso sul bosco brulicante
di insidia, gemiti di feriti, doloroso siilenzio delle
lontananze, donde si attende — invano — il grido
della riconquista. Le pattuglie inviate a cercale col-
legamento sulla sinistra non tornano pm : anche di
lì c'è il nemico', che ci avvolge da tutte le parti. A
tratti, sghignazzano sinistri nel bosco gli spezzoni di De
Simone. Diieci casse ne abbiamo, dieci casse dobbiamo
vuotarne suil nemico, che la notte sia d'agonia e di
terrore anche per lui.
Con l'alba, batter di mitragliatrici su di noi, e
sempre l'inutile attesa. Il sottotenente morto dorme ac-
canto a me immobile e indifferente, e invidio quel suo
sonno irrevocabile senza la visione del crollo' enorme,
— 188 —
del disfacimento, lui morto nella rabbia del contrat-
tacco quando una certezza di vittoria dirige gli atti
temerari.
E fame, e sete, e il freddo notturno che ci lega
le membra.
Ma poiché non si mangia e non si beve da qua-
rantotto ore, e non ci sono più cartucce, e siamo pochi,
il destino chiude l'atto. Cala il sipario.
Lacrime amare, e uno strazio così forte che si ha
il senso che nemmeno la morte l'annullerebbe. (Il
viso di mia madre in fondo alle decisioni più dispe-
rate — e scaravento la pistola nel burrone). E vedo
piangere i più vecchi dei miei alpini, reduci con m^e
dalle battaglie della Valsugana e del Cauriòl, da tre
inverni di guena, dal carnaio dell'Ortigara, super-
stiti d'una lunga serie di morti per tutte quelle valli
e quelle cime perdute. Non so il nome del soldato che
dice , accanto a me :
— Cossa che dirà me marfe !
Ma il suo volto vedo, arso dal fiato della batta-
glia, illuminato dalle lacrime.
È per questo che ci avete tolti dal monte che noi
avremmo saputo difendere, e ci avete cacciati in que-
sto culo di sacco, gente gallonata ?
E questo è il premio alla tua guerra, buon alpino.
Nemmeno trenta mesi di guerra ti danno il diritto di
— 189 —
continuarla. E adesso morrai di fame, dannato alle
compagnie di lavori forzati sulla fronte nemica.
Melanconico corteo verso le retrovie nemiche. La
fame atroce sovrasta beneficamente al dolore. A buio,
ci mischiano con un'orda enorme di altri prigionieri ;
fra quelli, quanti sono dhe alzaron le mani senza com-
battimento ?
Le bestiali necessità del cibo e del riposo supe-
rano ogni senso di dignità ; già soldati si scrollano di
dosso il fardello della disciplina, gettano contro l'uf-
ficiale il loro odio, il loro rancore, la sodisf azione
d'esser prigionieri.
Mezza scatoletta di carne a mezzanotte per viatico
sufficiente per il domani. Continua la marcia fra le
povere retrovie nemiche : drappelli di territoriali ema-
ciati, allampanati, sbrindellati — ci sono gobbi, c'è
un nano ripugnante, ride con tutti i denti allo spetta-
colo che gli diamo — carrettelle sgangherate, carogne
di muli, a cui soldati famelici rubano la bistecca.
A Portule, dinanzi alla fontana, scene di pigia pi-
gia, un pugno nello stomaco dal soldato, provati a rim-
provercirlo, risponde che disciplina è roba che andava
bene di là, parapiglia da trivio e da bordello: e al
passaggio tronfio, ilare, l'austriaco obeso dinanzi alla
turba informe dei prigionieri, uniformi lacere, senza
fregi, teste nude perchè troppo pesante l'elmetto, stel-
— 190 —
lette barattate per una fetta di pane, mostrine strap-
pate al momento della resa.
Fame. Stamane alla partenza un pugno di gai-
lettine e una tazza idi caff è -surrogato ; alla tappa — un
malinconico pascolo, baracche fra alberi densi, fu-
mare della sera fredda da quinte oscure di monti —
uin po' di brodaglia al sego e un velo di pane.
Si dorme nella baraccherà pidocchiosa — poi il
giorno dopo, alba di fame, e marcia, ancora, dell 'orda
sgangherata, vigliaccherie ed insofferenze, la disci-
plina scomparsa, solo un'ansia di cibo e di riposo.
Alle due del pomeriggio in fila, come mendicaTiti alla
porta del convento, per ricevere un po' d'acqua nera
e tepida e un quarto di pagnotta, il sottotenente davanti
a te ha i tuoi stessi diriiti, ma lui se ne prevale, pro-
voca con ostentazione e chiede l'approvazione dell'au-
striaco, questi interviene con superiore degnazione a
far giustizia — - è così forte l'umiliazione e la vergogna
che i morti liassù sulla montagna contrastata sono ri-
pensati con accorata invidia.
Il solito giaciglio alla sera a Caldonazzo, cameroni
luridi, gelidi, pidocchiosi - — senza cibo.
La fame accende gli occhi', snoda le lingue a discorsi
incoerenti. Rinchiusi nel casone sporco, ci si sperde
per i cortili in cerca di insperato: un oroloigio barattato
per mezza pagnotta pare un affare d'oro, recrimina-
zioni perchè il barattante non ha più pane da cedere a
quel cambio.
— Ì91 —
Poi ci danno il caffè, e più tardi una mezza pa-
gnotta nera e fetida, che arresta istantaneamente il co-
raggio di mangiarla quando i primi bocconi hanno
quietato un poco la brama.
E dà nuovo in marcia. Gli austriaci ci incitano a
camminar rapidi per giungere a Trento con la luce.
Più presto arrivate, più presto mangiate. Ma no, uon
avremo Tonta di traversar la città sacra di giorno, di
portar questa abbiezione sciagurata fra ili dolore e l'ar-
fore dei nostri fratellii trentini. A buio v'entreremo, oc-
chi aridi nella speranza di non vedere in quelli dello
spettatore il rimprovero, o la domanda angosciosa a
cui non si saprebbe rispondere che con un singhiozzo.
E trasciniamo lenti le gambe stanche, affrettando nel
desiderio l'oscurità.
Già le montagne si serrano, la sera vapora dai
fianchi dei monti e dal fiume invisibile. Isitintivamente
tutta la colonna informe si riordina, ammutolisce, nel
silenzio lugubre fruscia solo il passo di marcia lento
e composto, come se seguissimo il carro funebre d'un
nostro caduto. Gendarmi a cavallo vengono ad incon-
trarci e si mettono alla testa ed ai fianchi, caracol-
lando; riflettori battono le strade, non si sa se per
sorvegliarci o per mostrarci. Taciturni, nella città ta-
citurna, sfiliamo fino al Castello.
Comincia il rosario dei giorni sgranati con atonia,
ascoltando malinconiosamente la nostra fame, le nostre
memorie. Il carceriere che impiccò Battisti, sinistro
— 192 —
con il suo mazzo di chiavi, lungo mantello nero fode-
rato di rosso, pancia rotonda e sodisfatta — il cortiletto
lugubre e il pacco di mele gettato giù dal muraglione
da una coraggiosa signora (ma sotto accalcarsi nell'avi-
dità del bottino, lo stesso brulichìo prepotente dei polli
nella stia a cui Bordoli gettava i ritagli di carne) —
viaggio notturno in treno per il nord, e sempre un ritmo
uguale di fame — arrivo a Franzensfeste, una baracca
un po' pm comoda, si può comperare della marimellata,
visi si rischiarano nell'ebete beatitudine di chi s'ap-
presta a gioire della prigionia se avrà la pancia piena.
Ormai non più meta al desiderio, non più tene-
rezza di ricordi, un'uguale tristezza senza conforti,
nella miseria quotidiana d'una vita che oscilla come
un pendolo fra due fuochi, fame, tedio. E dapper-
tutto un capovolgimento di valori, non più traccia di
dignità negli uomini, dall'ufficiale che sii mette la terza
stelletta per togliere il pagliericcio al tenente, ai pri-
gioni eori russi che vendono il loro pane e poi vanno a
razzolare fra il pattume e divorano le buccie di mela
e i rifiuti delle cucine. Par che la fame debba giusti-
ficare ogni bassezza, viltà si manifestano, oi&tentate con
cinismo per^chè sembra che il ventre vuoto abbia pri-
vilegio sulla nobiltà della coscienza.
11 venti dicembre arriviamo al castello di Sali-
sburgo — truce caserma con muraglioni a picco sulla
vetta di un colle scosceso; senza sole, rabbrividendo
di freddo per le sale vuote. Dalla nebbia e dalla neve
venta su di noi, con l' inverno boreale, un accoramento
— 193 —
di ricordi nella riccirrenza tradizionale del Natale.
Ma nel ritmo della noia esasperata dalla fame nessuna
dolcezza batte alle porte dell'anima chiusa nel suo
rancore.
Ma se leggo i bollettini della nostra guerra nella
traduzione dei giornali tedeschi, ecco, i nomi dei su-
perstiti battaglioni gonfiano Tanimo, citati nella di-
sperata difesa del suolo della patria, i buoni alpini
serbati all'ultima fortuna, ancora abbrancati alla roccia,
ancora stri-ecianti all'attacco, e liberi, ancora, liberi,
essi, col diritto al fucile ed all'orgoglio di contenere
il fiotto degli invasori. Dove saranno i miei, trascinati-
in carovana mista per altro cammino ? Lo so già. I
muscoli buoni e la tradizione gli hanno additati al
nemico, che gli avrà inquadrati nelle tragiche compa-
gnie di lavoro, scavar trincee e demolir baracche sotto
un Feldwebel brutale, e la sera un quarto di pagnotta
e un pugno di crauti freddi, poveri ragazzi, e pensare
che comperavan tutti il supplemento di pane perchè
il rancio non gli bastava — finché dopo- sei mesi, sfi-
niti, snervati, stroncati, non siano cacciati in un ospe-
dale di tubercolotici russi a prendervi lo stesso male.
Questo sudicio mucchio d'ufficiali che sfila sotto
i vostri dolci occhi profumati di violette, fanciulle sali-
sburghesi, non pensa ad insidiare il vostro cuoricino
di buno. I signori ufficiali non pensano che alla loro
P. Monelli, Le scarpe al sole - 13.
— 194 —
fame. Dal fiume che trascina ghiaccioli vorticosi va-
pora un'aria fredda e malandrina che fruga nella pan-
cia vuota. Fortunati i pidocchi che ne hanno sempire,
di noi. Ma adesso la va male cuiiche per loro perchè
ci portano alla sipidoc chi atura fuori porta, baracche
fetide, crocerossine provocanti che misurano la nostra
magrezza con occhi esperti. Ma quando due austriaci
deposero in un angolo del cortile un marmittone con-
tenente gli avanzi del rancio, ci siamo buttati su quel
beverone ignobile a contendercelo, come porci.
Quello furbo che sgattaiolò in cucina a farsi dare
dalla crocerossina rossa del pane bianco, dopo, lavato
a dovere, con la coscienza ilare per quella awenturetta
riuscita bene, intona sulla via del ritorno la stupidità
d'una canzone petroliniana. A mezzavoce, ma chiara-
mente nel silenzio dei sobborghi intirizziti. L'ufficiale
di scorta dondola la testa accompagnando il ritmo, I
rari passanti si fermano a guardare :
— Die Italiener.
Vedo i loro pensieri : maccheroni raffaello man-
dolino piume di bersaglieri caporetto. Lascia correre,
Casagrande. Del resto, che cosa è oggi per noi la
patnia, se non l'odio per questi aguzzini e l'onta di
doverceli tenere sul gobbo ^ E non guardiamo troppo
quelle nuivole sgambettanti così rosee sul muso delle
montagne e così alte da vedere i nostri monti, laggiiù.
Anche fuggire non serve, pur se l'impresa cominciò
con buoni auspici di romanticismo e 1848, calarsi con
— 195 —
lenzuoli anncidiati la notte òi capodannio per i mura-
glioni a piccO' dei castello — pallore di luna sul bosco
ghiacciato, ed ebbrezza di empirsi i polmoni d'aria
gelata e non contesa, lungo il fiume vorticoso.
Poi ci acdiiapparono, colpa d'un manovale ze-
lante. Al ritorno, ammanettati, inquadrati dalle baio-
nette, ci attende un'accoglienza esterrefatta da parte
degli ufficiali austriaci e della loro ciurma. L'aiutante
maggiore è brutale e violento. Una prigione, per que-
sti ribelli, la peggiore, puzzolente, non s'accende la
stufa, il rovaio soffia dai vetri rotti, magre coperte
pidocchiose, un secchio in un angolo della stanza che
sia il nostro cesso. Poi due giri di chiave alla porta ;
e dalla segreta spia la sentinella.
Adunate di pidocchi sui corpo; la mattina che ci
Sii sveglia macolati per quel dormire sulle tavole si
scende in caccia, i più grossi ce li mostriamo a vicenda.
I colleghi hanno la diarrea ; ma il secchio il carceriere
ce lo vuota solo alla sera. Atmosfera grave e fetida,
uggiosa costrizione, dalle finestre chiuse da sbarae e da
una rete solo imo straccio di cielo sporco che si sfi-
laccia in neve.
Nella prigione e* è un fiato
grave, sui vetri arabeschi
di gelo, o bravi tedeschi
questo è un pidocchio croato.
dei vostri, porta la croce
nerastra sopra la schiena
come ne avevo ripiena
la maglia al Cauriòl atroce.
— 196 —
ma sopra i vetri la danza
della neve tacita chiama
ad una tacita lama
vestita di lontananza,
che nel dubbiore lunare
blandiva la trepidila
della fuga, l'ansia d'andare
soli verso la libertà.
Il territorialone tirolese dall'eterna pipa che cion-
dola giù idalla barba nera fino aìl' ombelico, stasera
ha guardato impietosito le mie mani gonfie pel gelo,
m'ha fatto uscire, m'ha condotto furtivamente nella
cucina calda luminosa soave — e m'ha fatto dare dalla
vivandiera una tazza di brodo bollente, borbottando
parole gentili nel suo dialettaccio.
Ci voleva questa notizia per deviare il corso esa-
sperante delle idee, fame più accidia più angoscia,
che fa dei volti dei miei colleghi rimasti (due sono an-
dati airospedale) due maschere da morto. Chi sa
com'è il mio. Ma quando il colonnelloi austriaco ci
annuncia che al nostro maggiore caduto prigioniero con
noi, difeso da noi, è stata concessa la sciabola pur
nella prigionia per la salda difesa del suo battaglione,
del nostro battaglione, e borbotta poi poche sillabe
dii rallegramento — Alpini, ja, tapfere Leute, bravi,
bravi — (però ci lascia dentro), pare d'un colpo che
le pareti della prigione svaniscano nell'aria e intomo
— 197 —
a noi sia ancora l'odore e il rumore del combattimento
e l'ebbrezza di esser uomini liberi in lotta, ancora la
possibilità di decidere e di scegliere, e attorno i morti
felici abbattuti nella speranza della vittoria.
Gagliotti dice : — CapitaTio, se avessimo del nostro
bianco di Col San Martino per brindare alla notizia !
Ma non abbiamo nulla. Faremo comperare al car-
ceriere buono, il tirolese dalla pipa ciondolante, dieci
corone dii marmellata, berremo l'acqua della brocca;
e il colonnello austriaco dieve aver capito con chi ha
da fare perchè fa buttare nella stufa un po' di paglia
che è vero che fa un fumo acre che ci morde la gola,
ma -dà anche un poco di caloiie. Ci portano persino il
lume stasera. Bisboccia.
E Gagliotti ritrova in fondo alla sua gioia le
canzoni del tempo felice, e balza in cima alla panca
per ricantarle, come balzò in piedi sulla trincea il
15 novembre per gridare il suo dileggio agli Alpen-
jàger già vacillanti — quando era il più bell'ufficiale
che portasse penna.
Dove sei stato
mio beli* alpino
che ti ga'
cangia colore...?
L' è stata r aria
dell' Ortigara
che m' à fato
cangiar colore...
Righe nitide che adagio adagio con ferocia si
scompongono, divengono segnacci orrendi. Rampollare
— 198 —
di pensieri stupidi da un pateirpenisiero assurdb. II
passato è troppo belilo per oredejie di averlo vissuto,
il futuro lo s'iimagina troppo bello per sperare di po-
terlo vivere, questo presente è atonia di rimpianto del
passato o d'attesa del futuro. Vecdhia scienza. Clie
dirai con parole nuove ? Io vivo sempre dentiro ad un
attimo solo, sempre quello, che si trasforma di riflesso
per le mutevoli apparenze die gli sfilano dinanzi. Per-
ciò la vita è così breve. Innanzi a me incatenato al
presente come il paralitico alla poltrona, innanzi a
me immobile sfila un cinematografo d'aspetti, e lo
chiamo la mia vita. Intanto vengono i capelli bianchi
e mi rivolgo già indietro — disperatamente — a ri-
chiamare la bella giovinezza. Altra film, signori. Co-
mica, tutta dà ridere. Ma la mia giovinezza? Già
proiettata, signore. Domani nuovo programma.
Amore accorato disperato di patria sentito pei la
prima volta così forte qui nell'esilio coatto.
Favonio discioglie le nevi, pìriimaverilmente luc-
cicano i canali nella v^le già verde ed acerba, odor
di zollie fuma dal basso alla nostra tetra dimora. Il
sole e questo ripnovellarsi di stagione suscitano miuffe
verdi sugli stemmi episcopali degli archi sotto cui
trasciniamo il nostro tedio e le nostre iantasie di
lontananza.
Il Colone dei suoi occhi un mattino d'aprile, la
baracchetta dietro la trincea vigilata, battere con
scarpe lucide il imarciapieide bolognese, il tè nel caf-
feuccio ignoto della città ignota con l'amica sconcer-
— 199 —
tante — ich glaube, Vaterlandsliebe nerait man die'
ses tòri elite Sehnen.
Bisogna tentare di nuovo la fuga.
«Lungo è il cammino, ma l'amore è forte».
A sera, giù per i muraglioni, giù per la collina
scoscesa, valicato il reticolato, nel lume lunare, ancora
libero, verso la Patria.
E se dopo questi giorni di libertà sono riacchiap-
pato, ed ammanettato, e perquisito, e tramutato di
carcere in carcere fino alla mia vecchia prigione di
Salisburgo, porto con me tanta freschezza dì libertà
di cui abbeverai polmoni e sensi nelle notti di mar-
cia ! Nel candore lunare, per le strade ghiacciate, qua
e la rinviisibile rombo dei torrenti seppelliti dalla
neve, chiusa la valle dal puro diadema delle alte
cime, l'andare era leggero e trepido come un'ebbrezza
continua. Ho bevuto alle acque dei fiumi. Ho dormito
le giornate seppellito nelle foglie secche dei tabià,
nel fieno delle alpi, rabbrividendo talvolta per avervi
udito frugar dentro il forcone del Tirolese. Sono pas-
sato altre sere sotto un nevicare uguale e senza vento,
per borghi taciturni, ma dalle finestre illuminate una
malinconia della casa materna, di veglie tranquille in
patria stringeva il cuore fino a farlo dolere. (Chi ri-
troverà la figurina idi fanciulla che la sera a San Gio-
vanni in Pongau m'indicò — paurosetta — la via ?).
Solo per il grande paese ostile — - sotto la neve e la
pioggia — e senso orgo<glioso di dover passare così
— 200 —
a tutti ignoto, di spiare ai passaggi a livello, di valii-
car cancelli e superai recinti, vagabondo malinconico
e ostinato.
Ed ora, a guardarci Tombilico dei (rimpianti, an-
cora incarcerati.
Nei buffi del vento primaverile il vecchio castello
rabbrividisce ; sulle alpi bavaresi si versa un azzurro
tiepido da] cielo rigato' d'oro e di sangue. Promesse
fresche di primavera sulle isoglie della prigione, pal-
piti di ringiovanimento ^ulle torri merlate, sul coarti -
laccio cupo da cui aviidi di spazio à vecchi alberi ten-
dono fino a noi i orami piii leggeri, tardi a gonfiare le
gemme .
(( Li dà puntura d'amoine facendogli venire ascaro
della città sua, della casa, della famiglia e delli
amici )).
Partenza da Salisburgo, guardato minacciosà-
miente a vista da tre baionettone inastate. Nello stesso
vagone viaggiano — e m' arrivano' strilli e sillabe miu-
siccdi — amiche leggiadre di ufficiali austriaci intra-
vedute passando per il corridoio.
Il lago di Seekirchen. — Sehr roimantisch — ap-
prtezza la sentinella puzzolente che mi preme. Spec-
chio mal inconico sotto la cenere vespertina, deserto
di rive e d'abeti e di baracchette di legno fatte per
amoreggiarvi con Gxetchen : ciarpame sentimentale
che prende i sensi, tesi verso quella solitudine libera.
Il treno va fra boischi oscuri. Ma a tratti una fine-
— 201 —
strella illumiinata, occhio compassiomevoile da qualche
casetta bassa e quelle voci di donne dal coxridòio, di-
pingono un'umile dolcezza di focolare domestico, vi-
gliaccherie affettuose di rintanarisi nel cantuccio della
casa e non uscirne pili, attizzare in pantofole un buon
fuoco di legna in una cucina di mattonelle lucide
(come quella che vidi ai piedi del castello di Sali-
sburgo una sera nebbiosa, e mi parve che entrarvi, e
restaivi Libero, fosse il termine delila felicità).
Braunau di Boemia.
Neve e rigore di tempesta su questa landa boreale,
chiusa in fondo da monotone collinette boscose in cui
i reclusi con me riconoscono le pili odiate quote del
Canso.
Bolletta, lamento uguale di fame nel ventre; abi-
tudine a cibi disgustosi, ad occupazioni insulse.
Colleghi chiacchierano idi cose vane, versano egoi-
smo dall'animo gretto, s'adagiano nell'angustia di que-
sta vita; esultano, diffondono con entusiasmo se giun-
gano notizie di progressi nemici che promettano adunque
questa pace : con abbietto desiderio della patria che
per essi è mangime più donne più sfrenamento di
passioni.
Il cibo è la sola preoccupazione.
Chi ifuggì o alzò le mani è Ajace ora; o supina-
mente aimimira l'arvversario; o sgrana un rosario di
previsioni catastrofiche.
L'avvocato lavora al traforo delle assicelle di legno.
Ci si lavano le calze, le si rattoppano, teoria pi-
— 202 —
docchiosa di stracci attraverso la camera, nemmeno
il coraggio ài mostrare certi sbrendoli all' attendente,
dover stare a letto aspettando che la camicia sii asciu-
ghi.
Per alimentare le stufe si scoperchiano le latrine,
si disfanno i marciapiedi di tronchi; il buono austriaco
li riacconcia con tronchi freschi.
E pioggia lenta, e snebbiarsi delle nubi basse
sulla landa melanconica : acque morte e mortali su
noi, suir intelligenza, sulla volontà.
Risalire in pellegrinaggio frequente ai tempi lon-
tani, e trasalire di smarrimento all'urto di ricordi così
lievi! Colore di cielo, odore di rena, alito di vento;
mia madre, mio padre, il mio fratello morto, angoli
d'infanzia fuori del tumulto che s'assorda, oltre la
barriera della guerra che s'attenua. Come fosse pas-
sata invano questa passione su di me, e non m'abbia
lasciato altro dhe le gambe stronche e i nervi scossi.
Tu hai fatto i capelli bianchi, vecchio del no-
vanta, a questa vergogna delle baracche chiuse dai
reticolati e vigilate da sentinelle che rubano per fame
l'erba del fossato. Sono curioso se pensi alla dovi-
ziosa biblioteca del tuo studio quando con cura egoi-
sta malgrado il tuo buon cuore allinei nell' armadio
i sacchetti di riso ed i pacchi di pane. Oggi che
r accidia del pomeriggio è più grave per un tepore tor-
pido di primavera, tu (chiedi : Che cosa fare perchè il
tempo passi più leggero' ? E proponi di fare un risotto,
___™_. .. -, —203 —
Sei guasto anche tu. Queste veglie ossessionate
di fughe, la fame e le inostalgie, le ire chiuse, gli
sconforti desollati marchiano indelebilmente il nostro
corpo, ulcerano la nobiltà originaria delle nostre forze.
Odo con pfeoccupaaione voci che volevo per sempre
ignorare, scruto con apprensione segni nuovi ed elo-
quenti. Ricordi universitarii : ebefrenia catotonia ne-
vrastenia ; isgangherati pensieri ansimanti per tappe di
insonnia nelle notti lunghe.
Mi fanno mutare ancora campo (questo si chiama
Hart, ed è nel mezzo dell'Austria, e c'è là in fondo
una linea verdazzurra di monti orlati dal colore piìi
cupo dei boschi, da cui viene all'anima un odor di
pascoli, albe dai rifugi, !90ste nell' andar vagando
per i monti della patria), ma non muta il ritmo di
amarezza di fame di orrore della comunanza coatta.
È mutata la stagione. E già il sole arde sulle baracche
torride, che si mutano in serre propizie al fiore della
noia. Il reticolato, campagna attediata sotto il cielo
uguale, afa ed uggia nelle baracche ronzanti, sudore
d'ozio, vuoto nell'anima e nel cervello.
(Oh ma sul mare natio vele rosse, pigre, scafi lenti
che s'abbeverano d'azzurro; nudità fresche delle monta-
gne rabbrividenti di ruscelli ilari !).
Ed oggi è come ieri. Nulla muta. Oggi come ieri,
come domani. L'appello, la mattina, per le camerate
— 204 —
squalliide, l' ispezione la sera perchè tutto sia buio
nelle celle : fra questa parentesi l'inutile vita nem-
meno pili tesa verso un futuro che non si osa indagcire,
che penzola monotonamente aggrappata a ricordi im-
mutabili ed esasperanti.
Trepestio, calpestio per i conidoi infiniti delle
baracche congiunte, che prendono luce dal soffitto,
e s'ha talvolta rincubo d'esser già morti e seppelliti,
ca<laveri irrequieti, che escono dalle loro tombe a far
quattro chiacchiere negli ambulacri con gli altri de-
funti .
Odio per colleghi che raustriaco costringe a tuoi
intimi, vaporar di umanità fetida e gretta dai cinque-
cento rinchiusi, gregge affamato ed egoista, corpi ven-
tenni (dannati all'ozio e alla masturbazione. Né io mi
sento migliore, pur se pilucco con presunzione grani
dii saggezza qua e 4à, pur se una rossa veglia di com-
battimento irradia ancora e consola la mia umiliazione
d'oggi.
Anch'io ho appreso a giocare a scacchi ; anch'io
mi aggrappo talvolta al reticolato a soffiare il mio
desiderio sulle (donne che passano; anch'io cedo con
rammarico il mio chilo di riso alla mensa comune come
per un'elemoisina coatta. E chissà che non vada an-
ch'io a farmi imprestare dal collega il libro porno-
grafico.
Ancora un trasferimento — ma questo albergo di
alta montagna che c'è destinato, pur se prigione anche
— 205 —
questa, con divieto di passeggiate e con reticolato
intorno, apre alla vista un sereno paesaggio di monti,
di pascoli, di boschi; ed una gaia masnada di ser-
vette unte e sculettanti, una giovine e solida ostessa
ridestano istinti sopiti.
Qui, altoeno, qualche festa di cieli alla nostra
clausura. Sere che spasimarono in nuvole di fuoco,
rabbrividirono cupe in porpore cardinalizie sfioccanti
sull'arco dei boschi, si spensero in un velo violaceo
sul fondo della valle.
Sere dopo lill temporale, che truppe il cielo da
ponente, .ed un umido verde corse le cime i pascoli
le trasparenze, invase la stanza, fluì sul cielo tempe-
stoso (a quest' ora, sotto un simile cielo, Boloigna
arderebbe dolomiticamente nelle torri profondate sulla
foschia ideile nubi) — e pigri ranni echi amenti di neb-
bia (come prigionieri rassegnati) nei solchi delle valli
laterali. Ansia di camminare in libertà per boschi e
prati verso la meta magnetica.
Sere calme e fredde : tetto rosso, prato verde, cielo
violetto e luna gialla che leva dietro gli alberi grandi,
crudezza di colori come nell'acquarello giapponese di
Utamaro. Nel cuore un taglio netto, senza refrigerio
di sangue, spietato.
Sere d'oro uguale sulle ultime cime, mentre nu-
vole procellose cavalcavano^ per il cielo alto, e ferite
recenti fluivano in porpora viva. Poi quell'oro dive-
niva un caldo lampeggìo di ramie venato di giallo — -
crepuscoli di guerra sulle alpi di Flemme. E lo sta-
— 206 —
gno nel fondo ideila valle già mcinctona era un lucido
occhio fiso a quella festa dei cieli a cui s'affrettavano
dal mattino le felici nuvole libere.
Dunque solo colori di nuvole o eco dii campani
accoirati — non altro in questa lacunosa cronica di
sensazioni. E che altro ? I colleghi che blaterano per
1 pacchi viveri che non giungono, o ingabbiati dietro
il reticolato ululano la loro giovinezza inutile alle
donne che passano (la moglie del capitano di caval-
leria, bionda, provocante nell'abbigliamento dai co-
lori vivaci, occhi in caccia — la lattaia scapigliata,
unta e affumata, popputa e naticuta) ? L'eco delle
voci che giungono a stento, perchè anche leggerte i
giornali ci è vietato, e parlano di guerra e di tÌvoIu-
zione ? L'eco muore, ottusa, su questa spiaggia ma-
lefica.
Colleghi si son fatti, d'esser prigionieri, una ra-
gione di vanteria. Sciorinano l'anzianità di prigiooia.
Propongono le virtù del prigioniero iideale. Almanac-
cano uno statoi giuridico del prigioniero, con ricordi-
fonti dei campi ove sono passati, dei superiori austriaci
o italiani, delle bizantine questioni di mensa. Se il
salame cali per evaporazione della superficie. Di
quanto si asciughi la marmellata. Se chi non riceve
viveri possa acquistarne da chi ne riceve troppi.
Fanno della propria cella un salottino o un camerino
da saltimbanco (questo' dipende dal gusto: orrore di
camerette decorate con festoncini di carta cdl orata e
— 207 —
con rosette di cartoline illuolrate !) con una cura che
tradisce un ripugnante amore per questa dimora coatta,
e si fanno venire dall'Italia mille futilità mille chin-
caglie, e non c'è ansia di libertà o di patria nelle loro
parole se non espressa con desiderio di più lauto cibo.
E quando saranno tornati chiederanno che s'isti-
tuisca un distintivo per i prigionieri.
Non essere ingiusto (non spasimi anche tu, spesso,
di libertà per la pienezza d'amore che ti promettono
le sue cartoline galeotte ?). Ci sono i puri, gli sde-
gnosi, i frementi. Quelli che caddero prigionieri per-
chè la morte non è il terzo stadio necessario dopo
l'oioc austo e la fame, parche rimasero al .loro posto
quanto tutto d'intorno crollava, e non giovò loro ro-
vesciar pietre sul nemico dopo aver finite le cartucce,
ron giovò loro ritrarsi per aspre creste di montagne, com-
battenti inutili e oscuri per giorni e per notti (e qui sia
concesso al mio spirito di corpo ricordale i fieri bat-
taglioni del secondo alpini che difendevano il Rom-
bon, per i quali sembrano state scritte le parole del
Mallarmé: ai più rantolarono nelle gole notturne,
inebriandosi della felicità di veder scorrer il proprio
sangue, o Morte unico bacio alle bocche taciturne ») —
finché, non il nemico, ma la fame e l'innocuità del
fuoco li consegnarono alla tortura senza pari, ma la ferita
li pciralizzò sulle strade perdute, ma la rivoltella fallì
all'ultimo colpo che doveva annullcime nel sacrificio
supremo la vita. Adesso, fanno la cura.
— 208 —
Fare la cura vuol dire dligiunaire volontariamente,
o inasprire le ferite avute, o cacciarsi a letto tre mesi
per simular la sciatiica, o arruffar vita ed azioni per
fìngere la pazzia, e inocularsi veleni ben dosati, e
aspirar zollfo, e masticar caffè — per ri dune il proprio
corpo nelle condizioni sufficienti peoDchè i medici lo
giudichino invalidò, e tornare così in Italia; ma per-
chè il sole d'Italia e i cibi d'Italia cancellino subito
le traccie sirmilate, e si possa tornare ancora una volta
al battaglione, per Dio, idoive vivere è buono e ri-
schiare la vita è divino, dove si è uomiini e non bestie
ingabbiate, dove esalteremo questo violento amor di
patria che ci pare nato per la prima volta qui nella
terra straniera, suscitato dall'impotenza e dal rancore
e dall'oidio^
Suono di corno verso i boschi goffi
aggrappati alle cime violette.
Dal sangue delle nuvole che soffi
caldi a traverso le finestre strette !
Anima, rivedere il campanile
ili tagliato sul fuoco dei tramonti
dalla finestra aperta sull'aprile *;
contro un azzurro dondolio di monti,
le sere che veniva dai cortili
odor di donne e di risciacquatura
e cucivan le rondini con fili
ratti una coltre sopra il cielo oscura !
Caldi soffi di vento suU' accidia
della mia triste pubertà scontrosa
— 209 —
fantasticante una sicura insidia
per coglierti una volta, e paurosa
di farlo ! Scivolava sull' attesa
vana V anima con brividi molli :
ma tu, più savia, per la sera accesa
mi preferivi un altro su pei colli.
Ora egli è morto, forse sul Podgora,
forse ad Oslavia. Che gli importa adesso
se con più accorto desiderio ancora
tento la tua dimenticanza ? Ha messo
le scarpe al sole ; lo stroncò la bomba
sotto il groviglio dei reticolati
male abbattuti. Forse non ha tomba,
misto al carname degli abbandonati
fra due trincee. Lo penseremo un poco
- ma per vizio - le sere di languore
che saremo un po' stanchi per il giuoco
lascivo e triste del mentito amore ?
Una sera che il rosso delle torri
e del cielo e delle rose ch'essa teneva nel grembo
riverberò sul suo viso proteso segnato d'azzurro
in cerchio allo stupore degli occhi (laghi taciturni
rabbrividenti sotto la cenere del crepuscolo
e su la riva il focherello del bivacco
anima mai stanca di vivere in ciò eh' è passato) — '■
una sera che sazi d' amore, nelle vene il veleno
della stanchezza, e menzogna nei nostri
volti intenti a scrutare
le irrevocabili lontananze
dei pensieri dell* altro — ma invano, i silenzi
profondavano abissi
di vertigine — sole le rose
fiammeggiavano sincere sul suo grembo —
P. Monelli, Le scarpe al sole - 14.
— 210 —
pensai che il sangue dei combattimenti
accolto per il cielo si versasse
sul suo viso proteso, sul suo grembo
— il sangue delle sere combattute
che nuvole accorrono
all' adunata tambureggiata sul cielo
da invisibili mostri
ed un'accoratezza di viola
imparadisa le lontananze,
terra di morgana imbatufolata di nebbia —
che anzi io stesso con le mie mani impure
che avevano ucciso, col mio
cuore impuro che aveva
teso r agguato, col mio
corpo impuro che aveva
toccato i morti che aveva
dormito sui morti che s'era
accomunato coi morti
nell'immobile angoscia del bombardamento
che d'attimo in attimo
moltiplica la fioritura
rossa sulla carne distesa —
io stesso avessi polluta
di sangue la mia dolce amica. Non forse
rabbrividiva ora essa d' orrore ? Non forse
era atrocemente turbato
lo specchio degli occhi segnati da un cerchio d'azzurro ?
— ■ Già vidi cadaveri gonfi
verdi suU' acque immobili dei laghi
fissare con occhi sbarrati
l'indifferenza dei cieli.
— 211 —
Ancora una partenza. Se la serena vista delle
montagne aveva lenito, talvolta, lo spasimo, sii riaf-
fonderà più netto domani per la partenza, nel viaggio
sotto la scorta delle baionette, schiavi sotto l'occhio
curioso' del nemico — affamato lacero sconfitto, sì —
ma libero.
Air arrivo a Sigmundsherberg una zaffata che
prende alla gola di uggioso di nauseabondo di co-
stretto, che emana dai co^rridoi infiniti e puzzolenti,
dalla turba dei prigionieri, dalil'ininterrotto calpestio
d'un gregge affaticato a prdcur'ar cibo ed agi alla sua
povera vita vuota.
E non s'indovinano i puri, glli sdegnosi, i fre-
menti nella squallida folla che pullula nel baraccome.
Il mio vicino strimpella monotoaiamente per ore ed
ore sulla chitarra motivi da operetta, da osteria, da
folla domenicale stipata a prender il gelato s'una
piazza polverosa. Al di là della parete m'è ignoto
il viso, non l'anima del prigioniero esasperante. Non
il cielo bigio, non le case sfumate nella nebbia, non
la sentinella dietro^ al reticolato sono così tristi come
quel grattare. Attesa davanti a una porta sotto un
porùthetto fetido. Pomeriggi nei bordelli. Numeri del
lotto in un botteghino dei sobborghi blateroni. Caca-
ture di mosche su dolci stantii in una vetrina oscura.
Il mondo è corso ida bruvidi così profondi che
giungono anche al fondo della nostra prigione, lie-
vito di rivoluzione gonfia, invano soffocato, uno spa-
— 212 —
Simo di vita nuoiva batte anche ai camoelli nostri
e ci fa tendere nevrastenicamente le baracela nella
impotenza dello sforzo. Ma il mio vicino — e i cento
rediusi che isono^ come lui — non danno altea eco che
un chitarrare ansimante dietro motivi iidioti.
Ma s'è riaperta, proprio adesso, la scuola di ballo
— oscenità del don<lolio dei balli esotici senato nei
pantaloni grigioverde. E s'è fatta anche la festa da
ballo. E)d ha avuto successo il veglione — e pec-
cato non se ne possa fare un altro. Intanto si ram-
memorano i fasti 'dei vegilioni passati. Tu non c'eri ì
Cos'hai perduto ! C'erano dei maschietti del novanr
tanove vestiti da donna che si diimenavano sotto gli
occhi lucidi dei colleghi. Ci sono state delle scene
di gelosia, dei corteggiamenti. C'eran quelli che a far
la donna ci a^evan preso gusto, stavano tutto il giorno
seduti sulla finestra in spoglie fenìiminili a cucirsi diei
corredini trasparenti, e ci vetta van con i dami che se li
contendevano. Ci fu uno che andò al comando au-
straco a protestare perchè l' altro' non gli voleva più
bene. E alla sera, champagne e abbracci. Cos'hai
perduto ! .
— Non ci saresti venuto? Avresti fatto male. Di-
menticare bisogna, qualchevolta.
Già. Ma allora comperai del Tokai e mi chiusi
in camera con i due amici taciturni, e in fondb alla
bottiglia ritrovammo la nostra guerra scarpona e il nostro
ritroso orgoglio di combattenti.
— 213 —
/ novembre.
Libertà.
2 novembre.
Nebbia, pioggia lenta nel giorno' dei morti. Ma
chi pensa oggi ai morti, che i reticolati sono abbat-
tuti e la scorta è fuggita e abbiamo noi le sue armi }
Impressione d'essere stati turlupinati da questo
paese in isfaoelo che pur traballando sulle sue rotaie
ci ha tenuti dentro fino a ieri, e ieri mattina ancora
c'era un sorteggio per vedere chi doveva esser tra-
sferito ad un altro campo.
Non so come bevano la libertà inattesa i miei
colleghi. Faccie ilari per la sfangata nel paese e per
la ragazza brancicata dietro la siepe — facile eroi-
smo d'architettare una fuga per il paese che crolla
come una trincea di sacchetti che il fante riempì di
neve invece che di terra, rimane seppellito uno, il
piccolo posto resta allo scoperto, grida il buon bo-
sniaco dall'altra parte : — Se ghe fato mal qualche-
dun ?
Ma questa è storia antica. La guerra è finita: ed
io non ci sarò stato con gli ultimi battaglioni all'as-
salto, a dilagar per le strade note, a ricalcare il cam-
mino della cattività, a risalire le montagne della mia
vigilia e della mia fede.
— 214 —
E la libertà m'è un poco triste; amarezza di rim-
pianti è in fondo a questo senso enonme di sollieivo.
Creiamo adunque questo simulacro di riconquista,
battaglione armato nel cuore dell'Austria con le armi
tolte al nemico, picchetti e pattuglie, ancora le re-
golle dell'ordine interno e del servizio in guerra; fa
bene questo ni sottometter sii ad una disciplina nostra,
gli ordini chiusi scattano sul presentat'arm come una
buona molla che s' era lasciata inoperosa. Non e' è
ancora armistizio, sulla fronte ; forse domani — <ihe
sappiamo noi di ciò ohe avviene laggiù ? — un colpo
di fortuna ridarrà un po' di baldanza al nemico e al-
lora il giuoco sarà serio, per noi.
Armistizio. Stamattina, alla stazione, in un croc-
chio di solidati nostri, un ufficiale austriaco, gentile,
traduceva lin ansimante italiano le severe condizioni
del trattato.
Ma il treno di Vienna riversa una turba di gente,
uomini, donne, soldati, signorine, con sacchi e sporte,
che vengono a mendicar da noi pane e viveri e indu-
menti .
È la pace dunque. Claudite jam rivos. Quello
che pareva sogno imposaibile nelle veglie di trincea
s'avvera. A'ncora questa pelle appiccicata a queste
ossa sane, dopo la tremenda barriera, dopo la velie-
— 215 —
nosa gora della cattività che tanti buoni soldati ha
stroncato come la granata e la mitragliatrice. EA an-
cora la vita, davanti a me. Riappare dinanzi agli oc-
chi quel futuro che s'era abolito fino ad ora; di nuovo
una granjde strada per gli occhi rapaci dove prima un
reticolato chiudeva il presente ; di nuovo metter fuori
la testa e guardare le possibilità del futuro senza paura
di prenderci una pallottola.
Ritoma la vita con donne e ietti pigri e agio di
cibi. Tran-tran uguale che non prevede urti. Quegli
che accumulò con cura l'adipe intomo alla pancia
imbelle diviene ora simbolo del tempo nuovo ed esem-
pio a cui dirigere la meta e l'anima. La vita, non più
trarapellata alla giomata, e miraggio alla buona fatica
soltanto cibo e giaciglio asciutto ; ma agevole in cac-
cia tranquilla al denaro, dove quell'adiposo ha van-
taggio di corsa sulla magrezza di chi patì la guerra.
Turbinare di neve nella notte sulla landa glaciale.
E alla luce neghittosa dell'alba il piano e le ba-
racche candiide a gambe larghe fumano il loro tedio.
(Così, le mattine del novembre scorso, prima di
ficcare scarpe e fango nel saccopelo, un'occhiata intomo
a concludere la veglia notturna).
Sarà, questo, il nostro' male. O il nostro bene —
ma irrimediabile : avvinti al nostro ricordo^, in per-
petuo, e che ciò non divenga un supplizio' come
del vivo legato al cadavere. Come è possibile che
dalla trista vicenda di angoscie di sofferenze di atopa
attesa d' una fine qualsiasi — pace morte ferita —
— 216 —
così soave nostalgia si sprigioni che tocca con dita
lievi il cuore ed avvia per smarrimenti voluttuosi ?
È possibile. Un tronco d'albero con la sua barba
bianca (dcilla parte di tramonitana, una scia di luce
sulla neve uguale, una voce lontana die scivola sulla
taciturnità della landa; e momenti definiti del pas-
sato rispondono a quel ridiiamo : nomi di soldati morti ,
un atteggiamento di vedetta, un frusciare di pioggia
a crepuscolo sull'angoscia d'esser troppo pochi die-
tro il reticolato scarso.
Nostalgia.
Ma questo è tutto quello che portiamo con noi, il
nostro fardelletto di smobiìitati. Gli altri sono già
affaccendati nella vita che sarà anche la nostra di
tutti i giorni, la corsa al denaro agli onori cdle ca-
riche; alcuni s'atteggiano a combattenti, cm.ch'esiai,
usurpano la purità del nostro titolo d'onore e di su-
perbia. E fra noi e loro c'è un mare di merda. Biso-
gnerà dunque attraversarlo, idealista impenitente, in-
namorato del mestiere rischioso a cui ti avevano chia-
m.ato, fedele a un sogno di bellezza che ti faceva
respingere l'imboscatura come una rogna.
({ C'era una volta un soldato che tornava dalla
guerra, che non aveva per le tasche che tre solidi. »
Tre soldi avevamo salvato, tre sdldi di poesia di
bontà di sacrificio e dovremo gettarli nel mare fetido
per poi buttarci dentro anche noi.
E quando saremo di là, guarderemo in faccia gli
altri con occhi aridi, che non si velano pili. Non ce
— 217 —
la daranno ad intendere più. Parleranno ai banchetti
ufficiali le frasi rotonde della rettorica: ci saremo noi,
taciturni, in fondo alla tavoila, col nostro scherno
freddo. Proclameranno ai comizi i progetti utopistici
del capovolgimento, provocheranno al facile eroismo
della folla che abbatte un idolo: le nostre orecchie
vagheranno, accorte, 1' onda galeotta delle belle pa-
role.
Perchè amarezza è in fondo' al cuore, malinconia
indugia alle soglie delle nostre decisioni. Nelle veglie
di combattimento, dopo l'ubbriacatura della battaglia,
nella serie delle parentesi di riposo e di servizio, la
nostra vita era come un correr di razzi lungo le linee
notturne, alternativa di lampi e d'abissi tenebrosi, vi-
sioni improvvise di possibilità enormi spalancate —
strade di luce — alla nostra volontà, terrori brevi di
un potere immane fuor di noi che valesse ad annul-
lare ogni sforzo. Zone grigie dell'anima, zone neu-
tre dell'azione, eran pause rare e tosto superate in
quell'intensità di sentire. E non s'avevano né sogni
né rimpianti, ogni nostro senso era saturo del presente,
buono od atroce che fosse, e solo il gesto definitivo
era utile e solo l'attimo decisivo. Immediatezza, mo-
mentcìneità dell'azione — vanità di costruzioni ideo-
logiche, ironia di conclusioni illogiche da premesse
faticose. Pareva possibile il successo all'audacia più
imprevista, vedevamo poter esser negata efficacia alla
più meditata pedanteria ; crolli delle vecchie esita-
— 218 —
zìoni, tubo di gelatina della decisione che sconvol-
geva onorate reti di tradizioni e di dubbio. Una legge
sì c'era, ma fuori delle poveare previsioni, ma ohe
poteva essere sforzata dalla temerarietà d'un gesto,
cui non avrebbe piegato il normale senso comune —
legge d'intuizione e non di metodo, legge dispotica
e insofferente di compromesso.
Invano teste burocratiche cercavano d' incasel'lare
queir empito negli schemi uguali, colonnine specchi
avvertenze — traboiccava esso con il vigore e l'illo-
gicità della giovinezza, consacrava la bellezza idell'im-
preveduto, esprimeva il valore immediato delle virtù
del corpo e dell'esimo nell'esperimento quotidiano.
E pensavamo che questo dovesse essere il dono
perpetuo della nostra vita, moltiplicata nel ritmo, tesa
ad una meta al di là d'ogni termine ; e andavamo fìn-
gendo quelle jx>ssibilità enormi per il dopo guerra.
Non è così. Terminata la battaglia, accorrono- da
ogni parte i corvi ingordi e gli sciacalli pavidi e gli
scaraifaggi filosofi che si tennero in disparte e dicono:
Basta, la parentesi è chiusa, cerchicuno di trar il miinotr
male possibile da questa guerra, ripigliamo le regole
di prima, peccato che ci avete guastato tante istitu-
zioni e lasciato tanti debiti, bè, speriamo di rimet-
terci bene in piedi, per vivere adesso si fa così e così,
partenza e rotaie e stazioni e caselli fissati lungo la
linea.
E le vele gonfie dell'animo cadono, a un tratto.
Non sappiamo dire che cosa attendevamo dalla bella
pace, ma non è questo, ma non è questo.
— 219 —
Come quando- si cammina per una cresta agevole
verso una mèta magnetica, e ci s' apre d' improvviso
di fronte L abisso che non si può varcare. Sapevamo
che l'azione nostra soltanto era arbitra e fucinatrice
degli avvenimenti ; dal brulichio enorme alle nostre
spalle giungevano troppo- deboti voci, a noi solo intenti
al risonare della barriera ostile che per cote vamo.
D'un colpo, tutto è crollato. Attoniti udiamo il fra-
stuono del nuovo mondo, or che s'è fatto silenzio in
noi, e il cuore è gonfio d'edhi irrevocabili.
Vengono i piccoli uomini che noi urtavamo del
gomito durante i quindici giorni di licenza, e ci striz-
zano l'occhio.
— Poeta, hai finito di fare il poeta ? Ho una bella
bambina, per te, ed un affare. Oh Dio, la bambina
non è quella che ti mise le coma mentre eri alla
guerra, e l'affare è un po' sudicio. Ma se vuoi cam-
pare, devi prendere anche gli affaci sudici, e se volevi
ramoore fedele, non dovevi cindartene.
Viene quell'altro, in uniforme, e ti stringe la mano:
— Collega, siamo dunque colleghi, non ti ricordi ?
Ci siamo meritala questa pace. Ti rammenti Novaledo,
le alpi di Flemme, le Melette ? — Già, è vero. A
Novaledo c'era per copia conforme, alle alpi di
Flemme stava col carreggio, dalle Mlelette partì quando
cominciò il ballo. Ma adesso è nostro collega, e to',
ha anche il nastrino con la stelletta d'argento (mattac-
chione, nemmeno il bronzino gli è bastato).
Viene quello che succhiò dai testi tedeschi la
— 220 — "
scienza che oggi gli dà il titolo acicademico e il di-
ritto di pretendere più. lauto stipendio da quello stato
che non sentì il bisogno di difendere quando il rischio
batteva alle porte — doveva esisere ancorato bene, se
nemrmeno Cap cretto lo disboscò — e idiice :
— Che cosa hai fatto di buono ? Hai vinto la
guerra e il pane cresce di prezzo e lo zucchero scomi-
pare e il carbone non viene ^ ila Dailmazia non ce la
danno. Fesso, Vedeva la pena che facessi il fesso su
per la prima linea.
Ahimè — che viene poi quello che l'ottobre delia
sconfitta disviticchiò dalla sua nicchia, a cui una legge
oscena impoise il grado d'ufficiale suo malgrado, e
questa volta ha ragione lui, che può parlare di Piave
e di Grappa e dell'impeto per le forre conquistate,
lui iche alila guerra fu cacciato riluttante e ne sa solo
la bellezza e l'entusiasmo, con* il consentimento del
paese al tergo, con tutta la generosa ricchezza di mezzi
e di conforto d'una nazione che s'era finalmente de-
cisa a voler vincere la guerra. Tutto questo, e solo
questo ha avuto. E guarda con disdegno e con pietà
perchè noi non abbiamo questa guerra nel nostro pas-
sato.
L' altra, abbiamo. Quella dei reticolati strappati
con le mani o intaccati con forbici dà giardino ; quella
dei superiori che sfottevano e delle azioni fatte per
riempire un comunicato; quella lacera e famelica delle
ritirate da proteggere, o il gettito allo sbaraglio per-
chè il nemico aveva rotto e bisognava fermarlo a tutti
i costi ; quella delle vittorie ignote e delle ritirate senza
— 221 —
fine amare — quella senza turni dì riposo e senza dop-
pia liioenza, isenza decxìraziom e senza propaganda.
Ma quelli che tornarono dalla prigionia, ti parcarooo
nelle baracche dì concientramleinto sotto la guardia degli
altri soldati.
E viene anche la soave amica che promise finché
s*era lontani il dono meravigMoso e dice :
— Perchè tornate così tardi, voi di fanteria ? Tutti
gli altri sono tornati ; è tornata la cavalleria, è tor-
nata la fortezza. Troppo tardi tu tomi. E sai, tu non
pensavi che alla guerra, e io dovevo pensare ai fatti
miei. Ti presento il tuo successore. Oh Dio, non è
un guerriero, ma adesso che la guerra l'avete vinta ■ —
voi valorosi, che bravi ! — sono buoni anche quegli al-
tri. E poi, sai... è nrteglio che ti metta in borghese
anche tu.
Rattristarcene, colleghi che avete sentito tutti que-
sti discorsini quando siete tornati ?
Ma nemmeno per sogno. È giusto. È giusto che
chi non era con noi s'affanni a sminuire la guerra,
parli d'una psicosi di guerra, sfrutti la facile stanchezza
delle pcirolie eroe grigioverde trincea, ami considerare
la guerra come un'enorme mattana quattrenne da cui la
sua (Saggezza Io tenne lontano.
Ma noi che sappiamo di quanto hanno amputato
la propria vita, compassioneremo, soltanto, questi mu-
tilati, che strillano solo per coprire — forse — il ri-
morso, che si ricercano e si contano per trarre conforto
dal numiero &j deprecare piìi forte. E nemmeno ce ne
— 222 —
vanteremo. E nemmieno' li protvocheriemo . Vuoi caz-
zottare un cieco» perchè non ammira ii tuo quadro' ?
Un abisso ci separa, che mai nessuna comunione
di fede, nesisuna comunanza d'interessi ricolmerà. Gli
abbiamo' conosGÌuti. Sappiamo con che tremore si ab-
baibicarono alile ginocchia dli chi poteva tenerli lon-
tani, con quale minuzia scrutarono' i segni de'lile malattie
sofferte per trarne l' invalidità, con che cavillose rinuncie
tapparono orecchie e coscienze al richiamo' della vita
che veniva di dove il rischio la nobilitava. S'allegrano
di aver saìWato la pelle, e debbono soffrire che noi
pure (L'abbiamo riportata a casa; credono di averci
guadagnato in .salute e in dienaro, e non viedono quanto
ci hanno rimesso' in valore e in dignità ; pensano di
essere ancora buoni cittadini, e non s'accorgono che
furono nuli 'altro che disertori, disertori a freddò, di-
serltori senza nemmleno' la scusa di essere anarchici,
assai più disertori e più fucilabili — essi colti e sa-
turi di civismo — del montanaro selvatico a cui i ccnr
catti idi patria e di dovere erano oscuri , e f uiciJammo la
notte di luglio' perchè s'era soth'atto ali 'orrore d'una
battaglia dopo averla fatta per tre giorni — e dopo due
anrìi di guerra.
Ci gioiva ch'essi non siano stati con noi. Il loro nu-
mero e la loro mediocrità morale sono il piedistallo del
nostro orgoglio'.
--^Ma se ci incontreremo in due che abbiano battuto
lo stesso cammino, troveremo sempre un angoletto ove
223
trarre dail ricordo e dal vino chiaro il confor*to del buoni
tempi passati . Respireremo ancora il fiato delle abetaie
e della battaglia; richiamerfemo a banchetto con noi i
poveri morti dimenticati. (E quando quegli altri stril-
leranno le parole della grande Italia io veidrò sotto le
loro gambette, che non invischiò mai il fango di lassù,
il m/ucchio enorme dei morti — il teschio che ghigna
accanto alla carogna verdastra dell'asfissiato come nel
vallone dell' Agnelizza.)
Dimenticheremo per un poco, nell'evocazione, di
avere dovuto attraversare il mare di merda.
Non lo attraverseranno i miei alpini, per i quali,
dopo queste sborinie del congedamento in cui si cre-
dono incommensurabilmente felici, la guerra continua
— riprende.
Giora di poter comandare litri piìi litri all'oste che
era sergente maggiore e faceva scattare, ma adesso è
lui che deve obbedire al comando del congedando,
gioia di non aver la ritirata che aspetta, e poi uscir
fuoari per il paese quando c'è tanto vino anche nel
cielo, e persino le nevi deMe montagne sono colorate
d'i terzanello, e c'è la Gusella del Vescovà lassù mat-
tacchiona che sembra un dito immerso in quel vino per
far l'assaggio» — e cantare la canzone dello zaino
affardellato che s'è finito di portare e far echeggiare
i porti chetti del monologo- soli i evo : — - Son borghese,
ostia ! Cinque ani digo, dormir sU la paia e nel fango,
e peoci po' digo, in mònega, in malora ti, ginque ani,
senza spoiarse, e peoci... El xe finio de saludar i
— 224 —
ufiziai se ghe ne incomtro; justo lori, volemo parlar
quando che se incontrar emo, e ti no, no te me mandi
più a la preson, porrei d'un...
— Varda che i te ciama.
— Ostia ! Coraanidelo, sior capitano.
— Bè, Durigàn, cosa vuoi dire al tuo capitano
adesso che l'hai incontrato ?
— Sior capitano, me fa piasser de darghe la man
ancora 'na volta. Lu el xe sempre sta tanto bon, tanto...
e i alltri uBziai, anca, poareti, tanto boni, tanto. Lu
eli me capisse, ostia, gò beù un fiatin, no posoi desibrb-
iar la Jengua... Se (ricordelo, sior capitan, quando che
son sburlà zò in te 'la trincea che gera drento i todeschi,
i rrìe voleva copar, sti lìoi de cani, a mi, n*alpin vecio,
pi colato sì, ma vecio, ostia... varda to pare!
E tu Austria che sei la più forte
e fatti avanti se hai del corajo...
E Durigàn canta a squarciagola in onore del suo
capitano la canzone dell'assalto, Durigàn che voleva
prima parilar ben chiaro al suo capitano, per tutti quei
cinque anni di pidocchi e idi stenti , ed ha adesso invece
gli occhi lustri e contenti che il signor capitano gli
ha idato la mano e sta ad ascoltarlo sorridendo come il
giorno idi Pasqua sul Setole, che c'era una tormenta
infernale fuori, ima dentro al baracchino alilegria e
vino e canzoni intonate da lui, Durigàn. Alto giusto
come una gamba di Belllegante, ed amici indivisibili.
Andavano insieme a prendere i gabbioni, si mettevan
in marcia col gabbione infilato nel bastone, il piccolo
— 225 —
davanti, il grande indietro, su per la salita parevano
creati apposta per quel mestiere.
Ma domani, che cosa ti resta da fare domani, Du-
rigàn, se non riprenfdere il cammino della Svizzera?
E Degàn ripartirà per le cave d' oltralpe a batter il
pistdletto, Da Sacco riprenderà gli arnesi da fabbro^ per
la botteguccia di Salisburgo, Pellin andrà a vedere sé
la sua tirola ha fatto zaino a terra senza il suo inter-
vento, Mezzoimo guiderà ancora i cani su per le strade
gelate, Zanella cercherà mvano la casa sul Piave che
la guerra gli ha spianato e partirà anche lui, dietro
agli altri, per le miniere o le strade d'òltraJpe. Rico-
minceranno docili alla ferrea necessità di vivere il
lavoro tenace e solitario, su per la montagna nemica,
nella miniera insidiosa, fra la gente ignota. E scende-
ranno la sera nel pozzo come s'avviavano sereni al loro
turno di vedetta ; e abbatteranno i grandi alberi per
le chiuse di fondo valle come li abbattevano per farsi
i ricoveri della guena. Ma saranno più vecchi e più
stanchi : nsentiranno dopo le acquate, e quando cambi
il tempo, nelle membra pur giovani e nei solchi delle
ferite le punture dei reumatismi nati dal fango dalla
neve dal pacciumie di quattro anni.
Senza domandare nulla. L'alpinaccio massiccio
che dalla cima notturna rotolò sassi e imprecazioni sulla
pattuglia nemica, e salvò la montagna e ìa linea, e
chi sa qucmto della sorte della guerra fu nel suo gesto,
emigrerà ignoto verso il suo rude destino, senza avere
preso nemmeno la medaglia. (Naturale. La medaglia
P. Monelli, Le scarpe al sole - 15.
— 226 —
l'avrà presa il tenente della Divisione che è venuto il
giorno dopo a veidere la posizione, e con i bei gambali
giailli ha allettato il Cupola a tirarci addosso i suoi
sbibboloni ida 152. Ma il tenente Moschini che ha «do-
vuto isaltar fuori per far riparare la truppa e che ha
avuta spezzata una gamba, quando è tornato daìl' ospe-
dale l'hanno cambiato di battaglione. Diceva il capi-
tano Busa nel cerchio dei suoi puteleti, come li chia-
mava lui da quando alila compagnia non aveva che
degli ufficialetti del '98, ai quali impartiva saggezza
e aforismi : — Ricognizione per l'ufficiale dei comandi
vuo-l dire venire in trincea, e piiendersi una medaglia.
Per noi vuol dire uscire dalla trincea, e prendersi una
pipa).
E l'altro che fatto prigioniero si divincolò, combattè
con le unghie e con i denti, e uno- dei nemici accoppò,
e l'altro ricondusse con sé, porterà il suo feroce istinto
di libertà sulla cima aa^tia a perseguiaie con corda e
piccozza il filo fragile della cresta, tirandosi dietro
l'inglese che lo paga per questo.
Dilegueranno — minatori pastori carrettieri bosca-
iuolli. Non firmeranno nessun meimorialie, non scende-
ranno a comizio, non brigheranno un posto alla pap-
patoia dello stato. Non li troveremo più se non andan-
doli a cercare sulle montagne o fuor dei confini. Ma
saranno gli uomini che il giorno che la miniera crolla
ricercheranno con il solito coraggio freddo sotto la
minaccia i cadaveri dei compagni — che partiranno
— 227 —
neilla tormenta a ricercair gli sperduti ; che saranno
nudi nel fondo della galleria, o morsi dal freddo nel
bosco invernale, o esiliati sulla cima brulla a rotolarne
sassi, o ansanti a battere sul pistoletto per aprir le vie
delle montagne, o trarvagliati ai cìddli, o arrancanti
dietro ai carri dei tronchi : e ii giorno che il Re man-
derà a dire che bisogna tornare a mettersi in fila e
marciare per quattro si ricalcheranno in testa il cappello
con la penna con qualche bestemmia innocua, e non
domanderanno d'imboscarsi. Tutt'al più domanderanno
di passar conducenti.
Ed il Re ci manda a dire
che si trova sui confini
e ha bisogno di noi alpini
per potersi avanzar....
Prezzo: L. 8
%'
Bumenio io t*
University of
Connecticut
Libraries