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Full text of "Le scarpe al sole : cronaca di gaie e di tristi avventure d'alpini, di muli e di vino"

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PAOLO MONELLI /- 



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LE SCARPE AL SOLE 

CRONACA DI GAIE E DI TRISTI AVVENTURE 
D'ALPINI, DI MULI E DI VINO 




BOLOGNA 

L. Cappelli - Editore 

1921 



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PAOLO MONELLI 



LE JCARPE AL SOLE 

CRONACA DI GAIE E DI TRISTI AVVENTURE 
D'ALPINI, DI -MULI E DI VINO 




BOLOGNA 

L, Cappelli - Editore 

1921 



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PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA 



Bologna - Stabilimenti Poligrafici Riuniti - VII- 1921 



ALLA MEMORIA DEL CAPITANO ENRICO BUSA 
CADUTO A CASTELGOMBERTO IL 4 DICEMBRE 1917- 
DEL SOLDATO VIGILIO LOAT CADUTO ALL'OR- 
TIGARA IL 20 GIUGNO 1917 - DI TUTTI ì BUONI 
ALPINI MORTI COMBATTENDO DAL TONALE AGLI 
ALTIPIANI DAL MONTE SANTO AL GRAPPA 



Nel gergo degli alpini mettere le scarpe al sole si- 
gnifica morire in combattimento. Veramente non di 
soli caduti è il discorso, in questa mia cronaca di 
guerra. Molti siamo tornati, abbiamo ripreso a cam- 
minare per le vie del mondo, già ascoltiamo il rtchiamo 
di altre lotte. Ma sono lotte nuove, per idee differenti : 
e noi pure siamo nuovi, rinati dalle rovine di un passato 
morto i cui solchi incancellabili restano in nói simili 
alle trincee abbandonate sulle creste dei monti ridi- 
venuti soli. Quello che portammo di nostro alla guerra 
non lo riportammo indietro, più : fu veramente una 
vita che ci fu tolta come la pallottola la tolse ai mille 
compagni segnati di fiamme o di mostrine al colletto. 
La nostra giovinezza più ingenua e più prodiga ha 
messo anch' essa le scarpe al sole, sulle ultime roccie 
riprese al nemico, gli ultimi giorni d'un tempo che 
due anni di distanza hanno favolosamente slontanato. 
Il manoscritto era compiuto da un pezzo: ma gli 



accorti editori me lo rifiutarono, or è già più di un 
anno, perchè era passato di moda; perchè pareva ormai 
cattivo gusto occuparsi ancora dei vivi e dei morti 
che ubbidirono ad un ordine di olocausto. Parrà ancora 
oggi così, che un rinato spirito giovane per le piazze 
e le campagne ricanta le canzoni della nostra vigilia 
e della nostra passione ? 

Sono certo che no. Ad ogni modo questo mio 
piccolo Volume non vuole essere diana di battaglia o 
barometro dei tempi nuovi. Ci deve essere ancora qual- 
cuno, smarrito nel grigiore della vita borghese o eremita 
a qualche Valico alpino, che visse questi umili anni di 
guerra senza bagliori e senza gloria, e ne ha ancora 
il cuore grave di nostalgia. A lui offro questo mio 
libro, alla buona, come si offriva allora il viatico del 
vino e delle canzoni all'ospite improvviso delle nostre 
mense cordiali. 

Berlino, Febbraio 1 92 1 . 



PARTE PRIMA 



" Aber zum Teufel, warum sitzt Ihr denn dann im Sattel 
und reitet durch dieses giftige Land den turkischen Hunden 
entgegen ? Der Marquis làchelt : Um wiederzukehren , , . 

(CORNETS CHRISTOPH RILKE, Die 
IVeise von Liebe und Tod). 



l 



Esame di coscienza. 

Ho sraidicato l'anima ciondolona dalle vigliaccherie 
mattutine del letto, me la staffilo santamente secondo 
il consiglio di Santo Cherubino. Che orgoglio fino ad 
ora il mio, della penna d'aquila e del destino di por- 
tarla alla buona guerra, se m'indugiavo nelle blandizie 
della retrovia ? Ora nel mattino freddo parto per il 
battaglione. Cercherò negli occhi dei colleghi che mi 
hanno preceduto, dei soldati che mi saranno affidati 
che cosa vi 'segni l'avere indugiato ai confini della 
vita, ed esserne ritornati. E notomizzerò il mio cuore, 
per sapere con che purità si prepari all'olocausto. 

All'olocausto non ci icredeva essa, iersera, che 
pianse con i suoi occhi bugiardi per la mia partenza. 
Anzi mi raccomandò di dedicarle la mia prima licenza, 
e di non tradirla lassìi. 

Ma lo teme un poco la vecia Vendramin, che dei 
suoi pensionanti già alcuni ha saputi morti nella guerra 



— 10 — 

deiralpe. Questa è la vecia Vendramin, che da tren- 
t'anhi è pietosa di cure e di cibi agli ufficiali alpini 
della guarnigione di Feltre, dai tempi in cui la paiona 
era una bella fanciulla assai corteggiata dai sottote- 
nenti d'allora. Ahimè, oggi quei sottotenenti sono mag- 
gioa-i e colonnelli, (la pancetta e gli occhiali : per alcuni 
ci si tocca le stellette. E la parona è diventata una 
vecchietta lirida e moralista, che fa le prediche ai 
più giovani quando rincasano tardi la notte, e si cir- 
conda d'ancelle abbastanza unte per essere rispettate, 
per quanto abbastanza naticute per essere pizzicate. 
Non saranno le tue ancelle che mi turberanno la vigilia 
di guerra, parona. Ma saranno le tue enormi cotolette 
che rimpiangerò, le notti di cinghia dei pantaloni per 
tutto ristoro. E che ne faremo del poema che li vole- 
vamo dedicare, scritto' in latino perchè anche i preti 
potessero leggerlo? (( Sunti ibi patellae paronaque in 
uncta culina - Et super mea stat cotoletta focum )). A 
migliori tempi, parona: intanto porta de! vino, perchè 
parco per il battaglione. 

E la paroma mi ha dato del vino, ed in fondo alla 
bottiglia ho cercato la nuda verità. Esame di coscienza. 

Tedio della mia vuota vita di pace, allettamento 
del bel giuoco rischioso sulle cime, non potere sof- 
frire di non esser stato dove altri racconterà di avere 
vissuto — o semplrcemente un buono umile amor di 
patria mi trascina con tanto avido consentimento alla 
vita di guerra ? 

Attristire l'anima nello studio muffoso, parlare at- 
traverso gli sportelli agli uscieri tabaccosi, ritagliare 



filosofia dozzinale nell'angolo del caffè, trepestare coc- 
ciutamente la via della carriera e attento a non perdere 
un minuto se no il collega ti passa davanti, fare l'amore 
al sabato sera, perchè domani domenica si può stare 
a letto di piij — oK che buona ventata la guerra su 
tutto questo ciarpame, e che ridere vedere che il col- 
lega tenace s'è affaticato invano a prenderti il posto ! 
(Adesso però lui è in sanità e campando la pelle 
tiene a bada gli affari). 

Per questo, forse. E per questo lievito di giovi- 
nezza che ci fa danzare sul filo del riischio con eb- 
brezza acuta, per cui una fede ci piace se ardua ed 
un compito ci appassiona se minaccevole, per amare di 
pili geloso amore la vita scampandola dal combatti- 
mento come di più geloso amore l'amai riportandola 
intatta dall'insidia delle montagne, quando — studente 
in bolletta — una cima ritrosa era il termine del de- 
siderio ? 

E come in quel tempo le sveglie antelucane bat- 
tenti alle finestrelle dei rifugi mi trascinavano rilut- 
tante fuori nella montagna ancora notturna, e vigliac- 
cherie ciondolavano nel corpo stracco nelle gambe 
stronche e propositi di rinuncia tentavano il cuore, così 
stamane nel letto alla sveglia, e pensando che debbo 
dunque partire per la guerra, mi prese una viltà im- 
provvisa. Mi parve d'essere l'ubriaco che nell'ebbrezza 
s assume un rischio enorme e lo considera, sbigottito, 
il giorno dopo, che i fumi gli sono passati. Mi colse 
un terrore minuzioso che mi descriveva con esattezza 
il pericolo della morte, l'angoscia delle marce, il di- 



/ 



— 12 — 

sagio delle pioggie, le veglie esasperanti, i sonni brevi 
e contesi. Ed il letto in cui mi rannicdiiava mi parve 
una divina cosa che avrei perduta per sempre. 

La mattina fredda polisce l'anima. Nelle conche 
dei pascoli le case rosse a sgrondo si stringono sotto 
gli esili campanili gotici. Una stupefazione di pace 
(gli uomini sono alla guerra in Galizia, o son morti ; 
le donine salutano con sorriso umile i conquistatori, 
attendendo ai lavori dei campi). In fondo, candide, le 
Ddiomiti rigate da lunghe nuvole come rigati i tuoi 
occhi da lunghe assenze, H elio dora. 

Bè, non pensiamo pm ad Heliodora che ora sbar- 
rerà gli occhioni pili azzuni del solito dalla finestrella 
fiorita di geranii sul chiaro m.attino delle sue montagne. 
E non indaghiamo troppo il fondo della coscienza 
rattrappita. E sacrifichiamo a questa bella avventura 
l'ultima reminiscenza dei libri chiusi per sempre. 

(( Domanda il piccolo marchese : 

— Voi siete molto giovane, non è vero? 

E il signore Di Langenau, un pò con tiistezza ed 
un pò con orgoglio: 

— Diciott'anni. 
E poi tacciono. 

Chiede piiì tardi il francese : 

— Avete anche Voi l' innamorata a casa, signor 
Junker ? 

— E Voi ? — ribatte Di Langenau. 

— Fjssa è bionda come Voi. 

E tacciono di nuovo, finché il tedesco grida : 

— Ma_, allora, per il diavolo, perchè siete dunque 



— 13 — 

qui in sella con noi e cavalcate incontro ai turchi cani 
attraverso questa terra maledetta ? 
E il Marchese sorride : 

— Per ritornare )). 

Via tutto questo bagaglio sentimentale, per seguire 
con leggerezza il destino verso le vie nuove, le mi- 
naccie sconosciute ! C'è nell'alito della mattina un 
senso voluttuoso di vuoto — orgoglio della giovinezza 
sana — trepida attesa — romantico amore presentito 
già altri anni perseguendo con corda e piccozza i con- 
fini. E inespressi proponimenti di sacrificio e d'umi- 
liazione gonfiano il mio presuntuoso cuore nel viaggio 
verso la prima linea. 

Che è poi la seconda. Perchè troivo il battaglione 
a riposo. 

Ma questi alpini che si dondolano per le vie del 
paese sono diversi da quelli che ho lasciato al De- 
pofsito. E quando entro nella cameruccia fumosa di 
pipa, ed attorno al tavolmetto vedo le barbe argute 
del maggiore e del capitano medico, ed ecco il mag- 
giore si alza e dice bonario e semplice le parole del 
benvenuto, e la tazza di vino tocca in giro le tazze dei 
nuovi colleghi, ho l'impressione di essere fra uomini 
nuovi, fra uomini, veramente. Che hanno veduto il 
confine della vita e ne sono ritornati. 

E il capitano mi dice : 

— Lei deve fare tre cose. Tagliarsi i capelli, la- 
sciarsi crescere la barba, e mettersi a bere vino. 



— 14 



Bieno, Novembre. 

Piccoli bimbi buffi vengono con un gamellino a 
prendere gli avanzi idei rancio. Attendono quieti, e 
quando gli hanno avuti s'allontanano traballando. I vec- 
chi rancieri sorridono sotto i baffi già grigi, con ac- 
corata bontà, pensando forse al loro' bimbi lontani che 
hanno il papà alla guerra. 

Ad una ad una le mogli dei soldati vengono a 
trovarli dai paesi di tutto il feltrino, a piedi per la 
montagna, oltre l'antico confine. Stasera è anivata la 
moglie di Gallina. Il soldato viene con la faccia furba 
a chiedere il permesso al tenente, la donna cerca il 
letto in una casa del luogo. E stanotte si scuoteranno 
santamente il pelliccione. Non vieni. tu, bambina, a 
portarmi il dono del tuo corpicciuolo mandrillo. E 
tuffo il viso e il desiderio nel fazzolettino verde ancora 
pregno del tuo profumo. 

Ma che assassino, quel Gallina ! Per piacere alla 
so fèmena s'è tagliata la barba e adesso è brutto brutto 
con quei baffoni senza piedestallo ed i giovani del plo- 
tone lo canzonano. 

Fàoro da Lamon, interrogato che mestiere faceva da 
borghese, risponde: 

— Paravo su le bestie. 

— Tu, ida Lamon ? Vuoi dire che facevi il con- 
tiabbandiere. 

- — Eh, lu sa ben, sior tenente. 



— 15 — 

E allora Fàoro si sbottona, buon soldato, t>ochi 
da gatto, che a Col San Giovanni andò da solo alla 
baionetta contro quattro bavaresi , e due fece fuggire , 
uno accoppò, uno acchiappò prigioniero. 

— Sior tenente — dice stasera in tono sconsolato 
il contrabbandiere — se fa la guera per slargar el 
confin, e mi perdo el mestier. 



Si parte. Pioggia, snebbiarsi lentO' del cielo uguale. 
Poi neve. Nel boisco incappucciato di bianco, attra- 
verso viali come di ville dignitose. Il crepuscolo attinge 
luce più morbida dal suolo: gli alberi sono natalizii, 
e le baracche confìtte nel suolo — dalle finestrelle 
si irradia la luce sulla neve — sono presepi tiepidi . 
Attirano con dolcezza di meta. Si pensa che giacere 
sulla paglia asciutta, fiutare il tanfo sano dei vicini 
che russano, indulgere all'irrequieta passeggiata dei 
pidocchi siano le più desiderabili cose. Ma si continua 
a marciare. 

Eid ecco vien fuori la luna a giuocare a rifmjpiattino 
con i gravi abeti infarinati. Essa veniva nel viale degli 
abeti, la luna passata, ed i suoi denti di tigretta bril- 
lavano per il piacere. Forse stanotte, al di là della 
linea delle vedette, ci scontreremo con il nemico; forse 
essa a questa luna mi mette le coma. Amen. 

Questo scenario di neve alta ed intatta non m'è 
nuovo. Molle sordina di bianco sul gemere dei torrenti 
sul frusciare degli abeti. Il vento non ha voce, spol- 



vera i rami carichi, veli d'cirgento luccicano contro 
il sole, valanghette di neve scivolano mufè provocate 
dal passo senza suono. Ma c'è là in fondo un martel- 
lare ritmico che giunge puro su tutta la calma del 
vallone, urto di palle frequenti su un bigliardo di 
cristallo, riborbottato dai monti in cerchio, e lo crede- 
resti un lavoro di legnaiuolo, se i tuoi arnesi di guerra 
non ti dicessero altra cosa. Fucilate, dunque. Ma sono 
così lontane e s'incesellano icosì nette nell'ana fredda 
che non dicono nulla al cuore (sarà D'incà con la sua 
pattuglia di punta che ha tro'vato i tedeschi alla malga). 
•La guerra non m'ha toccato ancora. 



Natale 1915. 

Stavolta si fiuta un'azione per aria. 

Grande sussurro, alla mensa, fra il maggiore ed 
il capitano. Poi è venuto quello della 264^, hanno 
tenuto rapporto, noi subalterni siamo stati mandati 
a contemiplare le stelle. Siamo andati all'osteria, invece, 
a salutare Maria la bionda e Giuseppa la bruna, ed a 
bere un chiaretto di Salorno che ferrava gli spiriti per 
la festa di domani. 

Un po' d'orgasmo. Che si farà ? Dove andremo ? 
Gli occhi luccicano, l'impazienza apre un vuoto nel 
corpo. Garbari dice : — Panarotta — la montagna 
che ruzzola ogni sera le sue cannonate sulla valle. 

Ed ecco, sono venute le istruzioni del capitano. 



~ 17 ^ 

Poi, a mezzanotte, partenza. Nel paese immerso 
nella chiarità lunare il groviglio, l'affaccendarsi dei 
conducenti, dei muli, dei soldati, casse di cottura e 
casse di cartucce. Battere di chiodi sul gelo. Pallore 
dii stelle. 

E cammino come assorto per le strade lunari, pen- 
sando con ritegno alla dolce casa lontana, alla felicità 
di raccontare nel futuro la gesta che vivo. 1 soldati 
marciano taciturni : solo qualche bestemmia, qualche 
■dialogo sommesso punteggiato di ostie. E la gavetta 
che suona e il fucile del vicino sono la sola preoccu- 
pazione . 

Si arriva — marcia forzata, sei ore senza un alt — 
in una vaile ove non batte sole, chiusa da alte giogaie 
nevose. Vigilia di combattimento in un rigore di cielo 
e idi gelo. Si accantona in ville saccheggiate. I buffi 
mobiletti di vimini rossi divertono i soldati ; \^ lettere 
d'amore della castellana divertono i signori ufficiali, 
lo ho una casetta bianca, una cameretta rococò, specchio 
ovale, divano basso. Ma un trepestio continuo di sol- 
dati su e giù per le scale di legno impedisce il sonno. 

Stanotte attaccheremo una posizione che non ab- 
biamo mai veduta, a cui idovremo giungere per un intrico 
sconosciuto di boschi. Si cerca di orientarci sulla carta 
topografica, ma — ci avverte benigno un collega d'un 
reparto di fanteria che è lì e che conosce bene il posto 
(e allora perchè non ci vanno loro a prenderlo?), ci 
avverte — la carta ha più errori che segni. Mah! 
speriamo nel fiuto, e non critichiamo al primo com- 
battimento i superiori. Cerchiamo piuttosto di seguire 

P. Monelli, Le scarpe al sole - 2. 



— 18 — 

il cantare dondolante che fa il plotone, installato con 
garbo' nella villetta rossa: 

Me ne andavo per fare un' azion, 
Sempre allegri e mai passioni 

E ripartiamo, alle nove di sera, fuor degli avam- 
posti, sotto una broccatura lucida di stelle. (( A mez- 
zanotte nascerà la luna ». 

A mezzanotte è nata la luna. Il bosco fìtto nel 
quale marciamo cauti (il cricchiolìo sul gelo è molti- 
plicato nell'ansia) s'anima romanticamente d'ombre e 
di luci soavi. Una lenta corrente di nostalgia attenua 
i sensi. Pigrizia d'un letto in una camera lontana, 
essere una chiocciola per rannicchiarsi nella casa se- 
guace e doamaire... E poi iche fame, e ^che freddo! 
Ta-pun. Allarme. 

Gelo improvviso, cuoare che isi smaglia. La prima 
fucilata di guerra : l'avvertimento che la macchina è 
in moto e ti ha preso dentro inesorabilmente. Ci sei. 
Non ne uscirai pili. Non ci credevi forse ancora, fino 
a ieri, giocavi con la posta della tua vita come con 
la certezza di poterla ritirare, parlavi facile d'eroismi 
e di sacrifìci che non conoscevi. Ci sei, adesso. Il 
destino tien giuoco. Alba livida di sfondo allo sbi- 
gottimento, idesiderì impossibili, ma gli altri che cosa 
pensano } 

Zanella non ha più la sua faccia impassibile: 
c'è come un fuoco interno d'ilarità che gli si irradia 
sopra, ha fiutato la cacciagione, dice: 



— 19 — 

— Ocio là do che scampa ! 

E spara due fucilate laggiù, sulla radura del bosco. 

Allora qualche cosa si stacca da me, più nulla 
di quell'angoscia, e sono freddo e lucido come davanti 
ad una esercitazione di piazza d'armi. 

Dov'è il nemico ? Alba di sonno. Combattimenti 
di pattuglie per il bosco snervano, nell'attesa. Il te- 
nente Frescura aniva di corsa, rosso, allegro, con 
quattro uomini : e reca un ordine e scompare a destra, 
ed ecco un crepitio di fucilate, e un ferito che si 
lamenta, e il giorno pigro che sale dietro il bosco, e 
nulla da fare, ancora. Ecco il rancio, terzo plotone. 

Mitragliatrici. Frastuono più vicino. Feriti leggeri 
che rientrano a piedi. 

— Ostia, no se magna no il rancio. Ne toca d'andar 
drento anca a nualtri. 

Si entra nella battaglia. Squadre affiancate, avanti. 

È la morte questa ridda di suoni urlanti e fischianti, 
e i rami stroncati del bosco, e il lungo cigolio delle 
granate nel cielo ? Serenità. 

Quando poi rientriamo un po' storditi e gli uomini 
sono contenti perchè riportano la pelle a casa, e in 
me è l'ilarità leggera del battesimo del fuoco, il mag- 
giore che non ce ne ha colpa, e ce lo vedemmo sempre 
davanti agli occhi, e se non ha preso una schioppettata 
è perchè c'è un Dio per i buoni maggiori coraggiosi, 



— 20 — 

lui si prende una pipa dal comandante della divisione 
che ci accoglie al varco dei reticolati, iduro gelido 
ostile. Dice die siamo morti in troppo pocki. Dice 
che la posizione si doveva prendere. Dice che è fa- 
cilissimo trovarla, perfino sulla carta (e consulta quella 
carta che ha più sbagli che segni). Ma dimentica di 
dire che di notte non ci si vede e che aveva mandato 
a cercare un cucuzzoletto fra altri mille un battaglione 
che in quei posti non aveva fatta mai una pattuglia. 
A questo non pensa, che avrebbe da recitare il mea 
culpa. Sul sentiero sta rigido, aggrottatos ad osservare 
il nostro passaggio. Poi un rombare di motore, stravac- 
cato nell'auto rientra al suo castello. Faccia presto, 
che l'artiglieria nemica comincia a frugare anche qui, 
e non è posto per lui, questo. Io faccio stendere il 
saccopelo sul divanetto basso 'nella saletta rococò. Dal 
soffitto sfondato occhieggiano le stelle. 



Cambio da un battaglione di fanteria. Gli alpini 
hanno deposto gli zaini sul lato della strada. Viene 
il buon fante, a prova, e sperimenta il peso dello 
zaino alpino con suoi gesti di meraviglia. Chiama, il 
compagno accorre, prova anche lui e stupisce. Commenti 
a bassa voce. Anche la grandezza della gavetta li sbi- 
gottisce. Sull 'altro lato della strada l'alpino, taciturno, 
guarda e non parla, appoggiato al bastone, (( a guisa 
di leon quando si posa )). 



21 — 



Capodanno 1916. 

Buon augurio, la mattina, usciti dagli avamposti 
per la ricognizione, vedere di tra il nero degli abeti 
il rosso delle nevi sulle montagne che chiudono Trento. 

Andiamo a cercare il ferito che ieri la pattuglia di 
Porro ha dovuto abbandonare : una scarica improvvisa 
del nemico in imboscata, due morti subito, un altro con 
la gamba rotta, i tre rimasti sani ridotti a cavcirsela 
alla meglio. Ma De Cet che aveva finto d'esser morto, 
ed era rimasto immobile lungo tempo, è rientrato alla 
sera a MaLga Puisle, e ha raccontato che sotto a lui 
un cento metri c'era ancora il ferito che gli austriaci 
non han portato via. 

L'ho trovato stamattina, De Cet, ohe dormiva an- 
cora: mi son fatto dire da lui come è andata la storia, 
me la racconta con poche parole, senza muoversi dal 
suo angolo, e finisco col 'dirgli di venire di pattuglia 
con me per mostrarmi il posto. 

Rimescolio nella paglia, e una voce crucciosa bor- 
botta : 

— Che ciavada ! 



Nella villa conquistata e saccheggiata, ci si prepara 
un delizioso home. LI tè nelle tazze, il romanzo fran- 
cese. Ma a due passi sono le piccole guardie, e se il 
Panarotta volesse spedirci un gingillo ! 



— 11 — 

Pigrizia di cercare parole nuove, imagini nuove 
per questa sera calma : nuvole roisse sul sereno tenero, 
crudezza di neve sul caldo delle rocce, appuntarsi 
snello delle cime verso quelle nuvole : e le voci dei 
soldati, e un rombare paterno di cannonate su Borgo, 
e un indefinibile senso di attesa negli uomini e nelle 
cose. 

Un roimanzo di Bourget, una tazza di tè nel sa- 
lottino sgangherato ma tiepido per la grande stufa di 
porcellana, e un'adunata di pidocchi sul corpo. 



Il bomibard amento si sferra sulla cittadina linda, 
tutta rabbrividita nel vento freddo e nel sole. Grandi 
nuvole indifferenti per il cielo leggero, variopinta no- 
vità delle montagne. Ed ecco la granata incrina il 
cielo, (scoppia, ferisce e lorda. 



A tavola nei bicchieri nitidi lampi di sole e biondo 
di vino. Si narrano le conquiste fra le donne della città 
coraggiosa, che continua a vivere una vita quasi nox- 
male sotto le cannonate, a due passi dalle piccole 
guardie. Una vita assurda, anche. 11 passeggio. Ufficiali 
in diagonale, soldati in libera uscita. Dal caffè al 
piccolo posto, cinque minuti di. strada. E davanti al 
caffè passa il collega lacero che viene dalla ricogni- 
zione, con i suoi feriti, con un prigioniero. Poi co- 



— 23 — 

mincia il Panarotta a sparare ; tetti sfondati : bisogna 
scendere di un piano. 

E tutto, donne vino guerra immeisi nel sole tie- 
pido che diffonde blandi stordimenti sulle montagne 
lucide, trema trepido nella chiara conente del fiume, 
fa allegri i combattimenti nella vallata sonora. 



Stanotte siamo andati a sgombrare una casa cm- 
quecento metri fuori delle linee, dove erano rimasti i 
borghesi. La conosco bene, la casa. Ieri mattina che 
su Borgo il Panarotta sgranava i suoi mòccoli, e su per 
la valle, verso Novaledo, tempestava il combattimento 
della 64^ che faceva una ricognizione in forze, io 
ebbi l'ordine di uscire per garantire che qualche brutta 
sorpresa non scendesse da Sant'Osvaldo sul tergo della 
compagnia. Appostato dietro un muretto, ecco che nel 
campo del bmocolo vedo la casetta, sull'aia davanti 
quattro bimbi giocare a giro tondo, e la mamma alla 
finestra stendere al sole tiepido i panni lavati. Indif- 
ferenti, i bimbi, al fragore della fucileria, alle scìe 
delle granate che incrinavano il cielo: e questa che 
per noi era guena combattuta e suscitatrice di sensa- 
zioni violente pareva fosse per essi un rombare di 
temporale lontano. 

I bimbi giocavano. Ma la visione della guerra la 
porteranno come balenò, truce, negli occhi risvegliati 
bruscamente dal sonno, stanotte che siamo andati a 
portarli via con la mamma dalla loro casa ; sentinella 
sulla porta, affrettati sussurri, armi luccicanti al guizzo 



— 24 



delle lanterne cieche, disperato raffazzonare che faceva 
la mamma, piangendo, delle cose più care. 



Le sere dhe si rientra dal servizio d'aivamposti, e 
la colonna slitta giù per il gelo deil'la mulattiera, quando 
sulla montagna nera la luna danza con veli di ghiaccio, 
Loat della mitraglia intona, a bassa voce, la canzone 
del ritorno. 

Quando saremo 
le nostre case 
la nostra madre 
ci abbraccerà. 

Segue il coro del plotone. Battono i chiodi sul 
gelo. In fondo alla valle palpita il richiamo di un 
eliografo. Sulla cima delle montagne palpitano fuochi : 
stelle che levano o bivacchi di piccola guardia. 

Dove sei stato 
caro figliuolo 
per tanti mesi 
a fare il soldà? 

Quanti mesi ? Non si contano' più. I vecchi caporali 
richiamati non chiamano forse « anni )) e (( secoli » le 
cappelle, come per ficcare ben loro in testa che di anni 
e di secoli sarà numerato il tempo del loro servizio 
militare ? 

Dice De Riva, che ha fatto la Libia e tira una 
bestemmia ogni tre parole ; 



— 25 — 

— Ogni tanto, Dio serpente, i ne richiama a far 
i borghesi, poi i ne congeda, e tornemo a far i soldai. 

Io sono stato 
neir alto Tirolo 
dove la neve 
fiocca 1' està. 

E dove vi sono baracchette sgangherate o tende a 
doppio telo ricoperte di neve : dove non si sa più nulla 
del mondo lontano, e solo a sera se il cielo è chiaro 
SI veggono brillare laggm nel piano le casette rosse 
dove una donna ci attende — o ci fa le coma con il 
territoriale : dove ci sono i bimbi di De Lazzer e gli 
automobilisti, la mula di Marzarotto e il magazzino del 
terzo scaglione, le paste di Miimiola e l'amichetta 
bionda che mi donò uri fazzolettino verde pregno del 
suo profumo. 

— Loat, non vedi come sono soavi le stelle nel 
pallore lunare ? Non hai lasciata l'amorosa a casa, al- 
pinotto dal viso tondo come un pagnotta, che canti a 
voce spiegata con la mano aperta accanto alla bocca, 
ora che le prime linee sono lontane ? Intona dunque la 
canzone dell'amorosa che aspetta, che noi sappiamo 
bene che mon è vero, ma lo cantiamo lo stesso, perchè 
illudersi fa caldo al cuore e perchè si diventa senti- 
mentali la sera dopo che s'è lavorato tutto il giorno a 
fare il mestiere ideila guerra. Poi se anche la gola si 
asciuga, arrivati alla baracca faremo rotolare fuori della 
tenda del cantiniere un barilotto di Valdobbiadene, e 



— 26 — 

nella tazza di latta sarà un breve paradiso biondo, 
meglio dei suoi capelli folli, meglio della casa lontana. 

Perchè dice il caporalmaggiore Fenacin, che in ac- 
cantonamento è sempre ubbriaco, ma in combattimento 
è sobrio e coraggioso, e sarebbe già sergente senza quei 
viziacelo, <lice Ferracin tirandosi la barba lunga e 
crespa : 

— Co ghe xe del vin, se poi continuar la guera 
fin che Dio voi. 

E in questa benedetta valle Sugana, il caporal- 
maggiore Ferracm non ha nessuna difficoltà a conti- 
nuare la guerra fino alla consumazione di ;butti gli au- 
striaci, in questa felice valle Sugana che ha le cantine 
piene di vino e i granai colmi di mele odorose, e Mo- 
negat il rosso va di pattuglia con fiasco e sacchetto a 
terra, per riempirli. 

E sì combatte per paesi vuoti contro un nemico 
appostato dietro il muretto del cimitero o nel parco 
dell'albergo: ma quando s'è finito di fare le schiop- 
pettate, giù in esplorazione nelle cantine del parroco 
di Santa Brigida, a sentire se il suo vino è pili buono 
di quello del barone. 

E questa è successa a Campari. È stato stanotte, 
sottoi un nevischio tranquillo, in appostamento al di là 
delle linee un'ora di strada, a Brustolai, una desola- 
zione di case arse e devastate nella sassaia che vien 
giìi dall' Armentera. Il fiume oscuro taglia il bianco 
sudicio del suolo. Di là il paese morto di Marter : ma 
ci deve essere il nemico in qualcuna delle sue case. 



— 27 — 

anche stasera, come ieri. Il silenzio non è rotto che 
da qualche bestenamia in sordina, da un picchiar stiz- 
zito di una scarpa contro un sasso perchè i piedi co- 
minciano a gelare. Ed ecco la finestra d'una delle case 
più presso alla riva si accende, quadratmo giallo di 
luce, canzonatura all'agguato armato di là dall'acqua. 
Bisogna vedere di acchiapparli, quei poor^ei. Si passa 
a guazzo la Brenta: la pattuglia circonda la casa. I 
movimenti sono cauti, accorti. Ma Pivotti tronca gli 
indugi : baionetta inastata, balza a testa bassa nella 
casa e grida: Chi va là. Gli altri pensano: Pivotti 
ne accoppa qualcuno. E va a vedere anche il tenente, 
e trova un conducente del Val Brenta, scalcinato e 
barbuto, che guata con stupore a tutto quell'allarme che 
lo ha disturbato mentre spillava il più rosso vino di 
Marter dalla più pacifica delle botti. 



Da quattro giorni siamo in riposo in città. Stasera 
partiremo, e pare per fare le schioppettate. Tollot, 
Barp e Resentera lascieranno a malincuore la loro can- 
tina, tre manigoldi, i più tranquilli di tutta la com- 
pagnia, che non si facevano dire due volte di stare 
nascosti nella cantina quando il Panarotta tirava, mentre 
gli altri soldati si buttavano in giro per le osterie del 
paese, e vi restavano finché non arrivava il maresciallo 
dei carabinieri a sloggiarli, ed allora ise ne andavano 
ostiando, salvo mostrargli una sipe tratta dalle tasche 
dei calzoni... ma questa è un'altra storia, Tollot, Barp, 
Resentera, invece, nessuno li vedeva. Sempre, tutto^ 



— 28 — 

il giorno, in fondo alla loro tana. Il fatto è che ad 
uscio con la cantina vuota dove stavano essi, ce n era 
una piena. E allora sfondano la prima notte l'uscio, 
cercano una botte piena, v'introducono la gomma, fanno 
passar la gomma per un foro dell'uscio e poi richiu- 
dono' per bene. E tutto il santo giorno succia tu che 
succio anch'io, e mai gioia più rossa fluì con tanta 
abbondanza per gola di alpino. Venivano gli amici 
eletti a partecipare della fortuna segreta : e qualche 
volta i tre soici (poiché essi coltivavano il fiore arguto 
dell'ironia) riempivano una gavetta di quel vino e la 
portavano per l'assaggio agli abitanti della casa, i pa- 
droni della cantina. 

— Sentì, che bon vin che ne passa la naja! 
E i proprietari bevevano e sentenziavano: 

— Bon. El par el nostro. 

E oggi il gaio segreto di Tollot, Barp e Resentera 
corre con sommessa ilarità gli ordini chiusi, mentre 
i furieri fanno l'appello e il maggiore si tira nervoso 
la barbetta marinara. 

Non rimpiango io la mia padroncina di casa, a 
cui ho baciato la bocca nel viale della stazione, perchè 
ha gli occhi e il sorriso di Hieliodora. (( Si exsurgat 
adlversuim me poradlium, in hoc ego sperabo ». 



25 Gennaio. 



Appoggiate al muro nel piccolo orto dell'ospedale, 
due vecchiette, tre vecchietti raggrinziti lucertolizzano 
al sole. Torpore di luce sulle montagne di fronte; 



— 29 — 

tintirinio d'acqua corrente riga il silènzio meridiano. Al 
primo piano in una grande sala monacale grave can- 
dida — dalle poltrone enormi, dai grandi quadri dei 
fondatori e dei benefattori — è la mensa dei signori 
ufficiali. Si cantano le canzoni di guena. Si beve lo 
spumante per un ospite. Chi si affaccia alle finestre 
spalancate su questa trionfante primavera vede giìi 
nell'orto appoggiati al muro crogiolarsi al sole i tre 
vecchietti, le due vecchiette raggrinzite. Ma m fondo 
al conidoio, nella cella umida e grigia, il moribondo 
combatte solo, indifferente, la sua agonia. 



A Malga Puisle, a trainar cannoni con tutta la 
compagnia. Su per la mulattiera gelata i pezzi arran- 
cano: un'ilarità robusta corre la compagnia, muscoli 
tesi nello sforzo, gara gioconda di arrivare perchè lassù 
c'è un capitano della montagna che ha promesso del 
vino, e perchè il tenente d'artiglieria dice che i ter- 
ritoriali non ce l'hanno fatta a portar su i cannoni. 

Veramente oggi si doveva riposare, adesso siamo 
a riposo. Ma è il nostro mestiere, e che serve lamen- 
tarsene ? E quel che per gli altri soldati è una pena 
— quando gli abbiamo dato il cambio, stavan lì sudanti 
abbattuti sul sentiero, giubbe sbottonate, riluttanza agli 
ordini — per questi è un divertimento. Gioia fisica, 
issare pezzi così pesanti su quella forcèlla per questo 
cristallo che nemmeno i muli ce la fanno, esercizio 
soddisfatto dei muscoli che non conoscono che lavoro 
da quando s'è nati, abeti e rocce e cielo vecchie co- 



— 30 — 

noscenze non hanno mai visto che fatica in questi 
jfigli della montagna e pare che a vivere fra queste 
cime non ci si senta bene se non faticando, e tanto 
amore dello sforzo e spregio del disagio che quando 
giuocano (nelle ore in cui c'è l'ordine di far nulla) 
si cazzottano da rompersi le tempie facendo il giuoco 
del civettino — proprio quello del quadro degli Uffizi. 
Ferracin dà la voce, il plotone aggrappato alle funi in 
uno strappo tira innanzi il bestione testardo. Caro be- 
stione sfrombolante che proteggerà la nostra avanzata ! 



Bonan, l' attendente di D'Incà, si dondola per la 
strada da Primolano a Feltre, un poco di vino nelile 
gamibe e molto desiderio della famiglia che torna a 
rivedere dopo tanti mesi di guerra. Che cosa c'è laggiù 
in fondo alla strada ? Un'automobile lucida, ferma. 
Nemmeno fermarcisi su con il pensiero. Là dentro 
viaggiano generali, maggiori, pezzi grossi, quelli 'che 
mandano le buste gialle, e allora viene l'allarmi e 
l'ordine di tenersi pronti. Ma là vicino c'è un vecchio 
soldato, dai lunghi baffi bianchi. Bianchi come quelli 
di Pupo che fa il conducente. Ma Pupo ha il pizzo 
e i baffi corti, questo vecchio soldato ha solo due 
lunghi baffoni candidi. È fermo, e guarda l'automobile. 
Un ilarità prepotente guizza attraverso le idee dell'al- 
pino che avanza un po' traballando. Così vecchio, 
l'hanno preso anche lui a fare il soldato! Gli doman- 
deremo se vuol bere un gotto con m.e, al vecio. 



— 31 — 

Già Bonan ha raggiunto il vecchio soldato, e gli 
batte una mano sulla spalla. 

— I t'ha ciapà anca ti sott'la naja, neh vedo? 

Mja l'occhio gli scivola giù alle maniche, e tàc- 
chete, l'alpino esterrefatto s'irrigidisce su un trepido 
attenti con le idita convulse contro il cappello e due 
occhi pieni di terrore: un generale, osti^, e lui ora tra 
i fumi del vino e della paura lo riconosce, perchè era 
il suo colonnello al settimo, quando era recluta, tanti 
anni fa. Il Generale Etna. 

— Adeso el me copa. 

E il generale sorride, e gli dà un virginia: poi 
siccome la panna è rimediata e si può ripartire, Bonan 
è fatto montare, ed eccolo là pettoruto, trionfante, 
sboccione, che torna al paese seduto vicino al mec- 
canico, il suo mezzo metro di virginia attraverso la 
bocca. 



Febbraio, il giorno della presa di Marter, 

Il capitano Nasci ha detto ai soldati : 

— Ragazzi, le cantine sono piene di vino. Ve ne 
siete accorti prima di me. Ed io debbo mettervi nelle 
cantine perchè l'artiglieria comincia a tirare. Mia il pri- 
gioniero fatto dal tenente Fabbro ha detto che gli au- 
striaci, prima di mollare il paese, hanno avvelenato il 
vino. State in guardia, e non bevete. 

— Fioi de cani ! Sior sì. 

E il discorsetto del capitano fa il giro di tutta la 
compagnia, dalla gran guardia alle piccole guardie 



— 32 — 

poste a difesa del paese conquistato all'alba. Intorno, 
il frastuono delle granate e degli shrapnelis. Filtra una 
pioggia leggera. Qualche ita-pun, noioso come un pia- 
noforte, dalla montagna di fronte; vischio di fango ap- 
piccicato agli abiti alile scarpe alle mani, rosicchio 
di galletta. Un po' di vino, e come si monterebbe bene 
di vedetta allora, a frugar con gli occhi gli sterpeti 
insidiosi e i iflanichi precipitosi dei monti ! 

— E alora iio se poi più bevar el vin del sindaco. 

— E gnanca de quel del prete. 

— E gnanca de quel de l'osto. 

— Se te te aveleni, el va in licensa el to piastrin. 

— El sior capitano el ga rason. 

Qualcuno spilla per prova la botte. Il colore chia- 
retto accende gli occhi. 

— Che bon odor ! 

- — Che i lo gabia proprio avelenà ? 

— Fioi de cani. 

Ma quando tomo dal rapporto, trovo nella cantina 
il mio plotone intento a bere. 

— Disgraziati, volete dunque avvelenarvi? 
Accendersi in giro d'occhi furbi. 

— E no, sior tenente, stavolta no gh'avemo paura 
de velen. 

E mi spiegano il trucco. Mentre i signori ufficiali 
erano a rapporto, un rapporto l'hanno tenuto anche i 
vecchi della compagnia. Ed hanno deciso: Si tira a 
ooiìe, e quello che vien fuori prova a bere un bic- 
chiere. Se sta male, lo portiamo subito dal dotor, e 



— 33 — 

lui un rimedio ce lo deve avere. Se sta bene dopo 
un'ora, bevemo tuti. 

Ed ormai tutte le guardie, tutti i piccoli posti 
gustavano il dolce virv& di Marter : era il vino del prete, 
era quello del sindaco. La gran guardia spillava le 
botti enormi dell'albergo, e De Lazzer girava le can- 
tine per cercare il migliore, quello da destinare alla 
mensa del signor capitano. 

Ora le vedette, abbeverate a dovere, vegliano pili 
soddisfatte sulla piovigginosa monotonia della campagna 
lorda di neve, scrutano l'intrico dei boschi, spiano di 
tra i sacchettti riempiti dii terra le ingannevoli sassaie 
della montagna di fronte. 

Tutta la notte abbiamo aspettato che ci attaccas- 
sero. Notte nera, pioggia dirotta, gemiti di vento per 
la valle. Stare in gamlba dietro i muretti bassi improv- 
visati a trincea; tender bene l'orecchio al rumor della 
pioggia, i piedi sul prato fradicio, i cappelli come 
grondaie. Eravamo sperduti nella valle. A destra, non 
c'era collegamento. Diciotto uomini per tenere quat- 
trocento metri di linea. Se venivano giù da Malga 
Broi, ci tagliavano' fuori. Amen, e sperare che ci at- 
taccassero dove eravamo. 

A tratti, razzi luminosi sbadigliavano isull 'orizzonte, 
un bagliore attonito s'apriva sulla campagna, s'indu- 
giava un poco, l'oscurità l'inghiottiva. Spari lontani e 
vicini, rari, irritanti. Una bomba a mano, a mezzanotte, 
lanciata verso la dhiesa, fu un sollievo: ci attaccano 
adesso-. Invece, nulla. 

P. Monelli, Le scarpe al sole - 3. 



- — 34 — 

Ma sotto la coltre di tenebre la notte era viva di 
ansia. Ora i riflettori non rigavano più la montagna. 
Il buio ci stringeva come un'insidia tenace. Tutta la 
notte s'è vegliato, a guardia del paese morto. Campane 
non scandi vanoi la lunga attesa. La notte si trascinava 
con il suo cieco ritmo di pioggia. Ogni ora le vedette 
si davano il cambio: chi smontava sussurrava poche 
parole al nuovo venuto, e si avviava grondante ad un 
giaciglio di paglia bagnata : chi montava si immobi- 
lizzava sottoi l'acqua, attento se di tra le voci del 
vento e il frusciar della pioggia e i miagolii d^un gatto 
sperduto per le case vuote s'udisse un tr epestare cauto 
di uomini per il bosco. 

All'alba, il nemico ha attaccato. 



In ricognizione nella lucidità della nevicata recente, 
fra gli alberi gravi di bianco, carponi al ripaio dei 
muretti bassi. Un poco di pigrizia, che stamane il 
saccopelo fasciava di così soave umidità le membra, e 
ieri l'altra ricognizione è andata male, e mi secche- 
rebbe lasciarci la pelle oggi che il sole è così nuovo 
e leviga con tanta morbidezza la montagna. Passo in 
rivista i nomi dei colleghi, a ognuno dei quali, penso, 
più che a me spettava questa corvè. Presentimenti 
idioti tirano indietro. Queste macchie nere dei nostri 
abiti si vedono maledettamente sulla neve. Bel tipo, 
anche il Maggiore, a volere che ritorni solo dopo 
avergli sparato addosso, ai cecchini ! E la mia vi- 
gliaccheria di stamane arranca carponi dietro i muretti 



— 35 — 

sboccomcellati, trascinata riluttante dalla spensieratezza 
<ìi Pivotti, che è di punta — perchè se non ce lo 
mettevo anche oggi, non veniva. 



Monologo di Pivo'tti che spacca la legna davanti 
al Comando di compagnia, dove è stato fatto venire 
per punizione perchè ha rifiutato d'obbedire al capo- 
ralmaggiore Sasso che lo mandava alle corvè dell'acqua : 

— A mi farme portar le marmi te ? A mi farme 
spazar la baraca ? A mi farmie pasar in rango ? Ma 
che i me manda a copar tedeschi, i me manda, e ghe 
vago tuti 1 dì, e ghe vago de punta col tascapan pien 
de bombe. Ma no i staga a farme far da soldà de la 
teribile. 

E le scheggie del tronco massacrato dai colpi stiz- 
ziti partono come scheggie di boniba tutt' attorno. 



Stasera mentre si beveva del Torcolato pagato dal 
dottor Cimberle che ha preso cappello perchè gli hanno 
rubato dalla stanza una bella stampa antica che lui 
aveva portata via a un conducente che se l'era anan- 
giata in un villa bucata come un crivello (ma questa 
la racconteremo un'altra volta), mentre dunque si beveva 
e si cantava 

Come porti i capelli bella bionda, 
io li porto alla bella marinar. 



— 36 — 

Camipari ha ricevuto rordine di portare tutta la nostra 
compagnia — forza 58 uoimini — di rinforzo al bat- 
taglione Feltre che sta maluccio in quel di Marter. 

E fuori, nella notte e nel fango, a brancicar nel 
buio, con i soldati assonnati, verso le linee. 

A Marter, Campari si presenta al Maggiore. 

— Bene — dice il Maggiore. — Quanti uomini 
ha Lèi ? 58 ? Pochini. Bè. 25 con un sottufficiale li 
manda al piccolo posto che è al di ìà del ponte. È. 
un posto che se vengono gli austriaci per acchiapparli 
non li salva nemmeno il Padreterno. 25 uomini li mette 
là. Lei con il resto della compagnia si mette a mia 
disposizione — riserva strategica — in quella casa 
vicino alla ferrovia, dove ci avevo ieri il mio comando 
di battaglione. Lo sa? Bene. Là, vede, hanno comin- 
ciato a individuarla e ci hanno' tirato sbibbole cutt'oggi, 
ed ho' dovuto venir via. Brutto posto, sa. Una è cascata 
sul baracchino che c'è accanto. Bè, Lei si metta là 
con il resto della compagnia. Vada pure. 

E trepestiamo nella melma e nel buio verso la 
casa pressO' la ferrovia con una vaga trepidazione, 
perchè tra piccolo posto trabocchetto e casa indiviiduata 
ci sembra che la povera 265^ con 58 di forza abbia 
poco da stare allegra. 

Burlone, il signor Maggiore. Ma nella casa c'è 
una bella stufa, e, se domani c'è ancora questo neb- 
bione, raccenderemo e ci faremo le castagne arrosto. 
E la botte — Dio sa icome ci si trovi ancora ! — 
la metteremo vicino a noi, e ogni caposquadra è auto- 



— 37 — 

rizzato a venire ogni ora con la gavetta a prendere il 
vino per i suoi uomini. Una regola, ci vuole. 



Nel Grand Hotel di Roncegno sulle seggiolone 
bianche i soldati si grogiolano a questo solicello, da- 
vanti al porticato, a vista della valle striata di neve. 
Oggi l'artiglieria nemica tace, da questa parte : si sfoga 
altrove, ed i soldati commentano i rombi come il vil- 
lano del Manzoni. Ma lassù sul cornicione ci sono 
i segni della rabbia di ieri. Il gran salone ha due 
enormi piaghe nel soffitto: e ne geme malmconicamente 
uno stillicidio di neve che fonde. Il nobile parco è 
tutto buche, abeti stroncati si abbattono sul sentiero. 
L'albergo è sgangherato, mobili sossopra, saccheggio 
e bombardamento, ed ora il tarlo della pioggia che 
penetra dai tetti crivellati. Ed alle pareti di una sala 
sconvolta, ancora l'ironia di qualche awisetto: (( I si- 
gnori sono pregati di non asportar le riviste dalla sala 
di lettura ». 

Siamo ubriachi di sole e di giovinezza, stamane. 
Abbiamo scavallato per il parco, abbiamo urlato le 
nostre canzoni bacchiche : 

Il buon vino fa lieto il core 
il buon vino scaccia il dolore 
e d'una sbornia non si muore... 

Domani saremo' sotto di nuovo, e la vita è un dono 
che ci sarà ritolto. Morandi ha avuto il cappello bucato, 



— 38 — 

stamattina, a quota mille. Frescura è andato all'ospe- 
dale, ieri, il braccio rotto e il polroone forato. E l'odor 
dell'abetaia riempie i nostri, intatti, con prepotenza. 
Chi pensa agli imboscati ? E ci fu qualcuno che mi 
parve segnato di più alto destino, ed ora arranca pe- 
nosamente nelle ambagi dell' imboscamento. Quando 
mai si sentirà così voluttuosamente vivere ? E quel poco 
di fìfa'^che viene qualche volta è un pungolo a quella 
voluttà. Questi alberi infranti, queste ville diroccate, 
queste proprietà violate — ed erano garantite e tutelate 
da tante carte malmconiche, e un vecchio le custodisce 
negli archivi — tutto ciò è buon quadro alla nostra 
vigilia, distruttrice e rinnovatrice. E almeno, se io ci 
rimetto un braccio, ci sia uno che ci ha rimesso la villa. 

Stravacchiamoci nelle poltroncine viennesi, tiria- 
moci davanti un tavolinetto buffo, illudiamoci d'essere 
all'ora del tè, quando il grande albergo era fiorito di 
giovani dame e di lucidi gentiluomini con la barba 
fatta. Il tè ce lo farà Zanella nella cucinetta da sciatore. 
Causons ìitérature. Non c'era una rivista inglese in 
quell'angolo? Peccato che dai vetri rotti tirino dei 
maledetti spifferi. Dove sarà a quest'ora il vecchio 
barone viennese che l'estate di due anni fa adagiava 
il suo diplomatico deretano su questa poltrona ? Certo 
in queir angoletto è sbocciato un flirt, concluso poi 
nelle ombre discrete del parco : adesso sarebbe perico- 
loso andare a buio per il parco. 

Un sibilo, un rombo. E poi un piovere di calcinacci, 
sfascio, franamento d'assi e di travi. Questa è caduta 



39 



sull'albergo. (( Sonnez, s'il Vous plaìt — un coup pour 
le gar^ion, deux pour la femme de chambre ». 



La 65^ parte per Borgo, per il riposo. (Questo vuol 
dire che domani la faranno partire improvvisamente, al- 
larme notturno, nemmeno il tempo d'asciugare le scarpe, 
per qualche altra quota dove un piccolo posto sarà 
stato sorpreso o una pattuglia nemica osservata, ma 
questa è la storia di tutti i giorni.). I soldati sfilano con 
le damigiane, i fiaschi, la gavetta colma di vino, [e 
castagne arrosto nella pentola. Il povero bottino di 
guerra. Da Borgo a Marter la via è segnata da una 
scia di rosso sulla neve. All'appostamento delle mitra- 
gliatrici del Feltre a Ponte del Zaccon c'è il posto 
di ristoro; quei ragazzi hcuino tirato fuori una botte, 
l'hanno scoperchiata, tutti i soldati che passano ricevono 
il viatico della tazza piena di vino. 

Sfilata nera nel grigiore crepuscolare della neve 
e della nebbia, cumulo di tedio e di silenzio, umidore 
di freddo all'agguato tutto il giorno sulle giubbe pe- 
netra ora dentro. 

Ta-pun. Pare una cosa ridicola l'allarme di com- 
battimento nell'alta soavità della neve sulla valle 
sepolta. 



Nella pioggia ero di pattuglia, tre altre pattuglie 
ai lati, una è stata sorpresa, incappata proprio dentro 
un nido di cecchini, fucilate improvvise hanno pun- 



— 40 — 

teggiato il bosco, tutto un combattimento stupido senza 
capirci nulla con feriti, e adesso, pigramente xaimic- 
chiato nel saccopelo', viltà pomeridiana, ripensando 
agli episodi della mattinata. 

A furia di giostrarci ci s'incappa. Pensare che sono 
condannato a questa vicenda eterna. Bontà della vita 
cbe tenta morbidamente, con rievocazioni galeotte, i 
-sansi riluttanti. Altri febbrai che andavo nel sole ti- 
mido senza meta né urgenza, al ritorno una poltrona 
soffice per agio di libri da postillare (le ♦ ascensioni in 
montagna parentesi che si sa che si chiudono). 

Bosco pioggia allarme balzar fuori dal tepore del 
saccopelo perchè uno scroscio di fucilate ha frustato 
la notte, sono cose che mi dipingo con terrore. Si ex- 
surgat adversus me praelium... E un romanzo francese 
trovato qui dipinge regni felici di sicurezza e di blan- 
dizie al corpo. Signore, liberatemi dal demone me- 
ridiano. 



Nella camera calda del collega della sussistenza 
il tè mesciuto con cura dalla teiera elegante, i tova- 
gliolini rossi. Discorsi di donne lontane, figurine desi- 
derate balzano fuori dal fumo della pipa, in fondo al 
bicchiere di grappa c'è il tepore d'una bambina volut- 
tuosa. Fuori, lo stillicidio delle grondaie. E il senso 
che questa vigilia sarà brevissima. 

A notte, ordine improvviso, si riparte per gli avam- 
posti, nella cruda nitidezza lunare. Stavolta si deve 



— 41 — 

prenidere una quota, ed un aocidente di noto cucuzzolo 
di cui i miei vecchi chiacchierano a bassa voce, perchè 
sarà un osso duro da rosegar. E mentre nxi avvio per 
ila strada nota, con i soldati gravi e seri, i territoriali 
della mensa cause nt litérature. 

Ripulita l'anima dalle vigliaccherie del pomeriggio 
piovoso quando il romanzo francese di bottino dipingeva 
accidiosi paradisi, e l'ho ripulita in un combattimento 
buono e seno, una lunga giornata di sole, una lunga 
notte in cui vigilai con gli occhi aridi il corso impla- 
cabilmente lento della luna, scandito dalle cannonate, 
sentendo strisciare intorno l'insidia. Ed ora dolcissimo 
discendere verso il riposo, con i soldati che si sono 
battuti bene, che ricordano con pacatezza i nomi dei 
caduti lassù. Rare fucilate. Il digiuno di trentasei ore, 
la veglia di due notti, non disturbano più. Si ficcano 
gli occhi nelle lontananze come se le s-i possedessero, 
si guata all'avvenire corne se lo avessimo segnato del 
nostro volere. 

Ma quando si arriva al Comando e si- apprende il 
nome degli altri morti, e poi, ecco, un velivolo squac- 
chera giù due bombe a quattro metri da te e non sai 
ancora adesso come sei rimasto illeso, allora pensi che 
il senso della tregua è ingannevole. 

Il capitano medico, mcazzatissimo, scaraventa i 
piatti della casa contro l'aeroplano scocciatore. 



— Ho un bocconcino per Lei — dice il signor 
maggiore, e intanto si tira parecchie volte la barba. 



— Al- 
ile congiunge le punte argute, allunga quella di siniistia 
per guardarsela bene. E allora, allarmi, gli uomini si 
radunino sotto il porticato, si armino, si tengano pronti. 
Pivotti, nastrino azzurro sulla giubba guadagnato 
al Freikofel, dieci giorni di rigore guadagnati in ac- 
cantonamento, si toglie di tasca uno straccetto, l'infila 
sulla bacchetta, dà una sfruconata rapida alla canna, 
ispezion'arm, caricat. Appoggia il fucile al muro, e 
rivolgendosi a una piccola schiera attonita di soldati 
che non fanno la guerra : 

— Vaiidlè — dice. — Adeso vojo più ben a quel 
che a la pagnoca. 



Abbiamo seppellito i nostri morti ultimi, stanotte. 
Gli abbiamo recati a spalla nelle bare bianche che 
Zamai ha costruito, attraverso le stradette tortuose. S'as- 
siepavano sulle porte degli accantonamenti i soldati, i 
rancieri s'affacciavano neri da antri vividi di fumo. Le 
montagne s'intagliavano sul frugare irrequieto dei ri- 
flettori, erano sonore di cannonate. E mentte il cap- 
pellano scandiva rapidamente le parole latine del coni- 
miato, l'ombrello curioso d'un razzo si aprì sul cielo 
nero. 

Non siete morti ancora, morti nostri che avete messo 
le scarpe al sole durante la pattuglia, e nemmeno il 
tem,po di dire al compagno che badava ai fatti suoi 
-— saludame la me vocia. Quando su questa valle al- 
legra rifioriranno le rose e s'avvicenderanno i raccolti 
e vendemmi eranno ragazze bionde le vigne, quando il 



— 43 - 

contadino cingerà di siepi spinose il suo campicello 
disfacendo i reticolati laboriosi, allora sì, nel campo- 
santo bianco sarete ben morti, così dimenticati da nuovi 
prepotenti viventi, così lontani dagli altri morti della 
famiglia. Oggi v'aspetta a rapporto il capitano che ab- 
biamo portato giù stroncato dalla bomba il giorno di 
settembre. La sua lapide non è lontana, nel cimitero 
di Strigno, con le sue parole semplici e conscie. ((Al 
capitano Fausto Bianchi - morto combattendo - gli 
alpini )). E dite al capitano che la sua compagnia è 
sempre quella, e scatta, e nessuno ha paura, se venga 
su il suo numero, di andare a raggiungerlo dove s'è 
già avviato sereno. Non siete morti ancora, oggi. Siete 
i compagni stanchi che riposano' di ritorno da una dura 
giornata d'avamposti; siete ancora con noi, solo così 
stracchi che l'allarme non vi desta e il tenente esce in 
combattimento senza di voi, siete come il compagno 
che è rimasto di piantone agli zaini, e che non vediamo 
con noi nell'ora che le pallottole cominciano a frullare. 
E c'è chi pensa : — Che fortuna Toni ! Toccargli 
d'essere di piantone proprio oggi ! 

(A meno che non gli succeda come a Gallina, che 
a star di piantone gli è arrivata una scheggia di granata 
che gli ha portato via tre dita, è vero che va borghese 
ed ha finito di vedere le streghe, ma dopo come farà 
a lavorare nel campo ?). 



Ed ora la compagnia si snoda su per una bella 
strada allegra fra gli abeti, verso le cime bianche. 



— 44 — 

Adesso che ci deve essere bisogno di noi lassù ci 
portan via dal fondo valle dove s'è combattuto tutto 
l'inverno, dove ci si era quasi dimenticati di essere 
alpini, andando da un paese all'altro ed alloggiando 
nelle ville saccheggiate. Adesso comincia rumor di 
guerra anche sulle cime : torniamo alpini buoni per la 
guerra lassù. E la fanteria discende dai riposi invernali 
alla sua guerra di fondo valle. 

Si ritorna alle baracchette seppellite dal gelo, a! 
pungolo delle tormente, al fragore- dei grandi torrenti. 
Casa nostra, regnO' nostro. Salutiamo le ultime case. 
Salutiamo gli ultimi borghesi. Salutiamo le ultime 
donne. Di sesso f eminile, lassù, non ci sarà che la 
Regana o la Maesnotta O' qualche altra muletta irre- 
quieta. Degan e Ferracin, salutate le ultime osterie, 
dove non è vero che prendevate la balla, come dicono 
i profani, ma ritrovavate con l'aiuto d'un litro di rosso 
tante cose buone smarrite, il letto, i piccoli, la casa, 
la speranza di tornarci dopo la guerra, i compagni della 
miniera, gli scherzi da recluta. E salutiamo la dolce 
primavera, che rifiorisce di mandorli la valle e sposa 
le campanule ai reticolati di seconda linea e intenerisce 
di musco le rocce. Lassù, dietro le trincee bianche, fra 
i camminamenti candidi, fra le molli insidie delle nevi 
ritroveremo l'intatto inverno, che incide con puro stile 
le linee dei monti e abbassa dinanzi alle piccole guardie 
il sipario della nevicata. 

Si ritorno ad altri rischi, si fiutano altri combatti- 
menti ; ma s'è allegri come si andasse a riposo. Ritor- 
niamo ad una vecchia conoscenza, ad una montagna che 



— 45 — 

si pigliò il settembre scorso. I ricordi si affollano. Qui 
ci aveva la tenda il maggiore (bel tipo, era la più in 
vista); là rimasero morti quei cinque di fanteria la notte 
-della tormenta ; là scavarmno rapidamente nel rigore 
notturno la prim.a trincea che ci proteggesse all'alba 
dal fuoco dell'artiglieria. E a mano a mano die si sale 
si affacciano al di là «dei più bassi monti altri vec- 
chioni riconosciuti, ardue muraglie contro cui ci siamo 
rotta la testa, su cui si affermò la nostra conquista. 
Lasciammo qua e là i nostri morti a santificare le tappe 
dell'avanzata. E alcuno è caduto così mncmzi che an- 
cora il terreno dove egli giacque è conteso e nemmeno 
le più audaci pattuglie lo sopravanzano. 

Così è caduto il nostro capitano, sotto i reticolati 
nemici, una tragica notte di combattimento costellata 
di scoppi, sonora di schianti, in un labirinto di ghiaccio 
e di rocce sgretolate dal martellare delle mitragliatrici. 



Aprile. 

Ho accompagnato a Feltre gli alpini più vecchi 
delle compagnie con una ventina di muli che passiamo 
alle salimerie del nuovo battaglione Pavione. Hanno 
finito di fare la guena, i veci, almeno in compagnia; 
passano conducenti, ed è buon premio a questi uomini 
di quarant'anni che sono stati in prima linea un anno 
mentre i loro coetanei di fanteria con le pipe rosse 
gli insidiavano le mog'li nei paesetti veneti allegri di 
vino. E c'è il mio vecchio Prade fra essi, che si 
portò così bene con tanto spaghetto in corpo la notte 



— 46 — 

di marzo; e e* è Bosciiet che vidi partire da Feltre 
per la guerra il mese di luglio, ubriaco fradicio, e 
la moglie gli portava lo zaino e il bastone, e gli asciu- 
gava il sudore sulla fronte. Si va lenti nel sole d'aprile 
per la strada frequente di case e di osterie ; i ragazzini 
accorrono petulanti e strillano al passaggio, le ragazze 
ridono maligne a quella sfilata di soldati coi capelli 

grigi. 



Nella baracchetta, l'acqua calda ronza sulla stufa, 
e il saccopelo sulla branda slabbra il suo promettente 
biancore. Al di là del tramezzo di tavole ci sono i 
soldati. Viene attraverso le commettiture il tanfo caldo 
e la cantata lenta che concilia il sonno. 

In mezzo al mare ci sta un tavolino 
Si mangia si beve del vino 

in mezzo al mar.... 

Fuori la tormenta scatena i suoi lupatti inferociti, 
squassa le pareti di legno, ricaccia a tratti il fumo 
della sfiifa entro la stanzn. Ma si sta bene, dentro. 
Ti racconterò una storia sentimentale, ragazzo mio, 
mentre (il caffè ci aiuta a vegliare. Un'avventuretta a 
Venezia in breve licenza, ed essa era bionda e odo- 
rosa "di sole e di desideri compressi. Un gocciolo di 
grappa, aqua vitae, nel caffè ? Anzi, tutta una tazza. E 
il vento commenta picchiando alle finestrelle cigolanti. 
Amore di tena lontana, il bicchierino... Bisboccia. 

Ma bisogna andare a dare un'occhiata a quelle 



— 47 — 

povere vedette che scontano tutti i peccati della loro 
giovinezza in questa notte di tregenda. Appena messo 
fuori il naso, ecco di colpo la baracca è scomparsa, e 
il vento ci morde e !e tenebre ci avviticchiano urlando; 
eccoci afferrati idalla tempestosa notte dell' alpe. Su per 
camminamenti che la neve colma, nel biancore ingan- 
nevole, nel turbine che mozza il respiro, si arranca 
verso la cresta del monte. A tratti, il vento cade: un 
silenzio stupito fluisce, sale dalla valle la vece del 
fiume; la nebbia dilacerata scopre qualche stellina fred- 
dolosa. Ma subito di nuovo la grandine dei ghiaccioli 
imperversa e i fischi del vento plagiano il cigolio di 
granate in arrivo. Su per la montagna nemica, nel- 
l'uniforme inganno nebbioso, t'andare pare senza fine; 
ci si crede sperduti in un atroce labirinto fra le cedevoli 
insidie, nella selvaggia fanfara del vento-. E quando 
si arriva alla vedetta all'imbocco della trincea coperta 
e gli si raccomanda buona guardia, il soldato risponde 
tranquillo : 

— No stia a dubitar, sior tenente. 

E allora si può ritornar sicuri nella baracca, e mentre 
traverso il tramezzo viene il cantare piiì stracco 

In mezzo al mare ci sta una sirena, 
Io zaino fa male alla schiena, 

in mezzo al mar.... 

scriveremo una lettera sentimentale a quella dell'av- 
ventura. 



— 48 — 

Un amico è molto in guerra. Il migliore del ce- 
nacolo arguto che ora disperso su per i monti e lungo 
i fiumi combattuti assolve il suo compito (ma c'è quello 
che arranca nelle ambagi dell'imboscamento). Il mi- 
gliore : quello che lucido ed arguto ammoniva spesso 
il nostro spirito, e fu nostro devoto compagno sulle 
grandi vie delle montagne quando non sapevamo ancora 
che salirle era un'anticipazione ed una preparazione — 
ohe partì per il suo posto sul Carso senza jattanza e 
senza esaltazione, umilmente; ma che il giorno in cui, 
terza categoria, aveva dovuto scegliere un'arma per 
farvi l'ufficiale, aveva scelto la fanteria. 

Ma del suo discreto amore per la montagna, ma 
della sua uniforme di soldato, ma del suo chiaro spirito 
di sacrificio che resta, se non la salma spezzata dalla 
granata, composta nel cimitero idi Quisca ? 

E oggi rabbrividisco per questa morte così lontana, 
come se gli fossi stato accanto nel combattimento ed 
avessi udito il suo urlo di colpito. Non i cento lasciati 
qua e là stroncati sulla zolla combattuta ; ma quest'uno 
ammonisce che non è dunque un giuoco agevole questa 
guerra desiderata dalla nostra giovinezza, a cui ve- 
nimmo come alla più bella avventura della nostra vita ; 
che la morte miete anche così presso a me, al di qua 
della muraglia cinese degli sconosciuti e degli indiffe- 
renti ; che anche a me può toccare la pallottola che 
piomba nel nulla — più nulla, né questo fresco di 
vento né questo tenero d'azzurro — quella a cui non 
vorrei credere ancora. 

Et ecce afflictio spiritus. Oggi mi rannuvola un'uggia 



— 49 — 

della guerra, un'ansietà che si prolunghi dunque troppo, 
dinanzi agli occhi non altra previsione che un seguito 
di tasti bianch/i e neri di combattimento e di soste, 
un'infernale musica senza termine fino al sacrificio ine- 
vitabile. Oggi questo bombardamento m'irrita, che mi 
accompagna mentre salgo alla cima. Ho il presenti- 
mento stupido che la morte dell'amico non sia che un 
inizio ed un avvertimento; e parlerei male, oggi, ai 
miei soldati, della necessità di morirci. 

Su nella gloria del sole salgono con noi le laccate 
montagne bianche, il piano lucidato dal vento s'adagia 
fra due costoni neri. Il vento è ebbro di rapina: il 
bombardamento spruzza neve sul viso, fischia, s'in- 
frange suir impassibilità nevosa, pare un giuoco in- 
nocuo di capriuole sulla mulattiera. Ma lo shrapnell 
schianta sonoro sul cielo pallido e puro ; ma lassù 
quel mulo e quell'artigliere della montagna a un colpo 
bene azzeccato sono scomparsi. Sta a vedere che 
adesso che hemno imparato continuano. E sì che dob- 
biamo passare di là. Che bisogno aveva il maggiore 
di sgambettare fin lassìi in cima a constatare se è pro- 
prio vero che tirano ? Ma lui , barbetta che fiuta il 
tempo, gambe salde, respira quest'aria di battaglia 
come quella d'una pineta balsamica. Già: lui non ha 
questa morte, come ho io oggi fra me ed il mio co- 
raggio. 



La nuova stagione ha ancora, qui, i suoi colori 
invernali, bianco e nero ed azzurro: e spesso poi si 



P. Monelli, Le scarpe al sole - 4. 



— 50 — 

cruccia con noi ed un malinconico inverno di nebbia 
le dà il cambio, costringe gli occhi delle vedette a 
farsi più acuti, si perpetua in certe vallette o in certi 
cavi dei monti. Ma oggi che maggio s'ingramaglia 
per noi di nebbie straccione, la primavera è venuta 
con un mazzo di fiori che Deòn il conducente ha in- 
filato fra le orecchie di Rondèl. Buon dì, muletto 
capriccioso, e buono il saluto dei fiorii che puzzano 
di basto e di stallìo, ma hanno i colori del piano ! 
Ed ecco la nebbia s'apre, e brilla laggiiì lo smeraldo 
della valle, umido come gli occhi bugiardi di lei. 

La mattina ilare si beve con abbandono il sole, 
barbaglii di luce traboccano sopra il cristallo delle 
montagne. Sull'azzurro le nuvolette bianche e rosse 
del bombardamento s'accordano con armonia allegra, 
la perfetta musica sottolinea con esultanza quella festa 
di calori, che pare necessaria integrazione allo splen- 
dore del mattino di maggio. 

Nuovi uomini sono giunti stamane a colmare i vuoti. 
Fila grigia contro un chiaro fumar di nebbie dalla 
valle, parole fiere del maggiore. Lo fissano negli occhi 
i nuovi arrivati, uomini di trent'anni, reclute delle terze 
categorie, molti venuti d'oltre oceano a questa guerra 
dalla tranquillità della famiglia esotica. Ascoltano pa- 
rdle di patria e di necessità di morire per essa (pensano 
essi ad umiliazioni sofferte nella terra straniera ?). Fic- 
cano gli occhi chiari sulla cresta del monte e sanno 
che di là c'è un nemico che è dovere uccidere, che 



— 51 — 

è fierezza d'uomo non temere. Questo lo dice anche 
il cappellano. Che occorre mdagare di più ? Un senso 
oscuro di necessità viene dalle cose, ed essi non lo 
discutono, quello stesso che li spinse oltremonte per 
campare la vita, die li venne a prendere un giorno 
per dargli un'uniforme e-d un fucile. La patria è questo 
ritomo ai monti che gli hanno dato la vita, questo 
ritrovare sulla bocca dei compagni il dialetto della 
ma<ire. Riconoscono gli alberi e i pendii poveri e le 
colate dei ghiaioni. Non era così, la terra dove si parla 
forestiero; questa ha un alltro odore, un altro coloire, 
aderisce con piij contatti al corpo che la tocca. È la 
patria. E stasera monteranno calmi e sicuri d!i vedetta, 
il cuore saldo nell'inganno lunare come i massi delle 
loro montagne, e le nostalgie della famiglia simili a 
quelle delle lontananze cercate per guadagnarsi il pane, 
e la morte non creduta più temibile che quella all'ag- 
guato nelle miniere. 



La montagna è tutta vestita di nebbia, e le figura 
dei soldati sembrano profili opachi dì bonzi sopra una 
porcellana cinese. Lo sappiamo già. Fra poco la nebbia 
si condenserà in neve, un neviscolare granuloso e per- 
sistente; poi comincerà a soffiarci dentro il vento, e 
dal piano verde e oro si vedrà la nostra montagna 
allegramente arruffata d'una crinieretta bianca. A sera 
quella crinieretta sarà bionda, e se io fossi laggiù 
dove stanno i muli la paragonerei all'aureo caschetto 



— 52 — 

di capelli ideila bambina dicianiioveiine lontana, capelli 
tagliati corti, 

fili di sole tiepido 

— sciacquare succhiare dell'onda 
pigra sulla spiaggia calda 

— piccoli seni compressi 
dalla tunichetta azzurra — 
malinconia di non esserci 
che viene dalle lettere ardite 
dove tenta inutilmente la mia 
lontananza. 

Ma siccome ci sono dentro, farò degli altri paragoni, 
se avrò l'agio di farli: mi parrà di essere Falstaff nella 
tregenda dei folletti armati di pungiglioni, il ragazzino 
carogna che ha stuzzicato un vespaio. Ma so anche 
che alla fine le nebbie si sfreneranno in una galoppata 
gioiosa per cinger di danza altre vette, risorriderà a 
noi il piano verde e oro, riemergeranno d'intorno le 
montagne incipriate di fresco, nei loro accappatoi 
azzurri. 

E risaluteremo i nostri avversari lassìi sulla cresta 
ardua, con la sua collana di reticolati. 

— Bon dì, porrei ! Non l'avete fatta ier notte la 
vostra sonatina. Ci sonava la tempesta, da voi, 

E loro ci risponderanno in discreto latino : 

— ■■ Porco alpino taliano, alpino, caput ! 

Fatti così i convenevoli mattutini, ricominceremo 
a romperci le scatole. 

Finché viene la sera, una bella sera che cammina 
soave per il cielo con i suoi chiodi lucidi sulle suole 



— 53 — 

azzune. Il vento è posato, un gelo senza brividi dilaga 
sulla neve, le vedette del posto avanzato dispongono 
vicino a se le bombe a mano. Ed ecco, dalla cima 
nemica geme un suono d'armonica lento, strascicato: 
lo commenta il torrente invisibile nella valle, le piccole 
guardie da una parte e dall'altra stanno sospese ad 
ascoltare. Tenerezza di focolari lontani, nella malga 
veneta o nella capanna della puszta, donne lontane che 
attendono da tanto tempo, odore di maggio nelle zolle 
del campo lontano... 
La musica finisce. 

— Bona note, porci taliani. 

— Bona note, fioi de cani. 

Silenzio. Ora l'insidia striscia con le scarpe di vel- 
luto, tenta con dita di sonno gli occhi delle vedette, 
spia ai rico verini di piccola guardia. La notte formi- 
cola d'ansia ; le stelle occhieggiano curiose dalle loro 
poltrone turchine. Daremo alle stelle spettacolo sta- 
notte ? Mistero — segreto. Bisognerebbe domandarlo 
ai fili del telefono che borbottano tutta notte, ma i fili 
del telefono sono funzionari onesti e tacciono quello 
che c'è da tacere. Forse lo sanno i razzi che s'alzano 
petulanti dalle cime oscure... Ma i signori razzi si 
levano in fretta, danno un'occhiata tutt'intomo e rica- 
dono m un dignitoso silenzio. E non si sente più che 
un brontolare lontano di cannoni, sull'altipiano. 



Le notti di piccola guardia, ohe stanchi di contare 
i razzi che levano da Valpiana e d'indagare sulla to- 



— 54 — 

pografia -delle fucilate di londo valle, sì rientra nel 
baracchino e ci si mette a leggere il igiornale da cima a 
fondo, si provano delle impressioni curiose, trovando 
per esempio negli annunci economici che il (( giovane 
ventiduenne esente militare off resi », o dalla cronaca 
cittadina spulciando delle notiziole come questa : (( Al- 
l' Accademia di Scienze Morali lessero gli Accade- 
mici... ». 

Ma guarda, i buoni parrucconi, in una saletta tran- 
quilla, ben chiusa, che si sorbettano qualche dotta 
filatessa, e che cosina curiosa se ci cascasse in mezzo 
per un caso strano uno di questi 132 che rigano il 
nostro cielo ! 

Che cosa lessero gli Accademici ? « Della tutela 
dalle servitù non apparenti sul fondo venduto... )). 

Si, è bene che qualcuno isi preoccupi di queste 
cose, mentre noi sovvertiamo i termini e i confini, e 
dei muretti divisori ci facciamo trincee, e dei boschi 
baracche, e dei grandi alberi abbattute, e dove le 
malghe ci coprono il campo di tiro facciamo piazza 
pulita. Il nemico per conto suo' incendia paesi : criniere 
di fiamme troppe volte sferzano le notti della valle. 
Ma dalla nostra acre forza distruggitrice verrà la rin- 
novazione, e le vigne che inselvatichiscono torneranno 
a produrre il vino caro ai sapienti. Sotto le ali della 
guerra le cose intristiscono: noi distruggiamo, ma an- 
diamo oltre. Passiamo, e saremo distrutti : ma verranno 
dopo quelli che intanto si addottorano e cavilleranno 
sulle questioni di eredità. 

Diceva Meleto a Socrate — questo affermo sulla 



— 55 — 

testimonianza di Alfredo Fanzini — : Se tutti andassero 
alla guerra, chi resterebbe per onorare quelli che vanno 
alla guerra ? 

Ma queste sono malinconie. Un sole chiaro è giunto 
d'improvviso, accompagnato da una selvaggia romba di 
cannonate. Tutta la valle ne è sonora, il perfetto az- 
zurro si costella delle nuvolette bianche. E nelle pause 
del fragore si sente laggiiì, sulla valle dell'Adige, un 
ininterrotto brontolio in sordma. 

Notizie non giungono. Ma sappiamo che dalle ve- 
drette alle pale dolomitiche arde il combattimento. Pal- 
pitiamo d'ansia con gli ignoti compagni, sparsi su tutte 
le cime, in agguato a tutte le forcelle. E quando d'im- 
provviso ci fascia una perfetta calma che sembra insidia, 
ecco che assistiamo, trepidi spettatori, alla battaglia 
della montagna vicina, fumo di cannonate, lordume che 
sboccia sulla neve. 



È. insidia, d'Uomini e di stagione. Il chiaro cielo 
s'offusca, nuvole s'adunano, si sciolgono in pioggia di 
giorno, in tormenta ed in grandine di notte, indugiano 
in perpetua umida nebbia. Il suolo ile tende le coperte 
gli abiti sono un uguale fracidume. E adesso abbiamo 
poco agio di osservare la battaglia sulle altre cime, che 
anche su di noi c'è la festa di Santa Barbara. 

I muli non portano piìi la posta e il vino, portano 
cartucce e bombe, il conducente non ha più voglia di 
fare le quattro chiacchiere, scarica in fretta il suo ba- 



— 56 — 

gaglio e poi giù di nuovo per la mulattiera battuta dai 
colpi lunghi che mancano la cima, e non ride Pupo se 
ridiamo noi vedendolo arrancare laggiù tirandosi dietro 
a furia il mulo riluttante, preoccupato più della discesa 
che del bombardamento. 

I soldati, addossati alla baracchetta nell'illusione 
d'averne riparo, seguono con occhi affettuosi i buoni 
muli, compagni della nostra guerra aspra, solo legame 
adesso fra noi e il mondo verde e oro della valle 
imboscata. 

Damin racconta che Antelao, ch'era il mulo più 
brutto del battaglion Feltre, in Libia fu premiato al 
valore per il suo contegno tranquillo sotto le fucilate, 
e ottenne doppia razione di biada, e continua a sbafarsi 
la doppia razione anche adesso che non è più militare 
perchè l'hanno riformato e venduto a un carrettiere di 
Lamon. 

Facchin dice che i muli sanno mettersi sull'attenti 
— , drizzano il muso e levano le orecchie e gli brillano 
gli occhi e stanno così fermi nella stalla qucindo vien 
dentro el major e al piantone di scuderia gli viene 
l'idea di dar l'attenti. 

Oomimeniti allegri e buoni, mentre la carovana a di- 
stanza scende balzelloni la mulattiera, conducenti con 
i cappelli così schiacciati che sembrano conici, penne 
a bilanciarm, il fregio sull'orecchio, moschetto a tra- 
còlla, peli grigi fra la barba piena — e i muli cauti 
nella discesa, occhiatine di traverso se c'è un po' 
d'erba da beccare, ma del resto seri e tranquilli come 
si conviene a bestie che fanno la campagna, arruolate 



— 57 — 

nei registri del Re, che portano nomi di monti e di 
valli, e che sono la provvidenza di quei poveri alpini 
lassù che potrebbero ben morire di fame o dovrebbero 
mollar la cima se non ci fossero loro. Brave bestie, 
che non marcan visita la mattina anche se la sussistenza 
gli cala la razione, che portan saldo sul basto il vino 
(se non fosse quel mulo che porta il Chianti, che, pare 
impossibile, cade sempre e rompe sempre un fiasco 
per ogni cassetta di venticinque !), portano le ghirbe 
e i viveri, il rotolo spinoso e le munizioni, il cappellano 
e il ferito, e quando il tenente non vede e la salita è 
dura tiran su aggrappato alla coda il conducente ■ — 
e non ragliano, e non calciano che quando proprio 
ci hanno il vizio, ma allora calciano onestamente e lo 
dicono prima con una strizzatina d'occhi, e peggio per 
chi non la capisce ; e vanno indifferenti nella cannonata 
e nella tormenta, e trovano il sentiero nella notte e 
nella nebbia, e quando balenano gli shrapnells sulla 
testa s'addossano alla parete con uno sguardo intelli- 
gente e aspettano che il conducente gli dica — arri ; 
e non chiedono il cambio. 



È venuta la nostra volta. Qualche notizia la davano 
i conducenti, in fretta, incontrollata: voci di ritirata, 
l'altipiano girato, Cima Dodici perduta: udivamo i 
rombi dei bombardamenti lontani, vedevamo, le notti, 
accendersi sull'altipiano gli scoppi delle artiglierie. 

Poi venne il fragore delle battaglie di foindo valle, 



— 58 — 

sempre più vicine, sempre più iindietro; e su d'i noi un 
bombardamento di tre giorni, stupido e irregolare, che 
uccideva i soldati nei ricoveri e i muli sulla mulattiera. 
E mai più notizie : ma tre giorni fa è partita la 
fortezza, e ieri la batteria da 75, e stanotte anche la 
montagna; poi una compagini a dell battaglione è stata 
buttata, d' urgenza, in fondo valle ; e stamane siamo 
rimasti soli, una compagnia sulla cima battuta, e qui 
sui fianchi e al fondo valle l'attacco, e allora l'angoscia 
che se in fondo valle non tengono — - ma sono i fieri 
alpinotti del Monrosa, grazie al cielo — si rimane in- 
trappolati come coglioni. 

E adesso la differenza fra noi e gli altri soldati ; 
che marciano filano se ne vanno, bagagli icasse dii 
cottura aggeggi al seguito, ingombrano le strade, si 
ritirano lontano da questo inferno e da quest'ansia, 
diffondono le notizie che i conducenti portano su, pur 
reticenti, e ogni volta con l'allegro stupore di trovarci 
ancora. Ma se domani nella gloria del contrattacco sa- 
remo alle calcagna del nemico che scappa, saranno 
alla pari con noi. Amen. 

Cima Dodici dunque è caduta ? Ma noi la vediamo 
dietro a noi, e bisogna torcere anche il collo. Ma 
allora noi } E l'Italia ? 

Noi si deve star qui, ad ogni costo, fino a stasera 
a buio. Assistere impotenti alla discesa, dalle cime di 
contro, dei battaglioni nemici, e non uno schizzetto 
da montagna per accopparli ! Stamattina gli abbiamo 
respinti, ed anche i fianchi si sono disimpegnati, pare 



— 59 — 

— ma la giornata si trascina implacabilmente lenta per 
un cielo pieno di luce, e l'agonia dell'attesa è più 
amara per il senso di crollo che incombe, senza cbe 
sappiamo nulla di preciso. 

A mezzogiorno, un salto al comando a prender no- 
tizie. Sulla soglia del baracchino il maggiore, gli occhi 
vivi segnati dalle veglie, pipetta spenta, si tormenta 
il pizzo grigiastro. 

— Venga qua. Ha fatto 1' esame di coscienza ? 
Stasera siamo tutti circondati. 

— Ma no. 

— Ma si, glielo dico io. Posti avanzati, già, posti 
d'onore. (( Mi raccomando a loro — imitazione della 
voce d'un ufficiale della divisione — ;. Se loro non ten- 
gono duro fino a stasera, compromettono la ritirata )). 
E noi si tiene duro, e poi ci chiappano, e allora ab- 
biamo lo scorno e le beffe. 

Una buona bestemmia per aiutar la parola ritrosa 
ad uscire. 

— E poi loro hanno la gloria e la pappa. Ma noi, 
perchè si sta aggrappati con le unghie e con i denti 
dove ci schiaffano, perchè siamo buona razza sccirpona 
e gente con la testa dura, an'dremo a Mauthausen con 
una gamba rotta — se la ci va bene. Quando ci sarà 
poi la pace e andrò in un salotto verrà di nuovo quella 
signora a dirmi: Chiel a l'è mac di alpin... 

Non ci pensi. Venga qui che ho ili rimedio alle 
malinconie. Ha l'amorosa Lei? 

— Eh già. 

— Male, perchè sarà tradito, anche Lei. Ma questo 



— 60 — 

qui, vede, è un amico che non tradisce. Beva. Beva 
ancora. Io ne ho bevuti cinque o sei, e adesso sono 
più tranquillo. Prima ero nero, isa ; nero come 'la polvere 
nera che scoppia sempre fuori proposito. Ne beva un 
altro. 

E allora il sole rosso nel corpo, calore nelle idee, 
spiare con più ottimismo se la sera si decida a rabbuiare 
questo cielo lucido percorso -da un sole più neghittoso 
di quello che obbedì a Giosuè — e se no, e se ci at- 
taccano prima di buio, cercheremo almeno di accop- 
parne parecchi, per idar tempo a! tempo, chissà che 
intanto la Divisione possa mettere in salvo tutte le sue 
scartoffie . 

Finché, a sera, a drappelletti, giù a rotoloni per 
il bosco buio, adunata a Malga la Costa di là dalla 
valle ; sicuri delle spalle che ce le difende Garbarà 
da Trento, che ha voluto per sé quel posto pericoloiso 
perchè — dice — conosce bene i posti . 

^ Brucia anche Bieno. 

Chiarore nuovo infatti s'aggiunge a queUo che di- 
laga dal fondo valle, luminosità più cruda che atteggia 
fantasticamente ì tronchi dei boschi e ingigantisce i 
profili delle montagne. La ritirata si compie fìn'ora 
indisturbata, sotto un gelo sottile di pioggia che for- 
micola nel corpo, inzuppa le coperte, grava il cappotto; 
— marcia opprimente, dolorosa, che lassù sulla cresta 
nera contro il cielo di rame s'abbandonano senza neces- 
sità di combattimento le linee munite, ile baracohette , 
tutta una vita tumultuosa di due mesi trascorsi a fortifl- 



— 61 — 

carsi ed a punzecchiare il nemiico. I morti lasciamo lassù 
e le tomlbe rustiche, le nostre memorie e un brano di vita 
così intenso che l'amputazione ci duole come della 
carne raschiata via dall'osso. Ma il nostro compito di 
protezione è finito: bisogna andarsene, verso un futuro 
incerto, un buio assoluto di notizie e di previsioni. 

Al fiume, presso il ponticello, idue ombre nere, 
immobili. 

— Chi siete ? 

— Batajun Monrosa. I devuma fé sauté el punt. 

— C'è mezza compagnia ancora, Vengon giù a 
scaglioni. 

— Sgnursì. A dev sauté da sì a n'ura. 
Dall'altra parte, all'imbocco della mulattiera che 

riprende su per il costone boscoso, un gruppetto d'uo- 
mini che si riposa, tazze di latta picchiate contro i sassi 
dei torrente, crocchio' di denti forti nella galletta. 

— Avanti, ragazzi. Che cosa avete lì } 

— Gh'avemo el morto, sior tenente. Panato 
Giovanni. 

— È già morto ? 

— Siorsì. A Malga Lopetto el ga tra un sospiron, 
pò el xe resta secco. 

L'ultimo colpito della giornata. Un colpo stracco 
d'artiglieria buttato a caso sulla montagna gli aveva 
fracassato il fianco. Ma portarlo via, bisogna, anche 
se morto, che i nemici non lo spoglino e Io lascino a 
marcir fra la neve ed i ginepri. Gli faremo una croce, 
scriveremo sopra il suo nome, il numero della compa- 
gnia, e dormirà in terra consacrata, in mezzo a noi: 



— 62 — 

sentirà ancora alla mattina Collet che porta il caffè 
alle piccole guardie e chiama : Moca ! quando il cielo 
schiara da oriente e le vedette aguzzano di più gli occhi 
perchè è l'ora che i tedeschi attaccano. 

— Sior tenente, go paura ch'el vaga a far el furier 
d'alogiamento, el morto; ch'el sia andà avanti a pre- 
pararne el posto a l'altro mondo. 

Una risatina in sordina; la tazza nel tascapane, 
tintinnìo di metalli urtati, la breve carovana rico- 
mincia a salire di nuovo. 

— Sior tenente, parcosa po' se retiremo ? 

— Mah ! Ordini così. 

— Sior tenente, el ma conta Patricelli che quei 
porrei de todeschi li xe rivai a ^ima Undese e a f ima 
Dòdese. Alora sì che staremo ben! 

— Sior tenente, parche no semo restai in gima al 
Sétole ? Bombe a man e fusilade, ostia, voria vederli 
sti musi (de Mòcheni a ciapame le posision ! 

Hanno ragione, di chiedere. Ma che sanno loro, 
ma che so io di quello che succede ? Nulla. Si combatte 
si va si resta, numero nella massa enoorme che on- 
deggia, che manovra su questa fronte di montagna dai 
ghiacciai ai giaroni idolomitàci — e nel cuore un ran- 
core sordo, uno strazio di non sapere di non vedere, 
ombre nel fondo d'una valle nera che vanno senza una 
risposta al loro domandare, rifuggendo da un male 
ignoto, affrettando a Dio sa quale male maggiore. 
Gregge. Domani ci diranno: Alt, e muori qui. E si 
morderà la neve lì, ignorando se ciò ha giovato o no, 
se almeno il sacrificio vuol dire una vittoria duecento 



— 63 — 

"chilometri più in là, per io meno un paese salvato dal 
bombardamento, una riscossa favorita per più felici 
tempi. Sì, a bomibe a mano e fucilate, e l'incitamento 
che pare venga dalle malghe laggiù dove la moglie 
attende alle sconcianti fatiche da uomo, il nemico lo 
avrebbero contenuto , questi alpinacici brontolomi. Ma di- 
spacci cifrati e sigle e misteri ronzano le notti nei 
fili, quando noi s'è all'appostamento: e c'è lontano lon- 
tano di qui, in un bel castello ovattato idi tappeti e di 
arazzi, un ufficiale che iscrive, un dattilografo che copia, 
un piantone che esce , un colonnello che sagramenta : 
la nostra mitologia, gli dèi misteriosi òhe tirano i fili del 
nostro destino. 



Questa è la guerra. Non il rischio di morte, non 
la rossa girandola della granata che accieca e seppel- 
lisce lin un turbine sonoro ((( quando si leva che intorno 
si mira — tutto smarrito della grande angoscia...))) : ma 
sentirsi così marionette nelle mani di un burattinaio 
Ignoto, gela talvolta il cuore, come se la mano di 
un morto l'afferri. 

Inchiodato alla trincea finché non viene l'ordine 
del cambio, improvviso come la cannonata o la tor- 
menta ; avvinto al rischio in agguato, al destino segnato 
dal numero del plotone dall'elemento di trincea, e non 
levarti la camicia quando vuoi, e non scrivere a casa 
quando vuoi, e anche le più umili esigenze della vita 
segnate da una regola fuori di te — questa è la guerra. 
Non la conosce il corrispondente che viene in trincea 



— 64 — 

a vedere come ci stiamo; non la conosce l'ufficiale di 
stato maggiore che viene a cercarci una med;aglia. 
Quando ha appetito o fifa o sodisfazione del lavoro 
compiuto tira fuori l'orologio e dice — È tardi, debbo 
andarmene — . E se ha preso i pidocchi, quando arriva 
a casa fa il bagno. 

— Anche Castel nuovo brucia — disse Pono. 
Ed un uguale crepitìo di fucilate vicinissime salì d'im- 
provviso dalla valile, punteggiato dalle detonazioni più 
cupe delle bombe. 

— Attaccano in fondo valle. 

— No. È il magazzino di Pontarso che brucia. 
Ma un ticchettìo di fucilate scese dall'alto della 

montagna abbandonata, e disse qualcuno: 

— È il tenente Garbari con la retroguardia, che 
è attaccato. 

— Son za qua. Dio bestia. Gnanca el tempo de 
dormir, no i ne lassa. 

Nessuno risponde. La marcia arranca lenta nella 
oscurità rossa, nel pacciume pesante del fango e della 
neve, per la mulattiera erta. La stanchezza delle lunghe 
notti vigilate s'aggrappa allo zaino, il sonno lega le 
membra : nel corpo quattro morsi di galletta, nell'animo 
la desolazione delle cose che si abbandonano per 
sempre. I brevi alt — corpi buttati a terra, e dopo 
pochi istanti già il ronfare di qualcuno — non fanno 
che stancare di più. Lo stomaco vuoto brontola: ma 
bisogna andare adagio con i viveri di riserva — non 
ci sarà, no, Collet col rancio a Malga la Costa, ma 



— 65 — 

forse si troverà l'ordine di andare ancora avanti. Non 
si bestemmia nemmeno piiì. Si va meccanicamente, 
senza pensare ; il sonno blandisce con tentazioni atroci 
tutte le membra, passa con dita lievi sul volto, sussuna 
vigliaccherie infinitamente dolci. Che importa la riti- 
rata, gli incendi, il rischio dell'attacco^ Trovare un 
poco di paglia, un poco di fuoco sul rovescio; dormire, 
sognare la casa lontana, dove il letto è così grande e 
tiepido. 

E la notte tormentata dagli scoppi, crinita d'incendi, 
scivola fredda sulle montagne verso un'alba minacciosa 
e livida. 

Il bosco dirada. Appare l'orlo di una colletta, due 
ombre intagliate sul cielo. Vedette. Ci siamo. 
— ■ Chi va là ? 

— Alpini. 

— Parola. 

— Ostia, Sacramento, no te senti, paese, che semo 
alpini, Dio Madonna? 

La vedetta si persuade a quel fiotto di bestemmie 
paesane. 

— Avanti. 

Piij avanti, ecco il maggiore, che parla con un 
altro, incappucciato, grosso: il colonnello, dev'essere. 
Pochi ordini stizziti. Gli uomini si fermino sotto, in 
gruppo; inutile fare le tende; dormano pure. C'è già 
una compagnia, arrivata; e ci sono due altri battaglioni 
che si sono ritirati da un'altra parte. E un intrico di 
salmerie, muli ritrosi, bestemmie di conducenti, urti 

P. Monelli, Le scarpe al sole - 5, 



— 66 — 

di zoccoli ferrati sul sasso. La notte -declina: nuvole 
più chiare si sfilacciano sulla valle dalla parte di 
oriente. 

— Vien qui, Monelli, se vuoi dormire. C'è un 
copertone. 

E sdraiati sul copertone, rannicchiati sotto un telo 
da tenda su cui la pioggia batte dolcemente, a pugni 
chiusi, ci si abbandona finalmente al sonno. 

Poi sveglia brutale (già dormendo s'è sempre avuto 
r incubo di marciare), sonnacchioso ritrovarsi degli 
ordini chiusi, l'appello, partenza. Mangiare, un po' di 
galletta, mezza scatoletta. Piove. Dagli abeti fradici 
sotto cui si sfila imbronciati stillano freddo e tristezza. 
Il cielo non ha colore, non ha ora — un perpetuo cre- 
puscolo' fuma dal suolo e ondeggia basso dalle nuvole. 
In marcia verso posizioni di montagna ignote, senza un 
reticolato, senza un elemento di trincea, id^onde con- 
tendere il passo al nemico che dilaga. Salendo si ritrova 
un mevicare largo e senza vento, che aduna un'uguale 
desolazione sul suolo, fascia l 'animo in un uguale rim- 
pianto di luce e di caldo. 

E questo pugno grigio di uomini perduti sull'enorme 
dosso nevoso, nel crepuscolo di tempesta, sono i tuoi 
difensori, Italia. Fra le tue blandizie primaverili e 
l'avidità del nemico non ci sono che questi sbrindellati, 
Italia che maturi ora le ciliege rosse nel sole e sebbene 
il pericolo batta alle porte te ne freghi un poco, e le. 
tue fanciulle spingono i piccoli seni novelli fuori e gli 
esonerati si comperano il cappello di paglia. Fiorite 



— Ó7 — 

sicure in pace, fanciulle italiche, e ricercate sicuri nella 
tarda notte il A'ostro letto, imboscati. Arrotondino la 
pancia senza tremare i fornitori che ci hanno mandato 
queste bombe che non scoppiano e queste scarpe che 
scoppiano da tutte le parti. Qui Zollet vi difende, 
vecchio che arranca bestemmiando per l'artrite, ma ge- 
loso del suo fucile, che domani colpirà giusto perchè 
gli ha dedicato il grasso della sua scatoletta ; qui Cec- 
chet VI tutela, che lavorò vent'anni in tedescheria e 
quando fa le mine parla tedesco e dice fertig e Feuer 
come ha appreso nelle miniere della Slesia, ma è il 
pili mulo della compagnia, e si ostina a portare con la 
sua squadra un macinilo di mitragliatrice Penno. E 
Smaniotto che è già stato ferito tre volte, e Cesco 
che è figlio unico di una vecchietta che vende la frutta 
sullo stradone di Primolano, e le manda cinque lire a! 
mese. Bravi ragazzi, ciarloni e lavandai, ma taciturni 
quando il lavoro è duro, segnati dalla loro aspra vita 
d'una serietà triste e attonita, che non hanno nemmeno 
la speranza di andare ad istruire le reclute come il te- 
nente, e se non gli piglia la ferita non hanno altro 
miraggio che quindici giorni all'anno per potersi sbor- 
niare senza paura dei carabinieri. Che cosa hanno avuto 
essi di questa patria per la quale sono ora il più saldo 
baluardo, che gli fu matrigna e gli spinse alle miniere 
della Vestfaglia e alle strade della Galizia, e gli ha 
richiamati di tanto in tanto a caricarsi lo zaino ? Ma il 
concetto di patria coincide in essi con un senso oscuro 
ma efficace di dovere. Imperativo categorico. È dovere. 
Lo hanno appreso nei primi anni da ragazzi fra le 



— 68 — 

montagne rudi, ove la vita è segnata da sbane defini- 
tive che non si posson varcare, con rigore di stagioim, 
con asprezza di elementi, con difficoltà che richiedono 
per essere superate accorgimenti ripetuti ed uguali. E 
sole gioie al corpo l'abbraccio con la ragazza che poi 
bisogna sposare — dovere — , il vino che fa dimen- 
ticare gli affanni — ecco perchè si sborniano. E iiion 
altro riposo che guardare il fumoi della pipa vaporare 
contro linee di montagne o lontananze azzurre che non 
tentano. E per i più, poiché la montagna dà poco, 
l'emigrazione all'estero ed il lavoro serio tenace diuro, 
fra gente ignota e che non s'ama, sotto una regola 
ignota e che non s'indaga : la galleria di cui non si 
conosce lo' sccpo, la strada che conduce a plaghe 
sconosciute e che non percorreranno, dopo, quando 
l'avranno finita e santificata con qualche morto. La vita 
gli si prolunga così nel pensiero fino ad una vecchiaia 
che consenta di tornare per sempre al paese natio, 
guardando più pacati di tra il fumo della pipa le lon- 
tananze azzurre che non tentano. Segnati di questo 
stampo austero, sono venuti alla guerra come ad un 
nuovo aspetto della loro vita dura — vi hanno trovato 
lo stesso dovere ferreo — vi hanno portato lo stesso 
coraggio serio e sereno. Ed un confuso senso di co- 
munione con questo suolo che sanno scavare, con questi 
alberi che sanno abbattere e squadrare e polire, con 
queste rocce che sanno afferrare ed incidere, è il loro 
amor di patria. 

E le bestemmie che tirano per scandire la marcia 
— il cappellano lo sa benissimo — non sono che un 



— 69 — 

mezzo magico per sopportare la fatica, simile all'ansito 
riitmico adi ogni colpo <di pistoletto, simile airaha aha 
quando tirano un pezzo dia 149. Una buona bestemmia 
disimpegna l'otturatore che s'incanta, spezza in due 
la galletta, aiuta ad infilare le scarpe gelate, strappa 
il tappo della bottiglia di grappa che l'amico condu- 
cente ha regalato — lui che viene dal tepore della 
stalla — perchè metta un po' di caldo dentro. 

E se il tenente non postilla il suo discorso con un 
moccolo', perde tutto l'effetto oratorio — come è inutile 
affibbiare dieci di rigore se non si appoggiano con un 
buon calcio dato con tutta la pianta del piede — alla 
maniera del colonnello Ragni. 

Turm è dello stesso avviso, spalle come un armadio 
e un testone tondo sul collo corto (il testone glielo ruppe 
una scheggia a Sant'Osvaldo e ringrazi il cielo che 
aveva un elmo Farina se no andava al Creatore — 
adesso per riconoscenza l'elmo Farina non lo smette piiì). 

— Non ubbriacarti piìì, Turin. 

— El me domanda rimposibile, sior Tenente. 

— Almeno non farti più vedere da me ubbriaco. 

— Questo sì, sior tenente. 

— E se ti vedo ubbriaco ti caccio dentro. 

— Cossa me voi lo metal drento ! El me daga su 
la testassa, alora, ch'el ghe daga su la testasisa die sto 
su con de Turin che no 'l sa gnanca farla franca ! 

Attendati sulla neve a mezzanotte. Ma alle tre 
abbiamo dovuto andarcene di nuovo perchè se no qual- 
cuno si svegliava gelato. Ripartiamo verso la forcella, 
sotto la pioggia, nel rombo del combattimento a valle. 



ì 



— 70 — 

L'alba chiara, ia mattina fresca, e poi il sole sulle 
cime raggiunte ridanno la vita. Ma non c'è tregua. 

Allarmi, ancora. Il nemico insegue. Cannonate, fu- 
cilate, rapido costruire di ripari. Fame. A notte, al- 
larmi, -tormenta, igelo: non si dormirà dunque più? 



26 Maggio. 

E all'alba salgono i due bei battaglioni ungheresi 
che vengono dai riposi della Serbia all'allettante con- 
quista d'Italia, rimessi a nuovo, bei ragazzi giovani, 
vigorosa riserva dell'Imperatore. Giungono nella nebbia, 
reticolati non s'è fatto in tempo a fcirne; la prima linea 
è un velo, urrà ! e son dentro alle linee. Hanno dunque 
vinto! La certezza della vittoria l' abbiamo ritrovata, 
dopo, sul volto proteso di tutti i morti, stroncati dalle 
bombe, fulminati, baionettati : con quella certezza son 
morti. Che c'era, indietro, il battaglion Feltre. Che 
era stato portato via la sera prima dal fondo valle — 
e 1 soldati credevano che s' andasse a riposo; e 
quando gli avevan fatto fare a un certo punto per 
fila sinistr, avviandoli per quel sentierino da bestie nella 
notte e nella pioggia, avevano incominciato ad ostiare, 
ed erano giunti proprio allora dopo sei ore di marcia 
affranti e arrabbiatissimi. E al grido di allarme, e al 
grido di trionfo degli ungheresi, 'son balzati, hanno 
sfogata la loro rabbia su quella gente. Pochi minuti 
di mischia, con le bombe, con le baionette; i serventi 



— 71 — 

delle mitragliatrici ungheresi sono uccisi sull'arma; i 
conquistatori tagliano la corda, s'arrendono: mitraglia- 
trici nostre fulmineamente portate innanzi, piazzate sul 
fianco, chiudono il varco a chi scampa ; chi sarà tornato, 
dei bei battaglioni ungheresi, a raccontar la sconfitta? 
Éxl ecco balenò d'improvviso il sole ; s'aprirono alla 
vista le pili lontane montagne lavate dalla pioggia, le 
montagne di Feltre violacee e turchine ; e dietro bril- 
lavano i fiumi del piano, le case del piano s'accen- 
devano nel mattino. Così soave si offriva la dolce Italia 
ai suoi difensori, così canzonatoria rideva agli occhi 
stupiti dei prigionieri. 

I soMati si buttano per il bosco a cercare i morti, 
gli portano via le belle scarpe nuove. 



La notte discende presto con neve, tormenta che 
ci fruga sotto la giubba fradicia, ci frusta in grandine 
fina sul viso. Siamo turgidi d'umido, la fame affloscia 
il ventre vuoto dove danza la mezza scatoletta insipida. 
Sotto le tende vuote, senza saccopelo, senza coperte, 
ci Si avviticchia l'uno all'altro per suscitare dai nostri 
corpi un poco di calore. Ma ad ogni istante un allarme, 
un ranocchiare di mitragliatrici obbliga a balzar fuori, 
a distenderci sulla neve e frugare con occhi pesanti il 
buio. Fuori l'uragano è ostile ed atroce come un nemico 
tangibile, il freddo smaglia il cuore piiì che il rischio, 
pare che la montagna si sollevi per scacciarci da se. E se 
l'allarmi cessa, sotto i teli che schioccano non c'è riposo : 



— 11 — 

la congelazione è in agguato e formicola sotto le scarpe, 
il sonno martella le tempie e iì cranio con pugni pe- 
santi. E se chiudo gli occhi sogno che un saccopelo 
umido m'avvolga nel fondo d'un meire freddo. 

E la mitragliatrice richiama fuori, ancora. Ancora 
la notte m' assorbe con il suo succhio selvaggio, spreme 
dalie vene irrigidite quel poco di sangue che ci sia 
rimasto. No, ecco, così non si vive più. La tormenta 
s'avventa con tentacoli aguzzi e mi squassa, ed io tremo 
desolatamente, e se la fucileria s'è taciuta è solo perchè 
più sonora urli la tempesta alla mia dedizione. Così 
sia. Venga dunque una buona volta il nemico e mi 
prenda e mi trascini dove vuole e m'uccida. Amen. 
Già può /venire ll'allarme, chi ci riesce a tirare fuod 
ancora una volta i soldati dalla ten<la ? Patria, famiglia, 
dovere... parole, parole senz'eco nel mio spasimo. C'è 
una tempesta di neve che tutto travolge, c'è qui uno 
straccio nella notte che batte i denti e non pensa e 
non vuole, s'abbandona all'uragano che se lo meni e se 
lo batta come si fa d'uno straccio. 

E questo è ancora un allarmi ? Un soldato ansante 
urla alle mie orecchie qualchecosa -di serio. Guardo 
l'uomo, non penso alle sue parole, penso come è pos- 
sibile che non avvinca anche lui questa rete di gelo 
umido che mi paralizza. Nemico, sotto il ciglio, ve- 
detta sorpresa... Ombre sfilano dalle tende verso la 
trincea di neve : non so se li ho chiamati io, ma vengono 
ancora una volta, i bravi ragazzi. Viene anche Zanella, 
con una bottiglia di vino. Non domando per quale 
miracolo abbia trovato una bottiglia di vino sulla mon- 



— 73 — 

tagna sconvolta — ma mi ci attacco al collo, ed ecco, 
il sole rosso si riaccende nel corpo, torno buon soldato, 
un calcio proietta un riluttante nella buca e insuper- 
bisce la mia vigliaccheria. 

I soldati, propagginati nella fossa di neve, ululano 
nello stroscio delle fucilate il loro tormento di dannati. 



Il Colonnello Ragni dice che farà passare in fanteria 
l'ufficiale delle salmerie che non gli manda del vino. 
Acqua dal cielo ed acqua nel corpo, si sente già le 
rane nella pancia. Il suo grande riso rosso getta sprazzi 
di coraggio su tutti. E il mio maggiore si stuzzica la 
. barbetta grigiastra, e se la granata incomincia a graf- 
fiare il cielo, va a fare quattro passi per questa colletta 
calva e liscia come una mano. Ma Bosio' ha del vino, 
lui. E se gli si porta un biglietto, dice: — Ca beiva, 
che ai n'je dcò par chièl. — Poi fa le sue confidenze. 
— Mi volevano mandare dei reticolati, ho risposto che 
è inutile, perchè si va meglio alla baionetta, quando 
si è senza. 

Questi uomini respirano il coraggio come questo 
vento robusto. Non ci si figura come siano vissuti nel 
flaccido tempo di pace : si pensa che siano venuti fuori 
per questa guerra a impersonare in sé la tranquilla vo- 
lontà del battaglione che deve andare a morire. Si 
dipingeva l'eroe un asceta trasumanato dal disprezzo 
della vita. Ma costoro hanno la stoffa di tranquilli gau- 
denti, e non parlate di donnine al maggiore che gli 
brillano subito gli occhi. No, non sono maturati da 
k letture severe, nessun proposito di rinuncia batte al 



— 74 — 

loro cuore sano. Mia ecco, ili loro battaglione òa. dieci 
giorni comibatte e marcia e digiuna nel vento e nella 
pioggia, invia barelle in fondo valle, molti buoni alpini 
mettono le scarpe al sole, si comincia a brontolare sor- 
damente contro i comandi che ci abbandonano, contro 
la sussistenza che ci affama, ed essi hanno il viso sereno 
e calmo e affissandolo ce ne viene come una sorsata 
di grappa; e se l'austriaco attacca, balzano in testa al 
battaglione con una bestemmia, nessuno resta addietro, 
e il combattimento diviene una rossa festa allegra. 



Che cosa importa se il sole porta il bombardamento ? 
Ma è il sole, finalmente ! Vaporare degli umori di 
quindici giorni, stordimento di asciugarsi a quel tepore. 



Ordine di fare una scappata in Italia per servizio, 
A rompicollo per il sentiero battuto, verso Bieno bom- 
bardato. 

Bieno è tutta una rovina. Le bifore nere son salve 
sul muro incendiato; l'affresco è scomparso. Fetore d'in- 
cendio, odore di cose morte. Ma fuori alla campagna 
m'attende la primavera. Calda odorosa turbante. C'era 
dunque la primavera al mondo, e noi non lo sapevamo 
lassù, confìtti al perpetuo inverno! Mi rotolo ebbro sul 
prato, abbevero gli occhi aridi di verde, procedo stor- 
dito, sonnambulo, sulla strada bianca. 



— 75 — 

— Tu vieni da Monte Gima ? 

Rispondo di sì con un poco di gloriola. Penso che 
il tenente m'ammiri. Monte Cima, ostia, vuol dire il 
nemico fermato, un caposaldo conservato, il tuo pran- 
zetto soave che m'hai offerto, collega, garantito da 
quel nostro tener duro lassù. Guardo i gigli sul tavolo, 
dalla finestra aperta un affaccendarsi di piantoni, uin 
attendente esce con un paio di gambali lucidi, un 
sergente nella casa di contro si fa la riga davanti allo 
specchio... guardo tutto ciò con un'aria di protezione 
benevola. E il tenente mi dice : 

— Stai attento che se il Generale ti vede con quei 
capelli lunghi ti caccia dentro. 



Anche il Capitano s'informa se vengo da Monte 
Cima. 

— E dove va Lei ? 

— E il foglio di viaggio dov'è ? 

Rispondo che non ce l'ho, che lassù non ce n'è, 
che m'hanno detto che me lo faranno al Comando 
della Divisione. Ed allora il capitano scatta: 

— Ma questi battaglioni che non hanno nemmeno 
il cofano di cancelleria con sé, che cosa fanno, per Dio ? 

Vorrei dirgli che, modestamente, qualche cosa ab- 
biamo fatto. Ma è così incazzato, con quegli aiutanti 
maggiori che non sanno fare il loro mestiere, ed II 
sergente che viene chiamato a un suonare stizzito di 
campanello mi guarda con così evidente aria di me- 
raviglia quando sa che non ho il foglio di viaggio, che 



— 76 — 

comincio a pensare che veramente il torto è nostro. E 
non 'dico più nulla. Se sapessero poi che l'aiutante 
maggiore sono io ! 

A Castelfranco Veneto mi dice il tenente dtel 
Commissariato : 

— Quando finisce questa guerra ? Sarebbe ora che 
finisse questa guerra. Io, ve<li, con questa guerra non 
ne posso più. Auff , questa guerra ! 

Anche la leggiadra dattilografa che ticchetta vicino 
a lui mi guarda stanca, con due occhioni cerchiati. Dio 
buono, come sono cerchiati i due occhioni di velluto ! 
Anche la povera signorma deve essere stufa della 
guerra. Poi ne viene un'altra che porta il protocollo, 
e se ne va sculettando, carina tanto, icon le unghie 
lucide e troppo profumo addosso. Poi ne entra una 
terza — mio Dio, come sono belle le donne a Ca- 
stelfranco Veneto ! Questa è la direttrice del magaz- 
zino, e il tenente m'affida" ad essa con un gesto stanco. 

E il magazzino è tutto un affaccendarsi di ragazzone 
solide, forti, che fanno ruzzolare i sacchi di scarpe 
ed issano rotoli di coperte airultimo piano, schiamaz- 
zando, strillando, sghignazzando, facce accese, denti 
sani che brillano, odor di giovinezza di primavera di 
prati, trilli idi risate che richiamano il tenente fuori dal 
suo ufficio, poveretto', e deve venire fra quel gineceo 
sgambettante per mettere un poco di disciplina. Ha 
ragione, questa guerra è troppo dura per lui. 



__ 77 — 

Mi dice la signora in treno : ^ ^ 

— Ma lei che viene di lassù, dica un poco, quando 
finirà la guerra ? 

— Non lo sappiamo bene, cara signora. Quando 
ci viene ài cambio e si discende verso le baracchette 
dove ci si può cavare le scarpe la guerra è finita, per 
noi. E quando viene l'allarmi cbe si d'eve tornare su, 
allora si pensa veramente cbe la guerra sia una con- 
danna eterna, un vaso delle Danaidi per questa buona 
gioventù cbe gli si caccia dentro. 

— Ma lei la fa volentieri la guerra 7 

— Oh Diio, signora, questa è una domanda troppo 
difficile. Sarebbe come se io ile chiedessi se Lei va vo- 
lentieri dal dentista per ifarsi cavare un dente che le fa 
male. Lei ci va con angoscioso coraggio, non è vero? 
E così, con angoscioso coraggio, i miei ragazzi sì pre- 
parano a balzcu: fuori quando gli si dice che è ora di 
farlo. 

— - Io penso che la cosa più terribile sia non potersi 
fare la barba tutti i giorni. 

— Ha ragione, signora. È terribile non potersi 
sentire rasato e dciver mangiare la, galletta con le mani 
sporche. Ma ci sono altre cose che sono forse più 
brutte : bere l'acqua d'un laghetto dove hanno but- 
tato dei morti, per esempio, o contarsi le dita dei 
piedi quando ci si cavano le scarpe dopo quindici 

I giorni che le si portano, per esser sicuri che ci siano 
^ tutte. Ed è anche triste, signora, vedere partire sulla 
barella il collega morto, e vedere giungere dopo qual- 
che giorno la sua posta, le lettere di sua madre. 



— 78 — 

- — Ah, grazie al cielo, mio figlio non ha tante idee 
per la testa. Ha seguito i miei consigli ed è scrittu- 
rale in un magazzino avanzato, oh Dio sì, ma sempre 
al sicuro. Vuole bene a sua mamma e non vuole farla 
morire di pena. 

— È bell'esempio di amor figliale, signora. Le si- 
gnore spartane davano al figliuolo lo scudo e dicevano: 
o con questo o su questo. Ma quei giovinotti che ser- 
rando con i denti le labbra muovevano contro il per- 
siano in falange, non amavano, pare, le loro madti. 
Amavano, tutt'al più, la Ioto patria. 

— Ma io me ne infischio della patria. 

Chi parla così non è più la vecchia signora. La 
vecchia signora tace guardando dai finestrini un rosso 
tramonto bolognese, un sole rosso che ruzzola dietro 
una fila di pioppi. Generale beone che passa in ri- 
vista i coscritti impalati. O non forse, signora, una 
bottiglia d'inchiostro rosso di quello che usa Suo figlio 
nel magazzino avanzato che s'è rovesciata dietro una 
rastrelliera di lapis copiativi ? 

Quello che s'infischia della patria è il maturo si- 
gnore dell'angolo. Ha la busta di cuoio consunta del- 
l'avvocato o deirusurario. Ha le scarpe del giallo più 
zabaione, la cravatta dell'azzurro più vespertino. E 
la faccia è tonda e lucida di cittadino sudore. Il si- 
gnore corregge l'asprezza delle sue parole. 

— .Oh Dio, si capisce, la patria sì deve dunque 
amarla. Ma quando ci ruba i più sacri affetti, alllora... 

(( Allora » è il me ne infischio di prima. Si pensa 
dove alberghino, m queirepa agiata, i più sacri af- 



— 19 — 

fetti. Forse i più sacri affetti soeo lo zucchero che oggi 
gli misurarxo, la veglia notturna a caffè che un decreto 
del prefetto gli tronca troppo presto, i bagni di mare 
al lido che i velivoli nemici gli turbano. Santo Dio, 
anche per le tranquille digestioni di questi cittadini 
■combattono i miei scarponi, lassù. (Stamane da Bas- 
sano che tamburellante insistenza di bombardamento 
su verso le cime, verso Castelgomberto e Monte Fior !). 
Sì. E anche per quel sergentino lucido della Croce 
Rossa dell'angolo, che se amasse la sua patria sarebbe 
un sergen taccio di fanteria, scalcinato e magro, — e 
poi non sarebbe qui : sarebbe in tradotta. E anche per 
il giacchettino borghese del mezzo, a cui i bagordi 
ed i vizi prepararono il petto deficiente che ilo fece 
scartare alla visita medica, ma liscia con cura i capelli 
lunghi sulle orecchie e legge la guerra attraverso la 
interpretazione di Guido da Verona ((( Qggi -cantano ìe 
belle mitragliatrici ))). 

Amare la patria. Le parole suonano male, ormai, 
a ripeterle. Si odora qualche cosa di stantio, comie 
quando in soffitta si apre la cassa delle carte che pre- 
mevano tanto al nonno. Si ha la percezione che siano 
parole che non bisogna troppo ripetere per non gua- 
starne ,il senso, perchè non d-ven^ano un'accozzaglia 
di sillabe senz'anima. 

Il treno ci lascia nella città notturna, la madre sa- 
via, il signore pratico, al sergente azzimato, il giovi- 
notto vizioso; nella città tumultuosa e rumorosa che 
avvince con tentazioni nuove, che odora di vizio e di 



— 80 — 

vigliaccheria, spalanca-^ un letto raorbi<io al corpo, suc- 
chia dairanimo le res/istenze e caecella visioni lontane. 
Come si chiama quella troietta lucida nelF angolo del 
caffè che mi tenta con gli occhi bistrati } Io l'ho ve- 
duta un'altra volta e mi è piaciuta già un'altra volta, 
mi pare. 

Quando sono, entrato nel caffè con le mie scarpac- 
cie e — credo — con un po' di puzza attaccata al- 
l'uniforme, tre o quattro miìordini eleganti mi hanno 
guardato con deprecazione. (Guarda, anche i due che 
sono stati riformati per adipe ed ora lo arrotondano 
guadagnando milioni con le forniture). Ho pensato 
che veramente è inopportuno questo mio aspetto sbrin- 
dellato nella sala elegante ed ho cercato, timido, l'an- 
golo dove è seduta la troietta che mi par di cono- 
scere. 

— Tu vieni dalla guerra ? — mi dice essa. — 
Poverino. 

Come ti chiami ? 

Ora la creatura dipinta attingeva con il cannello 
di paglia e con m^olta con^punzione il succo d'una gra- 
natina. Rosso scintillìo di ghiaccio nel bicchiere, e un 
cappellino tondo e rosso sulle labbra ancora più rosse 
— sinfonia di rosso che avviò per vie nostalgiche il 
mio pensiero ■ — come quel sangue di tramonto veduto 
dal treno. « 

E allora mi sembrò che le labbra carmiine si schiu- 
dessero sulla neve dei dentìi per dirmi queste parole : 

— Non mi conosci più ? Non ti ricordi quando eri 
studente, che mi incontravi nelle veglie, ai tavolini die! 
poker, nelle camere separate ? Io avevo intrecciato 



— 81 — 

attorno al tuo cuore una rete oscura, e tu non avevi, 
allora, tante fisime per il capo. Anche tu pensavi che 
la patria è uin argomento retitorico, e il tuo desiderio 
scivolava sui miei seni lisci meglio ohe ora tu sugli 
sci nella montagna ostile. Che cosa vieni a fare qua 
giù, illuso ? A conversare con il solo che copre la 
sua vigliaccheria con professione d'umanità ? con il 
dotto per cui non c'è nulla di meglio al mondo che la 
postilla elaborata sul margine del libro nella saletta 
ben chiusa ? A chiedere qualche carezza facile al tuo 
digiuno ? Quando nella notte di battaglia ti dissero 
che la fronlte era rotta, che il nemico incalzava, che i 
croati s' affacciavano dalle forcelle superate alle valli 
d'Italia, qualche cosa si spezzò nel tuo cuore, e ti 
strinse un nodo alla gola, e fosti gonfio di sacrificio' e 
d'olocausto — non è vero ? Romantico ! Non prendi 
una Strega ? 

— Venga una Strega. 

E il cameriere porta la Strega nella tazzina da 
caffè. Perchè oggi è domenica, ed è vietato distribuire 
bevande alcoolnche. Con lo sitesso cavillo c'è un avvo- 
cato, laggiìi, che sentendo prossima la revisione della 
sua classe, s'è arruolato volontanlo. Già. Nel com- 
missariato. Speriamo che creino un nastrino per i vo- 
ìointarii di guerra, e sarà bel trofeo sul suo petto iargo, 
ove ci sarebbe tanto spazio per la porpora d'una ferita. 

Sono ancora parole dell'cimica dei tempi univer- 
sitari, o di nuovo questo fiato greve del caffè dipana 
dal cuore raggomitolato il filo delle meditazioni ? 

P. Monelli, Le scarpe al sole - 6. 



— 82 — 

— Vedi, l'amor d'i patria è una di quelle cate- 
gorie tìhe si deve semipie ammettere fino al giorno in 
cui non guasta i tuoi interessi. E tu ce- ne hai ancora, 
o agisci come se ne avessi, perohè non sei un uomo 
pratico. Viene la guerra — diceva quel tuo amico in- 
vasato d'amor idi patria. — Bisogna arruolarsi. — Ma 
non lo faceva, perchè se la guerra non fosse venuta, 
avrebbe perduto un mese — capisci ? un mese della 
sua vita — a servir la patria. Quando la guena venne 
e s'arruolò volontario — tanto, lo avrebbero ripreso lo 
stesso — si trovò un giorno ad una estrcizione a sorte 
per la fronte. Prima dell'estrazione, gli chiesero se 
sceglieva subito dii partire e lui disse : — Ma che fes- 
serie ! Bisogna esser pratici. 

Qucmdo voi siete lassù, leggete dei discorsoni sui 
giornali, non è vero? delle dimostrazioni patriottiche, 
dei banchetti per commemorare il rediuce, e simili .ce- 
rimonie. Bè, vedi, quella gente lì quando si ritrova a 
lumi attenuati si strizza l'occhio' come l'augure ro- 
mano. 

Ma queste sono malinconie. Non verrai stasera con 
me nell'alcova a luce violetta? Perchè io sono la tua 
amica dei tempi vuoti, e il mio nome è il nome di tutte 
le femminé(tte docili che blandirono la tua ignavia di 
studente. 



No, evidentemente la creatura che -decorava con 
grazia viziosa l'angolo del caffè non ha mai pensato a 
dirmi tutte queste cose. C'è soltanto — questo sì — 
l'invito all'alcova a luce violetta nei suoi occhi che 



— 83 — 

mi hanno versata un'occhiata tiepida pesante este- 
nuante — pioggia d'estate sulla siccità del mio de- 
siderio. 

Ma io, invece, sono uscito e sono andato al cine- 
matografo. Al cinematografo proiettavano la battaglia 
per la presa di Ala. Che era qualchecosa di buffo, una 
concezione quarantottesca, truppe al Savoia ! per quat- 
tro sullo stradone, piume di bersaglieri e trombe che 
suonavan l'attacco, ufficiali caracollanti, austriaci in 
fuga in ordine chiuso. 

Io espressi le mie proteste e la mia meraviglia con 
un po' d'esuberanza. Ma il mio vicino. mi guardò brutto 
e mi disse : 

— Scusi, se non le piace, se ne vada. 

— Ma caro signore, non vede che buffonata? Io 
che ho fatto la guerra, le dico che la guena non è 
così. 

— E che cotsa me ne importa ? Cosa volete venire 
a raccontarmi la guerra come la fate voi ! Lasciate che 
me la goda riprodotta come me la figuro io. 



PARTE SECONDA 



W.Xà yàg 7]dri mgcc àniévai, i^oì iihv 
UTtoQ-avov^évco, viilv de ^lcogo^svols' otcÓ- 
TSQOi de T}[ià)v BQ%ovtai ènì a^eivov TtQ&y^cc, 
adr}lov Ttavtl 7tlì]v i] rà d'sà. 

(" Ma già ora è di andare, io a morire, voi a vivere. 
Chi di noi andrà a star meglio, occulto è a ognuno, sai- 
Aochè a Dio „). (PLATONE. Apologia). 



Nel pomeriggio caldo fluiscono i torrenti del di- 
sgelo, la montagna si spoglia del suo orpello di neve, 
asciuga al sole la pelle lucida e scabra ; e profonda la 
cima con linee nette nel cielo. 

Ancora masticare la ràdica amara del rododendro, 
seduto sulla soglia della tenda passare in rivista la so- 
lennità delle vette dall' Adamello a Cima Mandriolo. 
La vedetta appoggiata con abbandono al muricoiuolo 
di sassi s'intona co^ì perfettamente al brunO' delle 
rocce che ne pare una necessaria integrazione. L'anima 
della montagna fluisce in lui da quel contatto primi- 
tivo e rude : la guerra è in lui una nuova legge da rocce 
di neve di oielo che non sa bene donde venga, ma che 
subisce con serenità come la tormenta e la nevicata. 
E guarda con occhi pigri sotto le ciglia socchiuse — 
ma vede lontano e sicuro — la rastrelliera delle cime 



. — 86 — 

■di fronte che dovremo bene un giorno conquistare, e 
la neve isu cui lascieiemo il sangue e le peste del com- 
battimento. Domani : ma è lo stesso domani (die im- 
porta se più remoto O' più prossimo ?) che porterà T in- 
verno e la vecchiaia e la morte necessaria. Vale dun- 
que la pena di angustiarsene ? Oggi il sole è buono e 
sincero — e che è al confronto il tepore dei tuoi occhi 
bistrati, amica bugiarda che vivi nella città artificiosa? 
Torpore e tepore fra i sassi. Rombi di mine atte- 
nuati, scoppi d'artiglieria poco frequenti sono come 
voci di tenporale che non toccano il tuo disdegno, 
montagna. La granata lorda la tua neve che la soffoca : 
la mina incide i tuoi flanciii, gli uomini graffiano la 
tua pelle per farsene ricoverò, il loro lordume ti ol- 
traggia, la trincea ulcera la tua cresta pura, e tu indif- 
ferente, montagna, ti abbeveri di cielo di vento e non 
curi. Quando i piccoli uomini avranno chiuso il loro 
giuoco, farai crollare con ritmo — che solo a noi ef- 
fìmeri par lento — le gallerie ove si rintanò la loro 
paura, livellerai il fianco sconciato dalla strada, il 
sole ti porta via la neve con il suo pacciume, i morti 
chiudi nel segreto delle tombe di ghiaccio. Ma attendi 
un'altra vicenda che a noi pare non essere ; continui 
il tuo combattimento eterno che ti consuma con ritmo 
che solo a noi effimeri pare non esistere. 

E di sotto la neve che se ne va appaiono mille 
laghetti, taluni ancora fioriti di gelo, ancora freddolosi 
ai piedi delle pareti nere, senza fremiti. Il comando 
ha il SUOI lago, ha i suoi sette od otto laghetti la 265.^: 



— 87 — 

uno ne hanno i cucinieri, uno i calzolai. Alcuni sono 
tragici custodi di salme : I due tenenti rimasti uccisi 
nel combattimento della settimana scorsa a Col San 
Giovanni, gli austriaci gli hanno buttati nello stagno 
che è a valle del passo di Cinque Croci. Noi non lo si 
sapeva, e ne bevevamo l'acqua. Non s'era accorto di 
aver il suo lago anche Garbali perchè era ancora sotto 
la neve } Se n'è accorto il giorno che camminando tran- 
quillamente colle mani in tasca e la pipa in bocca sentì 
cedei la neve e scomparve agli occhi attoniti d'una 
piccola guardia. Fu estratto che cantava : 

In mezzo al mare 
e' è un camin che fumano 
saranno la miei bella 
che si sconsumano.... 

(per apprezzare la canzonetta ci vuole un angoletto di 
baracca la sera che s'è trampellato tutto il giorno nella 
neve, e sulla tavola c'è una fila di fiaschi pieni e per 
terra un buon numero di fiaschi vuoti. Ripetere tre 
volte i primi due versetti, tutto il coro s'accanisca su- 
gli ultimi due. 

— E l'aria? 

— Ecco l'aria : 



'^ ^ ^ ^^^'U^U U 1 ' l u ^ 



u u U ?' I u f uiu 'U ^^ 



— 88 — 

Cantava dalla gioàa di avere anche lui il suo lago. 
Ora fioriscono le genziaine sulle rive sassose,, una zat- 
teretta riga le pigre acque brune. 

. Ma il lago più bello non l'ha nessuno, perchè 
adesso è in seconda linea : ed ha un nome così roman- 
tico che a ripeterlo adagio con il suo ritmo novenario 
si fantastica di cose impossibili e si pensa alla bam- 
bina : il lago di Costa Brunella. 

Il lago di Costa Brunella 
orrore di pareti nere 
oscure acque leggere 
nella solitudine enorme 
del taciturno senato 
dei macigni canuti. 
Solo nel ricordo son l'orme 
dei nemici sopravenuti 
per macchinare 1' agguato 
lungo le rive impassibili 
del lago di Costa Brunella. 

Il meriggio stagna 

nel cielo, l'accidia 

del cielo riflettono lisce 

l'acque, il silenzio polisce 

di purità la montagna 

dove s' accolse l' insidia, 

il lago che chiude il segreto n 

dei morti, che vigila il sonno 

dei morti, e per essi fiorisce 

le rive di genzianella, 

il lago di Costa Brunella. 

Ripeto adagio 

le sillabe romantiche 



89 



si pensa a due occhi imploranti che 

sanno un segreto 

ad una bocca dolorosa 

neir ombra delle chiome che vuole 

parlare e non osa non osa. 



Quando si arriva di notte che dall'alto viene un 
cantare di soldati e la nebbia corre a rannicchiarsi nel 
cavo ideile pcireti di roccia e il laghetto fuma (le nu- 
vole vi fanno sopra le capriole) e pare che le baracche 
siano dolci come salottini rossi dove Scikuntala versa 
il tè nelle tazzine rosse e invece c'è dentro un atten- 
dente che spidocchia il saccopelo — NOSTALGIA. Il mulo 
che porta le tavole e le cartuccie, ìa ghirba gocciolante 
e il gabbione che s'aggrappa ai rami penzoli degli 
abeti, non soffre la nostalgia e non aspetta la licenza. 

(Non è vero. Pensa la Beppa che è cieca d'un oc- 
chio e se fosse un soldato l'avrebbero riformata: a 
giugno l'erba era alta e tenera e chiarella e fiorita di 
gigli dallo stelo più dolce dell'acqua di fontana. E 
c'erano pascoli isu cui galoppare era un'ebbrezza. E 
non dovevo rampicar le erode con queste tavole lun- 
ghe che mi battono il muso e le orecchie.) 



Tutte le cose sono ovattate di nebbia. Il batta- 
glione sfila silenzioso verso il combattimento. Faccie 
serie , — fatue. Decisione segnata ai lati della bocca 



— 90 — 

sigillata. La nostalgia diviene ansia d'andare più oltie. 
Non anneghittiremo l'anima guardando una terra pro- 
messa fra gli intercolunnii del sonno (il dolce piano 
fra gli intercdlunniii dei cipressi). Non cipressi, qua su, 
solo il ginepro nano. E due ginepri nani strisciano sulla 
tomba recente del caporal maggiore Facchin colpito 
dal fulmine, con alitri tre della piccola guardia. 

Nuvole investono, nuvole respirano l'alito no'stro, 
esiliati idal sole. Ma il capitano die segna col dito, 
i'I ferito sulla ibairelila, ila linea pupatto'lesca delle bombe 
a mano, la pancetta dei sacchetti riempiti di terra, il 
* mulo che va tranquillo nella cannonata, sono le cose 
della nostra vita. Separate dal mondo dell'altra gente 
da una barriera più forte di quella della morte che se- 
para le nostre canzoni dai colloqui malinconici dei de- 
funti . 

E un ticchettare di macchina da scrivere è umori- 
stico nelle pause della mitragliatrice. 

Ricomincia, per noi, la guena combattuta. 

Ed ora il fardello delle cose vane dietro la schiena. 
Che vale domandare se ci butteremo per là via di 
Trento o se hanno bisogno laggiù di una diversione o 
di riempire i bollettini ? 

Oggi non siamo più quelli di ieri, curiosi al bom- 
bardamento, tranquilli ai soliti servizi di vedetta. Oggi 
il bombardamento che si sferra su di noi ha una logica 
connessione con una serie sicura di avvenimenti, ìa 
ruota ha ripreso^ ad andare e già siamo afferrati dentro 
anche noi. 



— 91 — 

E le baracche che abbandoneremo sono già cose 
morte per noi. Ne abbiamo distaccato la nostra anima 
che aderiva da un poco, pigra, a quell'agio, a quella 
coperta rossa, a quell'angolo muscoso di rocce (angolo 
morto). E il vino giungeva troppo regolare e il cuoco 
si raffinava troppo nella certezza che il mulo veniva 
ogni giorno con la spesa. Ma il destmo ci scaraventa 
di nuovo, con un calcio, nella mislea. E intorno, tutto 
è nuovo, freddo, nemico. 

Sopra il tumultuare, l'accavallarsi delle basse nu- 
vole, un pallore sinistro di sole sulle alte cime bigie 
contro il bigio del cielo; tristezza di crepuscolo che 
batte al cuore spalancato ad accoglierla, con presenti- 
menti, con rimpicinti, con timori. È l'ora in cui chi 
niorirà domani scrive la lettera presaga alla famiglia. 

Ma nulla il bombardamento su di noi al confronto 
di quello che s'accanisce sul Cauriòl conquistato e lo 
vela di nuvolaglia orrenda. E si pensa con accoramento 
ai fratelli alpini che lassij tengono duro. 

Tengono iduro. Se no che vale che Carteri sia 
morto, che fu il primo a porre il piede sulla vetta } 
Ma il suo attendente che lo seguiva, i Kaiser jàger che 
lo videro piccolo e goffo lo ruzzolarono con un urtone 
giù per il pendio fino al reticolato. E lui si rialzò, 
si scrollò e urlò il suo incitamento e la sua rabbia 
al resto del plotone che balzò dietro a lui sulla cima. 
E adesso, non si parla più di mollarla, la cima, e biso- 
gnerebbe ribattezzarla col nome del tenente che l'ha 
santificata col suo impeto di sacrificio. 



— 92 — 

Questo ce lo racconta Garbarino il piccolo, fac- 
cetta tonda e ilare, gli occhi lucidi dietro gli occhiali 
a stanghetta, fratello del Garbari da Trento del nostro 
battaglioine che è invece bcirbuto e stizzito sempre 
come una suocera. Garbarino aveva i lanciaspezzoni. 
Un magnifico arnese di guerra. Le bombande } Si va- 
dano a nascondere. Pensate un poco: gittata massima 
di uno spezzone cento metri, raggio d'azione, duecento. 
È portentoso. Con quei cocafuoco ha partecipato ai 
primi due giorni d'azione, volontariamente, perchè è 
d'un altro battaglione che non c'entra. Adesso è qui 
fra noi, di nuovo, ancoTa ebbro della battaglia. Ma ca- 
vargli le parole di bocca è uno stento. 

— Garbarino, hai lavorato bene con gli spazzoli } 

— Uhm ! Ammazzati molti, ne ho. 

E sorride ad una sua visione interiore che non 
vuole rivelarci. 

— Garbarino, come si stava quando hanno comin- 
ciato a bombardare ? 

— Uhm, male. 

Non idice altro, e sorride ancora al suo ricordo dii 
quelle ore tragiche. Perchè se lui dice che si stava 
male, doveva essere un iinferno lassù. 



Sotto la pioggia densa, nella notte oscura come un 
sotterraneo, per sentieri vertiginosi (si va tastando la 
roccia, ma un mfulo è tomboilato giù per la montagna 
e s'è fracassato là sotto); poi nell'alba chiarita a vista 



— 93 — 

d'un velo di neve sulle cime piìi alte, per boschi tre- 
pidi teneri, fra un crosciar d'acque schiumanti ; su per 
una ripa da bestie verso la nuova sede di combatti- 
mento, verso il truculento Cauriòl — a dare il cambio 
ai territoriali del Val Brenta che ieri hanno visto 
le streghe, lassìj, ma, ostia, il Cauriòl l'hanno tenuto. 

S'arriva a notte sotto la pioggia. Verso l'alba mi 
appoggio, affranto, alle ginocchia di un alpino che mi 
trovo sotto mano, e m'addor mento. Dopo poco mi 
sveglio' intirizzito e scuoto violentemente il corpo di- 
steso ed immobile del soldato. 

— Svegliati, peilandrone. 

Non si sveglierà piij, il pelandrone. Era un morto, 
il mio cuscino di stamane. 

Nel mio. buco iniquo di sasso crollante e di terra, 
asilo di millepiedi e di ragni, Zaneilla sente il biso- 
gno di far dell'eleganza. Dispone sul saccopelo la 
coperta ro^sa, appoggia uno specchietto al sasso, nel- 
l'angolo in fondo una scatola di biscotti inglesi che 
m'ha mandato il tenente d'amministrazione. Home. 

Bombardamento. Ora siamo avvolti nella nuvola- 
glia degli scoppi, e chi ci vede dal basso gli si strin- 
gerà il cuore pensando a noi. I colpi picchiano il sasso, 
sgretolano te roccie, le scheggie partono moltiplicate. 
Cauriòl, mite nome d'agile saltatore ! Così. Bocconi 
sul terreno nell'angoscia che non si scava sotto il no- 
stro desiderio per crearci attorno un riparo sufficiente, 
offerta all' acqua alla neve alla granata, distesa di 



— ^4- 

oorpi sulla cresta flagellata dal vento, martellata dalle 
mitragliatrici. Il giorno non ha ritmo di luce: un uguale 
crepuscolo dall'alba alla sera; non ha altre cesure 
che la ripresa del bombardamento. Precedtiito da un 
ansimante cigolio — tutta l'anima tesa per non pen- 
sarlo, per non vivere quest'agonia dell'attenderlo — 
cirri va e scoppia il 321. Tutta la cima trema, crolla, 
s'impenna. Troppo grossi, questi proiettili, per questa 
sottile lama di ghiaccio e di roccia, così romiantica 
iermattina dal basso nel velo dell'alba ! 

Alla sera viene su la corvè delle scatolette di 
carne, della galletta, dei gabbioni; cominciamo a 
grattare la roccia col piccone, a forarla con i pisto- 
letti, a sventrarla con le mine; dentro, bisogna entrare, 
nel vivo della montagna sconvolta, per avervi riposo 
un giorno, per avervi pace una volta, per dormire un 
poco tranquilli. 

Ma allora le mitragliatrici cominciano ad aguc- 
chiare in fretta nell'oscurità, e ri cuci scono infatica- 
bilmente con fili di morte i lembi della notte che la 
granata squarcia. 



Comandare il plotone sulla cima voleva dire mo- 
rirci, come il bravo Moreindi, o per lo meno restare 
feriti. Ogni giorno uno se ne andava. Adesso c'è il 
sergente maggiore Silvestri che ha più fortuna. E sta- 
notte, durante l'attacco notturno, s'è difeso bene, con 
isuoi vecchi. Hanno scaricato tutte le bombe a mano 
che avevano, poi giù sassi e rocce sul nemico ammas- 



— is- 
sato lì tsotto. Eid il nemico eia sempre più incalzante 
e non c'era pii^ nulla sottomano, ed ecco il sergente 
maggiore scaraventa giìi due casse di cottura e il 
sacco del pane, accompagnati da un fiotto di bestem- 
mie da far crollare la montagna. 



Mattacchioini , alla Divisione. L'altro giorno che 
s'era appena giunti sulla cima e c'era un casino di gra- 
nate shrapnells fucilate fango neve urli, appena in- 
stallato il telefono arriva un fonogranmia che dice così : 
Prego pesare dieci pagnotte e comunicarmene ii peso. 

Che cosa sarebbe successo se il maggiore avesse 
risposto : Mandatemi una bilancia ? Avrebbe preso gli 
cirresti. Mia ilui, Mosofo, ci ha bevuto sopra. 



A-d uno ad uno i vecchi alpini del mio plotone se 
ne vanno. Oggi è morto Monegat il rosso, classe novan- 
tatrè, sfacciato esplorcitore, soldato in gamba, buon 
ragazzo affettuoso. Un giorno che s'era tornati da 
una pattuglia faticosa e pagai il vino a tutto il plo- 
tone, mi venne a ringraziare solennemente, e per quel 
vino m'amò sempre poi, buon cane fedele. Un'altra 
volta che dovevamo vedere se alla stazione di Mar- 
ter c'erano i cecchini, noi ci fermammo fuori del paese 
cento metri e lui fu comandato di punta, per pro- 
vare. Domandò solo: 



— Se i me ferisce, no stè a lassarme fora. Veni 
a ciaparme. 

E andò. 

Gli abbiamo trovato una cartolina, indosso, per la 
famiglia. V'era scritto: « Semo su un monte cossi alti 
che ad alsar il braccio se tocca il cielo ». E pili sotto: 
(( Ti idirò ohe qui semo in mezo ai peoci e no pochi 
ma tanti e sono grossi bianchi e colla erose sulla 
schiena)). 



Fragile scenario di nevicata. Nelle tane umide 
stilla l'acqua, e il fango insidia le membra, e le notti 
sono atroci di gelo. 

Ma se torna il sereno ci s'inebria della nostra al- 
tezza. A sera le Dolomiti sono nette d'ombra e di 
luce, rocce violacee, neve rossa. Ondeggia il mare 
di nebbia come una chioma doviziosa. Il Catmaccio 
torreggia armonioso di canaloni e di pareti, lambito 
con dita soavi dalla sera che sale dalla valle. 

Piiù tardi, nell'attesa della luna, uno stupore ostile 
è sulle nevi che sembrano millenarie, opache, con om- 
bre d'acciaio. La montagna ridiventa nemica, ritira 
dall'anima le sue braccia tiepide che ce la blandivano, 
si chiude nel suo rancore freddo. Intrusi, siamo, sulla 
sua nudità notturna ; orrore viene dalle coillane di gelo 
che ne sono il solo adornamento. 

La luna chiama adunata delle aLtre montagne — 
riemergono dal buio e guardano minacciose. S'accen- 
dono lumi pacifici a Predazzo e Cavalese (a quest'ora 



— 97 



pcv> ..^-,^..^1 



;cre la lesta per guardare). Ma quando si va 
fuori a mettere i gabbioni, ecco le mitragliatrici cec- 
chine gracidano il loro motteggio alla purezza notturna. 



Sempre quell'odore di cimitero sotto al naso. Ce 
n'è una ventma ammassati in un creipaccio, che si 
sfanno lentamente. Ma andarli a tirar fuori, di notte, 
è un affar serio. La faccia dell' alfiere medico la si 
vede mutare adagio adagio quotidianamente, sotto la 
decomposizione : e ieri il suo naso s'è spaccato e ne 
cola una sanie verde. Ma i suoi occhi sono sempre 
vivi, e isbarrati — no, non sono io che t'ho ucciso ! 

Non sono io che t'ho ucciso, e poii perchè, s'eri 
medico, cacciarti fra le file all'attacco notturno? 
Avevi una tenera fidanzata che ti scriveva delle let- 
tere bugiarde, forse, ma così consolatrici, e tu le te- 
nevi nel portafogli. Brustolon te l'ha tolto, il porta- 
fogli, la notte che t'hanno ammazzato. Abbiamo visto 
anche il suo ritratto (bellina — ma e' è stato chi ha 
fatto dei commenti sconci), e la fotografia del tuo ca- 
stello, e tutte le cianfrusaglie care che tenevi là dentro ; 
un rmucchietto neil mezzo, e noi attorno, stretti nel rico- 
vero, lieti dii aver respinto l'attacco, con un fiasco per 
premio alla buona fatica. Tu eri morto da così poco, 
eid eri già nulla, piìi nulla, massa grigia destinata a 
puzzare rannicchiata contro la roccia; e noli così vivi, 
alfiere, e così ferocemente vivi che invano cercavo 
un brivido di rammarico in fondo alla nostra curiosità. 

P. Monelli, Le scarpe al sole - 7. 



— 98 — 

Che ti giova aver guardato il mondo con occhi rapaci, 
aver tenuto fra le braccia il suo corpo giovane, esser 
partito per la guerra come per una missione ? Ed anche 
tu t'inebriasti forse d'altezza e del tuo posto d'avan- 
guardia, e del tuo idestino di sacrifìcio. Per chi, morto } 
I viventi frettolosi non sanno più nulla di te, i viventi 
abituati alla guerra come ad un ritmo più celere di 
vita, i viventi che non credono di dover morire. Co!me 
se la tua morte non abbia soltanto chiusa la tua vita, 
ma l'abbia annullata. Rimani per un po' di tempo ele- 
mento numerico nello specchio del furiere, argomento 
patetico nel discorso che ti rammemori : ma tu, uomo, 
non siei ed è come non fossi stato mai. C'è del carbonio 
e dell'acido solfìdrico sotto a noi, coperto' da un 
mucchio di stracci-uniformi; e ciò chiamiamo morti. 

Ma stasera puzzate troppo, morti. 

Allora il capitano Busa ha chiamato quattro ma- 
scalzoni che non hanno paura ne di Dio né del mag- 
giore, e ha detto: 

— Fioi, vi dò una tazza di cognac e la maschera: 
andate a portarmi via quei morti. * 

— El cognac el ne lo daga subito, sior capitano. 
E più tardi, il capitano Busa racconta : 

— Ostia! se no li tegneva, i me sepeliva anca i 
vivi. 



Quando il sole scompare dietro il Cupola, e sì 
accende improvvisamente il Cimon della Pala comie 
fosse un ferro lucido che s'arroventi, ci si prendono in 



— 99 — 

mano i pieidi rattrappiti dagli scarponi e li si ungono 
soavenìente, che non vi si aduni la miinaccia della con- 



Ottob 



re. 



Una settimana all'ospedale, tre giorni di breve 
licenza, ed ora nell'oro del vecchio bosco, nell'in- 
cendio fulvo degli abeti — viali per fétes galantes, 
fruscio delle foglie morte scitco il passo — tomo con 
pigrizie cittadine alle pure altezze dove il mio batta- 
gliane è in giostra — sempre. 

Ci pareva impossibile, la prima settimana, di poter 
restare lassù piià di altri sette giorni. Ci si sta invece, 
da un mese e mezzo. Barelle che discendono, galletta 
e scatolette e arnesi da mma che salgono, è quasi uno 
stato ò. equilibrio. Hanno detto al battaglione : per il 
cambio, nemmeno il caso di parlarne. Adesso, arran- 
giati. 

Si sono arrangiati. Nelle pause del boimbardameinto 
(ne ho imparato una canina, all'Ospedale. Il Cauriòl lo 
chiamano la banca: perchè riscuote da tutti. Già. 
Quando la nostra artiglieria da Cacrìa spara sulle loro 
posizioni, gli austriaci, ncn sapendo con chi prender- 
sela, se la prendono col Cauriòl, che è già individucito, 
Bm individuato di co'SÌ si muore. E ogni giorno Da 
Rui aumenta il suo bottino di bossoli da 152 e di co- 
rone da 321 ohe vende per cinque. lire ai capitani della 
Divisione che arrivano fino al Comando di battaglione) 
— nelle pause dunque del bombardamento i buoni alpini 



— 100 — 

riclivengono i minatoli, gli scalpeMini, i caipentieri idei 
tempo di pace. Cunicoli serpeggiano già dentro la 
montagna, ogni plotone ai fa il suo; baraccliette sor- 
gono, pensili gabbie aggrappate alla roccia, terrazzini 
vertiginosi da cui s,piare l'arrivo della corvè. E chi 
dice che noi facciamo a meno del Genio ? Se non ci 
fosse la compagnia del Gemilo accantonata al margine 
del bosco, a chi rubare gii strumenti da lavoro } 

E grazie al lavoro febbrile, già le perdite sono 
minori. Esaminano gli specchietti quotidiani in fondo 
valle, ai grandi Comandi, e pensano che siamo ancora 
buoni per un'azione. Domani, dunque, attaccheremo 
quel vertiginoso spuntonoino di roccia che si chiama 
il piccolo Cauriòl. I vecchi scuotono il capo, e dicono: 
No se poi ciapar. Ma un capitanino 'lucido della 
Divisione è venuto lino' a metà strada, ha dato un'oc- 
chiata al torrione bieco fra la nebbia, e ha detto: 
Si può prendere. 

E allora sotto, scarpomi. Si può prendere. Lo ga 
dito lu. 



Stasera si stava col naso all'aria nella speranza di 
veder balenare i primi bruscoli di neve. Allora 'l'a- 
zione è rimandata, e, forse, ci mandano a riposo. Nu- 
vole investono, sconvolte da un vento di tormenta che 
ci soffia dentro, la cima ; se ne staccano, brandelli ri- 
mangono appiccacati alle pareti, e il resto si precipita 
su altri spuntoni: sulla Busa Alta, sul Cardinal, e ne 
nasconde le baracchine rannicchiate contro la roccia. 



— 101 — 

Da quella parete andarono su gli alpini del Monte 
Rosa. Ci credevate voi che fosse possibile un attacco 
sistemaitico, non di sorpresa, per delle erode in piedii } 
È stato possibile. E adesso va su la corvè aggrappata 
alla corda fìssa. 

Sì, ma per ora non nevica. Nevicherà, questo è 
certo. Sulla catena del Pavione, e laggiiì a tramontana 
s'aduna un bigio di nuvole : e invano il tramoTito vi 
avventa contro qualche sprazzo d'oro, esse lo ricevono 
con un'opacità violacea e fredda. Chissà, domattina... 

I/ntanto è anivato il vino che il maggiore fa distri- 
buire al plotone esploratori che deve fare il primo 
sbalzo. Un litro a testa. Viene Costa il rcsso — che 
sta scamiciato sempre, ed è una fatica fargli iener la 
giubba almieiio quando s'è a riposo — e dice : — Sior 
major, mezo el ne lo daga subito, m.a qual'altra metà 
la bevemo doman d.opo l'afar. — Una pausa, e poi: 
— Cussi saremo in manco a bevar, e ghe ne sarà de più 
per chi che poderà beverlo. 



19 ottobre. 

Da stamattina i grossi calibri ed i mastini piccoletti 
di Moro della montagna battono la roccia. Questa la 
chiamano ilaggiù preparazione d'artiglieria. Sono si- 
curo che i Mòcheni, nelle loro caverne solide, fu- 
mano la pipa e giocano a carte aspettandoci. 

Cielo torbo', grigio, vicino. Nebbia sale dal basso., 
isola le due cime, la nostra e quella che dobbiamo 



— 102 — 

attaccare. Se moirirefmo, lo faremo tagliati fuori dal 
mondo, con l'impressione che non interesserà a nes- 
suno. Si associ erebbe volentieri, all'idea rassegnata di 
sacrificarsi, quella d'una platea che ci osservasse, al- 
meno. Morire al sole, coin lontananze chiare, sullo 
scenario aperto del mondo, allora si capisce di morire 
per il paese : ma così, pcire d'essere il condannato a 
morte strozzato nella segreta. 

Bontadini che deve uscire per il primo lo guar- 
diamo con religiione ; ma noi che lo seguiremo solo se 
a lui andrà bene ci sentiamo veramente imboscati. 
Manfroi porta del vino, naturalmente. Gli antichi di- 
cevano: libare agli dèi infernali. Qualcuno dice: do- 
mani... ed ecco lo guardiamo con un rimprovero miuto 
negli occhi, come avesse commessa una tòpica imper- 
doinabile. Quando quei frati della leggenda arrivarono 
al confine dove il cielo e la terra s'incontrano, trova- 
rono una porta enoTmje, chiusa. Inginocchiato' sulla so- 
glia, frate Maccirio da cent'anni attendeva che la porta 
si aprisse. Il nostro doimani è di là da quella porta. 

Non s'è potuta prenderla, quell'accidente d'i quota. 
Tutto il plotone esploratóri, quasi tutta la 265.^ sono 
rimasti per quei sassi, nel crepuscolo livido, contro 
all'ostile barriera di roccia che s'animò d'improvviso 
di mitragliatrici rintanate nei loro covi, su cui la nostra 
artiglieria non aveva avuto presa. Ma al maggiore si 
empirono gli occhi di lacrime quando gli vide uscire 
dalle trinceette, i bravi figliuoli, agili in corsa come 
se non se li sentissero appiccicati alle gambe i cin- 



— 103 — 

quanta giorni di trincea, di malo dormire, d'incubo 
della congelazione, di scatolette e gallette per tutto 
ristoro — e poi occupare di volo le prime roccie ed in- 
chiodarcisi, e sarebbero^ morti tutti lì se a buio Ange- 
luccio non si fosse offerto al rischio di andargli a dire 
di tornare indietro. 

( — Aspetta, Angeluccio, che cerchiamo un altro 
che venga con te . 

— Sior tenente, per morir là fora basto mi. Xe 
inutile de farse copar in do). 

Ma De Cet è morto. È morto come si leggeva sui 
libri scolastici di qualche eroe convenzionale. Quando 
ha visto prendere di mira il suo tenente gli ha urlato: 

— Atento che i ghe tira, sior. tenente — e gli si è 
parato dinanzi, e ha preso il colpo nel petto. 



Poi, accanirsi delle artiglierie nemiche contro le 
linee nostre, i parapetti a gambe all'aria, sta a vedere 
che adesso ci attaccan loro, come sgomberare questi 
feriti col gelo che livella la montagna ? E la notte 
scende rapidamente con ticchettare di mitragliatrici. 



Dice il conducente Corso dalla grande barba nera : 
— 1 ga dito queli del Feltre a Caurìa che se la 

Division no la tira via el bataion da la gima i vien 

lori a dare il cambio ai veci. 

Sentimento di giustizia distributiva. Non ce lo 



— 104 — 

hanno i signori lucidi della Divisione che si fanno la 
barba tutte le mattine e prendono il tè alle cinque 
(no, detto male : questi non sono attributi necessari 
dello stare beine alla fronte dei comandi. Se andiate da 
De Zinis lo trovate sempre rasato, come se stesse per 
mettersi in frak, e a'I riparo di quel roccione vi offre il 
tè con i M^enice-w^afers biondi come la zazzeretta dei 
miei soigni. Soltanto che per andarci bisogna passare 
dove i cecchini hanno freddato quel capitano del 49.° 
ed anche dbve sta lui ci frullano più pallottole che 
idee); insomma, non ce rhanino, quel senso di giusti- 
zia, ai Coimandi, ma ce l'hanno quei bravi ragazzoni 
del Feltre che hanno preso il Cauri òl e fatto, dopo, 
quindici giorni di passione sotto la Busa Alta. 

E per avere il cambio, il maggiore ha fatto così. 

Prima ha mandato lo specchio della forza, dei 
malati e delle perdite. Nessuna risposta. 

Poi ha fatto presente che i soldati da cinquantacin- 
que giorni non mangiano che scaitolette e galletta e c'è 
pericolo dello scorbuto. Risposta : una pipa al medico 
perchè ha mandato a prelevare tintura di iodio per i 
feriti senza un buono regolare. 

Poi ha telefonato: — Se non imi date il cambio, 
il cambio me lo danno gli austriaci. 

Allora, ci hanno dato il cambio. 



25 ottobre. 



Il generale Satta sulla strada fangosa attende i pic- 
coli gruppi del battaglione che scende per il riposo. 



— 105 — 

— Di che battaglione siete ? 

Avuta la risposta, una manata di monetine d'ar- 
gento al gruppetto. 

— Ande a bevar un goto a la me salute. 
Perchè il generale Satta è sardo, ma sa tutti ì 

dialetti e li parla da ingannarcisi. 

E a tarda sera, il generale incontra per le vie 
del paese un alpino che è brillo (oh, Dio. Aver il 
modo di abolire in un colpo cinquantacinque giorni di 
agonia, crearsi una terra di morgana dinanzi agli occhi, 
mettere un po' di calore nelle membra costrette dalle 
fascie, umide di dieci nevicate, tarlate dai reumati- 
smi — rivedere nel fondo della tazza di latta il pae- 
sello, la fèmena, l'angolo del focolare — e vorreste 
contendergli questa ebbrezza al buon combattente, 
,aquae potores ?) è brillo, dunque, l'ailpino, ma s'ac- 
corge del quadratino argenteo e issa il braccio al cap- 
pello per salutare. Oh sì ! Quello sforzo gli costa 
l'equilibrio, e ruzzola bocconi nel fango. Ma la mano 
potente del generale Satta si abbatte su di lui, lo 
affena per il coppino, lo rimette in piedi. 

— Di che battaglione sei ? 

E poiché il battaglione è quello che pensa lui, il 
generale preme in mano al soldato incitrullito due lire 
e gli dice : . "*. 

— Ciapa, va a beverghene un altro. 



Ma i subalterni sono fior di ribaldi, e hanno fatto 
una canzonetta in cui è questione d'un certo generale 



— 106 — 

Satta. La canzonetta vuol sapere chi è stato quel bel 
tipo che ci ha avviati per quella strada che abbiamo 
salito in tanti e disceso in così pochi. E la chiusa 
suona precisamente così : 

E stato Satta 
che ci ha insegnato 
la stradella, la stradella 
- del Cauriòl. 

L'altra sera che il generale è j/enuto alla nostra 
mensa, quando siamo stati allo champagne — che è poi 
io stesso' bianco di Col San Martino bevuto durante 
la cena, solo che il dottore fa venire un buon numero 
di fiaschi e poi dice : sotto a volontà — un coro s è 
levato dal fondo, angolo aspiranti e sottotenenti, è la 
canzonetta è stata strillata senza reticenze. Compresa 
la coda. 

— Manigoldi — • diceva il generale, e rideva. 

E stasera qualcuno ha incontrato, nel buio delle 
case, un'ombra massiccia che canticchiava, andando, 
qualche cosa fra i denti. La canzonetta era quella fa- 
migerata della stradella. E chi se la canticchiava era 
il generale. 

< 

Andare di trotto con Rondèl che va come un pu- 
ledro, per la strada liscia che vedevamo di lassù, 
verso la snella piramiide del Cauriòl tutta rosea come 
un culetlo di bambino. È rosea e snella piramide quella 
che era orrore ed asprezza di roccia, tane malsicure, 
cimitero e altare di vittoria, seme di pidocchi con la 



— 107 — 

croce sulla schiena. Battaglione a riposo (i morti sono 
lassù, sotto le piccole croci rozze listate dalla neve). 
E il traballare dell'alpino ebbro sulla via pantanosa 
integra vacillanti linee musicali. 

A riposo vuol dire alloggiare m baracche senza 
listelli, e dobbiamo subito metterci al lavoro per far- 
glieli se nO' non c'è stufa che le scaldi ; in un posto che 
se nevica molto vien giù la valanga e ci seppellisce ; 
e partire la mattina a scavare le trincee di seconda 
Imea, e tonnare la sera — il rancio lo porta la corvè — . 
Ma c'è il superiore che chiude gli occhi, e ogni tanto 
un gruppetto scappa nel feltrmo a casa sua, per la 
montagna : si spidocchiano per bene, un abbraccio 
alla moglie, e col fagottino si fermano sulla strada 
ad attendere l'autocarro; lo inseguono, lo prendono 
d'assalto; e s'adagiano poi fra i sacchi di fieno, a 
gambe larghe, e tornano su guardando fuggire la strada 
dietro con aria da conquistatori. 



/ / novembre. 

Siamo andati a Fiera di Primiero a prendere la 
bandiera che quella popolazione ci offre perchè il no- 
stro battaglione è stato il primo ad entrarci. Ma chi 
darà una bandiera al maresciallo nostro, ad Edoardo 
il Temerario, che è stato il primo ad entrare in Imèr ? 

La sua gloriosa impresa la narra volontieri anche 
lui, con dovizia, di particolari, quando è un po' brillo. 



— 108 — 

nell'ora delle confidenze, nella stalla grave del fiato 
dei muletti accaldati che meditano tranquilli la biada, 
quando si risale malignamente la via gerarchica e si 
rivedono le bucce al comandante di plotone ed al 
comandante del battaglione. 

Barel ha finito di raccontare ìa volta che in Libia 
fece grande macello di arabi, che gli piantava la baio- 
netta nella pancia, e poi, un piede su quello straccio 
d'uomo atterrato, e crac, la baionetta veniva fuori. 

Scariot ha veduto in Val Lagarina il generale Can- 
toTe andare fuori da solo, solo con il suo aiutante, lon- 
tano oltre gli avamposti, che i suoi alpini temevano 
non ve-derlo tornare mai più. 

Giacomin conta i mesi che ha fatto sotto la naja. 

— Cinquanta mesi che son sott' la naja. E quando 
la me fèmena partorirà, me nassarà un tosat vestio da 
alpin con la pena fora ordinansa, el pistoc e la tassa 
de lata piena de cafè caldo, e ghe la darà a so mare 
disendo: Ciapa, marna, per la fadiga che te ga fato, 

E allora anche Edoardo il Temerario racconta la 
sua storiella, mentre in un angolo^ della stalla Assaba, 
la paziente mucca Assaba di grande mole e di molto 
latte, si lascia mungere. Il latte di Assaba lo porterà 
un mulo fin lassù sulla montagna di ghiaccio, perchè il 
tenente medico lo distribuisca a quelli che marcano 
visita, che scendono dai posti di piccola guardia al 
posto di medicazione perchè la notte hanno veduto le 
streghe. Molto saggio è il tenente medico, molti fe- 
riti ha consolato di candide bende e buone parole, 
molti combattimenti ha veduto. 



— 109 — 

Ceochet ha male ai piedi, cammina a fatica. 

— Fatti tagliare i capelli, sarai più leggero, cam- 
mmerai meglio. 

Cecchet è servito. Bof si fa innanzi e si compiime 
il ventre : troppe volte nella notte dovette uscire dal 
baracchino per esporsi ai rigori della notte stellata, 
e chiede il rimedio: ma Brustolin geme e quasi ne 
invidia la sorte, poiché egli invoca un generoso pur- 
gante. 

— Figlio mio, tu hai di troppo, e tu troppo poco: 
unitevi e guardate di aggiustarvi fra voi due. 

Viene a protestare Rossetto, che il medico gli ha 
dato (( servizio interno )) e il tenente gli ha fatto por- 
tare delle tavole fin sulla cima: un'ora di salita. 

— Ragazzo mio, t'ho dato servizio nell' interno 
degli alloggiamenti. Non hai motivo di lamentarti per- 
chè sei rimasto nell'ambito di essi. 

Molto saggio è il dottore : la sua saggezza ci ha 
fatto dimenticare la storia di Edoardo il Temerario. 

Che se alcuno credesse che Edoardo sia stato chia- 
mato temerario per 1' impresa che anch' egli, nelle 
sere un cui la potenza del vino lo fa loquace, suole nar- 
rare ai conducenti raccolti a novellare nel sentore 
stallioi del tabià, se alcuno così credesse sarebbe in 
errore. La storia del soprannome è d'assai più antica. 
Da allora ha intrecoiato ai suoi baffi di bel furiere 
molti fili bianchi, bianchi come i peli della coda 
di Tornati co con cui il conducente s'è fatta la catenina 
da orologio, bianchi come le chiome di Pupo, il più 



— no — 

canuto alpino deiresercito italiano. E c'entra la donna. 
E se la narrassi, i'I buon Edoardo non mi manderebbe 
pi il su la grappa. E poi mi condunebbe. fuori di strada, 
cibè novellare di dotnne è troppo tentaaijte cosa nelle 
sere di veglia, e le fantasie s'accorano di tenerezze 
bionde, e ognuno persegue nei camminamenti del suo 
cuore una traccia odorosa di ricordi. 

Edoardo il Temerario, adunque, nel floràdo giu- 
gno delil'anno di guerra millenovecentoquindici si diri- 
geva solo, moschetto a tracolla, verso il paese di Iimèr, 
che nei verdissimi pascoli della valle Cismon s'apre 
sotto un blando fluire di sole, Imèr dall'aulico nome 
latino. 

Tonadìco, Transaqua segnano più a settentrione, 
con i loro nomi, altri ricordi intatti di latimità. Il Bar- 
baro vi eresse una malinconica chiesa gotica dallo' spio- 
vente nero; intoonno la grazia italica fiorì nei brevi orti, 
nelle case gaie, pennelleggiate di sole, civettanti con 
le dolo-miti d'oro. 

Alle cime d'intorno s'affacciavano soldati italiani. 
Le soldatesche austriache erano fuggite dai paesetti che 
osavano appena di credere alla loro fortuna, che non 
l'incendio e la rapina segnassero la fine del dominio 
ostile. La conquista procedeva impetuosa: pochi bat- 
taglioni avanzavano per grandissimo spazio : sul Totoga 
una squadra, sul Viderne, a distanza di mezza gior- 
nata di marcia, un'altra squadra ddllo stesso plotone. 

Scendeva dal Comando del Battaglione Edoardo 
il Temerario: al piano invitava Imèr, naturale cosa 



gii parve attraversare il paese gaio per procedere verso 
l'antico confine, a cercare le retrovie. Attraversò il 
paese: i bambini, i bocia, giocavano intomo alle fon- 
tane, le floride donne bionde attendevano ai gravi la- 
verri da uomo. I bocia sbarrarono gli occhi suU'alpino 
italiano che batteva il selciato sonoro, e cessarono i 
loro giuochi. Le donne, sorprese, seguirono con occhi 
intenti l'alpino italiano che le fissava. 

Edoardo, ahimè, sebbene riconosciuto pienamente 
idoneo a servire il Re nella guerra, sebbene da lon- 
tana cima scendessi e lontana meta ti prefiggessi, se- 
gno indubbio che saldo era ài cuore ancora e buone 
le gambe, ahimè: gli anni avevano con troppo amore 
arrotondato il tuo corpo di adipe, segnato i tuoi peli di 
candore. Non eri un bellissimo alpino: più belli ve 
n'erano al tuo battaglione, che ora dormono sotto San- 
t'Osvaldo o sulle pendici del Cauriòl, vigilati dai 
compagni vivi ohe montano di vedetta. 

Eni un po' grasso, Edoardo: d'inestetico sudore ri- 
gavi la barba. Perchè mai così intensa era la curiosità 
delle femmine, perchè dunque i bocetti ti seguivano 
strillando? Tu non indagavi. E poiché dalla soglia 
d'una bottega una bionda caraacciuta ti fissò con più 
grata meraviglia, e segni indubbi 'ti rivelarono che lì 
avresti trovato dei sigari, entrasti. 11 coro dei bimbi si 
fermò, occhieggiando, sulla porta. 

Edoardo sentì così profondo su di sé lo sguardo ed 
il sorriso della grassona che ebbe il sospetto che le 



I 



— 112 — 

sue grazie mature di furiere non ci avessero mferito. E 
ne ebbe la conferma, ecco, nelle parole della bionda: 

--- Me fa tanto piasser <le vedarlo. Lu el xe el 
primo sol dà italian cK'el vien nel nostro paese. 

Edoardo tremò. Il primo soldato italiano che entra 
in Imèr? Ma come ì ma quando? 

— Imèr non è ancora occupata? — balbettò. 

— Ma no — gli rispose sSorridendo patriottica- 
mente la biondona. — Lu el xe el primo soldà italian 
che ve demo. 

Sorrideva patriotticamente, la biondona, un* irresi- 
stibile seduzione era nel suo sorriso. Ma Edoardo non 
la vide. Edoardo si sentì alla collottola come la stretta 
d'un kappa kappa Landesschiitzer che gli intimasse : 
foi fenire con me. Ebbe, in un lampo, la visione di 
una pattuglia nemica che lo attendesse allo svoko 
della strada, sentì lo schianto delle fucilate, si vide 
morto nelle vie non ancora redente di Imèr. 

Certo, la voce era corsa per il paese: certo avan- 
zavano a cinger d'assedio la botteguccia i gendarmi 
imperiali. Taglia la corda, Edoardo, se ancora sei 
a tempo. Serbati alla dolce vita dei magazzini e dei 
modelli 33 R. A., chiedi alle tue vecchie gambe un 
buono sforzo: se no ci lasci la ghirba. 

Edoardo tagliò la corda. Dinanzi agli occhi ester- 
refatti della grassona, fuor della porta, rovesciando 
qualcuno dei bimbi curiosi, uscì alla campagna, male- 
dicendo la sua imprudenza; e s'affrettò laggiù dove la 
valle si restringe attorno al Gismon impetuoso, verso 
le retrovie sicure dove le linee di occupazione sono 



— 113 — 

chiaramente definite : le retrovie dei forni e dei ma- 
gazzini, degli ospedali e dei saggi furieri che non 
hanno fisime eroiche per il capo. 

Credersi autorizzato a concludere a questo punto 
che Edoardo ìì Temerario si è mostrato men degno di 
portare le verdi fiamme degli alpini, vuol dire conclu- 
dere con troppa precipitazione. Pm volte, da quel 
giorno, Edoardo fu bravamente al fuoco; sgombrò ma- 
teriali sotto il bombardamento, salì al comanda del 
battaglione nelle giornate calde, che lo si vedeva dal 
basso avvolto dalle nubi delle granate. Degno è che 
sul cappello porti l'aquila e la penna; degno è che 
sulla sua giubba siano le fiamme, verdi come i pascoli 
della valle Cismon, biforcute come le forcellette pre- 
cipitose da cui spiano le vedette impellicciate. 

Dice il sergente Da Col, e buffa nuvole di fumo 
dalla pipa di maiolica con l'effigie di Francesco Giu- 
seppe che ha comperata a Primiero: 

— Se noi gera ancora ocupà intanto che nualtri 
se gera tanto pili avanti sui monti, voi dir che no se 
doveva farlo. 

Soggiunge Pupo, il conducente canuto, che ha 
gli anellini alle orecchie, e il più stizzoso mulo delle 
sai meri e : 

— E se un el ghe gera entra par sbajo noil podieva 
far altro che saltarghene fora. 

Così parla la saggezza dei mulattieri, nel calore 
buono del tabià ; così gli adunati rendono giustizia a 
ELdoardo il Temerario. Il quale tace, soddisfatto della 

P. Monelli, Le scarpe al sole - 8. 



— 114 — 

sua narrazione : e allora il sergente Conz incomincia 
a dire come egli per primo, da caporale maggiore, a 
capo di quattro esplooratori , entrò in Fiera di Primiero, 
e ne voleva trarre per ostaggio il principale cittadino. 
Ma questo lo sappiamo già. 



Dicembre. 

Nieve su neve. Neve dal cielo uguale, neve dal 
suolo uguale che il vento leva, neve all'ingresso dei 
cunicoli nella neve. Incomincia la nostra guerra con 
r inverno — con i suoi morti, con i suoi feriti. 

Poche baracche s'è avuto il tempo di fare, e male 
in gamba, colpa della stagione e dei materiali insuffi- 
cienti : galllerie di neve adducono alle tane tiepide 
scavate nella roccia, antri di oscurità e di tanfo, fatica 
per la candela forare quell'aria stallia : là dentro i gia- 
cigli per gli uommi che rientrano intirizziti fradici dal 
servizio. Non s'è avuto ancora il modo di mandar 
su il rancio: la teleferica, appena è pronta, il Cupola 
vi spara sopra due colpetti messi bene e manda all'airia 
ogni icosa. Le corvè con le scatolette anancano peno- 
samente nella neve fresca, s'aggrappano alla corda 
fissa per superare quel lastrone sotto il plotone di 
B enetti. 

Quando la neve cessa, e la nebbia scende ad accu- 
mularsi sulle valli strette, da quel mare luminoso emer- 
gono stupite e fresche le montagne, fanciulle timide 
che SI bagnano in un lago colmo di luce e scoprono 



— It- 
alia loro adolescenza acerba più armoniose curve ; e 
il sole fluisce biondo sulle creste arrotondate come una 
capigliatura morbida. Anche le bieche pareti a picco 
hanno la Joiro' festa, barbaglìi scivolano sul gelo che 
il vento v'ha appiccicato; e scompaxe ogni sozzura 
intomo a noi, trincee, camminamenti, pairapetti nel loro 
candore ingenuo sembrano inadatti aWa guerra, ma trama 
leggiadra di sentieri per una fata imbrillantata che si 
rechi alle cupole di cristallo della sua dimora. 

Sei tu, fata crucciosa, che crolli le tue armi di 
gelo sui sudici uomini che ti lordano il palagio trinato ì 

Già ila chiarità dell'aria risveglia il cecchino, al- 
letta 'F arti glli ere del Cupola, la neve ritoma eloquente 
di peste, di buchi, di macchie; sulla neve riappaiono 
le pisciate, il sangue e i solchi del bastone. 

E allora s'aduna la molle insidia ddlla valanga in 
alto e romba a valle con un ululio tragico; inopinata, 
impreveduta, illogica, non dove abeti spezzati la fa- 
cevano presagire, ma per nuovi cammini, sulle baxac- 
chette, isui ricoveri dove la necessità di guerra li ha 
costruiti . 

Non c'è difesa, non c'è arte che le tenga lontane. 
Sono cadute sulle cucine e sulla compagnia della sel- 
letta, sulla tettoia dei muli e sul comando di batta- 
glione. 11 rombo desta con raccapriccio: si balza fuori 
a tender l'orecchio, si parte per il biancore mo'Ue a 
recar soccorso, sotto la minaccia che nuovamente si 
aduna in alto. E quando il cecchino se ne accorge, 
comincia a spararci sopra. 



— 116 — 

« 

Fa male ? Fa bene, adempie al suo dovere di nuo- 
cerci, dove può, quando può. A noi spetta rendergli 
la pariglia, invece di gemere sulle sue crudeltà; e non 
indaghiamo che sarà in tempo di pace di questa nostra 
fredda abitudine all'omicidio, che sarà di questi uomini 
a cui abbiamo insegnato ad esser uccisori tranquilli. 
Quando venimmo sul Cauriòl, i cecchini ci molesta- 
vano ai passaggi obbligati, sparavano sulle corvè, tira- 
vano dai punti più inopmati — hanno ucciso un capi- 
tano che usciva dal piccolo posto, hanno fatto pren- 
dere una paura matta al dottore che s'era ritirato sotto 
una pianta nella posa di Mano sulle rovine di Carta- 
giine, e dovette scappare in fretta con i pantaloni in 
mano. E allora dicemmo: A cecchino, cecchino e 
mezzo. E cominciammo a cecchinare anche noi. Cec- 
chinare vuo/l dire mettersi alla posta dietro un sasso, 
uno scudo, un riparo qualunque : attendere che uno di 
quelli là passi, o metta fuori la testa, o s'affacci tran- 
quillo: sparargli a freddo, senza necessità immediata 
di guerra, senza bisogno immediato di difesa, come si 
tira alla beccaccia, come si tira al barilotto. Crudele, 
non è vero ì Ma dopo una settimana che noi lo face- 
vamo, loro cominciarono a smetterla. 

E l'altro giorno capito in trincea alle spalle della 
vedetta appiccicata al parapetto di neve, all'agguato. 

— Cosa fai ? 

— Go copà un LO de SCO. 

— Bravo. E adesso ? 

— Aspeto che i lo vegna a tor, per spararghe 
adosso amca a lori. 



— 117 — 

Perdonatemi, signori della Croce Rossa che sedete 
alLOino ai tiepidi tavolini verdi e stillate le regole 
della guerra umanitaria. Io non ho saputo dargli torto, 
al soldato: anzi ho trovata buona l'idea, e mi sono 
portato vicino a lui, col moschetto, ed ho atteso, an- 
ch'io — come fossi alla posta della selvaggina. 

Capovolgimento di valori. Un reticolato, un la- 
strone di ghiaccio, un altro reticolato: e chi è di là 
non è più un uomo per me : è un pupazzo, un bersaglio 
mobile, una cosa vuota d'anima, e il suo urlo di col- 
pito è àmpersonale come la voce del vento a traverso 
la feritoia. Non c'è voluta nessuna iniziazione, per noi : 
il primo giorno fu come oggi, e il dicembre del 1915 
al Carbonile, De Lazzer contava i tedeschi che but- 
tava giij col suo fucile infalkbile con la stessa spa- 
valda tranquillità con cui, un mese fa, alla colletta 
De Cet, Dalle Mule numerava gli Alpenjàger che 
mandava a gambe all'aria colle bombe. 

Non ci pare d'essere per ciò più crudeli: ancora 
oggi la fiaccatura del mulo c'impietosisce, se ci guardi 
con occhi stanchi ; ancora oggi Pianezze ha regalato 
tutta la sua razione di pane al prigioniero ebete e 
affamato — rapaci mani unghiute su quel tesoiro. 

Non ci pare di esser più crudeli... Ma bastano 
queste stellette al colletto per abollire i concetti ere- 
ditari i di santità della vita umana, di fraternità natu- 
rale, verso quelli che stanno di là. Avranno tanti 
di loro cinque bim.bi a casa, come Damin, otto fratelli 
minori e una mamma vedova, come Ceschin che pure 



— 118 — 

è così temerario all' attacco; imaginiamo la cornspon- 
denza famigliare, la cartolina rassegnata e buona della 
mamma lontana che non sa di politica, che non sa di 
doveri sociali, che scrive in cèco o in ungherese le 
stesse parole che la mamma di Zanella o di Rossetto 
scrivono in dialetto veneto: contentezza di sapere che 
il figlio sta bene, notizie del poderetto e deilla bestia, 
gli altri figli soldati sono ancora in salute, (( altro non 
mi alungo e sono la tua per sempre afesionata madre 
adiio adio » . 

Tante di queste cartoline, custodite gelosamente 
nel portafogli gonfio, abbiamo vedute disperse accanto 
ai cadaveri dopo la battaglia; e ricordo una fotografia 
uscita fuori dal muochietto deille carte d'un soldato 
ungherese, le sorelle e ìa madre, cinque ragazze flo- 
ride, facci e indifferenti, ma nel mezzo la madre con 
così accorata mestizia negli occhi, i segni del suo dòloire 
segreto così fondi attorno alla bocca stanca, che quel 
viso di contadina ne era nobilitato : come fosse assurto a 
simbolo delle madri eroiche o rassegnate che attendono 
da una parte e dall'altra, e non samno e non vogìiono 
sapere della giustezza della guerra, per cui il mondb 
è tutto in quel figliuolo soldato, e tutta la vita è in 
quell'attesa che non avrà riposo che il giorno della 
fine. 

Risparmieremo la vita di quel figliuolo di mamma 
che è a tiro del fucile, dunque, oggi che siamo senti- 
mentali ? Questo è un altro paio di maniche, solo. Noi 
dobbiamo vincere la guerra. 



— 119 — 

Gaiezza sbarazzina di queste fughe in Italia di tre 
giorni con la scusa d'andare a prendere i fondi, in 
treno ricerca irrequieta dell'avventura nei gesti d'ogni 
viaggiatrice giovine — tutti i colleghi che toman su 
raccontano la loro, a me non deve capitare ? — alte- 
rezza con vernice di modestia di far vedere alla gente 
òhe veniamo di lassià ; e se la famiglia è troppo lontana, 
la visita ad un'amica fedele che blandisce con tene- 
rezze dimenticate il cuore, è vero che forse è tanto 
lontana anche lei dalla nostra anima e non s'accorge 
nemmeno del nastrino blu sul petto, ma la seta dei suoi 
capelli folli è un'estenuante rete di smarrimento che 
conduce fuori della trista realtà. 



La realtà è ancora e soltanto qui , nello scenario 
attonito degli abeti curvi sotto il bianco, nel fluire in 
sordina di un filo d'acqua sotto il cristallo dei torrenti 
irrigiditi. Invitano con tepore d'accorata tenerezza le 
baite illuminate, confitte nei pendii grigi. Solo alpini 
e muli qua su, nell'austerità delle grandi montagne. E 
la serietà del nostro destino accettata con freddezza. 
Timori, speranze sono cose lontane e vane; lontana sei 
tu pure, bambina, e il tuo ricordo è vano. Questo mor- 
bido tedio di neve s'accumula nel cuore, anche. Non 
c'è futuro, non c'è passato: un presente che si prolunga 
uguale come una sciata su pendii agevoli, e la barac- 
chetta illuminata dalla candela piantata nel collo del 



— 120 ~ 

fiasco, odorosa dti tavole umide, è la meta definitiva 
alla nostra ansia di ieri. 



Per farci perdonare le bestemmie, abbiamo co- 
struita al cappellano una chiesetta fra gli abeti, tutta 
odorosa di tavole liscie, il tetto con lo sgrondo rica- 
mato, e sull'altare in quadaro i nomi dei nostri morti. 
Ma la messa di Natale l'ha detta sotto la cima, men- 
tre nevicava un poco e la nebbia ci copriva dai cec- 
chini. Anche le montagne di casa nostra ci nascondeva 
la nebbia, e Cima d'Asta, e la valle ; tutto era così 
lontano, infinitamente lontano, la patria, la famiiglia, 
gli amici, tutti li sentivamo assentì troppo dal nostro 
cuore intirizzito, che oggi non ci crede pili. Non c'è 
che il buon Dio con noi, in questo esilio di ghiaccio. 

Preghiamo il buon Dio che ci difenda, che faccia 
di rimandarci a casa sani visto che siamo in fondo dei 
buoni ragazzi, e se proprio non è possibile, ci dia la 
buona morte di Morandi e di Monegat che non hanno 
avuta agonia. 



Sci, serenità. 

Ma il cecchino dalla eroda ci spia, sibila alta sul 
capo la fucilata. Ammonimenti. Laggiù, verso l'Italia, 
il colore delle mie nostalgie si diffonde sulla catena del 
Pavione. 



121 — 



Gennaio 1917. 

Con gli sci sui fianclii dèlia montagna. Luciide in 
fondo le Dolomiti diamantate di gelo, con pareti nere 
come colonne di marmo nero in una cattedrale e pure 
ebbre di luce. E scie di luce guizzano suH'opacità 
della neve. E luce irradiano — e se la beve il cielo — 
i pendii rigati dalle valanghette e gli abeti gravi e le 
lontananze trasparenti. Tripudio dei vetri delle barac- 
che che brillano al sole, della granata che va a soffo- 
carsi, buffa, fra la neve folta. Festa luminosa alla no- 
stra giovinezza, alla chiarità della nostra vita. Allegri 
asceti siamo noi, che confortiamo di buon vinO' e di 
fantasie leggere ila prontezza quotidiana al sacrificio. 
Verrà, dopo questa sosta mvernale che è pur guerra, 
verrà la primavera rossa e tumultuosa dei battaglioni 
lanciati all'olocausto per ardere in un attimo nella 
santità dell'offerta e poi esser distrutti. Ma oggi il 
sole è un dono pacifico. Per tre giorni la tormenta ci 
serrò nel ricoverino, soffiò per ogni fessura atomi di 
gelo, barricò l'uscio con spalile più potenti di quelle 
di Bellegante, ci costrmse a una dieta feroce, riempì 
di neve le brache del bisognoso di calarle, sia pure 
per un attimo. Per tre giorni. Oggi il fiume caldo di 
luce dilaga sulla montagna stordita da questa calma 
perfetta di vento. E il sole arde sulla pelle e sotto 
le palpebre in una gloriosa estate. 



— 122 — 

Non siamo puri nemmeno noi. 

Blaterare, versare veleno da lingue biforcute. 

Egoismo atteggiato a furbizia. 

Paura di morirci velata da mille inganni. 

Il tuo lanternino, Diogene, die io spii nel cuoire 
dei colleghi a cercare ciò che mi sfugge, la santità 
d'ideali, la purezza deirolocausto. . . e non guardo 
nemmeno nel mio cuore, per paura di scoprirvi abissi 
troppo oscuri. 

Prende, talvolta, il tedio. 

Tedio del tempo che lento passa, che rapido as- 
somlma un tumultuoso passato in poche linee scialbe. 

Tedio di non sapere esprimere un groviglio di ima- 
gini che solca la conca di neve -maiolica. 

Tedio d'incoerenza. 

Zaffate di dubbio, di timore, dal sedimento intatto 
e non scrutato nel fondo del cuore: se valga, dunque, 
questo tradizionale concetto di patria tanto stento, tanta 
rovina. 

Oggi vorrei imboscarmi. 



5 marzo 1917. 

Ormai lo avevo capito, che dopo Busa volevano 
tirar via anche me dal battaglione. Ed ecco che an- 
ch io son mandato ad una compagnia sciatori. 

— Ma io non ho mai fatto un corso. 

— Lei scia tutto il giorno sotto la Busa Alta. 

— Ma casco. 



— 123 — 

— Casca anche clii ha fatto i coisi. 

^— Ma perchè vi è venuto in mente di pescar fuori 
proprio me ? 

La ragione è questa. Hanno veduta una mia foto- 
grafia dei tempi di pace ohe mi rappresenta con gli 
sci ai piedi: e questa è parsa, ai sommi comandi, una 
prova decisiva dell mio valotie di sciatole. Amen. Ar- 
rivo a Zortèa, trovo due bei plotoncini di sciatori della 
Valle d'Aosta, sostituisico piemontese e francese al 
veneto nei miei discorsi con i soldati, faccio subito 
caporale Lanier che è guida di Courmayeur e mi parla 
di Monte Bianco e di Innominata. 

— Com'è che non eri ancora caporale, Lanier? 

— A l'è giùst. Rampignè an sì giassè c'est une 
autre affaire che fé la guèia. Si e' est pour monter 5es 
montagnes n'y a pas lo diablo qui me fassa paiira. Ma 
al batajun i sum v'nii tard parche i sum' tersa cate- 
goria. E i l'ai impara le saliit da un pays ch'a ciuciava 
la lait quand che mi i'm tirava già i barbìs. 

E la sera, quando il sole è andato sotto, e i soldati 
vanno a prendere il rancio, mi faccio' due ore d'i scuola 
da solo sulla neve raggelata, per non sfigurare troppo 
con questi virtuosi. 

Il capitano Ripamonti, alpinaccio vecchia scuola 
— cinque ferite, le pili belle battaglie d'alpini nel suo 
passato, Montenero, Mrzli, Malga Fossetta, Caldi era, 
Adamello — mi consola : 

— Volontario anche Lei, vero? Come me. Bè, la 
cucina è buona, e il vino è migliore, e nella casa dove 
sta Lei c'è una bella ragazza, e non è detto che 



— 124 



dobbiamo llasciarci tutti la ghiibona. Cai beiva na 
volta 'n fima. 

E visto che siamo considerati così spacciati, chia- 
miamo (( suicida » l'ufficiale pattugliatore della com- 
pagnia. 



20 marzo. 

Ordine improvviso di partire per l'altipiano, con 
la mia compagnia sciatori. Giocondità di marcia per 
le strade, chiarità della saletta nell'osteria, allegre 
donne facili dalle porte. 

Non si vuole pensare al futuro, che è di battaglia. 
Il capitano Vigevani beve con me e con Busa l'addio 
ai battaglioni che restano sulle cime diamantaite, ai 
battaglioni ch'erano i nostri. E dice: — Stavolta, 
Busa, ci restiamo tutti e tre. 



Ma questo sole leggero è come um vinello gaietto, 
oggi si è invece quasi contenti del mestiere, un poco 
orgogliosi idi questi arnesi nuovi — sci bastoni con 
la rotella giberne biandhe — ohe stupiscono la gente 
al passàggio, che ha pur veduto già tanti soldati sfilare. 
In fondo alla colonna una canzone di cristallo come 
le schiume del fiume, alito di ghiacciai e di primavere 
intirizzite. Sono i miei valdostani che cantano. 

Dans le jardin de mon pére 

les lilas sont fleuris 

auprès de ma blonde qu' il fait bon qu' il fait bon 

auprès de ma blonde qu' il fait bon dormir. 



— 125 — 

Il y avait la tourterelle et la jolie perdrix 
qui sert pour les fìlles qui n'ont pas de mari 
auprès de ma blonde qu'il fait bon, qu'il fait bon 
auprès de ma blonde qu'il fait bon dormir... 

Ci ritormeremo , montagnardis, se Dio ci (protegge, 
nei piccoli orti alpini chiusi dai muretti a secco, ab- 
bacinati dal riverbero dei ghiacciai, torneremo a (( lap- 
par la borra » dalle tenine di latte tiepido, risaliremo 
le grandi montagne aristocratiche nelle loro crinoline 
d'ermellino (queste cime dolomitiche son scarne e 
nude come pezzenti lebbrosi). Ma adesso non pensateci 
ircppo, se no viene il mal del paese. Stanotte dormi- 
remo in questo borgo che ha un nome da fiaba, e la 
Regina sbirra dell 'osteria vi verserà nella gava del 
vino buono, anche se non parlate il suo dialetto. 

Si le vin est bon ici, nous y resterons — ici 

si les femmes sont belles ici, nous y passerons la nuit — ici 

Encore un petit verre de vin pour nous mettre en route 
encore un petit verre de vin pour nous mettre en train... 



Bologna, aprile 1917. 

Ha ragione il mio aimico Nino. A furia di stare in 
licenza si finisce col credere che si tornerà vivi dalla 
guerra. Risaliamo alle vallette ilari di luce, ai Ccunpi 
di neve inesausti, al rancio sul campo fra la selvetta 
rigida degli sci piantati nella neve, nell'ardore del 
sole e della giovinezza che se ne va, ma gettando doni 



— 126 — ■ 

meravigliosi alla nostra vita d'oggi, nella certezza del 
combattimento di domani. 



In ricognizione sulle linee dell' altipiano, per le 
future azioni. Acropoli di ghiaccio e ondoleggianti tor- 
poTÌ di nebbia — e il cecchino petulante che cazzotta 
lo scudetto. Ed a, sera si parte in autocano per Bas- 
sano, tuffo in Ita^a di 24 ore, odore di libidini e di 
pace. Si violano domicilii. Il rischio d'un catino sulla 
testa. Fetore di case ospitali. E speriamo che il mag- 
giore chiuda un occhio, e filiamo anche su Padova. 

La ricognizione sull'altipiano mi ha risverginato. Ta- 
pun, shrapnelils, da due mesi non ne sentivo più. E i 
consiglieri del Re Davide decisero di dargli una fan- 
ciulla giovine qhe lo scaldasse giacendogli nel seno. E 
la morte è una divina fanciulla. 

Ma a Padova, l'etera che lasciai discinta, rabbuf- 
fata, l'arco pigro dei sogni sulla bocca dall'alito grave 
— e l'incognita dal mento quadrato, la soffice person- 
cina serrata nel vestito a lutto, la cioochettina bionda 
sulla fronte di marmo. Non la rivedrò piià, si perderà 
nella sua vita. Quien sabe ? ma un giorno che io sarò 
amaro del dopoguerra e mendicherò dagli impassibili 
destini un'altra tormentosa ebbrezza di vita come questa 
vigilia di morte, s'io la rincontri allo svolto d'una via 



— 127 — 

soleggiata mi c'inginocchierò davanti a chiederle l'ele- 
mosina d'un sorriso. 



Giunge l'ordine di muoverci. Ancora. Come cani 
che pisciamo a tutte le cantonate. Zaini sci corredo 
armamento cassette, tutto s'ammonticchia a sobbalzo, 
si trasporta in un bailamme in cui si perdono elmetti 
tazze <ii latta pidòcchi bestemmie. Inutile affezioinarsi 
all'angolo decorato dalla cartolina Salon de Paris, a 
quella tazzina rubata nel grand Hotel , a quel bossolo che 
è caduto più vicmo degli altri. Peggio che zingari, la- 
sciar gli zaini perchè si sia pili leggeri, gli zaini li por- 
teranno i muli, non serve lamentarsi se arrivano saccheg- 
giati. 

Nella pace del pianoro verde la guerra è una cosa 
ilontana, com lontane nuvolette dii scoppi su Cima Do- 
dici. Asprore e rigore della primavera acerba nei sùbiti 
torrenti, nelle vette ancora intarsiate di ghiaccio. 

Elementi di pace (laghetto, rovine che sono divenute 
romantiche a un anno dalla cannonata, pascoli — credi 
udire il dindonare delle vacche). 

Elementi sentimentali. 

Elementi di pigrizia. Che ingannata da questa pla- 
cida vigilia di combattimenti l'anima consente, tal- 
volta, a castelli in aria e fantasticherie vane : alla vita 
dopo la guerra, persino. 



— 128 — 

Intanto, morituri per destinazione, fabbrichiamo 
strade. Sotto, questi brevi viventi, prima che sian caro- 
gne marcenti sotto F ironia delll'equipaggiamtento accu- 
rato, adoperarli bisogna, perchè il riposo non sia di 
Capua e la vita non sia riafferrata con mani troppo 
fiduciose. Le strade si spiamano, brillano le mine, rien- 
trano' a sera le compagnie con gli attrezzi sulle spalle, 
cantando qualche nenia d'amore malinconico. 

Sul ponte del Foiano 
noi ci darem la mano 
noi ci darem la mano 
ed un bacin d'amor... 

Per un bacin d'amore 
successe tanti guai : 
io non credevo mai 
doverti abbandonar... 

ConseTitimento alla canzone strascicata e triste viene 
dc^l cielo che si scolora, dalle punte di ghiaccio che si 
irrigidiscono mute d'ombre e di luci, dà qualche roco 
ammionimento di cannonate lontane. Bisogna reagire. 
Ccintiamo dunque, signori ufficiali, la gaia canzone del 
quinto alpini : 

Giovinezza giovinezza, 
primavera di bellezza... 

Giovinezza. Tutto il nostro sangue ne è fervidb. 
I nostri nervi sono carichi della buona corrente. Gio- 
vinezza impetuosa e dissipatrice, simile a un nmbal2^r 
di bombe a mano giij per un canalone, giovinezza delle 
brevi licenze quando l'avventura delle tre della mattina 



— 129 — 

sorride ai sensi sempre balzanti, giovinezza stancata 
airagguato macerata alla pioggia battuta dall'uragano, 
nostra giovinezza rossa di guerra, che presto sarai una 
co.sa passata! Sì, perchè intanto qualche cosa s'af- 
fonda nella carne e nella testa, dito che scava, rete 
che insidia, puntura che ammonisce. E noe è vero che 
c'è l'allenamento. Certe spallaccie della classe no- 
vantuno sono più stracche allo zaino, ora, né brillano 
sempre gli occhi spensi eratcìmente pur quando s'accen- 
dono al fuoco del fiasco. 

Qui, in questo riposo idilliaco, sorpi^end'e talvolta 
la stcìnchezza della guerra : di questa vicenda inces- 
sante di fuori e dentro, ombrìa <li pace e fiamma subi- 
tanea di battaglia, senza mutamento. Già scivola mag- 
gio verso la fine, verso il giugno delle stragi e della 
mietitura, e la nostra pace non è che raffinatezza di tor- 
mento nell'attesa di essere presi dii nuovo nella treb- 
biatrice. 

C'è già in cielo il brillante triangolo della Cassio- 
pea: viene dall'accampamento l'odore acuto del ran- 
cio. MWe ia canzone. 

Doversi abbandonare, 
volersi tanto bene, 
un meizzo di catene 
che t'incatena il cor... 



6 giugno. 

Battaglione in armi, f accie rosse contro il sole al 
tramonto, quadrato grigio sullo sfondo del pascolo, 

P. Monelli, Le scarpe al sole - 9. 



— 130 — 

foirza d'iimpeto serrata negli ordini chiusi. In vigilia 
d'avvenimenti. 

Si pcirte a sera, verso la meta conosciuta nel segreto 
del cuore da tanto temipo. Sotto la luna il fiume nella 
valle nera blandisce luminose vertigini. 

Poi a poco a poco- non c'è ohe la fatica della mar- 
cia e la stanchezza di non arrivare ; da ieri sera si sale 
e già il sole alto picchia nei lastroni della mlilattiera 
e tappezza d'arsura la gola. 

Strada di passione. Chi la salì l'anno scorso, icon 
i battaglioni che lasciaron brandelli vìvi a quei sassi, 
da Cima Isidbro aMa Caldiem, ripete ora, megli alt, 
nomi di quote e di morti. 

Alt di mezza giornata nell'ombra delle pinete — 
poi si riparte, a sera, sonnacchiosi. 

Marcia notturna per l'altipiano. Freschezza alita 
dalle prime chiazze di neve. Passiamo accanto a grandi 
fuochi di bivacco, presso i quali nel tanfo sano e 
denso dell'accampamento russano gli assalitori di do- 
mani. 

PensO' : — Poveri diavoli ! 

Ogni sorte mi pare più triste della mia: il non 
essere destinato alla prima ondata mi pare una fortuna 
enorme, e sbigottisco, come possano così tranquilli 
dormire costoro che domani butteranno fuori dalla 
trincea ogni loro attaccamento alla vita. E sono pau- 
roso per loro. (Non altrimenti ho, sofferto, talvolta, di 
vertigine guardando dal prato un uomo aggrappato alla 



— 131 



paiete precipitosa : e il giorno dopo io stesso ne se- 
guivo le traccie con indifferenza). 

Finché giungiamo all'alba sotto Cima della Cal- 
diera, ed addiacciamo fra neve, sassi e rari mughi. 



10 giugno. 

Dall'alba bombardamento. Sul tamburo^ bigio del 
cielo chiamano adunata avcmguardie di mostri. E verso 
sera, sottO' la tempesta, alpini balzano alla conquista 
del l'Orti gara. 

Ma noi, rannicchiati contro le rocce della Caldiera, 
sentiamo imperversale sulle nostre incerte difese la 
reazione delle artiglierie nemiche. 

Sì, ma c'è odore di vittoria. Ani vano prigionieri 
rincoglioniti, esterrefatti per la violenza del bomibarda- 
mento. Arrivano le bareille con i primi feriti. Arrivano 
le corvè dei miullli con ghirbe gabbioni cartucce casse 
di cottura. Sfilano le truppe di rincalzo, il genio, i por- 
tatori : tutto sopra una stradetta di quattro metri ri- 
cavata nel fianco della montagna, un aramuochicirsi , 
un intralciarsi, un aggrovigli cirsi di bestie e d'uomini, 
di feriti e di portatori, un'incoerenza di disposizioni, 
un'impreparazione che stupisce. Il mulo scalpita ac- 
canto alla bairella posata a terra perchè ce n'è una 
fila davanti e i medici non fanno a temipo' a lavare ta- 
gliare bendare la carne fresca che gli portano: la notte 
scende buia e rigida, il lagno del ferito disteso a terra 



— 132 — 

è sommesso e interminabile, pieno di rinuncia e di ab- 
battimento. 

E noi andiamo fuori in servizio di materiali. 

Da questa parte la notte vive una sua tangibile vita 
di scoppi, rigata idai razzi, agitata dai sùbiti allcirmi. 
E le rocce si animano, anch'esse, sotto la freddia alba 
dei razzi ; e balzano fuori dalla notte le cime e vi 
ripiombano, con continua vicenda, assillate dal bom- 
bardamento. 

E poi il cielo si scioglie in pioggia. Quando si 
rientra, sulla strada ingombra, ancora le file di barelle 
scoperte sotto l'acqua, e il gemere dei feriti e gli urli 
dei medicati e le bestemmie dei conducenti ; e ogni 
tanto lo scroscio e il lampo della granata che copre 
ed annulla tutto. Una è caduta su un posto di medica- 
zione, netta: medico e feriti non si sono trovati pili. 
Confusione, irrequietezza dei quadrupedi, un urlo più 
acuto (quallche mulo ha messo la zampa su un ferito 
a terra, pare): poi le carovane ripigliano l'andare, solo 
sullo sfasciume della baracca saltata in aria bisogna 
stare attenti dóve si mettono i piedi. 



25 giugno. 

Improvvisa diana di cannonate. L'alba non è che 
un pallore attonito, e il bonubardamento insiste da dtie 
ore con violenza mai raggiunta prima. Fuori dal sacco- 
pelo, a fiutare gli awemmenti. Ecco, in un attimo le 
due baracche laggiù sullo sperone sono scomparse : 



— 133 - 

croscio di tavole e di lamiere, e, diradato il fumo, 
sulla strada un conducente di corsa cKe si tira dietro il 
mulo riluttante. 

Dice Talmone : — Adesso arriva il portaordini. 

Difatti, dopo poco, allarme. Tocca a noi. 

E mi si incasella nella testa un endecasillabo, e lo 
rimastico monotonamente : (( Venne il dì nostro, e vin- 
cere bisogna )). 

I soldati s'allineano lungo la strada, contro la roc- 
cia. Non guardo che f accie abbiano : ma sento al di là 
la trcmquilla rassegnazione all'inevitabile. Da quindici 
giorni s'assiste allo stesso spettacolo: escono' batta- 
glioni, rientrano barelle e morti, e dopo qualche giorno 
o qualche ora, i pochi superstiti. Ed oggi il ritmo pare 
più violento, e noi andremo fuori sotto un bel chiaro 
di sole, che intaglierà crudelmente le nostre ligure sul 
ciglio della trincea quando ne usciremo per scendere 
nella busa dell' Agnel izza, ed andare al contrattacco. 

(( Verme il dì nostìro, e vincere bisogna». 

Non penso, non penso. Mi preoccupo con minuzia 
dei particolari. Dò ordini all'attendente, e mi com- 
piaccio che essi suonino (non c'è sordità in fondo alla 
mia voce) così netti e precisi. Presentimenti ? No, non 
ho presentimenti. Guardo il cielo già colmo di luce, 
gli schianti arancio e nero degli shrapnells, una fila 
rapida di muli che prendono la distanza laggiù alla 
svolta di Cima Lozze. Senato, premuto dalle giberne, 
dal moschetto ad armacollo, dalle fascie, dal sacco, 
dall'elmetto, mi pare che tutto ciò mi costringa a dirit- 
tura d'azione e d'opera : mi sento arnese buono e pronto 



— Ì34 — 

all'uso, diretto da una volontà che è inesorabilmente 
fuori di me. 



Il Capitano dice : — Andiamo. 

Sulla soglia delia caverna, e addossati alla parete, 
tre o quattro telefonisti, un osservatore d'artiglieria, un 
capitano dei bombardieri ci guardano con occhi in 
cui temo di legger troppo (Dio mio, siamo dlinque così 
spacciati?). Mi conoscono, ma tacciono': sento che 
non osano dirci la parola d'augurio, che suonerebbe 
buffa ed ironica. 

Ma Tissi trova le parole adatte. 

— Ciao neh. E ne stè a ver paura, che par ma- 
gnar e par bevax penso mi a mandarvene drento fin 
che volè. 



Appena messa la testa fuori dalla trincea il dottor 
Dogliotti s'è preso un cazzotto da una spoletta che lo 
ha fracassato. Tutta la costa della Caldiera che si 
deve discendere è vulcanelli di granate; ma sembranio 
peggio le mitragliatrici cecchine che aspettano ai pas- 
saggi obbligati e fregano quasi sempre. C'è il muc- 
chietto dei morti, però, che dà l'allarme. Allora si 
prende fiato un momento, tutta la vita passa in un 
rimpianto d'un attimo, un presentimento s'affaccia ed 
è respinto con terrore — ed ecco ci si tuffa nel rischio. 
Tore quattro sibili di pallottole — è passata. 

E lo zappatore Vanz, addossato alla roccia che lo 
ripara, tira il fiato e commenta quei sibili : 



135 



— Le cicima zio zio, e no semo gnanca parenti, 
Ma il capitano Vigevani c'è restato. 



E poi, via per il vallone dell'Aignelizza colmo di 
morti, gli scheletri delle battaglie dell'anno passato, 
i cadaveri gonfi della battaglia di quest'anno che dura 
da quindici giortni. E.d un teschio sghignazza, lucido, 
accanto eJla maschera livida di un morto di ieri. 

Sul sentiero levigato che debbo perconere — non 
c'è altra strada, e anche qui dove m'indugio hanno 
picchiato dei granatoni — sei sette cadaveri recenti, 
abbattuti dalle mitragliatrici, ammoniscono. Eppure, 
si deve passare. 

Un artigliere da montagna sta lì, esitante, e mi 
dice : 

— -Siamo venuti in qua in due. Uno è quello là, 
restato secco. Io l'ho scampata. Ma adesso, a tornare 
indietro ? 

Un attimo ancora. Poi : 

— Pruvè, bele sì a venta pruvè. 

E l'artigliere si fa il segno della croce, e schizza 
via. Tatatata. M^a è (già passato, illeso, e caracolla per 
le sassaie fra uno scoppio e l'altro dell 'artiglieria. 
*'''■ * n-j 

Ma ecco la montagna si drizza e il sentiero entra 
nella parete e non c'è altra via che saltar giù da que- 
sto muraglione di sette metri su quel terrazzo là sotto, 
e speriamo di romperci una gamba, visto che la scheg- 



— 136 — 

già non mi prende, che la sia finita con questo inferno 
e mi portino all' ospedale. Durante il volo un decimo 
di secondo' d'angoscia, che l'occhio ha percepito là 
sotto un mucchietto di petardi, e accidenti, se all'urto 
ne scoppia soltanto uno, altro che ferita intelligente ! 
E giìi come un isacco. I petardi non sono scoppiati, la 
gamba non s'è rotta, avanti a sbalzi per la montagna 
che carolila. 



E al di là del costone, d'un colpo, ecco la spa- 
ventosa scena dantesca, un girone di malebolge fatto 
realtà. Disseminati sui gradini d'un muraglione di roc- 
cia livida arsa lebbroisa, appicciccati al sasso, in- 
tramezzati dalle macchie rosse e bianche dei feriti, 
quel centinaio di uomini della compagnia; immobili, 
taciturni, nel tormento del bombardamento da cui non 
hanno riparo, nell'esposizione coatta al rischio che 
viene da quattro parti, con grandi occhi sbarrati sulla 
luce implacabile del mlezzogiomo, 

— Ch'el se tiri via da là, sior tenente, che i ghe 
spara. Ch'el vegna qua da me che se sta sicuri. 

Un momento di irresolutezza : ed ecco, una pallot- 
tola spacca il cuore ail bravo ragazzo che mi voleva 
al sicuro vicino a lui. 

Incoerenza d'ordini. C'è qualcuno che sta per- 
dendo la testa, ai sommi comandi. Il telefono ogni 
cinque minuti si spezza, e subito^ dopo riprende. Me- 
rito di questa squadretta di guardi afili del genio che 



— 137 — 

sono eroici, un caporale e pochi uomini, sempre fuori 
a cercar la rottura, anche su quel lordaio di neve del 
passo deirAgnella dove c'è pili buche che piano, soli, 
senza ufficiali, senza orgoglio di mostrine al colletto — 
due ci hanno già lasciato la buccia, e gli altri conti- 
nuano, e vien la voglia, ogni volta che vengono a do- 
mandare di provare se adesso si parli, vien la voglia 
di mettergh sulla testa il cappello con la penna — per- 
chè se lo njeriterebbero. 

A sera, la 297.^, d'impeto, attacca, vince, riprende 
la quota 2003. 

E subito il capitano Ripamonti domanda rinforzi. 
C'è una compagnia — trenta uomini — d'un altro 
battaglione. Su. Poi per racim<:^lare altri quattro gatti 
da portargli, snido dai sassi, dalle balme qualche sol- 
dato senza reparto, che attende la notte per rientrare : 
e non trovo altra ingiuria più sanguinosa di questa, per 
scuoterli : Imboscati . 

— Fuori, imboscati. Bisogna andare di rinforzo 
alla compagnia della cima. 

E i soldati, bestemmiando, vengono fuori, e s'av- 
viano, adagio, lungo il costone di roccia che pare 
offrire un certo riparo — e c'è quello che mastica fra 
i denti : 

— Ostia, anca imboscai i ne dise, dopo tanto 
tempo che se se rampega su ste erode ! 

E viene anche il bersaglierino che comanda una 
sezione mitragliatrici, dice: — a Mi volete? vado 
su subito anch'io, bravi ragazzi, son contento di lavorar 
con voi)); entusiasta, svelto, prende uomini e armi, 



— 138 — 

fila su verso la cima, salta nella trinceetta sconquassata, 
la priima pallottola è per lui, e lo fredda d'un colpo. 
No, non vale la pena d'essere in gamba. 



Chi sa quanto è durato il bombardamento' di mille 
calibri, dai quattro punti cardinali, che s'è sferrato 
subito dopo, accendendo nella notte un firmamento ine- 
sausto di scoppi ? Sotto quella furia, fra i sassi, contro 
una roccia, dovunque la montagna pare promettere ri- 
paro, immobili nell'offerta della nostra carne — e 
brandelli di pensieri — ed attesa senza meta d'una 
fiammata, d'un urto, che piombi nel nulla. 

Un 'Soldato, vicino a me, batte ininteooittamente i 
denti — coffi nota che esaspera. E un suonar di gavetta 
segna il tremare del suo corpo, nelle pause del fra- 
casso. 

Un altro, la faccia affondata fra due sassi, mormora 
desolatamente : 

— A j'è nèn Dio, a j'è nèn Dio. 

Ma c'è stato anche quello che ha dormito. 



Ci siamo da due giorni, qua su. Attesa riluttante 
d'attimo in attimo' del colpo che deve stroncare. Il 
medico dice che abbiamo già il cinquanta per cento 
delle perdite. Cii si rifugia mentallmente nell' ultimo 
decimo', si spera che almeno quel decimo rientri. Ces- 



— 139 — 

sato lil bombardamento, cessato ì' impeto d'attacco in 
cui il trapasso pare agevole e lieve, e ci si sente trasu- 
manati da quella irrevocabile volontà d'olocausto che 
è la bellezza soggettiva della guerra — alla prima 
pausa, pur nell'incertezza dell'attimo cbe segue, pur 
nell'ansia delil' imf erno cbe ricomincerà, ritorna in me 
la presunti Josa certezza di sopravvivere ; con quell'ot- 
timismo stupido e vanitoso che fa del mio io' il centro 
dell'universo, e s'affatica a trovare in ogni avvenimento 
vicino o lontano una causa logica per lo svolgersi della 
mia vita. Soltanto — superstizione — quella certezza 
si cerca di soffocarila. 



Finito il bombardamento, ta-pun. Ironia — se il 
cecchino lo capisce. Poi qualche gemito di ferito. Poi 
silenzio. E la montagna è infinitamente taciturna, si- 
mile a un mondo defunto, con i suoi nevai lordi, e i 
crateri degli scoppi ed i mughi arsi. Ma vive su tutto 
ciò il fiato della battaglia: fetore di merda e di morti. 

Un uomo che ha paura. Addossato^ alla parete, 
afflosciato, svuotato. Hai paura della granata, uomo? 
Ha paura della granata, e della notte, e del suo gradò, 
e del suo destino. Ed è la sua vita stessa che s'an- 
nulla in questo momento, quello che valeva, quel qua- 
dratino argenteo sul braccio di cui era orgoglioso, quei 
nastrine che desideriamo per noi e ci fanno schifo 
su di lui. Non è più niente, nient'altro che animale 



— 140 — 

contesto di pelle e di ciccia e di stoffa giigia; un 
crampo sul viso, un'immobilità di rinuncia. Reagirebbe 
a questo ordine stupido di morte, se non avesse paura: 
invece vi assente con un (sorriso ebete, uguale. Ma bi- 
sogna dirgli signor maggiore, e domani ubbidirgli, e 
dopodomani vedergli un nastrino nuovo sulla giubba 
perchè il suo battaglione s'è lasciato macellare bene. 

Un altro uomo che la battaglia ha guastato. U|n 
colpo di tosse lo irrita. Ssst, non parlate, che se no 
esce dai gangheri. È come un ubbriaco che non vuole 
parerlo, e si contrdlla: parla sottovoce, tende l'orec- 
chio a rumori imaginarii. Tre giorni di battaglia gli 
hanno trapanato il cranio, tre notti di veglia l'hanno 
succhiato. Che cosa suacede di così grave, che egli 
interrompe gli ordini minuziosi che sta impartendo, 
fissando quell'angolo della grotta ? Laggiii c'è qualche- 
cosa che non va. Quei sacchetti a terra. Raccattarli, 
metterli in ordine ed in mucchio l'uno sull'altro. E 
in silenzio. Ecco, ora può parlare. No, un momento. 
C'è ancora quello là in fondo. Excolo, è posato sul 
mucchio, anche lui. Va bene. «Allora senta, Lei con 
i suoi uomini ». 

Nevrastenia dei signori comandanti. 

Quando abbiamo paura noi, è un'altra cosa. 

Ieri' altra notte, sotto quelle sventole che piovevano 
a decine alla volita, il Capitano buttato a terra tremava 
come preso da un rigore di febbre. E parlava. — È 
più forte di me. Ho paura. Lo so. Mi succede sempre 



141 



così. Io muoio venti volte in questa agonia atroce del- 
l' attesa deirattacco, sotto la prepcircizione dell' artiglie- 
ria. Ma fra un'ora, ostia, vedrai che getterò via la mia 
paura, quando ci attaccheranno, e quelli laggiìi mi chia- 
meranno un eroe e mi faranno i complimenti . Ma adesso 
non ne posso piìì non ne posso pili. 

Nostra paura onesta, che reagisce a sé stessa con 
spasimo, che lucida e suscita le ide« temerarie, ohe 
tiene le posizioni, che nobilita questa nostra passione 
esterrefatta ! 



Busa e Battaglia, alpini al cospetto di Dio, fanno 
quattro chiacchiere al riparo d'un roccione che ha 
presa l'itterizia a furia di granate a gas. Busa ha 
invitato il capitano Battaglia a cena. 

— Me la deve mamidair dentro Marimonti. Te sen- 
tirai Bataja, che pasta asciutta ! E che vin de Bre- 
ganze ! 

Eccolo, un alpino con la sporta, cauto fra quegli 
esolaimativi di pallottole frullanti e qualche punto fermo 
di granate, naso all'aria in cerca del Comando com- 
petente. 

— Ciò, alpin, meti qua la sporta. 

Il soldato non se Io fa dire due volte, quelle tre 
stelli ette sul braccio sono un imperativo categorico, e 
poi è felice di poter tornare all'angolo morto delle 
cucine : depone la sporta, e via a gambe. 

— Te sentirai, Bataja. 

Il capitano Battaglia fruga curioso con gli occhi 



— 142 — 

nella sporta, Busa s'accinge a vuotarla, e tira fuori, 
rannuvolandosi a poco a poco, dei piattini deliicata- 
mente complicati, pasticcini, gelatine, uno sbandiera- 
mento di to'vagliolini candidi, un luccicore di maio- 
liche. 

- — Digo, Busa, che lusso. Ma de solido el me par 
che ghe sia pò cheto. 
Busa è interdetto. 

— Mi no capisso — broaitoila Ira i denti. — 
Invece de la pasta suta... 

— E el vin de Breganze ? 

C'è, la bottiglia; corpo tozzo, collo argenteo. Dello 
spumante ! Busa noin capisce piìi nulla. 

— Bevemo, in ogni caso. Ma cossa che ghè salta 
in testa a Mariimionti ? 

Battaglia non la finisce piìi, pur dando fondo a 
quei piattini nevrastenici, di canzonar l'amico. 

— Ostia, Busa, te te trati da signorina in guera, 
gnaiìca se te fossi el general ! 

Già, m^a se Busa era il generale, restava senza 
mensa. Perchè bisognò che arrivassero- in fondo alla 
sporta per accorgersi che c'era anche un biglietto 
dentro, e sud biglietto l'indirizzo del generale Porta, 
il legittimo destinatairio della cena. Ma siccome il 
generale Porta è alpino e certe cose le capisce, quando 
i diUe colpevoli gli hanno mandato i magri avanzi e le 
scuse, lui ha risposto con un bel bigliettino di com- 
plimenti. 



— 143 — 

Il caperai maggiore Pesavento porterà il rapporto 
al Comando, perchè il telefono è fracassato irrimedia- 
bilmente. 

— Aspetta il buio — gii consiglia l'aiutante mag- 
giore . 

— Co xe scuro tira l'artiglieria, sior tenente. Xe 
mejo provar adìeso che no i ne tira. 

E giù a rompicollo per il pendio, poi attraverso 
la busa ingombra di materiali abbandonati e di cada- 
veri, finora va benone, i cecchini non se ne sono ac- 
corti. 

Ecco, cominciano adesso, che Pesavento attacca la 
salita. Ta-pun, ta-pun. 

Suonano così bofnarii i colpi, nella tranquillità po- 
meridiana. Ma noi rabbrividiamo, gli occhi sbanati 
sulla marcia deiralpino, ili cuore preso in una morsa: 
ci pare che nessun dramma sia piiì atroce di quello cui 
assistiamo, dell'uomo solo nella montagna enorme a 
cui il nemico appostato dà la caccia. E il sentiero è 
lungo ed erto, e il cecchino paziente. Ta-pun, ta-pun. 

Se Pesavento potesse giungete fino a quella svolta ! 
Là, comincia il camminamento. Tutti ì nostri sguardi 
sono puntati su di lui, come se potessero creargli at- 
torno una corazza. Ancora venti metri — e poi è salvo. 
È vero che quello è il punto peggiore : ci sono altri 
morti che lo fanno capire. 

Ta-pun. E Pesavento s'abbatte, d'un colpo, sul 
sentiero. E rimane lì, senza un brivido, senza uno 
sgambetto, stecchito. E dopo venti minuti, chi guarda 



— 144 — 

col binocolo per vedere se per caso è solo ferito, vede 
brillare immobili al sole i chiodi delle scarpe. 

Mezz'ora dopo, Jardella ha cacciato un urlo, e ha 
gridato: — Guardate Pesavento! . 

Pesavento s'era alzato d'un balzo, aveva superato 
di volo i venti metri di salita, s'era già tuffato nel cam- 
miinamento. E il cecchino, minchionato, ha fatto suo- 
nare diie scariche arrabbiate ed innocue sui morti au- 
tentici del sentiero. 

Oh che cosa porterà di nuovo nella busta gialla 
il carabiniere che viene nel cuore della battaglia dal 
comando della Divisione, dopo aver superato il diffi- 
cili e passo del vallone ? Forse il cambio (quale scal- 
cinato battaglione raffazzonato può darcelo, che sono 
tutti passati una o dbe volte nella tramoggia }) — forse 
un ordfme d'operazione ? Più grandi cose : una ciroc»- 
lare che lamenta l'ecoessivo consumo dei pennini d'ac- 
ciaio, e un altro foglio della medesima urgenza. 

Povero diavolo, rimane male quando il Maggiore 
glielo dice. Ma Io consoliamo con un bicchiere di vino, 
perchè Tissii quando ci si mette le cose le fa per bene, 
e per essere sicuro che vino e viveri arrivano viene 
qualche volta anche lui con la corvè a costo di restar ca- 
stagnato sul sentiero. 

Se si chiudono gli occhi un momento, stando così 
incastrati fra due sassi, il sonno ci prende con un caz- 
zotto sulla nuca, immediatamente. E quando un calcio 
ci sveglia, si risale faticosamente a galla da un oceano 



— 145 — 

cupo dove tutta la nostra personalità si fosse di sciolta 
e annullata. Un dolore fisico acuto contrae le tempie 
e la fronte nello sforzo per ri connettere, per rientrare 
da quell'esilio infinitamente lontano alla realtà della 
nostra condarma. 

La nostra condanma è in questo cielo di rame ine- 
sorabiilmente pesante sui nostri cranii, in questa polti- 
glia di carogne che ifnfracidi scono, in questa dura sas- 
saia a cui siamo inchiodati dal nostro mestiere come la 
farfalla sulla tavoletta di legno del collezionista. Già, 
il rriestiere. Arguzie di caserma s'ostinano solitarie, 
moisconi fuori stagione, nelle tempie vuote: l'hai voluta 
la penna ? Hai venduto la vacca ? Hai portato il bu- 
tirro al sindaco perchè ti mettesse negli alpini ? In 
un sacco, ci hanno messi, ed ogni tanto l'allegro macel- 
laio ci prende e ci butta sul pancone sanguinoso; poi, 
quando la sarà finita, raccatterà quelli che saranno an- 
cora buoni per un'altra volta e li rinsaccherà. Bisogna 
arrangiarsi, finché non tocchi anche a noi lo sbrendolo 
nella pancia, visto che il corpo non mette superbia a 
fax l'eroe, come dicono laggiù, e non rinuncia a nes- 
suna delle sue bisogne. Rubiamo le scatolette di carne 
ai morti, beviamo alla borraccia dei morti, ci facciamo 
dei morti parapalle e scaldapiedi. Bano si leva un poco 
per sfibbiarsi i pantaloni, del resto rimane fra noi, 
sarebbe buffo' che andasse a cercare una palla per 
far del pudore. E le giberne le ha appese a questa 
tibia nuda che spunta fuori della roccia, ossame dei- 
l'anno passato. 

P. Monelli, Le scarpe al sole - 10, 



_ 146 — 

Ed è passata anche la terza notte e la quarta gior- 
nata ideila battaglia. A sera la mitezza dei tramonto, 
nella tregua della tregenda, vince anche questo orroi^e. 
Armonie violacee delle lontananze in angolo morto, e 
simili a una terra promessa quei pascoli iremoti già 
immersi nei vapori notturni, su cui la guena non im- 
perversa. 

All'alba urli d'attacco, di vittoria, di morte, nel 
buio. Allarme sconnesso, poi un viso segnato di sangue 
che annuncia la cosa. 

Il presidio della 2003 è sopraffatto, gli austriaci 
son qui, il medico telefona che son già alla sua grotta 
e che si ritira, inutile richiamarlo al telefono, non 
risponde più, un altro soldato arriva e spiega come è 
scampato, dòpo esser già stato circondato. 

— Ghe go pianta la baioneta nela pansa a un, 
qual' altro lo go butà zo per la Valsugana, e mi son qua. 

Ci si acconcia a disperata difesa a pochi metri dell 
nemico. Ed ecco, ancora una volta, tutte le batterie del- 
l'Austria su questi brandelli di compagnie, e urli d'i 
colpiti, e gemiti senza fine, senza fine. 

Non ci si può muovere più. Dove uno s'è ficcato, 
ai resti e preghi Iddio che non ci picchi dentro la pal- 
lottola o lo scheggione. Tutto il costone è battuto. Il 
suolo dà l'impressione che sia percosso da correnti elet- 
triche, frigge, crepita, chi sii sposta può rimanere pa- 
ralizzato, le gambe spezzate, il rene spaccato. 

E il lagno del isergente col rene spaccato dura mo- 
notono, uguale, dall'alba. 



— 147 — 

Arriva un saldato — è guizzato' immune fra quel 
crepitìo — porta un biglietto di Poli. Il capitano Ripa- 
monti con otto o dieci buchi nel corpo di bombe a 
mano' s'era trascinato via dalla cima e gemeva là sotto, 
allo scoperto. Aindarflo a prendere, un suicidio. Ma 
Sommacal ha detto: 

— El mie capitano, devo andar a torlo. 

Ed è uscito fuori, Piazza il portaferiti l'ha seguito, 
gli austriaci, stupefatti, cavallereschi, hanno lasciato 
fare. Il capitano in barella dev'esser già rientrato, a 
quest'ora. Questo dice il biglietto del tenente : dice 
anche, poscritto, che di dove sono nessuno li smuoverà, 
finche c'è penna d'alpino. 

Il portaoii'dini è in piedi, contro alla "{)arete, faccia 
tagliata da uno sgraffio, occhi duri e chiari. 

Ca)sagrande, 11' aiutante maggiore, sussurra qualche 
cosa al Maggiore. 

E il Maggiore dice : 

— Alpino, tu sei stato retrocesso un mese fa da 
caporale, perchè a Barricate hai preso una sbornia 
stupida ed hai lasciato mangicire i viveri di riserva ai 
tuoi uomini. Da quattro giorni, qui all'Ortigara, ti 
porti bene. Ieri hai sallvato il pezzo da montagna ed 
incoraggiato i tuoi compagni. Ti promuovo caporale sul 
campo per merito di guerra. 

E il Maggiore gli stringe la mano. Un nodo alla 
gola mi prende, intuisco la bellezza del gesto, fra noi 
morituri, ipresi nel macinio ideila battaglia disperata. 
E che cosa importa se la burocrazia (ritarderà d'un anno 



— 148 — 

o negherà la sua sanzione ? Un brivido eroico rianima 
la volontà, coscienza che ogni sacrificio è accettabile 
per un'oscura bellezza morale che ci sovrasta ed a 
cui non sappiamo dar notme. Più alta che la patria, 
più forte che il dovere. Umcinità, forse. Ci sgozziamo 
ferocemente in un macello che ci ripugnerà domani, 
per valori che saranno angusti o nulli domani. Ma 
uomini siamo, con dignità id' uomini, con questa po- 
tenza di chiudere in un gesto la giustificazione e la 
ragione della vita. 

Al soldato gli occhi si sono velati un poco e la 
bocca gli trema un poco agli angoli : gli altri tre o 
quattro ragazzi intomo muti, accesi, vibrano di consen- 
timento. 

Tatatata. La miitraglia nemica batte anche questo 
posto. Rapido costruire d'un riparo di sacchetti. Senso 
che a poco a poco c'intrappdlano. Eroismo di andare 
a cacare. 

A buio, ordine di ritirata. Per il vallone dell' Agne- 
lizza, tra fetide oscene carogne, un senso a cui non 
s'osa credere ancora di liberazione, possibile che non 
se n'accorgano e ci lascino tranquilli fino alla fine ? e 
rientriamo nelle linee. 

E la tazza di brodo caldo e la baracchetta affet- 
tuosa che ci riospita segnano i termini del desiderio. 



149 — 



30 giugno. 

Attonito stupore di rinascere, novità di sensazioni, 
seduti al sole sulla soglia della tenda. La vita è una 
cosa buona che si sgranocchia in silenzio con i denti 
sani. I morti sono compagni impazienti che s'avviarono 
in fretta a loro faccende ignote ; ma noi sentiamo fluire 
su di noi la carezza tepida della vita. Centellinando 
qualche delicato ricordo famigliare : sollievo di poter 
riportare ancora una volta questo figliuolo prodigo a 
quei poveri vecchi laggiij — a cui non si aveva il 
coraggio di pensare il giorno che s'andò fuori. 

E poco male se la vita dovesse esser sempre così. 
Ricordi si accumulano; un anno oggi, due anni oggi, 
s'era già in guerra — quest'altio anno sairemo in gio- 
stra ancora che non c'è ombra d'epilogo nel dramma. 
Ma oggi s'accetterebbe tutto: per questa pienezza di 
rinascita, per il miraggio di una fuga a Feltre e a Bo- 
logna (questa volta questa volta essa concederà, la 
piccola capricciosa) — per questo premio voluttuoso 
di sole che spiana finalmente il viso così a lungo con- 
tratto. 



Ma i generali che hanno sbagliato i piani, ma i su- 
premi reggitori che non seppero tenere le nostre con- 
quiste e diedero ordini incoerenti o nefasti, blaterano 
ora, rivedocno le bucce ai morti ed agli scomparsi, 
macchiano di burocratica sanie i begli eroismi. E in- 
tanto i sdldati eroici laceri stanchi godono il riposo: 



— 150 — 

quattordici ore di lavoro al giorno pei scavare le trin- 
cee che i supremi reggitori non pensarono a far co- 
struire prima. 

Carta carta carta che aduggia iclie grava cihe sof- 
foca, rei azioni rapporti prospetti. La battaglia è 
finita, il puro eroe rientra nei ranghi e s'allinea col 
fifone a parità di rancio e di cinquina. E aiutanti fu- 
rieri caporali di contabilità scrivono allineano riico- 
piano ticchettano la macchina da scrivere, i morti 
i dispersi i feriti diventano numeri sugli specchi ni- 
tidi, il capitano che balzò sulla quota nell'ubbriachezza 
dell'attacco ha le dita sporche d'inchiostro, il generale 
che ritto sulla prima linea la notte del venti stangò 
alpini e austriaci in mischia e tenne superbamente fede 
alla sua fama di soldato e di capo, oggi prende cap- 
pello perchè un prospetto ritarda e contumelia scribac- 
chini e dattilografi. E il gesto eroico del soldato — 
Pretto che prende il comando della squadra perchè è 
caduto il caporale, e il giorno dopo scavalca la trin- 
cea e si presenta ali 'imbocco della caverna e ne trae 
fuori — solo — cinquanta austriaci che si danno pri- 
gionieri (c'è chi ha avuto la medaglia d'oro per questo), 
e rulitimo' giorno di battaglia sfugge alla prigionia in 
un violento corpo a corpo; Jardella e Forte portaordini, 
che fanno a pari e dispari per vedere a chi totca andar 
fra quell'inferno, e fuori per la 'montagna che scoppia 
e scalpita fanno meraviglie, per cinque giorni, infati- 
cabili ; Piazza il portaferiti impassibile e devoto, che 
ha sgombrato per terreno battuto mezza compagnia^ ^ 



— 151 — 

a chi Jo loda ride d'un suo buon riso stanco mostrando 
la sua pelata che gli cominciò in Lihia; Pesavento 
morto la notte ultima perchè volle tornare indietro dove 
c'era la sua compagnia — il loro gestO' eroico, porotocol- 
lato esposto postillato, comfermato da dieci specchi 
e cento relazioni, darà loro fra un anno diritto a quello 
straccetto azzurro che per la terza volta su concede con 
mirabile rapidità al poeta che non ne ha bisogno? 

Ma se il numero dei morti appare in nitido pro- 
spetto, possono essi placidamente marcire sui fianchi 
della montagna maledetta. 



Non un giorno di riposo a questi scarponi, non un 
giorno in paesi con case di muro e con osterie e con 
donne. Un magro innesto di complementi, e poi su 
un'altra fronte, ancora in linea. 

Ma questa è così buffa che se il nemico piscia ce 
la fa sulla testa. Per vedere che cosa fa, si prende il 
torcicollo, e, per tircirgli , le feritoie sembrano antiaeree. 
Nemmeno quando vai rasente il parapetto sei sicuro 
di non essere veduto; e c'è sempre qualche paiUottoil'a 
che viene non si sa dì dove e che batte davanti asi piedi 
col rammarico d'esser stata lunga. 

I nostri predecessori erano buona gente. Ci hanno 
lasciato delle trincee che quando piove i sacchetti 
crolllano (c'è della neve dentro!), i sostegni cedono, 
si rimane allo scoperto, e bisogna sperare nel buon 
cuore del bosniaco che non ci tiri. 



— 152 — 

Si sa^ tutti che questa linea non si può tenere, che 
è già deciso che fra un mese 1* abbandoneremo. Ma ci 
si deve lavorare dentro accanitamente lo stesso. Qui 
e — quando s'andrà m seconda Imea — nella seconda 
linea che diventerà la prima. Di notte, allarme, fucile 
alla spalla, turno faticoso di vedetta, pattuglie, sempre 
qualche colpito — di giorno colla picca e il pistoletto, 
e la corvè, e la fabbrica dei gabbioni, e ancora qual- 
che colpito. Viene su il superiore che deve essere 
confermato nel suo comando per il primo settembre, e 
per quel giorno deve presentare dei bei lavori com- 
piuti : aggrottato, cattivo, vien su con cento giorni di 
rigore in tasca, finche non gli ha distribuiti tutti non 
discende, fa il processo a chi dormie perchè di notte 
ha vegliato, misura lesina discute le ore di sonno 
legittimo, dice : — Il soldato lavori finché non catdè af- 
franto — riparte minacciando questi alpini che sono 
poi solo una montatura, teuf teuf, l'auto ise lo riporta 
al suo comando dove un capitano gli metterà in bella 
copia le motivazioni degli arresti di rigore. 

Ma la sera in cui il solito disertore nemico per in- 
graziarsi il nuovo padrone sballa che la notte ci sarà 
un attacco, e l'allarmi corre dalla divisione nevraste- 
nica per i fili del telefono ai comandi di battaglione, 
e si ordina di raddoppiare la vigilanza, e le novità ogni 
due ore, ed ogni fucilata provoca tenore laggiù e l'uf- 
ficiale di servizio» s'attacca al telefono e domanda che 
cosa succede (e invece noi sappiamo bene che queste 
sono le notti in cui ci si potrebbe cavare le scarpe) — 
allora, perchè hanno paura di perdere la posizione, 



— 153 — 

mandano a dire ai valorosi alpini che fanno sicuro as- 
segnamento sui valorosi alpini e che con i valorosi 
alpini non c'è niente da temere, e se raccomandano 
ai valorosi alpini di vigilare semno che questo è un 
pleonasmo per i valorosi alpini, ma che lo fanno per 
far piacere al corpO' d'Armata. 
E così sia. 



Due carabinieri hanno condotto su stanotte da Enego 
i due alpini condannati alla fucilazione perchè un 
giorno' dell' Ortigara, usciti dalla battaglia per una corvè, 
non vi erano poi più rientrati. Toccano all' aiutante 
maggiore i compiti più odiosi, persuadere i due che 
sono vane le speranze che hanno portato trepidamente 
con sé per tutta la strada (i carabinieri, buoni diavoli, 
non avevano core di disilluderli) ; e mandare a chiamare 
prete e medico; e tirar fuori 'il plotone d'esecuzione; e 
intanto far chiudere in una baracca questi due morituri 
così diversi da quelli che buttiamo fuori della trincea 
i giorni di battaglia — che appena si son ritrovati con 
il loro' battaglione hanno urlato, pianto, chiamata la 
famiglia lontana, implorato pietà e perdono. 

— Andaremo de pattuglia tute le sere, sior te- 
nente... 

E quando hanno intuito che nessuna forza umana 
poteva loro ridare la vita, non hanno più detto una 
parola, hanno solo continuato a piangeri lamentosa- 
mente. 

11 plotone d'esecuzione s'allinea, sbigottito, occhi 



— 154 — 

atoni suir aiutante maggiore che con voce che vuole 
dunque far suonare aspra spiega la neoessità d'i mirar 
bene per abbreviare l'agonia a gente irrimediabilmente 
condannata. Nel plotone ci sono amici, paesam, forse 
anche parenti dei due condannati. Commenti sommessi 
neirallineamento. Silenzio — grida l'aiutante . 

È anivato il prete, tremante, atterrito; c'è anche 
ili medico, si marcia ad una piccola radura sinistra ne! 
bosco, ai priimi lucori dell'alba. Ecco il primo con- 
dannato. Un pianto senza lacrime, quasi un rantolo, 
esce dalla gola serrata. Non una parola. Occhi senza 
espressione più, sul volto solo il terrore ebete della 
bestia al macello. Condotto presso un abete, non si 
regge sulle gambe, s'accascia: bisogna legarlo con un 
filo telefonico al tronco. Il prete, livido, se lo abbrac- 
cia. Intanto, il plotone s'è schierato su due righe: la 
puma riga deve sparare. L'aiutante maggiore ha già 
spiegato: io faccio un cenno con la mano, e allora 
fuoco. 

Ecco il cenno. I soldati gucirdano l'ufficiale, ili con- 
dannato bendato, e non spcirano. Nuovo cenno. I sol- 
dati non sparano. Il tenente batte nervosamente le 
mani. Sparano. Ed ecco il corpo investito dalla raffica 
si piega scivolando un poco lungo il tronco dell'ajlbero, 
mezza la testa asportata. Con un'occhiata, il medico 
sbriga la formalità dell'accertamento. 

Siamo' al secondo — questo scende calnrto, quasi 
sorridente, icon appesa al collo una corona benedetta. 
Dice come estasiato: — El xe justo. Vardè voiailtri 
de rigar drito, no stè a far come che go fato mi, 



— 155 — 

Tocca a sparare a quelli della seconda riga: ma 
questi tentano dì sottrarsene, affermando di avere già 
sparato, la prima volta. L'aiutante maggiore taglia 
corto, minaccia, parole grosse. Il plotone si riordina. 
Un cenno, la scarica. È finito. 

Il plotone (d'esecuzione — raccapriccio, angoscia su 
tutti i volti — rompe i ranghi, rientra lento. Per tutto il 
giorno, un gran discorrere a bassa voce nelle baracche, 
un senso di depressione enorme nel battaglione. 

La giustizia degli uomini è fatta. Questioni, dubbi 
s'affacciano alla mente riluttante e li respingiamo con 
terrore perchè contaminano troppo alti principi : quelli 
che accetticuno' ad occhi chiusi come una fede per ti- 
more di sentir fatto pili duro il nostro dovere di soldati . 
Patria, necessità, disciplina — un articolo dei codice, 
parole che non sapevamo che cosa volessero veramiente 
dire, solo un suono per noi, morte con la fucilazione, 
eccole chiare comprensive dinanzi allo sgaglliardiimento 
della nostra mente. Ma quei signori laggiù a Enego, 
no, non sono venuti qui a veder riempirsii di polpa le 
parole della loro sentenza. Comandanti di grosso car- 
reggio, comandanti di quartier generale, colonnelli della 
riserva, ufficiali dei carabmieri : ecco il Tribunale. 

Ricusato per incompetenza. Solo chi uscì vivo 
dalla maciulla del combattimento, solo chi strisciò al- 
l'attacco e sbiancò d'orrore sotto il bombardamento 
e pregò di morire nella notte di battaglia premuto dal 
freddo e dalla fame — solo quello sarebbe il giudice 
competente, e darebbe sì forse anch'egli la morte, mei 



-^156^ 

sapendo che cosa vuol dire. Non quelli laggiù, cimi- 
terini col robbio, bcirb^ fatta, letto con lenzuoila pulite 
e la guerra ricoirdo dei manuali di scuola e il codice 
penale edizione commentata lontano dallo spasimo della 
prima linea. 

E col mio tribunale, forse nemimeno quello che di- 
ceva (( el xe justo )) sarebbe stato fucilato. 



Gli alpini del Val Dora venuti di rinforzo con la 
loro sezione cantano la Ccinzone del Momtenero. Chi 
ha inventato le parole rozze, chi ha trovato il ritmo 
doloroso } È la più bella canzcine militare nata dalla 
guerra, destinata a diventare leggenda, ad essere can- 
tata sempre, quando saranno reclute i nipoti di questi 
ragazzi — quelli che faranno^ a tempo ad andare a 
casa e sposarsi l'amorosa. E c'è dentro tutto lo scon- 
troso spirito di cc^rpo del soldato di montagna, ruvido 
e ubbidiente, che accetta la guerra come un castigo 
giusto ed inevitabile. 

Spunta r alba del sedici giugno 
comincia il fuoco l' artiglieria 
il terzo alpini è sulla via 
Montenero per conquistar. 

Quando fummo a venti metri 
dal nemico ben trincerato 
un assalto disperato 
il nemico fu prigionier. 

Montenero Montenero 
traditor della patria mia 



— Ì57 — 

ho lasciato la mamma mia 
per venirti a conquistar... 

Deve essere stata composta la sera stessa dopo la 
battaglia — sotto un cielo povero come questo, dopo 
che il sergente ha cancellati dal ruolmo i nomi dei 
morti ed ha fatto portare i loro zaini nel magazzino. 

E per venirti a conquistare 
abbiam perduto tanti compagni 
tutti giovani sui vent' anni 
. . la lor vita non torna più... 

Ecco, una sera come questa, una canzone come 
questa — si vorrebbe ritornare bambini e rannicchiarsi 
contro il grembo della mamma per non sentire il tem- 
porale che brontola che lampeggia che scuote la mon- 
tagna — angoscioso nelle sue pause come nelle sue 
furie. 



Andando verso la Divisione ho veduto degli auto- 
carri con le ruote bianche dii polvere. E che sùbito de- 
siderio del piano sonnolento, siepi bianche, strillare 
di cicale, odore di maceri, fette di cocomero all'om- 
bra di una tenda caccolata di mosche ! 

E quei versi di Dante : 

« Rimembriti di Pier da Medicina 
se mai torni a veder Io dolce piano 
che da Vercelli a Marcabò dichina, » 



=— 158 — 
So a memoria il cielo notturno. 



Ebrietà primaverile di vento dopo la nevicata. Nu- 
vole spazzine nettano, bianche, il cielo. Le cime sono 
nuove e polite. Ora i morti dell' Ortigara hanno final- 
mente il loro sepolcro candido. 

Ed ecco l'aviatore esce fra le nuvolette buffe de- 
gli shrapnells e glli schianti neri della granata (glli al- 
pini la chiamano, questa nera e brutale, e! zapatòr), 
ad imebriairai più di noi del gaio mattino. Confitti 
alla trincea fangosa, lo invidiamo. 



Stupore notturno della nevicata, ricamo dei retico- 
lati, soffice mascherata degli abeti: motivi e parole 
vecchie, scenari vecchi che ammaliano con grazia sem- 
pre nuova il cuore brontolone. Questa silenziosa bel- 
lezza che prende ragioni nuove dagli arnesi di guerra è 
pure antica: e se oggi l'animo ne ritrae godimento, 
già negli inverni di pace m'immersi nella maestà della 
montagna notturna e ne bevvi un filtro di salute e d'or- 
goglio (mia giovinezza moribonda, con che occhi vedrò 
io gli inverni della mia vecchiaia }). 



A)bitudine anche alla guerra e allo scamparla e a 
ninnolare le paure vigliacche e ad inebriarsi dei buoni 
eroismi. Ma adesso arrivano gli ufficiali per forza, che 



— 159 — 

quando si presentano dioono' — sono del tal corso ob- 
bligatorio, — come per sottolineare bene che loro 
non ce n'hanno coilpa (chi ne ha colpa è quella buro- 
cratica cervice che ha avuto questo lampo di genio, 
da uomo a cui i quadri contano più di quello che 
c'è dentro). In questo nostro ambiente, però, O' s'assi- 
mileranno O' Sctranno stroncati. Anche ìei, bel signo- 
rino della Valle del Po, che mi dice ingenuamente : 

— Sa, io non sono mai stato m montagna, ma ho 
scelto gli alpini perchè non vanno sul Carso — anche 
lei preghi Dioi che non tornino le giornate in cui 
ci sia bisogno di buttar cuori saldi e teste dure a 
tappcu: r orrore di un falla sulla fronte. Intanto do- 
mani mi rampi cherà quelle erode, e vedremo che cosa 
ne diranno questi agordini dalla critica infallibile e 
scontrosa, che lei mi vorrebbe venire a comandare solo 
per non andare sul Ccirso — questi uomini legati per 
la loro nascita e il loro mestiere ad un destino così 
severo di soldati, buttati senza lor scelta allo sbara- 
glio finche la guerra duri, e pure tranquilli e assen- 
nati, che solo domandano di poter avere fiducia nell' uf- 
ficiale che li deve portare a morire. 

E abitudine di scartofìle nelle teste dei furieri e dei 
comandati in servizio di S. M. Adesso dopo un mese 
d 'limbo scatura al Comando di Gruppo, tornato qui alla 
compagnia, m'accorgo come fossero inutili le belle 
circolari che stillavo — non ne vedo più una al ne- 
gletto ufficio di compagnia dove il furiere davanti ad 
una cartolina illustrata fiord e donna con cartelli ino a 
svolazzi (( Ti amo » sonnecchia sui buoni-^viveri il suo 



— 160 — 

tedio soddisfatto di alpino che prima della guerra 
buttava giù alberi nelle selve del Comèlico, e sa sba- 
gliare dignitosamenite le somme del giornale di conta- 
bilità (non salò io che me ne accorgo). 

Mja iassù circolari circolarette cincolarone ; pro- 
spetti e specchi (anche se negativi tracciare tutte le 
colonnine per bene) ; tutto in triplice copia ; moltipli- 
carsi dei rapporti gercirchici ; arenairsi delle pratiche 
(lucus a non lucendo) per una formula errata, per una 
intestazione omessa, per una firma di facente fun- 
zione che è giudicata incompetente. 

E tu, povero Tonòn, credevi che presentando il 
telegramma con la notizia della malattia grave di tua 
madre ti avrebbero' concessa la licenza ! La pratica 
errò di tavolino in scaffale per quattro giorni; dopo 
il quarto giorno ritornò opima di attergati e con questa 
conclusiva peregrina annotazione : poicitè sono trascorsi 
ormai sei giorni dalla data del telegramma, si presume 
che la madre del nominato Tooiòn sia fuori pericolo, 
o sia morta: ma in quest'ultimo caso si deve dimostrare 
che pendono per il soldato Tonòn gravi interessi pa- 
trimoniali; nell'un caso e nell'altro quindi allo stato 
delle carte non si concede la licenza. 

Ma il povero Tonòn picchiando con più forza la 
mazza sul pistoletto da mina s'illude di averci sotto la 
corazzata cervice dell'annotatore. 

E sta zitto, e stasera andrà di pattuglia senza un'o- 
stia di più. Ma il signor Maggiore lo manda con un 
mulo a prender il vino a Cdl San Martino, che se vuol 



— 161 — 

scappare ad Àgordo penserà lui a non incontrare i 
carabinieri. 



Gnocchi e piccole all'ovo. 

Piccoila aiH'o'VO' è ciò che fatto con più arte si 
chiamerebbe zabaioine. C'è questa regola nelle com- 
pagnie : che a qualunque ora del giorno e della notte, 
qualunque ufficiale può presentarsi a qualsiasi delle trfe 
mense e prieteindere dal cuoco la piccola a'H'ovo. Vino 
a parte. La regola piace molto a Casagrande e al cap- 
pellano e allo zappatore e a tutti dello stato maggiore, 
perchè a quella mensa il maggiore ha imposto che più 
d'un quartino — misura:to, ha mandato a comperare 
le bottigliette a Bassano — più d'un quartino a testa 
non si beve. Le chiavi del vino le tiene il vecchio 
Gallina, più inflessibile d'un paletto a coda di porco. 
E allora dopo pranzo, lemme lemme, i subalterni se 
la battono, lascian solo il maggiore, piombano alle 
nostre mense a prendere il supplemento. 

Senoinchè un giorno^ che s'era a riposo il maggiore 
parte per Enego, motivi di servizio, cede il comando 
idei battaglione a Busa. Ed allora, apriti, cantina ge- 
losa dello Stato Maggiore ! Tutti gli ufficiali dellla 
300.^, poi quelli del battaglione Val Dora ospiti, i miei 
subalterni invitati anche loro, tutti dentro al baracchino 
angusto dello Stato Maggiore, bicchieri pieni, brindisi, 
vino sulle carte d'ufficio, vino nella tromba del gram- 
mofono, Gagliotti racconta una marcia della compa- 
gnia Baseggio che la metà erano ubriachi e lui più 

P. Monelli, Le scarpe al sole -II. 



— 162 — 

di tutti, il cappellano del Val Dora vuol rubar le tavole 
per il suo baracchino, Gallina dice atterrito che il 
vino è finito, viene il capitano Agazzi delle mitira- 
gliatrici bianche e blu con il suo tributo di fiaschi ; in 
un angolo della baracca, indifferente al frastuono, il 
furiere pesta infaticabilmiente sulla macchina da scri- 
vere al lume d'un candelino vacillante. 

La isera dopo me Ja son vista brutta, andando da 
Busa che m'ha invitato a mangiare i gnocchi. Sulla 
strada di Campofilone una raffica improvvisa, crepi- 
tante di mitragliatrice, proiettili che battono sulla strada 
a due passi da me, un rnomento di fifa folle, perchè 
pazienza in linea, m,a essere a riposo e buscare una 
pallottola che non si sa da dove venga ! Dove mi 
butto? Le raffiche continuano, le pallottole fischiano e 
picchiano così vicine che ho l 'impressione che basti 
un movimento per acchiapparne una. E finalmente mi 
decido, un salto nel prato, trenta metri di coorsa, auff, 
l'ho scampata bella. 

Cose che succedono con queste linee che noi stiamo 
sotto e loro sopra, e quando si va a riposo a cinque- 
cento metri dalla prima linea. 

Busa m'ha fatto pagare una bottiglia, quando l'ha 
saputo. Il mio nome arricchisce il libro rosso, il libro 
che segna il numero delle bottiglie pagate e la sua 
brava motivazfione vicina, tutta la storia del battaglione 
racchiusa in una gioconda cronaca pantagruelica, la 
tòpica dell'aspirante e gli arresti del caipitano, le buone 



— 163 — 

e le cattive fortune, e ìa vigilia delle licenze e il ram- 
marico di non avere più a sperarne per un pezzo. 



Poàchè è già sera la compagnia dorme da un pezzo 
nel baraccone, del suo sonno duro e convinto di truppa 
a riposo. Noi, signori ufficiali, siamo ancora a mensa, 
con un po' di vino ed i gnocchi, ma non tanto più 
sibariti però. I soldati non se l'hanno a male che noi 
s'abbia il vino, perchè sanno che se portano un ordine 
o finiscono la rigore un bicchiere c'è sempre anche per 
loro. E poi il capitano che beve vino si ricorda al lu- 
nedì di far venir su duecento litri dalla sussistenza per 
la compagnia, il che sarebbe proibito dalle peregrine 
regole che dominano laggiù dove ni cannone non arriva. 

(Ma in che mondo vivono quei signori ? La capì 
il generale Ferrari, che l'anno scorso, dbpo quindici 
giorni di Cauriòl e di gelo e di rancio freddo e di 
granate e di bestemmie ci mandò su — il cambio ? — 
questo no, lo sapete bene, ma un litro di vino a testa 
ed una tazza di cognac. Gli alpini capirono che quello 
voleva dire il cambio alla fine d'ella guerra, ma dissero: 
— Ben, che i ghe diga al general che se '1 ne 
manda drento do litri de vin par setimana, femo la 
firma de star sul Cauriòl). 

E allora ci vuole l'inganno, anche qui: l'ufficiale 
alle salmerie preleva ogni lunedì 200 litri alla sussi- 
stenza per la mensa ufficiali della compagnia. 



— 164 — 

— Va bene che soino ufficialli alpini — brontdia il 
magazziiniere laggiù. — Ma questo si chiama bere ! 

Stasera attendevo a cena gli ufficiali della 297.^ 
del Cuneo, ma hanno telefonato che non verranno. 
Viene a dirlo il sergente d'ispezione, che ha ricevuto 
la comunicazione. Un breve coinciliabolo fra me e i 
subalterni, poi ordine al sergente di tirar fuori dalla 
baracca i cinque tali soldati, uno per plotone, e uno 
della sezione, per moti^vi urgenti. 

— Armati ? 

— Non importa. 

L'ufficiale d'i servizio sorveglia, non veduto, fuori 
della baracca. Un affar serio a svegliarli, quei cin- 
que — poi un coro di bestemmie, brancicando nel 
buio a cercar le scarpe. 

— Col fusil ? 

— No, senza. Marcia, tradotta. 

— Ostia, co'ssa volli che no i ne lassa gnanca 
dormir ! 

— In rico'gnision, i te manda. 

— In mònega ! Disarmai } 

Dopo cinque minuti i cinque svizzeri, imbambolati, 
sull'attenti, ricevono gli ordini dall'ufficiale di ser- 
vizio : vuotare una zuppiera colma di gnoicchi nella 
cucina degli ufficiali, il formaggio c'è sopra, portarsi 
il cucchiaio, dopo passare dal signor capitano a pren- 
dere un bicchiere di vino. 

Vengono, infatti, poco dopo (Bordoli dice che 
nemmeno ha bisogno di lavarla, la zuppiera) con gli 



jl 



— 165 — 

occhi lustri, a beie il vino' e raccontar la loro gioia. 
Dice Tonòn, piccolo, rosso, la barbetta da becco: 

— Eli xe el più bel giorno de la me vita. 

E De Malandrino, l'abruzzese del '96 che ha a 
casa moglie e due figli, faccia da arabo' terminata dal 
pizzo coxtOi e crespo, spalamcando la bocca su un 
lucciccire di denti da lupo: 

— Signor Capitano, tu l'hai indovinata la fame 
che tenevo stasera ! 



Poiché la mia compagnia è la più povera d'uomini, 
il maggiore me la rimpolpa con tutti i condannati che 
maadanp al battaglione con pena sospesa. Oggi me 
n' ani va uno che viene dal battaglione Feltre, bel tipo, 
vecchio del novantuno, sciatore scelto, ciarlone e con- 
fidenziale. Il suo delitto? Diserzione all'interno: in 
lingua povera, gli avevano promessa una licenza se 
andava di pattuglia in un certo posto, in quel certo 
posto c'è andato, la licenza non è venuta, se l'è presa 
da se. 

Inutile persuaderlo che ha fatto male. Guarda con 
occhi chiari, dice: — Gavevo dirito a la licensa, sior 
capitano, me la go tolta da par mi. 

Dirgli che è un atto da cattivo soldato ? 

— Mi, sacramento, che son sempre sta el primo 
in tute le pattulie che gavemo fate al Feltre col Caìmi 
quando che se gera drento per la Valsugana ? 

Ma quattro anni gli ha buscati lo stesso. L'ho preso 
senza spaventarmene, come ho preso gli altri, con- 



— 166 — 

<Jannati più o meno per gli stessi reati : sono scappati a 
trovar la moglie (( che la gexa duo a far zaino a tera » 
a partorire, cioè; hanno detto, da sbormiati, aeroplano 
ai carabinieri ; non sqn tornati subito allo scadere della 
licenza, perchè, cc<me Palucci raccontava l'anno scorso 
alla Regana quando era il barbiere della 265.^, (( ga- 
vevo quel a vecia de me mare da trovarghe na casa, 
che el xe vero che mi pare è morto e cussita son con- 
tento che son mi el capo de la fameja, ma con quela 
svergognata de la mi cuniada no la se poi vedar, e 
cussita go dovù meterghe pase fra quele dbne prima 
de gmir via, e son sta dal sindaco per farme slongar 
la licensa e lù gnente, e son sta dal marescialo dei 
carabinieri e lii gnente, e alora me la son slongada 
da par imi ». E finita la lunga cicalata un attimo di 
meditazione , poi Palucci aggiunge : 

— Ma, sior tenente, se lu gaveva bisogno de mi 
bastava che lu el me (mandasse un telegramma de gnir 
subito e mi vegniva subito. 

Ora, in questi casi, se nessuno lo veniva a sapere, 
il maggiore gli faceva quattro urlacci, un calcio sotto 
la schiena, tuttO' era finito. Ma gli hanno sorpresi in 
treno, o alla tappa, hanno avuta la loro denuncia, sono 
stati condarunati. 

Sì, son cattivi soldati, indisciplinati. Ma che volete 
fargli quando il giorno della prova son ìì pronti a dar 
via la pelle con bella semplicità? Il sergente Pianezze 
del Cismon, nel luglio del 1916 mette su sei o sette 
esploratori malcontenti — anche qui, licenza promessa 
e non veduta — e scappan tutti a casa, Lamon e Arsiè 



— 167 — 

e Fonzaso (ci fu prima la storia d'una cassetta di bot- 
tiglie della mensa d'un battagilione di fanteria messa 
nella loro baracca insieme con altri fanti e un servizio 
di sentinella; quei mamgoldi di soppiatto votarono la 
cassetta, misero al posto delle bottiglie dei bossoili da 
75„ la richiusero, nessuno se ne accorse). Stanino^ a 
casa tre, quattro, cinque giorni, ritoman su badiali e 
sorridenti. Pianezze perde i galloni, ma chie<le — e 
ottiene — di restar eco gli esplioratori . Al Cauriòil il 
19 ottobre è magnifico, una ferita alla fronte non l'ha 
fermato, ha trascinato avanti i compagni come fosse 
ancora sergente, è rientrato a notte dal combattimento, 
acceso, stravolto, un velo di sangue sul volto. — Sior 
tenente, me dispiase d'averghene copà pochi de quei 
porrei ! — e se gliela danno, e se gli ani va a tempo 
prima che ci lasci la ghirba, avrà una medaglia d'ar- 
gento. 

Ed io, con questi condannati, con questi brutti 
soldati, rimpolpo la compagnia di fegatacci sani. 

Il supemore è venuto a visitar la mia linea e m'ha 
messo agli arresti. Amen. Questo mi succede da 
quando gli sono caduto in disgrazia, e se non fossero 
quei soldi dell'indennità che ci si rimettono, ormai 
il morale ci ha fatto il callo. E dice : Bisogna affret- 
tarsi a fare i ricoveri per l'inverno, mandi a prendere 
tavole, guardi però che ne ho poche, ed armi bene 
le baracche, si ricordi però che alberi non se ne ta- 
gliano, e faccia caverne, guardi però che gelatina non 
ne ho. 



— 168 — 

Già. Qui c'è un buco, m/i faccia un osso buco. 

Si mandano a prendere tavole al magazzino del 
Gruppo, me ne -danno dieci, e se non ne potessi ru- 
bare una trentina tutte le notti disfacendo i baracchini 
che sta facendo di giorno il Genio sulla strada del 
Pagerlok (lavoro di Penelope) starei fresco. Per i 
tronchi, una pattuglia fuori dei reticolati, così sgom- 
briamo cwiche il campo di tiro. Sfrondarlo subito, però, 
il tronco, perchè se il superiore lo vede, gli sii possa 
contare che è vecchio, trovato lì (con che cosa pensa 
che si armino le baracche ?). Ma chiodi non ce n*è. 
Nemmeno alla Divisione. Sono rarissimi qua su, tanto 
preziosi che alla compagnia di Busa si giuoca alla 
rrtorra, e chi fa dieci punti vince un chiodo. 

Chiamo Da Sacco il fabbro a consulto, occhietti 
vivi sul viso scarno e bruno, che è stato diciannove 
anni a Salisburgo, e dhe non sorride mai. Da Sacco 
dice — Penso mi a far i ciodi, se lu me dà el carbon per 
la fucineta. 

— Hai una fucinetta } 

— • Sior sì (orgoglio negli occhi). La go preleva al 
bataion de fanteria quandb g'avemo a vìi el cambio. Ma 
carboin, quelo mie manca. 

Carbone ? Buono di pnelevamento. Non ce n'è, 
rispondono. Allora trattative con quelli del martellio 
perforatore, il permesso di farsi aggiustare le scarpe 
dal mio calzolaio e farsi dare un bicchiere di vino 
da Bordolli; e loro cedono il carbone. 

Le tireremo su, finalmente, queste baracche ? 

Prima però Da Sacco si deve costruire uno scal- 



— 169 — 

pelilo e una pinza, dopo si mette a fabbricar chiodi, 
senza testa, non importa, si lasciano battere lo stesso, 
come i generali (quelli austriaci, diciamo). E la gela- 
tina poti è un affar serio trovarla, ci danno cheddite 
— ma poca — o quella polvere nera che è un disa- 
stro. EA è curioso' veder un tenente con un pacco^ di 
cartocci di gelatina in mano, chissà dove gii ha tro- 
vati, insidiato, corteggiato, assordato di promesse per- 
chè me ceda un poco, come recasse con sé il più pre- 
zioso dei tesori. 

Poi, perchè le tavole mancano, si decide di tirar 
su i muri. Ma anche qui, la calce non ce la danno: e 
bisogna ricorrere a!l imedico che la prende al magazzino 
della sanità con la scusa che gli serve per la disinfe- 
zione latrine 4 

E così i baracchini sorgono. Ma il superiore che 
viene accigliato in linea e vuole le rastrelliere — per- 
sino ! — per i fucili i e i cartelli con l'indicazione: La- 
trina, e il filo d'Arianna per andarci di notte, il su- 
periore che dà pipe a destra ed a sinistra, non sospetta 
nemmeno per un attimo con che cosa si combatte qui 
per farci la casa, mentre c'è già mezzo metro di neve 
e il gelo fluisce la notte sotto gli abeti stecchiti : con 
quali accorgimenti questi combattenti fanno i muratori 
igli scalpellini i falegnami, conquaili sdtterfugi se la 
cavano, persino con una ricognizione in fondo al val- 
lone, a ole passii dagli austriaci, per portar via le 
lamiere alle vecchie baracche abbandonate, che se 
ai sommi comandi lo sapevano gli veniva un accidente. 
Già, perchè per uscire dai reticolati ci vuole il loro 



— 170 — 

ordine scritto; e questo perchè per loro i reticolati ser- 
vono ad impediie ai soldati che volessero disertare di 
farlo — non ad impedire che venga dentro il nemico, 
come credevamo io e te. 

Gai lavoratori, ai quali basta iniziare qualchecosa 
perchè s'innamorimo de'll' opera, e portano in tutto una 
logica e serena perfezione ; e lisciano con cura i travi 
e squadrano a filo le pietre, felici di ritrovare gli 
arnesi della loro fatica da borghesi, felici di mostrare 
al capitano che con un colpo solo di mazza dato giusto 
spaccano il sasso in due (gli danno prima qualche ta- 
statina attorno, e si consigliano serii), felici delle ta- 
vole che si segano essi stessi dal :troinco' d'abete con 
gesti eleganti e jeratici, e che ammucchiano in pira- 
mide vicino alla baracca. Individui, personalità che 
si distaccano a una a una dalla massa grigia, e vien rac- 
capriccio a pensare che una pallottoia annullerà do- 
mani tanto senno semplice, tanto accorto senso della 
vita. Limana, caporali maggiore, grande e bruno, barba 
quadrata e due occhi dolci e buoni, che ruzzola tron- 
chi come fossero fuscelli; Tiziano Centa, dal grande 
barbone rossastro su un viso da quindicenne paffuto, 
che ci tiene alla sua fama d'essere il più forte soldato 
della compagnia e s'accanisce a smuover sassi grossi 
come una botte; Costa l'esploratore, secco e ruvido, 
che colpito di ritenuta sulla cinquina per avere perduta 
la maschera me ne portò alla sera dieci arrangiate 
chissà dove chiedendo se ero disposto a pagargliene 
nove ; De Riva il carbonaio, che nel bosco fradicio, 



— 171 — 

sotto la nevicata, con un fiamniifero e due cartoline 
sa suscitare in cinque minuti una fìamnfiata che basta 
a tutto ri plotoine ; Toncn ohe fa scomipi sciare tutta la 
compagnia per le storie matte che racconta con una 
faccia da satiruccio malinconico, e che vuole andare 
negli arditi perchè (( ciapar le posision l'è el più gran 
gusto che ghe sia, ma tegnirle dopo l'è na gran pas- 
sion )). . 

Tcfliòn s'è cacciato nel suo buco, una tana da volpe 
che si fa solo lui, con Semprebon che gli tiene il pi^ 
stoletto. 

— Poi ghe faremo la svolta, e drento altri dò me- 
tri. E poi ghe metaremo un cartelo in ^ima : Questa 
caverna l'ha fata Tonòn. E là in fondo zogheremo 
la morra con un candelin, che le granate no i ne ciapa 
de sicuro. 

Altre squadre si sono scavati i loro' ricoveri qua 
e là nelle trincee, neirimiminenza dell 'inverno, caverne 
rivestite di tavole, baracchine a sgrondo contro il cam- 
minamento; e si sono fabbricate le stufe con i lattoni, 
e se dal tetto piove un poco ci si mette sotto la gavetta. 
A sera andando per la trincea, chi origlia alle porte, 
sente dialoghetti buoni e semplici, bestemmie innocue, 
niente previsioni, niente sconforti. E l'abruzzese anal- 
fabeta che detta al compagno che sa scrivere la sua 
lettera. 

— Dije che l'è una vacca. Sì, scrivi così. E che 
nun me ne importa più gnente. E dije, sì, dije che 
se pò pijà pure n' altro amante, e, aspetta — je vojo 



— 172 — 

dì tutto, capiisci ? — idije icosì, ohe num me n'iimpoita 
più gnente. 

Fuori non ci sono che le vedette. Due ore di 
turno e due di riposo, perchè siamo rimasti troppo 
pochi. Ambiguità nevosa fra il bosco, calma perfetta, 
senso d'una rete d insidia che può stringersi da un 
momento all' altro. La notte brilla con stelle indiffe- 
renti sull'attesa taciturna. Insonnia e veglia nel barac- 
chino del capitano, dell comandò di battaglione : e 
pronto il conforto di caffè e di pane arrostito per l'uffi- 
ciale di servizio che ha finito il suo giro. Nelle caver- 
nette, nelle baracchine pochi dormono. Dialoghi fra il 
capoposto e i suoi uomini, attorno al fuoco idi legna 
nel bidone, fumo acre ohe morde, f accie tagliate 
crude dalla fiamma che profonda gli occhi in cavità 
enormi e incide le bocche segnate dalla barba cre- 
spa : nidi di mitragliatrici e d'energia insonne, se il 
nemico volesse attaccare. Ma noi sappiamo bene che 
non ci pensa. 

Quando vuole attaccare, lo sentiamo con un senso 
volpino che ci è venuto con l'abitudine. Ma ridiamo, 
quando l 'allarme ci viene dal di dielTo. Laggiù, ai 
comandi isterici, basta un ichiacchierìo di mitragliatrici 
o la sghignazzata di qualche bomba a metter paura. 
Che c'è, che succede? E si attaccano al telefono e 
ti rompono l'animo. Cose che accadono a chi non ha 
fatto la guerra. Se aivessero posti con noi i reticolati 
e avessero provato a passar quelli degli altri, se aves- 
ser scavate con noi le trincee e preparati gli apposta- 



— 173 — 

mentì, se avesser preso i pidocchi con noi e tnemato di 
freddo con noi e rabbrividito con noi sotto l'attacco im- 
minente, saparebbero bene come stanno le cose. E non 
ci domanderebbero ogni sera di radidoppiare la vigi- 
lanza come se fosse la razione foraggi (quella invece 
la diminuiscono, poveri muli). Ma non hanno fatto la 
guerra, pur se la comandano. 

E dice De Fanti, barbetta rossa, cuor d'oro, sotto- 
tenente da venti mesi perchè le carte gliele smarri- 
scono sempofe, e sfottuto dal colonnello che non capisce 
quanto orgoglioso eroismo, quanto spirito di sacrificio 
sia sotto la sua scontrosità ruvida di cadorino — dice 
De Fanti : 

— La guerra la vinceremo quando comanderanno 
le divisioni quelli che hanno comandato un plotone in 
guerra e sapranno che cosa vuol dire. 



A leggere i giornali se ne imparano delle buonine. 
Ecco qua. Un deputato intenoga il ministro delila 
Guerra per sapere se sia vero che per i nuovi chiamati 
alle armi non ci sia più il volontariato d'un anno: e il 
ministro si affretta a tranquillizzare l' interrogante, che 
i volontari di un anno ci saranno, sì, e quello che più 
importa anche in armi che non siano la fanteria. 

Un altro deputato espone recriminazioni alla Ca- 
mera lamentando la troppo^ rapida carriera degli uffi- 
ciali delle armi combattenti sopratutto in confronto de- 
gli ufficiali della sussistenza e del commissariato. Ma- 



— 174 — 

cabro, roinorevoile recriminante; che dovrebbe anche 
ricordare l'apologo trilussiano : (( La promozione è certa, 
e t' assicuro' — perchè me so' magnato er capitano! ». 

Un terzo onoreivole lamenta che non sia considerata 
campagna, con tutti i nastrini e le iindennità e i com- 
puti economici, la guamigiome in Ancona per le sue 
fxequenti offese dal cielo e dal mare. 

Vien qua, vecio, che oggi festeggi con Romanin 
i tuoi sessanta mesi .filati di naja e se la ti va bene 
fra altri dieci mesi sarai tenente con due anni di an- 
zianità arretrata, e dal fondo della gavetta che il dot- 
tore ci ha riempito di vino buono tiriamo fuori le nostre 
meditazioni. Il soldato di fanteria (e l'alpino non è 
che un fante più testardo e più solido), lacero, pidoc- 
chioso, sudicio, confitto alla terra ed al fango che 
rosicchia insieme alla pagnotta dura e al rancio freddios 
e se passa la granata tutta la faccia su quel fecciume 
per farsi più piccolo; che dorme fra un allarme ed un 
calcio, serrato dai suoi aggeggi di guerra, a caso, sotto 
la tenda, all'addiaccio anche se piove, anche adesso 
che ottobre riammucchia la neve sul suo'lo — gratta 
via la neve se vuoi fare un po' di fuoco, e sempre 
quell'umide» addosso — ; che la sua guerra più belila 
combatte il giorno di combattimento, ma gli resta poi 
l'ailitra d'ogni ora col topo con l'insetto col vento con 
le circolari che gili vietano di spogliarsi anche a riposo, 
col cantiniere che gli ruba sul vino, con la posta che 
si smarrisce; il fante non interessa gli onorevoli preo- 
pinanti. E i tardi chiamati alle armi deprecano la sorte 
di venire a far parte della purpurea fanteria così prò- 



— 175 — 

diga di sangue ; e chi speculò il volo dei velivoli ne- 
mici dalle altane fiorite (è uscito adesso un libro di 
Ezio Maria Gray che si può definire il libro d'oro 
deirimboscatura italiana) vuole anche lui il suo soldo 
di guerra e il suo nastrino sul petto. 

— Diavolo — dice Romanin - — costa più la vita 
in città che in trincea. 

— Siamo figli di cani — dice il dottore — presi 
a calci da chi dovrebbe baciare \e nostre pèste, e ma- 
ledetti dai proleti. 

E ci squinterna sotto il naso, edizione di Colonia 
apud Naulaeum, 1679, la profezia di Ezechiele, la 
maledizione del fante : (( Et projiciam te in terram, 
super faciem agri abjiciam te : et abitare faciam super 
te oiimia volatilia coelli, et saturabo de te bestias uini- 
versae terrae. Et dabo oames tuas super mointes, et 
implebo colles sanie tua. Et irrigabo terram foetore 
sanguinis tui super montes, et valles implebuntur ex te. » 



PARTE TERZA 



" La plupart ràla dans les defilés noctumes 
S' enivrant du bonheur de voir couler son sang, 
O Mort le Seul baiser aux bouches taciturnes „ 

(MALLARMÉ). 



30 ottobre. 

Notizie tragiche giungono dalla fronte orientale. 
Il nemico calpesta il suolo della patria, soldati gettano 
le armi. 

Qui, nulla. Vigilia che s'atted;ia di malinconie 
burocratiche, attergati e circolari, pedanterie di co- 
mcindanti nevrastenici, buffe pretese di superiori che 
non sappiamo stimare. 



Noe sappiamo più nulla di quello che succede. Né 
posta né giornalli né comunicati, solo notizie sgan- 
gherate arrivano, impossibili di successo o angosciose 
di rotta. Ponti troncati, dietro a noi, ogni legame ta- 
gliato, soli noi e il nostro aspro cornpito quando il 
nemico urgerà. La solitudine fosca di questa neve é 
tutto il nostro mondo ormai. Ma i soldati di Busa tutti 

P. Monelli, Le scarpe al sole - 12. 



— 178 — 

friulani, e qualcuno dei miei ufficiali, Romanin da 
Fo'ini Avoltri, Scarpa da Udine, De Fanti da Agordo, 
ignorano tutto della loro famiglia; ma i miei soldati, 
tutti cadorini e bellunesi, presentono il rischio che 
batte alle loro case e si ladunano, a sera, sulla cima 
più alta a intendere l'orecchio e l'animo verso quelle 
lontananze. 

O tu stele, biele stele, 
va, palese il mio destin, 
va, daùr di che' montagne, 
là ca l'è il mio curisin... 

Taciturnità alle mense, ricerca del grappino ma 
solo per deviare le idee, impressione di inutile di tiri- 
site d'irrevocabile — come quando nel poraeriggioi di 
inverno giunto- sotto la cima scivolai sul ghiaccio liscio 
fino al fondo della parete, e mi toccò ricominciare 
l'ascesa. 



9 novembre. 

Senza combattimento dobbiamo abbandoinare le 
belle linee munite, gli appositamenti, tutta la nostra 
opera di tre mesi, le baracchette in cui già si pregu- 
stava l'ovattato assedio della neve. 

Stasera nevica con infinita tristezza, senza vento, 
sulla linea che s'ammanta dii suprema bellezza — per il 
commiato. I soldati miontano taciturni per l'ultimo turno 



79 



Ji trincea. La notte è già corsa da bagliori improvvisi; 
i soliti incendi delle ritirate. Come l'anno' passato. 



10 novembre. 

La nevicata ha cessato. Tutto il gforno, nel deso- 
lato disordine delle cose che si abbandoinano — ■■ mar- 
cia tortuosa — brontolando, noi e le truppe a cui si 
passa d'accanto, perchè non si capisce l'abbandono di 
tanto terreno — tesO' l'orecchio, invaino, a cogliere più 
che rare fucilate di pattuglie — ripieghiamo su posi- 
zioni più arretrate, linea erta di monti senza trincee. 
Cii si accampa, a sera, fra Ja neve, sui fianchi del monte 
Tondarecar. 



/ / novembre. 

A mezzogiorno, si levano d'improvviso le tende. 
Pare che il nemico abbia rotto più a valle. Sotto, alpini 
delle ore tragiche, per turare il buco! Mollare tutto, le 
casse di cottura, le tavole racimolate, la terza coperta, 
ma far presto, far presto. Giù a rompicollo. 

A valle buone nuove. La falla è stata chiusa per 
opera del battaglione Verona: ci ha lasciati tutti gli 
ufficiali, ma l'ha chiusa. 

Foza fangosa. Dove dormiremo stanotte } Intanto 
ci cacciamo dentro alla sussistenza. Se si deve perdere 
il paese, rubiamo noi prima dei cecchini. Io nascondo 



— 18Ò — 

sotto il cappotto un sacchetto di zucchero che mi ad- 
dolcirà gli atroci caffè di Bordoli. E i soldati rubano 
le scatolettei dir came. 

Il fato è buono. Dopo un'ora di marcia si giunge 
ad una casa, fra pareti di muro, davanti ad un enorme 
focolare su cui arde il ceppo della leggenda. 

Buona sera, signori della Presidiaria. Voi ci offrite 
l'ospitalità e noi vi mostriamo^ le nostre f accie allegre 
di combattenti in vacanza. 



Centelliniamo il riposo davanti al focolare. Ma a 
crepuscolo allarmi. Faticosa marcia sotto la neve; si 
giunge nella tormenta alle falde del monte Tondare- 
car, si accampa nella neve e nel pacciume. 



ì 3 novembre. 

All'alba, ordine di andare in linea con la compa- 
gnia sul monte Tondarecar. I buoni soldati del genio 
hanno cominciato a costruire un reticolato' proprio sulla 
cresta del monte. Campo di tiro, zero. Rifaremo, non 
è vero ? Fare e disfare è tutto un lavorare ; ma voi 
farete le schioppettate con noi se sarà necessario. E 
sarà necessario. Che ho quattro uomini ogni cinquanta 
metri. 



— 181 — 

Nella luce livida doloroso scenario delle alpi che 
furono noistre e che ora it nemico possiede. Ma dove 
urterà contro il nostro dolore e il mostro rancore, non 
passerà. 

15 novembre. 

Non è passato. 



22 novembre. 

Nemmeno oggi è passato. Dopo la furia del bom- 
bardamento su queste linee appena abbozzate, il ne- 
mico ha ritentato lo sforzo con vanità d'assalti tenaci. 
E anche oggi, morti su morti ha lasciato, nel bosco, 
nel pianoro scoperto, fra i sassi, contro i reticolati. 

Le mitragliatrici radevano la trmceetta bassa sul 
cucuzzolo — ma appena il rischio s'allontanava, fuori 
le teste i miei alpini ostinati, a cercar il bersaglio. E 
De Fanti teme che si siano radunati nemici in an- 
golo monto sottO' il reticolato, e balza in piedi fra una 
raffica e l'altra sulla trincea e butta — e colpisce nel 
vivo — bombe a mano lì sopra, barba al vento, deci- 
sione d'eroismo stampata sulla faccia. L'altra ootte 
udimmo gli urli delle donne 'di Enego, quando v'entrò 
l'austriaco — e De Fanti pensa a sua madre e alle 
sorelle rimaste nel borgo cadorino e una volontà in- 
flessibile di vendetta gli segna la fronte. 

Ahimè, ho paura che stamattina non sì mangi, né 
ufficiali né truppa. Il vecchio Gallina ha mollato me- 
stolo e forchetta, eid eccolo qui alle fucilate, e dove 
mira, azzecca. E Ceschin ha lasciato laggiiì le casse 



— 182 — 

di cottura ed è venuto a cercare un fucile, e quando io 
mi meraviglio dii vederlo qui e gli faccio i miei elogi, 
mi guarda attonito, meravigliato lui della mia meravi- 
glia. 



M'arrivano i complemeinti in limea. 

PerclKè dice il generale: Voi siete truppe aolide, 
quindi resterete in Imea ancora un poco; il cambio^ — 
in Italia, sapete, con vino e con donne ! — lo avrete, 
ma più tardi. 

E questi bocetti del '99 che Han le famiglie che 
son rimaste di là, e tremano di freddo la notte perchiè 
hanno solo una coperta e schizzan fuori dallla tendila 
venti vdlte a far le corse per scaldarsi, questi bocetti 
sono pieni di buona volontà, e già battezzati dal san- 
gue, perchè imentre venivan su a gruppi ci batteva den- 
tro l'artiglieria nemica dal Lisser. 



Ma poiché c'è un tenente colonnello che non vuole 
andare sotto un altro tenente colonnello, e c'è poi 
quello che rimarrebbe senza rebbio, e se lui ci ha il 
suo settore lo voglio anch'io, così si scompongono i 
gruppi, si ricompongono, dividono il fronte in settori 
e in sottosettoiri , si prende il nostro battaglione, si dice : 
Cavati di lì e vai in un altro settore, se no il conto dei 
settori non torna più. Amen. E ci porteremo in linea 
sotto Castelgomberto, 



— 183 — 

Speravi <li andaire a riposo in Italia, alpino bron- 
tolone ? Ma quello — lo ha detto il generale — è il 
premio alle brigate poco solide, che a tenerle molto 
in linea c'è paura che mollino. 

C'è ancora vino nel barilotto, c'è ancora fede nei 
cuori e forza nelle gambe ? E allora via la malinco- 
nia, ragazzi. Il vostro capitano vi racconterà stasera 
com'era bella la sua amica bionda il giorno di maggio. 



Antri trogloditici, stillare delle pareti umide. Reu- 
matismi . 



Pace, finalmente, dopo il tambureggiare di tutto 
il giomo, e felice Porro che va ferito all'ospedale... 
che non lo intrappoleranno lui, come temiamo per noi. 
Nel mare di corallo e di viola della sera si sommergono 
le alpi peridùte, si attenuano le dolomiti di fiamma. 
Sul morite Grappa i bagliori del lungo bombardamento 
assumono una nitidezza di stelle sull'azzurro del monte, 
quasi spoglio di neve in questa ostinata primavera • — 
alleata del nemico. 

L'esaltazione del mio posto di combattente d'avan- 
guardia, sempre, nelle ore più gravi, stasera cede ad 
una stanchezza un po' grave, fatta di presentimenti, di 



— 184 — 

nostalgie, di ricordi suscitati senza sforzo dall'ora di 
viola e d'azzurro. 

Non c'è più, in me, da un pezzo, la presuntuosa 
certezza di sopravvivere. Troppo si prolunga la guerra, 
troppi se ne sono andati e se ne vanno ogni giorno per 
la via tenebrosa della rinuncia. La vicenda è eterna, 
con giuoco contiguo siam presi dentro nella macina e 
ri sputati fuori per esserci impigliati di nuovo più tardi. 
Stanchezza e terrore di questo destino ferreo' — stasera : 
come fossimo già morti e solo c'indugiassimo ancora su 
questo mondo nella speranza d'una resunezione impos- 
sibile. 

Presentimenti. 

Dice il capitano Busa : — Dòman quei che xe sul 
Tohdarecar i lo perde, mi vago al contratacco, sparo 
sora a lori e ai todeschi, e ghe lasso la ghirba. 

Uno dei tctnti presentimenti — perchè indugiarcisi 
sopra col pensiero? E col suo soniso un po' stanco 
sul volto scarno e solcato da trenta mesi di guerra, at- 
tinge vino dalla grande zuppiera posata a terra, nel 
circolo dei suoi subalterni e di noi ospiti, seduti alla 
turca sui sacchipelo. E racconta le sue piccole disav- 
venture, sottolineate dai gesti eloquenti, già dimenti- 
cando tristezze e previsioni. 

— EI vegna qua, Casagrande, el beva un goto. 
Nane, porta la tazza degli ospiti all'aiutante maior. 

E Casagrande riceve dal sorridente Nane la tazza 
degli ospiti, in cui un bocetta del '99 si annegherebbe, 
ed ove ondeggia un rosso mare di vino. 



— 185 — 

— LotÌ i me tira i granaton, capisse — continua 
Busa con una portentosa ricchezza di mimica — e un 
de sti mazzai de granaton el me ciapa in te la tenda. 
In te la tenda gavevo ©1 cofano de cancelleria, el tele- 
fono, e'I caratel del vin. El me lassa star eJ cofano 
che podeva ben andar a ramengo, con le so scartoffie, 
el me lassa star el telefono che '1 ghe serve a lu, per 
romperme sempre l'anema, e nossignor, ostia, el me 
ciapa propri sul caratel del vin. 

Costernazione. 

— Ma ade so go fato far na gal ari a sul de drìo, 
e in fondo alla galaria ghe meto el vin, che se i code- 
schi voi ciaparlo bisogna che i me tira le granate col 
rampm che marcia a zuriick. 



4 Dicembre. 

Alpini di Castel gomberto, noi lo sappiamo tutti, 
nevvero, che il nemico noi lo abbiamo respinto, che 
sconvolse con le sue artiglierie le trmceette basse, e 
tentò di sorprendere le nostre guardie. Mfa il nemico 
ha rotti i fianchi più deboli, le truppe sulla noistra 
destra si arrendono, siamo avvolti e minacciati da tre 
lati. 

È l'oiTa : quella che^ io presentivo, pur riluttante, diali 
mio primo giorno di guerra. Pare che tutto il passato 
di lotta e di angoscie e di sforzi confluisca con enorme 
violenza ad un solo punto definitivo e tragico per 
vivere il quale tutto quel passato non fu che un'attesa 



— 186 — 

necessaria. È il momento in cui la vita non è nulla 
e la madre è dimenticata e il viso di un morto ha la 
promessa di un'uguale pace al tuo smanimento. Ma 
il rivoletto di sangue dalla fronte del caporalmaggiorte 
e le parole concitate del sottotenente s'intagliano nei 
sensi, afferrati con nitidezza di percezione, incasel- 
lati per il ricordo etemo. 

Il capitano Busa parte con tutta la 300.^ per ten- 
tare di chiudere il buco. 

Ma adesso gli ho addosso io. 

Corpo a corpo. Sbalzi successivi, difesa disperata 
delle mitragliatrici. Sei morto anche tu, vecchio Altin ? 
Io t'invidio. 

Intorno a Castel gomberto formiamo la linea defini- 
tiva. Di qui non debbono passare pm. Qui ci son penne 
d'alpini, perdio. E il nemico cede, e si accontenta di 
sgranare su di noi le sue mitragliatrici. 

Lontani, nel bosco, sempre più poveri di voci, i 
(( Savoia ! )) della eroica 300.^, che combatte la inu- 
tile lotta ineguale, che si dissolve. Ed ecco Tarchetti 
arriva, l'adolescente meraviglioso, e ci dice che anche 
Busa è morto, schiantato da uina pallottola in fronte, 
eroe sereno, gaio compagno da diciotto mesi della 
mia guerra. Io lo invidicr, stasera. 

Ed una ragione di rabbia un poco umoristica fra 
il grande smarrimento angoscioso: il nemico s'insedia 
alle nostre mense preparate, mangia il rancio pronto 



— 187 — 

dei nostri uomini : e noi ci tiriamo la cinghia. Ma con 
tiro a segno preciso i piij imprudenti che mettono il 
naso fuori dalle caverne sono mandati a gambe all'aria. 

Scende la notte gelida, ventosa. Giungeranno i 
contrattacchi sperati ? Intanto, senza cibo, senza co- 
perte, senza ripari, tenacemente aggrappati alla mon- 
tagna, attendiamo che il nemico avanzi. 



5 dicembre. 

Tutti gli attacchi notturni del nemico sono dispe- 
ratamente respinti. I soldati hanno fame e gelano nella 
notte rigida, ma finché le mani intirizzite reggeranno 
la baionetta, si colpirà. 

Un i^ievare di iluna neghittoso sul bosco brulicante 
di insidia, gemiti di feriti, doloroso siilenzio delle 
lontananze, donde si attende — invano — il grido 
della riconquista. Le pattuglie inviate a cercale col- 
legamento sulla sinistra non tornano pm : anche di 
lì c'è il nemico', che ci avvolge da tutte le parti. A 
tratti, sghignazzano sinistri nel bosco gli spezzoni di De 
Simone. Diieci casse ne abbiamo, dieci casse dobbiamo 
vuotarne suil nemico, che la notte sia d'agonia e di 
terrore anche per lui. 

Con l'alba, batter di mitragliatrici su di noi, e 
sempre l'inutile attesa. Il sottotenente morto dorme ac- 
canto a me immobile e indifferente, e invidio quel suo 
sonno irrevocabile senza la visione del crollo' enorme, 



— 188 — 

del disfacimento, lui morto nella rabbia del contrat- 
tacco quando una certezza di vittoria dirige gli atti 
temerari. 

E fame, e sete, e il freddo notturno che ci lega 
le membra. 



Ma poiché non si mangia e non si beve da qua- 
rantotto ore, e non ci sono più cartucce, e siamo pochi, 
il destino chiude l'atto. Cala il sipario. 

Lacrime amare, e uno strazio così forte che si ha 
il senso che nemmeno la morte l'annullerebbe. (Il 
viso di mia madre in fondo alle decisioni più dispe- 
rate — e scaravento la pistola nel burrone). E vedo 
piangere i più vecchi dei miei alpini, reduci con m^e 
dalle battaglie della Valsugana e del Cauriòl, da tre 
inverni di guena, dal carnaio dell'Ortigara, super- 
stiti d'una lunga serie di morti per tutte quelle valli 
e quelle cime perdute. Non so il nome del soldato che 
dice , accanto a me : 

— Cossa che dirà me marfe ! 

Ma il suo volto vedo, arso dal fiato della batta- 
glia, illuminato dalle lacrime. 

È per questo che ci avete tolti dal monte che noi 
avremmo saputo difendere, e ci avete cacciati in que- 
sto culo di sacco, gente gallonata ? 

E questo è il premio alla tua guerra, buon alpino. 
Nemmeno trenta mesi di guerra ti danno il diritto di 



— 189 — 

continuarla. E adesso morrai di fame, dannato alle 
compagnie di lavori forzati sulla fronte nemica. 



Melanconico corteo verso le retrovie nemiche. La 
fame atroce sovrasta beneficamente al dolore. A buio, 
ci mischiano con un'orda enorme di altri prigionieri ; 
fra quelli, quanti sono dhe alzaron le mani senza com- 
battimento ? 

Le bestiali necessità del cibo e del riposo supe- 
rano ogni senso di dignità ; già soldati si scrollano di 
dosso il fardello della disciplina, gettano contro l'uf- 
ficiale il loro odio, il loro rancore, la sodisf azione 
d'esser prigionieri. 

Mezza scatoletta di carne a mezzanotte per viatico 
sufficiente per il domani. Continua la marcia fra le 
povere retrovie nemiche : drappelli di territoriali ema- 
ciati, allampanati, sbrindellati — ci sono gobbi, c'è 
un nano ripugnante, ride con tutti i denti allo spetta- 
colo che gli diamo — carrettelle sgangherate, carogne 
di muli, a cui soldati famelici rubano la bistecca. 

A Portule, dinanzi alla fontana, scene di pigia pi- 
gia, un pugno nello stomaco dal soldato, provati a rim- 
provercirlo, risponde che disciplina è roba che andava 
bene di là, parapiglia da trivio e da bordello: e al 
passaggio tronfio, ilare, l'austriaco obeso dinanzi alla 
turba informe dei prigionieri, uniformi lacere, senza 
fregi, teste nude perchè troppo pesante l'elmetto, stel- 



— 190 — 

lette barattate per una fetta di pane, mostrine strap- 
pate al momento della resa. 

Fame. Stamane alla partenza un pugno di gai- 
lettine e una tazza idi caff è -surrogato ; alla tappa — un 
malinconico pascolo, baracche fra alberi densi, fu- 
mare della sera fredda da quinte oscure di monti — 
uin po' di brodaglia al sego e un velo di pane. 

Si dorme nella baraccherà pidocchiosa — poi il 
giorno dopo, alba di fame, e marcia, ancora, dell 'orda 
sgangherata, vigliaccherie ed insofferenze, la disci- 
plina scomparsa, solo un'ansia di cibo e di riposo. 
Alle due del pomeriggio in fila, come mendicaTiti alla 
porta del convento, per ricevere un po' d'acqua nera 
e tepida e un quarto di pagnotta, il sottotenente davanti 
a te ha i tuoi stessi diriiti, ma lui se ne prevale, pro- 
voca con ostentazione e chiede l'approvazione dell'au- 
striaco, questi interviene con superiore degnazione a 
far giustizia — - è così forte l'umiliazione e la vergogna 
che i morti liassù sulla montagna contrastata sono ri- 
pensati con accorata invidia. 

Il solito giaciglio alla sera a Caldonazzo, cameroni 
luridi, gelidi, pidocchiosi - — senza cibo. 



La fame accende gli occhi', snoda le lingue a discorsi 
incoerenti. Rinchiusi nel casone sporco, ci si sperde 
per i cortili in cerca di insperato: un oroloigio barattato 
per mezza pagnotta pare un affare d'oro, recrimina- 
zioni perchè il barattante non ha più pane da cedere a 
quel cambio. 



— Ì91 — 

Poi ci danno il caffè, e più tardi una mezza pa- 
gnotta nera e fetida, che arresta istantaneamente il co- 
raggio di mangiarla quando i primi bocconi hanno 
quietato un poco la brama. 

E dà nuovo in marcia. Gli austriaci ci incitano a 
camminar rapidi per giungere a Trento con la luce. 
Più presto arrivate, più presto mangiate. Ma no, uon 
avremo Tonta di traversar la città sacra di giorno, di 
portar questa abbiezione sciagurata fra ili dolore e l'ar- 
fore dei nostri fratellii trentini. A buio v'entreremo, oc- 
chi aridi nella speranza di non vedere in quelli dello 
spettatore il rimprovero, o la domanda angosciosa a 
cui non si saprebbe rispondere che con un singhiozzo. 
E trasciniamo lenti le gambe stanche, affrettando nel 
desiderio l'oscurità. 

Già le montagne si serrano, la sera vapora dai 
fianchi dei monti e dal fiume invisibile. Isitintivamente 
tutta la colonna informe si riordina, ammutolisce, nel 
silenzio lugubre fruscia solo il passo di marcia lento 
e composto, come se seguissimo il carro funebre d'un 
nostro caduto. Gendarmi a cavallo vengono ad incon- 
trarci e si mettono alla testa ed ai fianchi, caracol- 
lando; riflettori battono le strade, non si sa se per 
sorvegliarci o per mostrarci. Taciturni, nella città ta- 
citurna, sfiliamo fino al Castello. 

Comincia il rosario dei giorni sgranati con atonia, 
ascoltando malinconiosamente la nostra fame, le nostre 
memorie. Il carceriere che impiccò Battisti, sinistro 



— 192 — 

con il suo mazzo di chiavi, lungo mantello nero fode- 
rato di rosso, pancia rotonda e sodisfatta — il cortiletto 
lugubre e il pacco di mele gettato giù dal muraglione 
da una coraggiosa signora (ma sotto accalcarsi nell'avi- 
dità del bottino, lo stesso brulichìo prepotente dei polli 
nella stia a cui Bordoli gettava i ritagli di carne) — 
viaggio notturno in treno per il nord, e sempre un ritmo 
uguale di fame — arrivo a Franzensfeste, una baracca 
un po' pm comoda, si può comperare della marimellata, 
visi si rischiarano nell'ebete beatitudine di chi s'ap- 
presta a gioire della prigionia se avrà la pancia piena. 
Ormai non più meta al desiderio, non più tene- 
rezza di ricordi, un'uguale tristezza senza conforti, 
nella miseria quotidiana d'una vita che oscilla come 
un pendolo fra due fuochi, fame, tedio. E dapper- 
tutto un capovolgimento di valori, non più traccia di 
dignità negli uomini, dall'ufficiale che sii mette la terza 
stelletta per togliere il pagliericcio al tenente, ai pri- 
gioni eori russi che vendono il loro pane e poi vanno a 
razzolare fra il pattume e divorano le buccie di mela 
e i rifiuti delle cucine. Par che la fame debba giusti- 
ficare ogni bassezza, viltà si manifestano, oi&tentate con 
cinismo per^chè sembra che il ventre vuoto abbia pri- 
vilegio sulla nobiltà della coscienza. 

11 venti dicembre arriviamo al castello di Sali- 
sburgo — truce caserma con muraglioni a picco sulla 
vetta di un colle scosceso; senza sole, rabbrividendo 
di freddo per le sale vuote. Dalla nebbia e dalla neve 
venta su di noi, con l' inverno boreale, un accoramento 



— 193 — 

di ricordi nella riccirrenza tradizionale del Natale. 
Ma nel ritmo della noia esasperata dalla fame nessuna 
dolcezza batte alle porte dell'anima chiusa nel suo 
rancore. 

Ma se leggo i bollettini della nostra guerra nella 
traduzione dei giornali tedeschi, ecco, i nomi dei su- 
perstiti battaglioni gonfiano Tanimo, citati nella di- 
sperata difesa del suolo della patria, i buoni alpini 
serbati all'ultima fortuna, ancora abbrancati alla roccia, 
ancora stri-ecianti all'attacco, e liberi, ancora, liberi, 
essi, col diritto al fucile ed all'orgoglio di contenere 
il fiotto degli invasori. Dove saranno i miei, trascinati- 
in carovana mista per altro cammino ? Lo so già. I 
muscoli buoni e la tradizione gli hanno additati al 
nemico, che gli avrà inquadrati nelle tragiche compa- 
gnie di lavoro, scavar trincee e demolir baracche sotto 
un Feldwebel brutale, e la sera un quarto di pagnotta 
e un pugno di crauti freddi, poveri ragazzi, e pensare 
che comperavan tutti il supplemento di pane perchè 
il rancio non gli bastava — finché dopo- sei mesi, sfi- 
niti, snervati, stroncati, non siano cacciati in un ospe- 
dale di tubercolotici russi a prendervi lo stesso male. 



Questo sudicio mucchio d'ufficiali che sfila sotto 
i vostri dolci occhi profumati di violette, fanciulle sali- 
sburghesi, non pensa ad insidiare il vostro cuoricino 
di buno. I signori ufficiali non pensano che alla loro 



P. Monelli, Le scarpe al sole - 13. 



— 194 — 

fame. Dal fiume che trascina ghiaccioli vorticosi va- 
pora un'aria fredda e malandrina che fruga nella pan- 
cia vuota. Fortunati i pidocchi che ne hanno sempire, 
di noi. Ma adesso la va male cuiiche per loro perchè 
ci portano alla sipidoc chi atura fuori porta, baracche 
fetide, crocerossine provocanti che misurano la nostra 
magrezza con occhi esperti. Ma quando due austriaci 
deposero in un angolo del cortile un marmittone con- 
tenente gli avanzi del rancio, ci siamo buttati su quel 
beverone ignobile a contendercelo, come porci. 

Quello furbo che sgattaiolò in cucina a farsi dare 
dalla crocerossina rossa del pane bianco, dopo, lavato 
a dovere, con la coscienza ilare per quella awenturetta 
riuscita bene, intona sulla via del ritorno la stupidità 
d'una canzone petroliniana. A mezzavoce, ma chiara- 
mente nel silenzio dei sobborghi intirizziti. L'ufficiale 
di scorta dondola la testa accompagnando il ritmo, I 
rari passanti si fermano a guardare : 

— Die Italiener. 

Vedo i loro pensieri : maccheroni raffaello man- 
dolino piume di bersaglieri caporetto. Lascia correre, 
Casagrande. Del resto, che cosa è oggi per noi la 
patnia, se non l'odio per questi aguzzini e l'onta di 
doverceli tenere sul gobbo ^ E non guardiamo troppo 
quelle nuivole sgambettanti così rosee sul muso delle 
montagne e così alte da vedere i nostri monti, laggiiù. 



Anche fuggire non serve, pur se l'impresa cominciò 
con buoni auspici di romanticismo e 1848, calarsi con 



— 195 — 

lenzuoli anncidiati la notte òi capodannio per i mura- 
glioni a piccO' dei castello — pallore di luna sul bosco 
ghiacciato, ed ebbrezza di empirsi i polmoni d'aria 
gelata e non contesa, lungo il fiume vorticoso. 

Poi ci acdiiapparono, colpa d'un manovale ze- 
lante. Al ritorno, ammanettati, inquadrati dalle baio- 
nette, ci attende un'accoglienza esterrefatta da parte 
degli ufficiali austriaci e della loro ciurma. L'aiutante 
maggiore è brutale e violento. Una prigione, per que- 
sti ribelli, la peggiore, puzzolente, non s'accende la 
stufa, il rovaio soffia dai vetri rotti, magre coperte 
pidocchiose, un secchio in un angolo della stanza che 
sia il nostro cesso. Poi due giri di chiave alla porta ; 
e dalla segreta spia la sentinella. 

Adunate di pidocchi sui corpo; la mattina che ci 
Sii sveglia macolati per quel dormire sulle tavole si 
scende in caccia, i più grossi ce li mostriamo a vicenda. 
I colleghi hanno la diarrea ; ma il secchio il carceriere 
ce lo vuota solo alla sera. Atmosfera grave e fetida, 
uggiosa costrizione, dalle finestre chiuse da sbarae e da 
una rete solo imo straccio di cielo sporco che si sfi- 
laccia in neve. 



Nella prigione e* è un fiato 
grave, sui vetri arabeschi 
di gelo, o bravi tedeschi 
questo è un pidocchio croato. 

dei vostri, porta la croce 
nerastra sopra la schiena 
come ne avevo ripiena 
la maglia al Cauriòl atroce. 



— 196 — 

ma sopra i vetri la danza 
della neve tacita chiama 
ad una tacita lama 
vestita di lontananza, 

che nel dubbiore lunare 
blandiva la trepidila 
della fuga, l'ansia d'andare 
soli verso la libertà. 

Il territorialone tirolese dall'eterna pipa che cion- 
dola giù idalla barba nera fino aìl' ombelico, stasera 
ha guardato impietosito le mie mani gonfie pel gelo, 
m'ha fatto uscire, m'ha condotto furtivamente nella 
cucina calda luminosa soave — e m'ha fatto dare dalla 
vivandiera una tazza di brodo bollente, borbottando 
parole gentili nel suo dialettaccio. 



Ci voleva questa notizia per deviare il corso esa- 
sperante delle idee, fame più accidia più angoscia, 
che fa dei volti dei miei colleghi rimasti (due sono an- 
dati airospedale) due maschere da morto. Chi sa 
com'è il mio. Ma quando il colonnelloi austriaco ci 
annuncia che al nostro maggiore caduto prigioniero con 
noi, difeso da noi, è stata concessa la sciabola pur 
nella prigionia per la salda difesa del suo battaglione, 
del nostro battaglione, e borbotta poi poche sillabe 
dii rallegramento — Alpini, ja, tapfere Leute, bravi, 
bravi — (però ci lascia dentro), pare d'un colpo che 
le pareti della prigione svaniscano nell'aria e intomo 



— 197 — 

a noi sia ancora l'odore e il rumore del combattimento 
e l'ebbrezza di esser uomini liberi in lotta, ancora la 
possibilità di decidere e di scegliere, e attorno i morti 
felici abbattuti nella speranza della vittoria. 

Gagliotti dice : — CapitaTio, se avessimo del nostro 
bianco di Col San Martino per brindare alla notizia ! 

Ma non abbiamo nulla. Faremo comperare al car- 
ceriere buono, il tirolese dalla pipa ciondolante, dieci 
corone dii marmellata, berremo l'acqua della brocca; 
e il colonnello austriaco dieve aver capito con chi ha 
da fare perchè fa buttare nella stufa un po' di paglia 
che è vero che fa un fumo acre che ci morde la gola, 
ma -dà anche un poco di caloiie. Ci portano persino il 
lume stasera. Bisboccia. 

E Gagliotti ritrova in fondo alla sua gioia le 
canzoni del tempo felice, e balza in cima alla panca 
per ricantarle, come balzò in piedi sulla trincea il 
15 novembre per gridare il suo dileggio agli Alpen- 
jàger già vacillanti — quando era il più bell'ufficiale 
che portasse penna. 

Dove sei stato 
mio beli* alpino 
che ti ga' 
cangia colore...? 
L' è stata r aria 
dell' Ortigara 
che m' à fato 
cangiar colore... 

Righe nitide che adagio adagio con ferocia si 
scompongono, divengono segnacci orrendi. Rampollare 



— 198 — 

di pensieri stupidi da un pateirpenisiero assurdb. II 
passato è troppo belilo per oredejie di averlo vissuto, 
il futuro lo s'iimagina troppo bello per sperare di po- 
terlo vivere, questo presente è atonia di rimpianto del 
passato o d'attesa del futuro. Vecdhia scienza. Clie 
dirai con parole nuove ? Io vivo sempre dentiro ad un 
attimo solo, sempre quello, che si trasforma di riflesso 
per le mutevoli apparenze die gli sfilano dinanzi. Per- 
ciò la vita è così breve. Innanzi a me incatenato al 
presente come il paralitico alla poltrona, innanzi a 
me immobile sfila un cinematografo d'aspetti, e lo 
chiamo la mia vita. Intanto vengono i capelli bianchi 
e mi rivolgo già indietro — disperatamente — a ri- 
chiamare la bella giovinezza. Altra film, signori. Co- 
mica, tutta dà ridere. Ma la mia giovinezza? Già 
proiettata, signore. Domani nuovo programma. 

Amore accorato disperato di patria sentito pei la 
prima volta così forte qui nell'esilio coatto. 

Favonio discioglie le nevi, pìriimaverilmente luc- 
cicano i canali nella v^le già verde ed acerba, odor 
di zollie fuma dal basso alla nostra tetra dimora. Il 
sole e questo ripnovellarsi di stagione suscitano miuffe 
verdi sugli stemmi episcopali degli archi sotto cui 
trasciniamo il nostro tedio e le nostre iantasie di 
lontananza. 

Il Colone dei suoi occhi un mattino d'aprile, la 
baracchetta dietro la trincea vigilata, battere con 
scarpe lucide il imarciapieide bolognese, il tè nel caf- 
feuccio ignoto della città ignota con l'amica sconcer- 



— 199 — 

tante — ich glaube, Vaterlandsliebe nerait man die' 
ses tòri elite Sehnen. 

Bisogna tentare di nuovo la fuga. 

«Lungo è il cammino, ma l'amore è forte». 

A sera, giù per i muraglioni, giù per la collina 
scoscesa, valicato il reticolato, nel lume lunare, ancora 
libero, verso la Patria. 

E se dopo questi giorni di libertà sono riacchiap- 
pato, ed ammanettato, e perquisito, e tramutato di 
carcere in carcere fino alla mia vecchia prigione di 
Salisburgo, porto con me tanta freschezza dì libertà 
di cui abbeverai polmoni e sensi nelle notti di mar- 
cia ! Nel candore lunare, per le strade ghiacciate, qua 
e la rinviisibile rombo dei torrenti seppelliti dalla 
neve, chiusa la valle dal puro diadema delle alte 
cime, l'andare era leggero e trepido come un'ebbrezza 
continua. Ho bevuto alle acque dei fiumi. Ho dormito 
le giornate seppellito nelle foglie secche dei tabià, 
nel fieno delle alpi, rabbrividendo talvolta per avervi 
udito frugar dentro il forcone del Tirolese. Sono pas- 
sato altre sere sotto un nevicare uguale e senza vento, 
per borghi taciturni, ma dalle finestre illuminate una 
malinconia della casa materna, di veglie tranquille in 
patria stringeva il cuore fino a farlo dolere. (Chi ri- 
troverà la figurina idi fanciulla che la sera a San Gio- 
vanni in Pongau m'indicò — paurosetta — la via ?). 
Solo per il grande paese ostile — - sotto la neve e la 
pioggia — e senso orgo<glioso di dover passare così 



— 200 — 

a tutti ignoto, di spiare ai passaggi a livello, di valii- 
car cancelli e superai recinti, vagabondo malinconico 
e ostinato. 

Ed ora, a guardarci Tombilico dei (rimpianti, an- 
cora incarcerati. 

Nei buffi del vento primaverile il vecchio castello 
rabbrividisce ; sulle alpi bavaresi si versa un azzurro 
tiepido da] cielo rigato' d'oro e di sangue. Promesse 
fresche di primavera sulle isoglie della prigione, pal- 
piti di ringiovanimento ^ulle torri merlate, sul coarti - 
laccio cupo da cui aviidi di spazio à vecchi alberi ten- 
dono fino a noi i orami piii leggeri, tardi a gonfiare le 
gemme . 

(( Li dà puntura d'amoine facendogli venire ascaro 
della città sua, della casa, della famiglia e delli 
amici )). 



Partenza da Salisburgo, guardato minacciosà- 
miente a vista da tre baionettone inastate. Nello stesso 
vagone viaggiano — e m' arrivano' strilli e sillabe miu- 
siccdi — amiche leggiadre di ufficiali austriaci intra- 
vedute passando per il corridoio. 

Il lago di Seekirchen. — Sehr roimantisch — ap- 
prtezza la sentinella puzzolente che mi preme. Spec- 
chio mal inconico sotto la cenere vespertina, deserto 
di rive e d'abeti e di baracchette di legno fatte per 
amoreggiarvi con Gxetchen : ciarpame sentimentale 
che prende i sensi, tesi verso quella solitudine libera. 

Il treno va fra boischi oscuri. Ma a tratti una fine- 



— 201 — 

strella illumiinata, occhio compassiomevoile da qualche 
casetta bassa e quelle voci di donne dal coxridòio, di- 
pingono un'umile dolcezza di focolare domestico, vi- 
gliaccherie affettuose di rintanarisi nel cantuccio della 
casa e non uscirne pili, attizzare in pantofole un buon 
fuoco di legna in una cucina di mattonelle lucide 
(come quella che vidi ai piedi del castello di Sali- 
sburgo una sera nebbiosa, e mi parve che entrarvi, e 
restaivi Libero, fosse il termine delila felicità). 

Braunau di Boemia. 

Neve e rigore di tempesta su questa landa boreale, 
chiusa in fondo da monotone collinette boscose in cui 
i reclusi con me riconoscono le pili odiate quote del 
Canso. 

Bolletta, lamento uguale di fame nel ventre; abi- 
tudine a cibi disgustosi, ad occupazioni insulse. 

Colleghi chiacchierano idi cose vane, versano egoi- 
smo dall'animo gretto, s'adagiano nell'angustia di que- 
sta vita; esultano, diffondono con entusiasmo se giun- 
gano notizie di progressi nemici che promettano adunque 
questa pace : con abbietto desiderio della patria che 
per essi è mangime più donne più sfrenamento di 
passioni. 

Il cibo è la sola preoccupazione. 

Chi ifuggì o alzò le mani è Ajace ora; o supina- 
mente aimimira l'arvversario; o sgrana un rosario di 
previsioni catastrofiche. 

L'avvocato lavora al traforo delle assicelle di legno. 

Ci si lavano le calze, le si rattoppano, teoria pi- 



— 202 — 

docchiosa di stracci attraverso la camera, nemmeno 
il coraggio ài mostrare certi sbrendoli all' attendente, 
dover stare a letto aspettando che la camicia sii asciu- 
ghi. 

Per alimentare le stufe si scoperchiano le latrine, 
si disfanno i marciapiedi di tronchi; il buono austriaco 
li riacconcia con tronchi freschi. 

E pioggia lenta, e snebbiarsi delle nubi basse 
sulla landa melanconica : acque morte e mortali su 
noi, suir intelligenza, sulla volontà. 

Risalire in pellegrinaggio frequente ai tempi lon- 
tani, e trasalire di smarrimento all'urto di ricordi così 
lievi! Colore di cielo, odore di rena, alito di vento; 
mia madre, mio padre, il mio fratello morto, angoli 
d'infanzia fuori del tumulto che s'assorda, oltre la 
barriera della guerra che s'attenua. Come fosse pas- 
sata invano questa passione su di me, e non m'abbia 
lasciato altro dhe le gambe stronche e i nervi scossi. 

Tu hai fatto i capelli bianchi, vecchio del no- 
vanta, a questa vergogna delle baracche chiuse dai 
reticolati e vigilate da sentinelle che rubano per fame 
l'erba del fossato. Sono curioso se pensi alla dovi- 
ziosa biblioteca del tuo studio quando con cura egoi- 
sta malgrado il tuo buon cuore allinei nell' armadio 
i sacchetti di riso ed i pacchi di pane. Oggi che 
r accidia del pomeriggio è più grave per un tepore tor- 
pido di primavera, tu (chiedi : Che cosa fare perchè il 
tempo passi più leggero' ? E proponi di fare un risotto, 



___™_. .. -, —203 — 

Sei guasto anche tu. Queste veglie ossessionate 
di fughe, la fame e le inostalgie, le ire chiuse, gli 
sconforti desollati marchiano indelebilmente il nostro 
corpo, ulcerano la nobiltà originaria delle nostre forze. 
Odo con pfeoccupaaione voci che volevo per sempre 
ignorare, scruto con apprensione segni nuovi ed elo- 
quenti. Ricordi universitarii : ebefrenia catotonia ne- 
vrastenia ; isgangherati pensieri ansimanti per tappe di 
insonnia nelle notti lunghe. 



Mi fanno mutare ancora campo (questo si chiama 
Hart, ed è nel mezzo dell'Austria, e c'è là in fondo 
una linea verdazzurra di monti orlati dal colore piìi 
cupo dei boschi, da cui viene all'anima un odor di 
pascoli, albe dai rifugi, !90ste nell' andar vagando 
per i monti della patria), ma non muta il ritmo di 
amarezza di fame di orrore della comunanza coatta. 
È mutata la stagione. E già il sole arde sulle baracche 
torride, che si mutano in serre propizie al fiore della 
noia. Il reticolato, campagna attediata sotto il cielo 
uguale, afa ed uggia nelle baracche ronzanti, sudore 
d'ozio, vuoto nell'anima e nel cervello. 

(Oh ma sul mare natio vele rosse, pigre, scafi lenti 
che s'abbeverano d'azzurro; nudità fresche delle monta- 
gne rabbrividenti di ruscelli ilari !). 






Ed oggi è come ieri. Nulla muta. Oggi come ieri, 
come domani. L'appello, la mattina, per le camerate 



— 204 — 

squalliide, l' ispezione la sera perchè tutto sia buio 
nelle celle : fra questa parentesi l'inutile vita nem- 
meno pili tesa verso un futuro che non si osa indagcire, 
che penzola monotonamente aggrappata a ricordi im- 
mutabili ed esasperanti. 

Trepestio, calpestio per i conidoi infiniti delle 
baracche congiunte, che prendono luce dal soffitto, 
e s'ha talvolta rincubo d'esser già morti e seppelliti, 
ca<laveri irrequieti, che escono dalle loro tombe a far 
quattro chiacchiere negli ambulacri con gli altri de- 
funti . 

Odio per colleghi che raustriaco costringe a tuoi 
intimi, vaporar di umanità fetida e gretta dai cinque- 
cento rinchiusi, gregge affamato ed egoista, corpi ven- 
tenni (dannati all'ozio e alla masturbazione. Né io mi 
sento migliore, pur se pilucco con presunzione grani 
dii saggezza qua e 4à, pur se una rossa veglia di com- 
battimento irradia ancora e consola la mia umiliazione 

d'oggi. 

Anch'io ho appreso a giocare a scacchi ; anch'io 
mi aggrappo talvolta al reticolato a soffiare il mio 
desiderio sulle (donne che passano; anch'io cedo con 
rammarico il mio chilo di riso alla mensa comune come 
per un'elemoisina coatta. E chissà che non vada an- 
ch'io a farmi imprestare dal collega il libro porno- 
grafico. 



Ancora un trasferimento — ma questo albergo di 
alta montagna che c'è destinato, pur se prigione anche 



— 205 — 

questa, con divieto di passeggiate e con reticolato 
intorno, apre alla vista un sereno paesaggio di monti, 
di pascoli, di boschi; ed una gaia masnada di ser- 
vette unte e sculettanti, una giovine e solida ostessa 
ridestano istinti sopiti. 

Qui, altoeno, qualche festa di cieli alla nostra 
clausura. Sere che spasimarono in nuvole di fuoco, 
rabbrividirono cupe in porpore cardinalizie sfioccanti 
sull'arco dei boschi, si spensero in un velo violaceo 
sul fondo della valle. 

Sere dopo lill temporale, che truppe il cielo da 
ponente, .ed un umido verde corse le cime i pascoli 
le trasparenze, invase la stanza, fluì sul cielo tempe- 
stoso (a quest' ora, sotto un simile cielo, Boloigna 
arderebbe dolomiticamente nelle torri profondate sulla 
foschia ideile nubi) — e pigri ranni echi amenti di neb- 
bia (come prigionieri rassegnati) nei solchi delle valli 
laterali. Ansia di camminare in libertà per boschi e 
prati verso la meta magnetica. 

Sere calme e fredde : tetto rosso, prato verde, cielo 
violetto e luna gialla che leva dietro gli alberi grandi, 
crudezza di colori come nell'acquarello giapponese di 
Utamaro. Nel cuore un taglio netto, senza refrigerio 
di sangue, spietato. 

Sere d'oro uguale sulle ultime cime, mentre nu- 
vole procellose cavalcavano^ per il cielo alto, e ferite 
recenti fluivano in porpora viva. Poi quell'oro dive- 
niva un caldo lampeggìo di ramie venato di giallo — - 
crepuscoli di guerra sulle alpi di Flemme. E lo sta- 



— 206 — 

gno nel fondo ideila valle già mcinctona era un lucido 
occhio fiso a quella festa dei cieli a cui s'affrettavano 
dal mattino le felici nuvole libere. 

Dunque solo colori di nuvole o eco dii campani 
accoirati — non altro in questa lacunosa cronica di 
sensazioni. E che altro ? I colleghi che blaterano per 
1 pacchi viveri che non giungono, o ingabbiati dietro 
il reticolato ululano la loro giovinezza inutile alle 
donne che passano (la moglie del capitano di caval- 
leria, bionda, provocante nell'abbigliamento dai co- 
lori vivaci, occhi in caccia — la lattaia scapigliata, 
unta e affumata, popputa e naticuta) ? L'eco delle 
voci che giungono a stento, perchè anche leggerte i 
giornali ci è vietato, e parlano di guerra e di tÌvoIu- 
zione ? L'eco muore, ottusa, su questa spiaggia ma- 
lefica. 

Colleghi si son fatti, d'esser prigionieri, una ra- 
gione di vanteria. Sciorinano l'anzianità di prigiooia. 
Propongono le virtù del prigioniero iideale. Almanac- 
cano uno statoi giuridico del prigioniero, con ricordi- 
fonti dei campi ove sono passati, dei superiori austriaci 
o italiani, delle bizantine questioni di mensa. Se il 
salame cali per evaporazione della superficie. Di 
quanto si asciughi la marmellata. Se chi non riceve 
viveri possa acquistarne da chi ne riceve troppi. 
Fanno della propria cella un salottino o un camerino 
da saltimbanco (questo' dipende dal gusto: orrore di 
camerette decorate con festoncini di carta cdl orata e 



— 207 — 

con rosette di cartoline illuolrate !) con una cura che 
tradisce un ripugnante amore per questa dimora coatta, 
e si fanno venire dall'Italia mille futilità mille chin- 
caglie, e non c'è ansia di libertà o di patria nelle loro 
parole se non espressa con desiderio di più lauto cibo. 
E quando saranno tornati chiederanno che s'isti- 
tuisca un distintivo per i prigionieri. 

Non essere ingiusto (non spasimi anche tu, spesso, 
di libertà per la pienezza d'amore che ti promettono 
le sue cartoline galeotte ?). Ci sono i puri, gli sde- 
gnosi, i frementi. Quelli che caddero prigionieri per- 
chè la morte non è il terzo stadio necessario dopo 
l'oioc austo e la fame, parche rimasero al .loro posto 
quanto tutto d'intorno crollava, e non giovò loro ro- 
vesciar pietre sul nemico dopo aver finite le cartucce, 
ron giovò loro ritrarsi per aspre creste di montagne, com- 
battenti inutili e oscuri per giorni e per notti (e qui sia 
concesso al mio spirito di corpo ricordale i fieri bat- 
taglioni del secondo alpini che difendevano il Rom- 
bon, per i quali sembrano state scritte le parole del 
Mallarmé: ai più rantolarono nelle gole notturne, 
inebriandosi della felicità di veder scorrer il proprio 
sangue, o Morte unico bacio alle bocche taciturne ») — 
finché, non il nemico, ma la fame e l'innocuità del 
fuoco li consegnarono alla tortura senza pari, ma la ferita 
li pciralizzò sulle strade perdute, ma la rivoltella fallì 
all'ultimo colpo che doveva annullcime nel sacrificio 
supremo la vita. Adesso, fanno la cura. 



— 208 — 

Fare la cura vuol dire dligiunaire volontariamente, 
o inasprire le ferite avute, o cacciarsi a letto tre mesi 
per simular la sciatiica, o arruffar vita ed azioni per 
fìngere la pazzia, e inocularsi veleni ben dosati, e 
aspirar zollfo, e masticar caffè — per ri dune il proprio 
corpo nelle condizioni sufficienti peoDchè i medici lo 
giudichino invalidò, e tornare così in Italia; ma per- 
chè il sole d'Italia e i cibi d'Italia cancellino subito 
le traccie sirmilate, e si possa tornare ancora una volta 
al battaglione, per Dio, idoive vivere è buono e ri- 
schiare la vita è divino, dove si è uomiini e non bestie 
ingabbiate, dove esalteremo questo violento amor di 
patria che ci pare nato per la prima volta qui nella 
terra straniera, suscitato dall'impotenza e dal rancore 
e dall'oidio^ 



Suono di corno verso i boschi goffi 
aggrappati alle cime violette. 
Dal sangue delle nuvole che soffi 
caldi a traverso le finestre strette ! 

Anima, rivedere il campanile 
ili tagliato sul fuoco dei tramonti 
dalla finestra aperta sull'aprile *; 

contro un azzurro dondolio di monti, 

le sere che veniva dai cortili 
odor di donne e di risciacquatura 
e cucivan le rondini con fili 
ratti una coltre sopra il cielo oscura ! 

Caldi soffi di vento suU' accidia 
della mia triste pubertà scontrosa 



— 209 — 

fantasticante una sicura insidia 
per coglierti una volta, e paurosa 

di farlo ! Scivolava sull' attesa 
vana V anima con brividi molli : 
ma tu, più savia, per la sera accesa 
mi preferivi un altro su pei colli. 

Ora egli è morto, forse sul Podgora, 
forse ad Oslavia. Che gli importa adesso 
se con più accorto desiderio ancora 
tento la tua dimenticanza ? Ha messo 

le scarpe al sole ; lo stroncò la bomba 
sotto il groviglio dei reticolati 
male abbattuti. Forse non ha tomba, 
misto al carname degli abbandonati 

fra due trincee. Lo penseremo un poco 
- ma per vizio - le sere di languore 
che saremo un po' stanchi per il giuoco 
lascivo e triste del mentito amore ? 

Una sera che il rosso delle torri 

e del cielo e delle rose ch'essa teneva nel grembo 

riverberò sul suo viso proteso segnato d'azzurro 

in cerchio allo stupore degli occhi (laghi taciturni 

rabbrividenti sotto la cenere del crepuscolo 

e su la riva il focherello del bivacco 

anima mai stanca di vivere in ciò eh' è passato) — '■ 

una sera che sazi d' amore, nelle vene il veleno 

della stanchezza, e menzogna nei nostri 

volti intenti a scrutare 

le irrevocabili lontananze 

dei pensieri dell* altro — ma invano, i silenzi 

profondavano abissi 

di vertigine — sole le rose 

fiammeggiavano sincere sul suo grembo — 

P. Monelli, Le scarpe al sole - 14. 



— 210 — 

pensai che il sangue dei combattimenti 

accolto per il cielo si versasse 

sul suo viso proteso, sul suo grembo 

— il sangue delle sere combattute 

che nuvole accorrono 

all' adunata tambureggiata sul cielo 

da invisibili mostri 

ed un'accoratezza di viola 

imparadisa le lontananze, 

terra di morgana imbatufolata di nebbia — 

che anzi io stesso con le mie mani impure 

che avevano ucciso, col mio 

cuore impuro che aveva 

teso r agguato, col mio 

corpo impuro che aveva 

toccato i morti che aveva 

dormito sui morti che s'era 

accomunato coi morti 

nell'immobile angoscia del bombardamento 

che d'attimo in attimo 

moltiplica la fioritura 

rossa sulla carne distesa — 

io stesso avessi polluta 

di sangue la mia dolce amica. Non forse 

rabbrividiva ora essa d' orrore ? Non forse 

era atrocemente turbato 

lo specchio degli occhi segnati da un cerchio d'azzurro ? 

— ■ Già vidi cadaveri gonfi 

verdi suU' acque immobili dei laghi 

fissare con occhi sbarrati 

l'indifferenza dei cieli. 



— 211 — 

Ancora una partenza. Se la serena vista delle 
montagne aveva lenito, talvolta, lo spasimo, sii riaf- 
fonderà più netto domani per la partenza, nel viaggio 
sotto la scorta delle baionette, schiavi sotto l'occhio 
curioso' del nemico — affamato lacero sconfitto, sì — 
ma libero. 

Air arrivo a Sigmundsherberg una zaffata che 
prende alla gola di uggioso di nauseabondo di co- 
stretto, che emana dai co^rridoi infiniti e puzzolenti, 
dalla turba dei prigionieri, dalil'ininterrotto calpestio 
d'un gregge affaticato a prdcur'ar cibo ed agi alla sua 
povera vita vuota. 

E non s'indovinano i puri, glli sdegnosi, i fre- 
menti nella squallida folla che pullula nel baraccome. 

Il mio vicino strimpella monotoaiamente per ore ed 
ore sulla chitarra motivi da operetta, da osteria, da 
folla domenicale stipata a prender il gelato s'una 
piazza polverosa. Al di là della parete m'è ignoto 
il viso, non l'anima del prigioniero esasperante. Non 
il cielo bigio, non le case sfumate nella nebbia, non 
la sentinella dietro^ al reticolato sono così tristi come 
quel grattare. Attesa davanti a una porta sotto un 
porùthetto fetido. Pomeriggi nei bordelli. Numeri del 
lotto in un botteghino dei sobborghi blateroni. Caca- 
ture di mosche su dolci stantii in una vetrina oscura. 

Il mondo è corso ida bruvidi così profondi che 
giungono anche al fondo della nostra prigione, lie- 
vito di rivoluzione gonfia, invano soffocato, uno spa- 



— 212 — 

Simo di vita nuoiva batte anche ai camoelli nostri 
e ci fa tendere nevrastenicamente le baracela nella 
impotenza dello sforzo. Ma il mio vicino — e i cento 
rediusi che isono^ come lui — non danno altea eco che 
un chitarrare ansimante dietro motivi iidioti. 

Ma s'è riaperta, proprio adesso, la scuola di ballo 
— oscenità del don<lolio dei balli esotici senato nei 
pantaloni grigioverde. E s'è fatta anche la festa da 
ballo. E)d ha avuto successo il veglione — e pec- 
cato non se ne possa fare un altro. Intanto si ram- 
memorano i fasti 'dei vegilioni passati. Tu non c'eri ì 
Cos'hai perduto ! C'erano dei maschietti del novanr 
tanove vestiti da donna che si diimenavano sotto gli 
occhi lucidi dei colleghi. Ci sono state delle scene 
di gelosia, dei corteggiamenti. C'eran quelli che a far 
la donna ci a^evan preso gusto, stavano tutto il giorno 
seduti sulla finestra in spoglie fenìiminili a cucirsi diei 
corredini trasparenti, e ci vetta van con i dami che se li 
contendevano. Ci fu uno che andò al comando au- 
straco a protestare perchè l' altro' non gli voleva più 
bene. E alla sera, champagne e abbracci. Cos'hai 
perduto ! . 

— Non ci saresti venuto? Avresti fatto male. Di- 
menticare bisogna, qualchevolta. 

Già. Ma allora comperai del Tokai e mi chiusi 
in camera con i due amici taciturni, e in fondb alla 
bottiglia ritrovammo la nostra guerra scarpona e il nostro 
ritroso orgoglio di combattenti. 



— 213 — 

/ novembre. 

Libertà. 

2 novembre. 

Nebbia, pioggia lenta nel giorno' dei morti. Ma 
chi pensa oggi ai morti, che i reticolati sono abbat- 
tuti e la scorta è fuggita e abbiamo noi le sue armi } 

Impressione d'essere stati turlupinati da questo 
paese in isfaoelo che pur traballando sulle sue rotaie 
ci ha tenuti dentro fino a ieri, e ieri mattina ancora 
c'era un sorteggio per vedere chi doveva esser tra- 
sferito ad un altro campo. 

Non so come bevano la libertà inattesa i miei 
colleghi. Faccie ilari per la sfangata nel paese e per 
la ragazza brancicata dietro la siepe — facile eroi- 
smo d'architettare una fuga per il paese che crolla 
come una trincea di sacchetti che il fante riempì di 
neve invece che di terra, rimane seppellito uno, il 
piccolo posto resta allo scoperto, grida il buon bo- 
sniaco dall'altra parte : — Se ghe fato mal qualche- 
dun ? 

Ma questa è storia antica. La guerra è finita: ed 
io non ci sarò stato con gli ultimi battaglioni all'as- 
salto, a dilagar per le strade note, a ricalcare il cam- 
mino della cattività, a risalire le montagne della mia 
vigilia e della mia fede. 



— 214 — 

E la libertà m'è un poco triste; amarezza di rim- 
pianti è in fondo a questo senso enonme di sollieivo. 

Creiamo adunque questo simulacro di riconquista, 
battaglione armato nel cuore dell'Austria con le armi 
tolte al nemico, picchetti e pattuglie, ancora le re- 
golle dell'ordine interno e del servizio in guerra; fa 
bene questo ni sottometter sii ad una disciplina nostra, 
gli ordini chiusi scattano sul presentat'arm come una 
buona molla che s' era lasciata inoperosa. Non e' è 
ancora armistizio, sulla fronte ; forse domani — <ihe 
sappiamo noi di ciò ohe avviene laggiù ? — un colpo 
di fortuna ridarrà un po' di baldanza al nemico e al- 
lora il giuoco sarà serio, per noi. 



Armistizio. Stamattina, alla stazione, in un croc- 
chio di solidati nostri, un ufficiale austriaco, gentile, 
traduceva lin ansimante italiano le severe condizioni 
del trattato. 

Ma il treno di Vienna riversa una turba di gente, 
uomini, donne, soldati, signorine, con sacchi e sporte, 
che vengono a mendicar da noi pane e viveri e indu- 
menti . 

È la pace dunque. Claudite jam rivos. Quello 
che pareva sogno imposaibile nelle veglie di trincea 
s'avvera. A'ncora questa pelle appiccicata a queste 
ossa sane, dopo la tremenda barriera, dopo la velie- 



— 215 — 

nosa gora della cattività che tanti buoni soldati ha 
stroncato come la granata e la mitragliatrice. EA an- 
cora la vita, davanti a me. Riappare dinanzi agli oc- 
chi quel futuro che s'era abolito fino ad ora; di nuovo 
una granjde strada per gli occhi rapaci dove prima un 
reticolato chiudeva il presente ; di nuovo metter fuori 
la testa e guardare le possibilità del futuro senza paura 
di prenderci una pallottola. 

Ritoma la vita con donne e ietti pigri e agio di 
cibi. Tran-tran uguale che non prevede urti. Quegli 
che accumulò con cura l'adipe intomo alla pancia 
imbelle diviene ora simbolo del tempo nuovo ed esem- 
pio a cui dirigere la meta e l'anima. La vita, non più 
trarapellata alla giomata, e miraggio alla buona fatica 
soltanto cibo e giaciglio asciutto ; ma agevole in cac- 
cia tranquilla al denaro, dove quell'adiposo ha van- 
taggio di corsa sulla magrezza di chi patì la guerra. 

Turbinare di neve nella notte sulla landa glaciale. 

E alla luce neghittosa dell'alba il piano e le ba- 
racche candiide a gambe larghe fumano il loro tedio. 

(Così, le mattine del novembre scorso, prima di 
ficcare scarpe e fango nel saccopelo, un'occhiata intomo 
a concludere la veglia notturna). 

Sarà, questo, il nostro' male. O il nostro bene — 
ma irrimediabile : avvinti al nostro ricordo^, in per- 
petuo, e che ciò non divenga un supplizio' come 
del vivo legato al cadavere. Come è possibile che 
dalla trista vicenda di angoscie di sofferenze di atopa 
attesa d' una fine qualsiasi — pace morte ferita — 



— 216 — 

così soave nostalgia si sprigioni che tocca con dita 
lievi il cuore ed avvia per smarrimenti voluttuosi ? 

È possibile. Un tronco d'albero con la sua barba 
bianca (dcilla parte di tramonitana, una scia di luce 
sulla neve uguale, una voce lontana die scivola sulla 
taciturnità della landa; e momenti definiti del pas- 
sato rispondono a quel ridiiamo : nomi di soldati morti , 
un atteggiamento di vedetta, un frusciare di pioggia 
a crepuscolo sull'angoscia d'esser troppo pochi die- 
tro il reticolato scarso. 

Nostalgia. 

Ma questo è tutto quello che portiamo con noi, il 
nostro fardelletto di smobiìitati. Gli altri sono già 
affaccendati nella vita che sarà anche la nostra di 
tutti i giorni, la corsa al denaro agli onori cdle ca- 
riche; alcuni s'atteggiano a combattenti, cm.ch'esiai, 
usurpano la purità del nostro titolo d'onore e di su- 
perbia. E fra noi e loro c'è un mare di merda. Biso- 
gnerà dunque attraversarlo, idealista impenitente, in- 
namorato del mestiere rischioso a cui ti avevano chia- 
m.ato, fedele a un sogno di bellezza che ti faceva 
respingere l'imboscatura come una rogna. 

({ C'era una volta un soldato che tornava dalla 
guerra, che non aveva per le tasche che tre solidi. » 
Tre soldi avevamo salvato, tre sdldi di poesia di 
bontà di sacrificio e dovremo gettarli nel mare fetido 
per poi buttarci dentro anche noi. 

E quando saremo di là, guarderemo in faccia gli 
altri con occhi aridi, che non si velano pili. Non ce 



— 217 — 

la daranno ad intendere più. Parleranno ai banchetti 
ufficiali le frasi rotonde della rettorica: ci saremo noi, 
taciturni, in fondo alla tavoila, col nostro scherno 
freddo. Proclameranno ai comizi i progetti utopistici 
del capovolgimento, provocheranno al facile eroismo 
della folla che abbatte un idolo: le nostre orecchie 
vagheranno, accorte, 1' onda galeotta delle belle pa- 
role. 



Perchè amarezza è in fondo' al cuore, malinconia 
indugia alle soglie delle nostre decisioni. Nelle veglie 
di combattimento, dopo l'ubbriacatura della battaglia, 
nella serie delle parentesi di riposo e di servizio, la 
nostra vita era come un correr di razzi lungo le linee 
notturne, alternativa di lampi e d'abissi tenebrosi, vi- 
sioni improvvise di possibilità enormi spalancate — 
strade di luce — alla nostra volontà, terrori brevi di 
un potere immane fuor di noi che valesse ad annul- 
lare ogni sforzo. Zone grigie dell'anima, zone neu- 
tre dell'azione, eran pause rare e tosto superate in 
quell'intensità di sentire. E non s'avevano né sogni 
né rimpianti, ogni nostro senso era saturo del presente, 
buono od atroce che fosse, e solo il gesto definitivo 
era utile e solo l'attimo decisivo. Immediatezza, mo- 
mentcìneità dell'azione — vanità di costruzioni ideo- 
logiche, ironia di conclusioni illogiche da premesse 
faticose. Pareva possibile il successo all'audacia più 
imprevista, vedevamo poter esser negata efficacia alla 
più meditata pedanteria ; crolli delle vecchie esita- 



— 218 — 

zìoni, tubo di gelatina della decisione che sconvol- 
geva onorate reti di tradizioni e di dubbio. Una legge 
sì c'era, ma fuori delle poveare previsioni, ma ohe 
poteva essere sforzata dalla temerarietà d'un gesto, 
cui non avrebbe piegato il normale senso comune — 
legge d'intuizione e non di metodo, legge dispotica 
e insofferente di compromesso. 

Invano teste burocratiche cercavano d' incasel'lare 
queir empito negli schemi uguali, colonnine specchi 
avvertenze — traboiccava esso con il vigore e l'illo- 
gicità della giovinezza, consacrava la bellezza idell'im- 
preveduto, esprimeva il valore immediato delle virtù 
del corpo e dell'esimo nell'esperimento quotidiano. 

E pensavamo che questo dovesse essere il dono 
perpetuo della nostra vita, moltiplicata nel ritmo, tesa 
ad una meta al di là d'ogni termine ; e andavamo fìn- 
gendo quelle jx>ssibilità enormi per il dopo guerra. 

Non è così. Terminata la battaglia, accorrono- da 
ogni parte i corvi ingordi e gli sciacalli pavidi e gli 
scaraifaggi filosofi che si tennero in disparte e dicono: 
Basta, la parentesi è chiusa, cerchicuno di trar il miinotr 
male possibile da questa guerra, ripigliamo le regole 
di prima, peccato che ci avete guastato tante istitu- 
zioni e lasciato tanti debiti, bè, speriamo di rimet- 
terci bene in piedi, per vivere adesso si fa così e così, 
partenza e rotaie e stazioni e caselli fissati lungo la 
linea. 

E le vele gonfie dell'animo cadono, a un tratto. 
Non sappiamo dire che cosa attendevamo dalla bella 
pace, ma non è questo, ma non è questo. 



— 219 — 

Come quando- si cammina per una cresta agevole 
verso una mèta magnetica, e ci s' apre d' improvviso 
di fronte L abisso che non si può varcare. Sapevamo 
che l'azione nostra soltanto era arbitra e fucinatrice 
degli avvenimenti ; dal brulichio enorme alle nostre 
spalle giungevano troppo- deboti voci, a noi solo intenti 
al risonare della barriera ostile che per cote vamo. 
D'un colpo, tutto è crollato. Attoniti udiamo il fra- 
stuono del nuovo mondo, or che s'è fatto silenzio in 
noi, e il cuore è gonfio d'edhi irrevocabili. 

Vengono i piccoli uomini che noi urtavamo del 
gomito durante i quindici giorni di licenza, e ci striz- 
zano l'occhio. 

— Poeta, hai finito di fare il poeta ? Ho una bella 
bambina, per te, ed un affare. Oh Dio, la bambina 
non è quella che ti mise le coma mentre eri alla 
guerra, e l'affare è un po' sudicio. Ma se vuoi cam- 
pare, devi prendere anche gli affaci sudici, e se volevi 
ramoore fedele, non dovevi cindartene. 

Viene quell'altro, in uniforme, e ti stringe la mano: 

— Collega, siamo dunque colleghi, non ti ricordi ? 
Ci siamo meritala questa pace. Ti rammenti Novaledo, 
le alpi di Flemme, le Melette ? — Già, è vero. A 
Novaledo c'era per copia conforme, alle alpi di 
Flemme stava col carreggio, dalle Mlelette partì quando 
cominciò il ballo. Ma adesso è nostro collega, e to', 
ha anche il nastrino con la stelletta d'argento (mattac- 
chione, nemmeno il bronzino gli è bastato). 

Viene quello che succhiò dai testi tedeschi la 



— 220 — " 

scienza che oggi gli dà il titolo acicademico e il di- 
ritto di pretendere più. lauto stipendio da quello stato 
che non sentì il bisogno di difendere quando il rischio 
batteva alle porte — doveva esisere ancorato bene, se 
nemrmeno Cap cretto lo disboscò — e idiice : 

— Che cosa hai fatto di buono ? Hai vinto la 
guerra e il pane cresce di prezzo e lo zucchero scomi- 
pare e il carbone non viene ^ ila Dailmazia non ce la 
danno. Fesso, Vedeva la pena che facessi il fesso su 
per la prima linea. 

Ahimè — che viene poi quello che l'ottobre delia 
sconfitta disviticchiò dalla sua nicchia, a cui una legge 
oscena impoise il grado d'ufficiale suo malgrado, e 
questa volta ha ragione lui, che può parlare di Piave 
e di Grappa e dell'impeto per le forre conquistate, 
lui iche alila guerra fu cacciato riluttante e ne sa solo 
la bellezza e l'entusiasmo, con* il consentimento del 
paese al tergo, con tutta la generosa ricchezza di mezzi 
e di conforto d'una nazione che s'era finalmente de- 
cisa a voler vincere la guerra. Tutto questo, e solo 
questo ha avuto. E guarda con disdegno e con pietà 
perchè noi non abbiamo questa guerra nel nostro pas- 
sato. 

L' altra, abbiamo. Quella dei reticolati strappati 
con le mani o intaccati con forbici dà giardino ; quella 
dei superiori che sfottevano e delle azioni fatte per 
riempire un comunicato; quella lacera e famelica delle 
ritirate da proteggere, o il gettito allo sbaraglio per- 
chè il nemico aveva rotto e bisognava fermarlo a tutti 
i costi ; quella delle vittorie ignote e delle ritirate senza 



— 221 — 

fine amare — quella senza turni dì riposo e senza dop- 
pia liioenza, isenza decxìraziom e senza propaganda. 
Ma quelli che tornarono dalla prigionia, ti parcarooo 
nelle baracche dì concientramleinto sotto la guardia degli 
altri soldati. 

E viene anche la soave amica che promise finché 
s*era lontani il dono meravigMoso e dice : 

— Perchè tornate così tardi, voi di fanteria ? Tutti 
gli altri sono tornati ; è tornata la cavalleria, è tor- 
nata la fortezza. Troppo tardi tu tomi. E sai, tu non 
pensavi che alla guerra, e io dovevo pensare ai fatti 
miei. Ti presento il tuo successore. Oh Dio, non è 
un guerriero, ma adesso che la guerra l'avete vinta ■ — 
voi valorosi, che bravi ! — sono buoni anche quegli al- 
tri. E poi, sai... è nrteglio che ti metta in borghese 
anche tu. 

Rattristarcene, colleghi che avete sentito tutti que- 
sti discorsini quando siete tornati ? 

Ma nemmeno per sogno. È giusto. È giusto che 
chi non era con noi s'affanni a sminuire la guerra, 
parli d'una psicosi di guerra, sfrutti la facile stanchezza 
delle pcirolie eroe grigioverde trincea, ami considerare 
la guerra come un'enorme mattana quattrenne da cui la 
sua (Saggezza Io tenne lontano. 

Ma noi che sappiamo di quanto hanno amputato 
la propria vita, compassioneremo, soltanto, questi mu- 
tilati, che strillano solo per coprire — forse — il ri- 
morso, che si ricercano e si contano per trarre conforto 
dal numiero &j deprecare piìi forte. E nemmeno ce ne 



— 222 — 

vanteremo. E nemmieno' li protvocheriemo . Vuoi caz- 
zottare un cieco» perchè non ammira ii tuo quadro' ? 
Un abisso ci separa, che mai nessuna comunione 
di fede, nesisuna comunanza d'interessi ricolmerà. Gli 
abbiamo' conosGÌuti. Sappiamo con che tremore si ab- 
baibicarono alile ginocchia dli chi poteva tenerli lon- 
tani, con quale minuzia scrutarono' i segni de'lile malattie 
sofferte per trarne l' invalidità, con che cavillose rinuncie 
tapparono orecchie e coscienze al richiamo' della vita 
che veniva di dove il rischio la nobilitava. S'allegrano 
di aver saìWato la pelle, e debbono soffrire che noi 
pure (L'abbiamo riportata a casa; credono di averci 
guadagnato in .salute e in dienaro, e non viedono quanto 
ci hanno rimesso' in valore e in dignità ; pensano di 
essere ancora buoni cittadini, e non s'accorgono che 
furono nuli 'altro che disertori, disertori a freddò, di- 
serltori senza nemmleno' la scusa di essere anarchici, 
assai più disertori e più fucilabili — essi colti e sa- 
turi di civismo — del montanaro selvatico a cui i ccnr 
catti idi patria e di dovere erano oscuri , e f uiciJammo la 
notte di luglio' perchè s'era soth'atto ali 'orrore d'una 
battaglia dopo averla fatta per tre giorni — e dopo due 
anrìi di guerra. 

Ci gioiva ch'essi non siano stati con noi. Il loro nu- 
mero e la loro mediocrità morale sono il piedistallo del 
nostro orgoglio'. 



--^Ma se ci incontreremo in due che abbiano battuto 
lo stesso cammino, troveremo sempre un angoletto ove 



223 



trarre dail ricordo e dal vino chiaro il confor*to del buoni 
tempi passati . Respireremo ancora il fiato delle abetaie 
e della battaglia; richiamerfemo a banchetto con noi i 
poveri morti dimenticati. (E quando quegli altri stril- 
leranno le parole della grande Italia io veidrò sotto le 
loro gambette, che non invischiò mai il fango di lassù, 
il m/ucchio enorme dei morti — il teschio che ghigna 
accanto alla carogna verdastra dell'asfissiato come nel 
vallone dell' Agnelizza.) 

Dimenticheremo per un poco, nell'evocazione, di 
avere dovuto attraversare il mare di merda. 

Non lo attraverseranno i miei alpini, per i quali, 
dopo queste sborinie del congedamento in cui si cre- 
dono incommensurabilmente felici, la guerra continua 
— riprende. 

Giora di poter comandare litri piìi litri all'oste che 
era sergente maggiore e faceva scattare, ma adesso è 
lui che deve obbedire al comando del congedando, 
gioia di non aver la ritirata che aspetta, e poi uscir 
fuoari per il paese quando c'è tanto vino anche nel 
cielo, e persino le nevi deMe montagne sono colorate 
d'i terzanello, e c'è la Gusella del Vescovà lassù mat- 
tacchiona che sembra un dito immerso in quel vino per 
far l'assaggio» — e cantare la canzone dello zaino 
affardellato che s'è finito di portare e far echeggiare 
i porti chetti del monologo- soli i evo : — - Son borghese, 
ostia ! Cinque ani digo, dormir sU la paia e nel fango, 
e peoci po' digo, in mònega, in malora ti, ginque ani, 
senza spoiarse, e peoci... El xe finio de saludar i 



— 224 — 

ufiziai se ghe ne incomtro; justo lori, volemo parlar 
quando che se incontrar emo, e ti no, no te me mandi 
più a la preson, porrei d'un... 

— Varda che i te ciama. 

— Ostia ! Coraanidelo, sior capitano. 

— Bè, Durigàn, cosa vuoi dire al tuo capitano 
adesso che l'hai incontrato ? 

— Sior capitano, me fa piasser de darghe la man 
ancora 'na volta. Lu el xe sempre sta tanto bon, tanto... 
e i alltri uBziai, anca, poareti, tanto boni, tanto. Lu 
eli me capisse, ostia, gò beù un fiatin, no posoi desibrb- 
iar la Jengua... Se (ricordelo, sior capitan, quando che 
son sburlà zò in te 'la trincea che gera drento i todeschi, 
i rrìe voleva copar, sti lìoi de cani, a mi, n*alpin vecio, 
pi colato sì, ma vecio, ostia... varda to pare! 

E tu Austria che sei la più forte 
e fatti avanti se hai del corajo... 

E Durigàn canta a squarciagola in onore del suo 
capitano la canzone dell'assalto, Durigàn che voleva 
prima parilar ben chiaro al suo capitano, per tutti quei 
cinque anni di pidocchi e idi stenti , ed ha adesso invece 
gli occhi lustri e contenti che il signor capitano gli 
ha idato la mano e sta ad ascoltarlo sorridendo come il 
giorno idi Pasqua sul Setole, che c'era una tormenta 
infernale fuori, ima dentro al baracchino alilegria e 
vino e canzoni intonate da lui, Durigàn. Alto giusto 
come una gamba di Belllegante, ed amici indivisibili. 
Andavano insieme a prendere i gabbioni, si mettevan 
in marcia col gabbione infilato nel bastone, il piccolo 



— 225 — 

davanti, il grande indietro, su per la salita parevano 
creati apposta per quel mestiere. 

Ma domani, che cosa ti resta da fare domani, Du- 
rigàn, se non riprenfdere il cammino della Svizzera? 
E Degàn ripartirà per le cave d' oltralpe a batter il 
pistdletto, Da Sacco riprenderà gli arnesi da fabbro^ per 
la botteguccia di Salisburgo, Pellin andrà a vedere sé 
la sua tirola ha fatto zaino a terra senza il suo inter- 
vento, Mezzoimo guiderà ancora i cani su per le strade 
gelate, Zanella cercherà mvano la casa sul Piave che 
la guerra gli ha spianato e partirà anche lui, dietro 
agli altri, per le miniere o le strade d'òltraJpe. Rico- 
minceranno docili alla ferrea necessità di vivere il 
lavoro tenace e solitario, su per la montagna nemica, 
nella miniera insidiosa, fra la gente ignota. E scende- 
ranno la sera nel pozzo come s'avviavano sereni al loro 
turno di vedetta ; e abbatteranno i grandi alberi per 
le chiuse di fondo valle come li abbattevano per farsi 
i ricoveri della guena. Ma saranno più vecchi e più 
stanchi : nsentiranno dopo le acquate, e quando cambi 
il tempo, nelle membra pur giovani e nei solchi delle 
ferite le punture dei reumatismi nati dal fango dalla 
neve dal pacciumie di quattro anni. 

Senza domandare nulla. L'alpinaccio massiccio 
che dalla cima notturna rotolò sassi e imprecazioni sulla 
pattuglia nemica, e salvò la montagna e ìa linea, e 
chi sa qucmto della sorte della guerra fu nel suo gesto, 
emigrerà ignoto verso il suo rude destino, senza avere 
preso nemmeno la medaglia. (Naturale. La medaglia 

P. Monelli, Le scarpe al sole - 15. 



— 226 — 

l'avrà presa il tenente della Divisione che è venuto il 
giorno dopo a veidere la posizione, e con i bei gambali 
giailli ha allettato il Cupola a tirarci addosso i suoi 
sbibboloni ida 152. Ma il tenente Moschini che ha «do- 
vuto isaltar fuori per far riparare la truppa e che ha 
avuta spezzata una gamba, quando è tornato daìl' ospe- 
dale l'hanno cambiato di battaglione. Diceva il capi- 
tano Busa nel cerchio dei suoi puteleti, come li chia- 
mava lui da quando alila compagnia non aveva che 
degli ufficialetti del '98, ai quali impartiva saggezza 
e aforismi : — Ricognizione per l'ufficiale dei comandi 
vuo-l dire venire in trincea, e piiendersi una medaglia. 
Per noi vuol dire uscire dalla trincea, e prendersi una 
pipa). 

E l'altro che fatto prigioniero si divincolò, combattè 
con le unghie e con i denti, e uno- dei nemici accoppò, 
e l'altro ricondusse con sé, porterà il suo feroce istinto 
di libertà sulla cima aa^tia a perseguiaie con corda e 
piccozza il filo fragile della cresta, tirandosi dietro 
l'inglese che lo paga per questo. 



Dilegueranno — minatori pastori carrettieri bosca- 
iuolli. Non firmeranno nessun meimorialie, non scende- 
ranno a comizio, non brigheranno un posto alla pap- 
patoia dello stato. Non li troveremo più se non andan- 
doli a cercare sulle montagne o fuor dei confini. Ma 
saranno gli uomini che il giorno che la miniera crolla 
ricercheranno con il solito coraggio freddo sotto la 
minaccia i cadaveri dei compagni — che partiranno 



— 227 — 

neilla tormenta a ricercair gli sperduti ; che saranno 
nudi nel fondo della galleria, o morsi dal freddo nel 
bosco invernale, o esiliati sulla cima brulla a rotolarne 
sassi, o ansanti a battere sul pistoletto per aprir le vie 
delle montagne, o trarvagliati ai cìddli, o arrancanti 
dietro ai carri dei tronchi : e ii giorno che il Re man- 
derà a dire che bisogna tornare a mettersi in fila e 
marciare per quattro si ricalcheranno in testa il cappello 
con la penna con qualche bestemmia innocua, e non 
domanderanno d'imboscarsi. Tutt'al più domanderanno 
di passar conducenti. 

Ed il Re ci manda a dire 
che si trova sui confini 
e ha bisogno di noi alpini 
per potersi avanzar.... 



Prezzo: L. 8 



%' 



Bumenio io t* 




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Connecticut 

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